Le conseguenze della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 2

Sono al Vinitaly è quindi ho pochissimo tempo, però questo flash non potevo evitarlo perchè ho sentito in radio il nuovo spot Lidl (secondo me su questo mezzo risulta ancora più forte dello spot TV che trovate qui).

In un momento in cui tutta la comunicazione e quasi tutta la proposta di prodotto/assortimento della Grande Distribuzione è appiattita sul concetto di convenienza, quando non di prezzi bassi tout-court, LIDL se ne esce con una campagna basata sulla qualità al giusto prezzo.

D’altra parte possono permettersi di dare la propria convenienza come un fatto acquisito sia per le loro politiche di prodotto (e parlando di prodotto relativamente alla grande distribuzione io intendo il punto vendita nel suo complesso di accessibilità, arredi, servizi alle casse, assortimento, prezzi dei singoli prodotti e valore del carrello complessivo) sia per gli anni di campagne “volantino” basate unicamente sulla comunicazione dei prezzi dei prodotti (ne ho già parlato nel 2012 qui e qui).

Da una breve analisi tecnica della campagna si notano:
- la durata dello spot di 60′ che è doppia rispetto alla norma e quindi permette di comunicare una storia più articolata con il giusto respiro (a fronte di un calo, probabile, dei costi di acquisto degli spazi pubblicitari, LIDL invece di risparmiare ne approffitta per comunicare meglio)
- l’utilizzo di un concetto di comunità in contrapposizione all’individualismo imperante nella maggior parte della comunicazione in ogni contesto

Soprattutto se ne esce con un claim finale che io non ricordo di aver mai sentito prima in Italia che invita a cambiare supermercato “Non cambiare stile di vita, cambia supermercato”.

In realtà un claim simile l’aveo già sentito: nel 1990 quando vivevo in Canada era quello utlizzato dalla catena Loblows, in assoluto la miglior catena di grande distribuzione che mi sia mai capitato di vedere, sia come consumatore che come professionista di marketing. A dimostrazione non è così difficile trovare le buone idee se uno sta con occhi, orecchie e, soprattutto, cervello aperti ed accesi.

Forse sarà per questo che mi sto convincendo che il vero limite dell’Italia è la diffusione, direi quasi la prevalenza, in tutti i settori ed a tutti i livelli dell’incompetenza a causa della sua generale accettazione sociale, pur di evitare di mettersi in discussione ed alterare lo status quo.

Buonanotte

Melegatti batte Bauli 4 a 0 (almeno in quantità)

Lo so che avevo già fatto gli auguri e chiuso per ferie, ma poi sono andato a fare la spesa e vedere dal vivo le teorie messe in pratica mi affascina sempre.
Cosa ci fanno 4 pandori Bauli sull’espositore (si fa per dire) di quelli Melegatti?

Se aggiungo che nel piccolo supermercato Essepiù di Trieste – Roiano gli espositori di Bauli si trovavano vicino all’entrata, sono, con ogni probabilità, i pandori lasciati lì dai clienti che hanno cambiato la loro scelta di fronte all’espositore Melegatti che hanno trovato più avanti.

Sono i consumatori che hanno deciso che tra la marca Bauli a 3,49 euro/pezzo e la marca Melegatti a 2,49 euro/pezzo, la seconda era un’opzione migliore. Senza contare quei consumatori più diligenti (ci sono) che dopo aver cambiato scelta sono tornati a rimettere il pandoro Bauli al proprio posto.

I marketing delle due aziende a fine gennaio guarderanno i dati di vendita confrontando le rotazioni nei punti vendite dove erano presenti le due marche ai diversi livelli promozionali e vedranno se le loro strategie avranno raggiunto i risultati previsti. Magari saranno contente entrambe le aziende, Melegatti per l’aumento della quota di mercato e Bauli per la redditività (1 euro in più a questi livelli di prezzo non è poco).

Quello che a me è sembrato interessante è stato vedere nella pratica quanto gioca la tattica per prodotti fortemente stagionali come il pandoro. D’altra parte già quando lavoravo in Stock, i numeri della promozione natalizia di Limoncè dipendevano anche dal gradimento della grafica dell’astuccio di metallo realizzato per quell’anno (oggi, dopo un paio d’anni di astucci di cartoni, la bottiglia di Limoncè si presenta sullo scaffale “direttamente nuda”, ma questa è ancora un’altra storia).

Tornando a Bauli e Melegatti ed alla combinazione “immagine di marca+convenienza” vale anche la pena di ricordare le strategie pubblicitarie delle due aziende.
Bauli, che gode di un maggior “stock” di comunicazione dagli anni passati e dagli altri prodotti venduti nell’arco dell’anno continua ad utilizzare lo stesso spot da diversi anni, e se questo arriva a diventare argomento delle battute della Litizzetto a “Che tempo che fa” forse è arrivato il momento di chiedersi se non sia il caso di investire per rinnovare e rinforzare l’equity della marca (soprattutto se si vuole/deve sostenere un posizionamento di prezzo del 30% superiore ai concorrenti).
Melegatti invece propone un posizionamento completamente diverso con uno spot che mi ricorda quello di Illy a fine anni ’80 (quello di mio papa diceva qui si offre solo il meglio”. Anche in questo caso lo spot si svolge in una famiglia di italo-americani, allo stesso tempo custodi ed ambasciatori dell’eccellenza alimentare italiana.
Anche lo spot Melegatti non è nuovo, però appare sicuramente meno datato (anche in termini di messaggio) di quello di Bauli.
Che strategie ci attendono per l’anno prossimo? Bauli cercherà di recuperare quote investendo in comunicazione o in promozione? Melegatti cercherà di alzare il proprio posizionamento di prezzo sostenendolo con più pubblicità oppure tornando all’utilizzo del concorso a premi?
Magari si presenterà qualche nuovo competitor con un prodotto diverso.
Uno dei ricordi dei miei Natali bambino è quello del pandoro (Melegatti ovviamente, non c’era altro) portato apposta per me, unico a cui non piaceva il panettone per via di canditi ed uvette. Adesso è il contrario: quando e perchè c’è stato il sorpasso del pandoro sul panettone?

Mangiate quello che volete e passate un lieto Natale.

Ancora sul futuro delle agenzie pubblicitarie

Oggi due post (è festa).

In realtà questo era quello previsto ed è una specie di seguito di quello dello scorso 11 novembre (il tempo non corre, galoppa).

In qurl post c’erano due concetti che mi sembravano meritassero un approfondimento. Il primo è come opera il modello AIDA nell’attuale scenario di frammentazione dei mezzi di comunicazione e dei luoghi/occasioni di consumo/acquisto.

Mi chiedo se non ho liquidato troppo sbrigativamente la questione “tecnica” sull’altere della solidità teorica dei frlussi mentale attraverso i 4 stadi attenzione-interesse-desiderio-azione.

Riflettendoci in queste settimane ho l’impressione che gli attivatori dell’AIDA (i triggers per parlare come i profesionisti) derivino sempre meno dalla specifica attività pubblicitaria ed anche dalla comunicazione in generale. Questo probabilmente implica la necessità della presenza di un substrato di percezione della marca/prodotto su cui si innestino gli attivatori provenienti dall’ambiente. Ha un senso? Mi sto avvicinando all’idea dei persuasori occulti dopo aver passato anni a contestare le tesi di Packard?

L’altra concetto che credo meriti un’ulteriore riflessione è il rapporto tra marketing e vendite, anche perchè una definizione sintetica, semplice ed elegante del marketing è sempre utile.

Le strategie di marketing hanno l’obiettivo di far sì che sia il consumatore a comprare e non l’azienda a vendere.

Nuovamente persuasione occulta? Sicuramente una cosa diversa da quanto fanno oggi la grandissima magigoranza delle aziende.

Un’ultima considerazione dettata dai dati sul mercato pubblicitario in Italia usciti in queste settimane (li trovate riportati ed ottimamente commentati nel blog Il Giornalaio di Pier Luca Santoro): nel periodo gennaio-settembre 2012 gli investimenti pubblicitari in Italia sono calati di 720 milioni di euro. Questo significa circa 35 milioni in meno di fatturato delle agenzie.

Una cifra, che al di là di tutti i ragionamenti, deve spingere le agenzie di pubblicità a trovare nuove strade.

Sulla famosa cabina di regia del vino italiano – biscomarketing nuovamente ospite di Vino al Vino

Devo ringraziare ancora una volta l’ospitalità di Franco Ziliani, che ha pubblicato sul suo noto blog “Vino al Vino” le mie riflessioni relativamente alla creazione di una “cabina di regia” del vino italiano.

Il post lo trovate qui.

Segnalo anche ai lettori di biscomarketing che queste riflesisoni sono in buona misura anche il seguito del mio vecchio post “C’è un sistema per fare sistema”, pubblicato lo scorso giugno.

Quale futuro per le agenzie pubblicitarie?

Dopo l’ennesimo intermezzo sul sistema del vino dello scorso 4 novembre, eccomi come promesso con il seguito del post sul futuro della pubblicità, pubblicato lo scorso 28 ottobre.

Salterò a piè pare l’interessante questione del futuro del giornalismo, buttata lì come nota di colore e che ha suscitato il commento di Diego. Opinioni ed informazioni più qualificate delle mie le potete trovare sul blog “Il Giornalaio” di Pier Luca Santoro e l’articolazione del il mio punto di vista l’ho data in un post del 2008 (non so perchè, ma ho come la sensazione di aver già scritto questa cosa da qualche parte).

Vado quindi all’argomento del futuro delle agenzie pubblicitarie in uno scenario di declino (dei consumi) di pubblicità, e lo faccio partendo dal modello AIDA (Attention-Interest-Desire-Action). Dopo aver letto il post un’amico (sempre lui) mi ha detto che nell’attuale contesto di frammentazione dell’uso dei mezzi di comunicazione il modello AIDA non vale più perchè gli stimoli che attivano i diversi livelli del processo non arrivano più alle persone in modo univoco e lineare. Io concordo con lui solo sull’ultima parte del ragionamento.
Dal punto di vista dei processi di comportamento continuo a credere che le persone debbano passare attraverso i livelli del modello AIDA quando fanno qualcosa e se abbiamo l’impressione che si tratti di un modello lineare ad imbuto è solo perchè nella pratica del marketing è stato applicato in tempi in cui gli scenari competitivi (la società) era più semplice e quindi le risposte agli stimoli più dirette.
Esempio 1: confeziono il formaggio Philadelphia Kraft in una scatolina di legno grezzo ed “automaticamente” aumento le vendite. La scatolina mi porta ad avere maggior visibilità sullo scaffale (attention), dare una percezione di genuinità (interest), farmi venir voglia di mangiarlo (desire) e comprarlo (action).
Questo però non significa che anche in passato il modello AIDA potesse realizzarsi anche in assenza di pubblicità, attraverso il passaparola, vedere una cosa per strada ecc.., con tempi indeterminati e magari circolari che tornavano ad attivare i diversi livelli AIDA rimasti sospesi.
E oggi? Oggi la norma sta diventando/è ricevere stimoli da fonti diverse su mezzi diversi ed è per questo che nel mio post precedente parlavo del fatto che la pubblicità non è più in grado di esaurire tutto il processo del modello AIDA, ma può svolgere un ruolo di attivatore (o ri-attivatore) dei vari livelli. Dovrà quindi articolarsi con gli altri (nuovi) strumenti.
Attenzione, ho detto “strumenti”, perchè i principi non cambiano. Ed analizzare la combinazione principi/strumenti è fondamentale per non fare errori.
Esempio 2: La pubblicità di un’azienda nella colonna di destra di facebook (ovvio che finivo lì) è una fonte diversa dal pensiero sullo stesso prodotto/servizio scritto da un nostro amico che appare di fianco. Allo stesso tempo però condividere lo stesso mezzo, dà a quella pubblicità un valore diverso rispetto ad un annuncio sul giornale, se non altro perchè mi permette immediatamente di approfondire il mio interesse per quello che viene pubblicizzato, aumentare il desiderio attraverso le informazioni che posso raccogliere e passare all’azione di acquisto tramite l’e-commerce.
E mi sono limitato solo ad un media del digitale, senza allargarmi a QR codes, Groupon e simili, Twitter, ecc…

Quindi la prima direttrice di sviluppo futuro/sopravvivenza per le agenzie è quello di passare dalla pubblicità alla COMUNICAZIONE. Ma questo non è nè nuovo, anche se non basta cambiare “Agenzia di pubblicità” con “Agenzia di comunicazione” per cambiare il servizio offerto ai clienti, nè sufficiente.

Proprio la frammentazione dei mezzi e la perdità di efficacia della pubblicità ha fatto crescere negli utlimi anni gli investimenti in attività di Pubbliche Relazioni, a loro volta frammentate su più mezzi. Ora faccio una domanda: la sponsorizzazione del lancio con paracadute dalla stratosfera da parte della Red Bull è pubblicità o sono pubbliche relazioni? Boh! La cosa importante è che è un’attività che rafforza il posizionamento perseguito dalla marca con diversi strumenti che, nel caso della Red Bull, vanno (a scendere) dagli sport estremissimi, a quelli estremi, a quelli avventuro/ludici, alla pubblicità.
In questo scenario, se l’agenzia di pubblicità si limita solo alla pubblicità sta perdendo buona parte del business potenziale.

L’altro giorno una persona mi ha detto una cosa che gli hanno insegnato ad un corso per venditori: tu incominci a vendere da quando il consumatore dice che non gli interessa il prodotto. Viceversa non sei tu che stai vendendo, è lui/lei che sta comprando. Ovvio, ma illuminante.

Tornando al modello AIDA, la pratica del marketing l’ha legato finora esclusivamente o soprattutto all’attività pubblicitaria e comunicazione, ma la capacità di un prodotto/servizio di attivare il ciclo Attenzione-Interesse-Desiderio-Azione risiede principalmente nei benefit che è in grado di promettere (e mantenere) ai consumatori. In altri termini nella capacità di rappresentare e sostenere un pozionamento. Che è poi lo scopo del marketing.

Utilizzando la terminologia del corso per venditori, il prodotto perfetto è quello che non viene venduto dall’azienda, ma comprato dal consumatore.

Ecco perchè secondo me il futuro delle agenzie di pubblicità è il ritorno al passato dell’agenzia a servizio completo. Quella che insieme al cliente (o da sola se il cliente non era in grado) realizzava l’analisi dello scenario competitivo, definiva l’identità di marca, il concetto di prodotto, coordinava l’attività di comunicazione e di acquisto dei mezzi in modo coerente (funzione che l’attuale frammentazione dovrebbe rendere oggi più importante che in passato), indicava le linee guida distributive e realizzava le attività promozionali.

Vedo questo futuro sia guardandolo dalla parte delle agenzie (o ritornano a coprire altri ambiti oltre a quello specifico della pubblicità oppure faticheranno ad uscire dalla crisi) si guardandolo dalla parte dei clienti, che non hanno la dimensione e/o le competenze e/o il tempo per sviluppare e gestire autonomamente le strategie di marketing.

A questo punto le questioni sono due: le agenzie pubblicitarie hanno le competenze e la cultura necessaria per (tornare ad) essere agenzie di marketing? I clienti sono disposti a pagare queste competenze come facevano in passato?

Viribus unitis – ancora sul sistema del vino italiano

Lo so che avevo promesso un post sul futuro delle agenzia pubblicitarie, ma inderogabili impegni di lavoro mi impediscono di svilupparlo adeguatamente (il post scorso è sembratoa qualcuno incompleto).

In più la rivista Il Mio vino ha anticipato i contenuti del prossimo numero dell’inserto professional e voglio mantenere la pubblicazione in contemporanea sul blog, per rspetto ai lettori di biscomarketing. L’articolo in realtà riprende molti dei concetti dei miei due post gentilmente ospitati dal blog “Vino al vino” di Franco Ziliani poche settimane fa.

Posticipo quindi il post sulle agenzie pubblicitarie e pubblico di seguito l’articolo che uscirà su Il Mio Vino.

La riduzione della produzione che ha caratterizzato le vendemmie 2011 e 2012 pone la questione del ridimensionamento del sistema del vino italiano.
Malgrado gli effetti congiunturali della siccità di quest’anno (ma siamo proprio sicuri che questo clima non sia la nuova normalità), il calo della produzione di uva da vino in Italia deriva in larga misura dalla riduzione del vigneto italiano. Secondo i dati presentati dall’esperto Maurizio Gily al convegno che ho organizzato al Vinitaly di quest’anno, negli ultimi 5 anni si sono persi 60.000 ha di vigneto (più della superficie a vigneto dell’intera Toscana) , con una perdita del potenziale produttivo in hl stimabile tra il 10 ed il 14%.
Considerando che le estirpazioni a premio finanziate dalla PAC hanno riguardato solo la metà circa degli ettari persi, si può prevedere che questa tendenza all’abbandono dei vigneti continuerà anche in futuro, seppur a ritmi più ridotti a causa del ridotto ricambio generazionale.
Al’’interno del sistema del vino italiano c’è una corrente di pensiero che vedono positivamente questa riduzione perché riequilibria il rapporto domanda-offerta, che negli ultimi anni è stato caratterizzato da un eccesso di produzione a fronte del declino dei consumi nazionali, permettendo di tornare ad una remunerazione delle uve che rende economicamente interessante la viticoltura.
Una personalità autorevole come Angelo Gaja da due anni sprona il sistema vinicolo italiano ad approfittare dell’aumento del costo della materia prima per valorizzare meglio il prodotto, sostenendo che non è un problema il rallentamento dell’export del vino italiano perché determinato dal calo dello sfuso, svenduto a prezzi non remunerativi.
Si tratta di un’analisi che non condivido, innanzitutto perché non trova riscontro nella realtà dei fatti.
I dati relativi alle esportazioni del 1° semestre 2012dei principali Paesi produttori sono i seguenti (Fonte: elaborazione dell’autore su dati Corriere Vinicolo):
Export totale 1° semestre 2012
Paese Euro/litro Litri % vs. 1° sem. 2011 Indice litri (Italia=100)
FRANCIA 5,09 700.700.000 6% 72%
USA 2,30 104.065.000 -9% 11%
ITALIA 2,14 973.482.317 -11% 100%
AUSTRALIA 2,00 337.816.607 4% 35%
CILE 1,90 343.114.261 17% 35%
ARGENTINA 1,80 228.854.341 30% 24%
SPAGNA 1,06 1.073.467.721 3% 110%
SUD AFRICA 181.500.118 10% 19%

Nota: per la Francia il dato riguarda solamente il vino in bottiglia e per il Sud Africa è disponibile il prezzi medio solo per il vino sfuso. Si è preferito quindi omettere il dato.

La situazione mi pare talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti. Siccome però le medie spesso e volentieri ingannano, se analizzano i soli vini da tavola esportati in bottiglia il prezzo medio per l’Italia è di 1,37 €/litro, contro lo 0,89 della Spagna e l’1,01 della Francia.
C’è però un altro motivo, strategico, per cui non condivido la valutazione positiva di una riduzione della produzione di vino nelle fasce di prezzo più basse ed è la struttura a sistema del vino italiano. Senza voler qui entrare in discussioni dottrinali sulla teoria economica aziendale dei distretti/reti/cluster, il fatto che il vino italiano sia un sistema significa che i diversi elementi che lo compongono sono connessi funzionalmente ed organicamente a formare un tutto unitario. Quanto meglio connessi in termini organici e funzionali, ma anche quanto competitivamente più forti i singoli elementi, e tanto più solido l’intero sistema.
Spesso riferendosi al settore del vino italiano in termini qualitativi si fa riferimento al modello della piramide. Adottando questo modello per raffigurare il sistema del vino italiano, dove gli strati inferiori sono anche i più grandi in termini quantitativi, potremmo dire che una riduzione della base d’appoggio porterà, nel medio termine, ad una maggior instabilità anche agli strati superiori, su su fino al vertice.
Il rischio di indebolimento dell’intero sistema è dovuto a fattori operativi che riguardano sia la domanda (estera) che l’offerta.
Dal lato della domanda dobbiamo ricordare che il valore attribuito da un consumatore ad un vino è scarsamente legato ai sui costi di produzione. Conseguentemente un’impennata del costi del vino da tavola come quella che si sta verificando con la vendemmia 2012, a fronte di una qualità del prodotto sostanzialmente equivalente, rischia di far uscire i vini italiani dal paniere di scelte della fasce di consumatori che l’hanno acquistato fino ad oggi. D’altra parte la domanda di vini con quel livello di prezzo e di qualità continuerà ad esistere, indipendentemente dalla nostra riduzione di disponibilità e conseguente aumento dei prezzi all’origine, e, in nostra assenza, sarà soddisfatta dai nostri concorrenti internazionali.
Inoltre la capacità di un offerta che copra le diverse fasce di mercato è un importante fattore competitivo nei rapporti con importatori e distributori, sia per iniziare che per sviluppare i rapporti commerciali. Detto in parole povere se comincio a servire un importatore cinese con un container di vino da tavola, poi potrò mandargli anche una campionatura di vino IGT e/o DOC. Se non sono competitivo con il vino da tavola, ed il container lo manda una cantina spagnola, ecco che la campionatura successiva sarà di Tempranillo. Sempre che la fornitura non si sia persa in partenza perché il cliente cinese voleva da subito sia il vino da tavola che quello di livello superiore.
L’alternativa che rimane alle cantine per non perdere le posizioni conquistate e continuare a sviluppare nuovi affari in grado di compensare il calo sul (colpevolmente trascurato) mercato nazionale, è quella di ridurre i margini (come sembra confermare un’analisi di Baccaglio sul suo blog “I numeri del Vino”). Alla il valore aggiunto del sistema vitivinicolo rischia di rimanere invariato nel breve periodo, con un rischio di indebolimento competitivo nel periodo medio-lungo.
Il calo della produzione vitivinicola italiana implica degli svantaggi competitivi anche sul fronte dell’offerta, perché riduce le economie di scala e le curve di apprendimento dell’intero settore.
E’ evidente che ad una minore produzione consegue un minor sfruttamento degli impianti e quindi un minore ammortamento degli investimenti.
Meno ovvio, ma altrettanto vero, che una riduzione della dimensione del sistema rischi di rendere meno competitivi in termini di costi e produttività tutti i servizi, nel senso ampio del termine, utilizzati nelle diverse fasi della filiera. Dalle professionalità a tutti i livelli, dagli operai in vendemmia, agli agronomi, agli enologi, ecc.., ai macchinari ed i prodotti per l’enologia e l’imbottigliamento si tratta di comparti in cui l’Italia è ai massimi livelli mondiali e che quindi giocano un ruolo chiave per la competitività delle nostre aziende. Tanto per le grandi come per le piccole, per quelle di eccellenza e per quelle di massa.
Che l’aumento del costo delle uve determini una miglior valorizzazione globale del vino italiano è un’ipotesi con deboli fondamenti analitici e tutta da dimostrare nella realtà. Ma se anche fosse, perseguire un aumento del valore unitario delle esportazioni attraverso una riduzione della produzione quando lo scenario mondiale è di crescita dei consumi di vino, significa, in un’ottica di sistema, pianificare il proprio declino.
La valorizzazione del vino italiano va perseguita invece attraverso la definizione e l’affermazione di un suo posizionamento chiaro, specifico e differenziante, che faccia da ombrello alla pluralità dell’enologia italiana.

Quale futuro per la pubblicità?

L’altro giorno mi hanno detto che sembro/sono presuntuoso. Storia vecchia. La cosa curiosa per me è che in ambito lavorativo questa valutazione (negativa) mi è stata data spesso da chi stava a livelli gerarchici superiori al mio, raramente da chi si trovava allo stesso livello e quasi mai da chi rispondeva a me più o meno direttamente (intendo sia colleghi che agenzie e consulenti).
Questa valutazione non derivava dal millantare del credito, bensì dall’atteggiamento professorale nella convinzione/certezza delle mie competenze, che ostacolava i rapporti con i colleghi. La conseguenza era un invito ad essere più terra-terra per rendermi più accessibile. E questa per me è la cosa più curiosa perchè non riesco ad immaginare niente di più presuntuoso e poco rispettoso delle persone che accondiscendere a semplificare il proprio comportamento per “abbassarsi” (lo metto tra virgolette perchè non condivido il concetto in assoluto) al loro livello.
Cosa c’entra questa (auto)analisi da dilettanti con il futuro della pubblicità? E’ che mi è successo troppe volte di vedere scartare delle campagne pubblicitarie con il giudizio: “E’ bella, ma il consumatore non la capirebbe” da non pensare che la pubblicità dovrebbe essere meno presuntuosa nel giudicare il proprio pubblico.
Metto un attimo da parte questo concetto, per riprenderlo dopo aver inserito il secondo spunto di queste mie riflessioni. L’altro giorno (è stato un giorno intenso) stavo parlando con un amico importante dirigente di un’importante agenzia italiana, parte di un importante gruppo pubblicitario multinazionale che ha fatto, sintetizzanto, questa riflessione:
“se la pubblicità lavora sull’orientamento delle preferenze rispetto alla scelte fatte dal consumatore ad un livello superiore in termini decisionali (vero n.d.a.) qual’è il suo ruolo in una scenario di drastica riduzione dei consumi?”.
Detto in altre parole più semplici (più vicine a quelle che ha usato lui) se lo scopo della pubblicità è quello di orientare le scelte dei consumatori verso l’automobile B piuttosto che all’automobile A, quale diventa il suo ruolo quando le persone smettono di acquistare le automobili?
E’ opinione comune che viviamo in tempi di cambiamento (l’aveva già detto Eraclito) e, secondo me, il modo migliore per affrontarli è tornare ai fondametali. E nel marketing i fondamentali resta Philip Kotler, il suo libro Marketing Management e le famose 4P.
Nell’impostazione kotleriana la pubblicità rientra nella “P” di promotion. Forse si è trattato di una scelta dettata dall’eleganza della solida coerenza insita nel concetto “4P” (“4P + 1A” di avertising non avrebbe avuto onestamente la stessa efficacia comunicativa) però credo che l’eleganza non sia mai casuale e l’estetica costruisca (almeno in parte) la propria etica.
Quindi parto dalla funzione di promotion, che Kotler divide in due macro strategie: quelle che forniscono incentivi all’aquisto e quelle che forniscono ragioni all’acquisto. Il tecnicismo di ricondurre gli incentivi all’acquisto alle attività di promozioni di vendita e le ragioni all’acquisto alle attività di comunicazione, ossia pubblicità, pubbliche relazioni ed argomentazioni di vendita utilizzate da un venditore nella vendita diretta ad un consumatore, non modifica le due funzioni che il concetto di “promotion” svolge nei confronti dei consumatori.
Il futuro della pubblicità quindi, secondo me, sta nell’assolvere l’una o l’altra funzione, fornire sia incentivi che ragioni all’acquisto, sempre secondo il classico paradigma del processo A.I.D.A.: attention-interest-desire-action
L’esempio tipico della pubblicità che fornisce incentivo all’acquisto sono gli spot di LIDL trasmessi la domenica per annunciare le promozioni in corso da lunedì. In questi casi i meccanismi sono piuttosto semplici e diretti perchè gli elementi di attenzione-interesse-desiderio-azione risiedono in grandissima parte sull’attrattività dell’offerta.
Fornire con successo ragioni all’acquisto è diventato invece sempre più difficile, sia perchè dal lato dell’offerta aumenta la sostituibilità tra prodotti di marche diverse (riduzione del contenuto innovativo), sia perchè la proliferazione dei media rende neccessario l’utilizzo di un sistema di comunicazione articolato su più fonti. Si è passati da una situazione in cui la pubblicità poteva tranquillamente esaurire tutta la strategia di comunicazione ad una in cui ne è, sempre più spesso, solo l’attivatore.
Ecco che in questo contesto l’eccessiva ricerca di semplificazione, per presunzione nei confronti del consumatore di cui sopra, rischia facilmente di trasformarsi in banalizzazione e quindi di non ottenere l’attenzione o di non suscitare poi l’interesse.
Come il futuro dei giornali di carta a poco a che vedere con il futuro del giornalismo, così il futuro della pubblicità ha poco a che vedere con il futuro delle agenzie pubblicitarie.
Ma per oggi carne al fuoco ce n’è a sufficienza e quindi lascio questo argomento per la prossima volta.

WOW! EFFECT

Valutare la creatività non è mai una cosa semplice.
Il rischio di perseguire l’originalità e l’estetica fini a se stesse, senza veri contenuti e valori distintivi, è sempre in agguato. Con l’aggravante che proposte vacue, proprio per la loro mancanza di sostanza, si prestano ad essere razionalizzate come si vuole a posteriori in modo da (auto)convincersi che si tratta della trovata del secolo (vedi il mio post della scorsa settimana).
Anni fa una delle grandi agenzie pubblicitarie italiane venne in azienda a presentare le proposte per la nuova campagna pubblicitaria di una delle nostre marche più importanti. Dopo un quaranta minuti buoni di presentazione delle 3 proposte io espressi i miei dubbi perchè mi sembrava che non centrassero gli obiettivi della comunicazione, erano intrinsecamente poco coerenti, confuse e, soprattutto, artificiali e farraginose.
Il direttore clienti che guidava il gruppo, non potendo dire che ero scemo, disse di non preoccuparmi, che tutte le perplessità si sarebbero risolte quando avremmo effettivamente prodotto lo spot e che il problema era solo dovuto al fatto che, ricordo ancora le parole, “.. la lingua italiana non ha abbastanza parole per esprimere con chiarezza i concetti delle proposte”. Risultato: non fatta la campagna e cambiato agenzia.
Eppure è questo il modo più diffuso di presentare e valutare la creatività: sintesi degli obiettivi, spiegazione del ragionamento fatto dall’agenzia per lo sviluppo delle proposte, presentazione delle proposte, razionalizzazione di come le proposte rispondono agli obiettivi da cui si è partiti. Vale per le campagne pubblicitarie, quelle promozionali, il design dei prodotti, degli stand alle fiere, ecc…). I rischio di perdersi nel puro ragionamento o, peggio, nella soggettività sono altissimi.
Io da anni uso un’altro metodo che nel tempo è diventato quasi un segreto professionale, visto quanto poco è diffuso. Lo condivido volentieri sul blog, convinto della bontà della co-opetizione e sperando che il detto “you get what you give” sia vero.
Anche perchè anch’io l’ho imparato da qualcuno. Esattamente da un designer venuto, un paio di mesi dopo l’agenzia di pubblicità, a presentare le proposte per un nuovo packaging che gli avevo affidato.
Invece di cominciare a spiegare cosa ci avrebbe mostrato, cominciò a mostrarci (c’era ovviamente tutto l’ufficio marketing) le diverse proposte (5 o 6 se non ricordo male) per un paio di minuti senza dire niente.
Aspettava di vedere quale etichetta avrebbe suscitato il WOW! effect. Erano tutte valide, ma per un paio la reazione del gruppo era stata un (silenzioso) WOW.
Solo dopo siamo passati all’analisi “tecnica” di tutte le proposte, identificati i punti di forza e di debolezza e deciso su quali andare avanti per un affinamento.
Giustamente l’etichetta finalizzata presentava delle differenze (miglioramenti) rispetto alla prima proposta, mantenendo però il concetto che ci aveva fatto dire WOW!.
Da quella volta io evito sempre (se possibile) di analizzare il processo prima di vedere il risultato, e mi affido al WOW effect.
Potrebbe sembrare soggettivo, ma non lo è. Una proposta fondamentalmente valida, che coglie ed interpreta nel modo giusto gli obiettivi valorizzandoli anche se è in nuce, suscita un convinzione immediata nella grandissima maggioranza delle persone (consiglio sempre di fare queste cose in un gruppo di lavoro).
E’ un metodo che consiglio, con l’avvertenza che richiede disciplina ed è molto darwinistico nel valutare le idee: se non c’è nessun WOW, bisogna ricominciare daccapo (oppure cambiare agenzia).

Amici, nemici e semplici conoscenti

Mi è scoppiato l’embolo politico e non si rimargina più.
Però siccome questo vuole rimanere un blog di marketing, non parlerò di Fioroni-Minetti-Polverini-Berlusconi-Fini-Squinzi per onestà intellettuale nei confronti miei e dei lettori.
Parlerò invece del numero di Dunbar, perchè la settimana scorsa ho letto un’intervista a Robin Dunbar su “Il Piccolo” di Trieste e mi stupisce sempre trovare conferme scientifiche e serie ad alcuni miei personali (nel senso che me li sono creati da solo) generici concetti antropologici e sociologici. Metafisica da portinai l’avrebbe chiamata Saint Exupery, affermazione che aasume tutta un’altra valenza da quando è stato pubblicato nel 2006 “L’eleganza del riccio” .
Robin Dunbar è un antropologo in glese che alcuni anni fa ha definito in circa 150 il numero massimo di amici, ovvero “relazioni umane significative”, che un individuo di specie umana può avere. Il cosiddetto numero di Dunbar.
Questo risultato è basato sia su ricerche paleo-antropologiche (tribù preistoriche di cacciatori, censimenti inglesi dell’alto medioevo) che su “conferme” (il virgolettato e mio, se c’è qualche scienzato in ascolto può dimostrare che vanno tolte) di neuro-fisiologia. Il numero di Dunbar infatti è legato allo spessore della corteccia orbitale frontale, dove vengono prese le decisioni di alto livello.
E’ quindi un numero specifico, nel senso che è legato alla specie umana, e non individuale.
Di conseguenza “… noi umani abbiamo una riserva limitata di emozioni da spendere. Possiamo consumarle in quantità minime, ma in molti rapporti. Oppure investirne in quantità cospicue, ma con pochi.”. Ed è qui che mi sono stupito perchè molti anni fa, tanti che oramai non ne parlo quasi mai, mi sono fatto l’idea delle emozioni di ognuno come di una superficie rettangolare data, in cui possono variare le lunghezze dei lati che rappresentano il numero e l’intensità delle relazioni. Quindi, geometria elementare, se aumenta la lunghezza del lato “intensità” deve per diminuire di conseguenza la lunghezza del lato “numerosità” e viceversa. Non mi ero posto la questione se questa superficie data e costante è individuale o specifica, adesso Dunbar mi ha dato la risposta.
Al di là che questo argomento sia, apparentemente, collegato ai social networks del web 2.0 (mentre in realtà lo è solo in parte), cosa c’entra con il marketing?
Secondo c’entra in base al tipo di rapporti che le marche vogliono stabilire con le persone. Secondo le parole di Dunbar, gli “amici” sono le persone con cui si stringe una relazione reciproca che include obblighi, fiducia e buonafede.
E’ indubbio che le marche di maggior successo nel lungo periodo sono sempre state quelle che sono riuscite a stabilire un rapporto di amicizia (volutamente senza vigolette, adesso che c’è una definizione a cui riferirsi) con i loro clienti. Ed è altrettanto indubbio che nella situazione di eccesso di offerta che contraddistingue moltissimi settori in moltissimi mercati, la capacità di costruire questo rapporto di amicizia diventi sempre di più un must piuttosto che un plus (per approfondimenti al concetto segnalo due miei vecchi post qui e soprattutto qui).
Allora (mi) consiglio di tenere sempre bene in mente che l’amicizia si basa sulla reciprocità di obblighi, fiducia e buonafede (repetita iuvant). Se l’avessero avuto chiaro anche i signori che si occupano della comunicazione di Parah non avrebbero organizzato la sfilata con la Minetti (ma qualcuno sa dirmi chi era l’agenzia, così evito di correre il rischio di lavorarci in futuro?).
C’è poi un’altra implicazione di marketing, legata al concetto del numero di Dunbar: se io come marca punto a costruire un rapporto di amicizia con i miei clienti, rientro anch’io nel numero massimo di rapporti che una persona può mantenere?
Secondo me sì, e questo implica un limite teorico al numero dei clienti. E’ vero che 150 amici è un numero tutt’altro che basso, però è anche vero che i social networks permettono di mantenere un numero maggiore di amicizie rispetto al passato.
Forse le marche potranno imparare da Bonvi e puntare a diventare, per i loro clienti, “semplici conoscenti”.

“resistere restire resistere” è la visione Fiat all’ineluttabile declino dell’automobile?

Per compensare il rischio di astrattezza dei post strategici, oggi ho deciso di dedicarmi all’attualità.
Tra i temi che mi hanno più incuriosito ero indeciso se occuparmi della comunicazione con cui si sta gestendo lo scandalo del Consiglio Regionale del Lazio oppure dell’incontro FIAT vs. Governo. Alla fine ho deciso di parlare delle due cose.

Il concetto secondo cui “(per fortuna) la Polverini resiste (stoicamente)” (ho messo tra parentesi i sottointesi che implica l’uso del termine “resiste”, corroborato dagli autorevoli inviti che ha ricevuto a farlo per evitare che crolli tutto) è quanto meno curioso, visto che l’esplosione dei finanziamenti ai gruppi del consiglio regionale (14 di cui 8 composti da un solo consigliere) si è realizzata proprio da uqando lei è presidente. E che dire delle procedure per cui questi finanziamenti venivano erogati senza alcun controllo? Dovrebbe essere scontata almeno una responsabilità oggettiva del presidente e quindi un’incompetenza di fatto. Se poi ci aggiungiamo che il bubbone è scoppiato per il comportamento dei consiglieri del suo partito non mi sembra così fuori luogo rilevare anche una complicità politica, indipendetemente dagli aspetti giudiziari, ossia se siano o meno verificati degli illeciti, cosa che riguarda la magistratura e non me come cittadino-elettore (argomento di cui ho già parlato in altre occasioni su questo blog qui e qui).
Ed invece tutti i giornali, di qualsiasi orientamento titolano che la Polverini resiste. A chi e a cosa non si sa? Però vanno fatti i complimenti a chi gestisce la comunicazione del PDL che si è appropriato nell’inconscio collettivo della famosa espessione del Procuratore Borrelli (espressione che personalmente ritengo un obbrobrio da parte di un magistrato).

Riprendo un tono meno personale e più professionale sulla questione FIAT. Se ho ben capito, il nocciolo della questione secondo l’azienda è che il fortissimo ed imprevedibile crollo del mercato dell’auto in Italia ha modificato lo scenario su cui era stato sviluppatro il piano di investimento del gruppo in Italia.
Ora mi chiedo, chi sviluppa le analisi di scenario in Fiat? Il pulcino Pio? (potrebbe essere un bel nome per il prossimo modello: mi compro una Pio!).
Un po’ di dati a caso, facilmente intuibili ed ancor più facilmente confermabili con una breve ricerca sul web:
- L’italia ha il più alto tasso di motorizzazione europeo con 60 auto ogni 100 abitanti (abitanti, si badi bene, non residenti oltre i 18 anni),
- negli ultimi anni il mercato è stato sostenuto/drogato dalle campagne di incentivo alla rottamazione con contributi pubblici, che ha permesso di rinnovare il parco automobilistico italiano.
- dal 2008 in avanti si assite ad un calo delle vendite degli elettrodomestici durevoli, con la solita eccezione delle apparecchiature informatiche (vedi rapporto CECED 2012), segno che gli italiani a fronte di una diminuzione del reddito disponibile stanno rinviando gli acquisti di beni durevoli. Aggiungerei anche la minor propensione ad acquistare nuovi beni durevoli nelle, crescenti, fasce di consumatori anziani.
- la benzina ed costo dell’assicurazione sono tra le voci di spesa delle famiglie che hanno avuto i maggiori incrementi nel corso degli ultimi 3-4 anni (ben oltre il tasso medio di inflazione).

E’ questi parlano di crollo imprevedibile? A questo punto mi sono ricordato della querelle tra Bill Gate e la General Motors, generata diversi anni fa e sono andato a cercarla in rete (qualcuno riesce a darmi la data? In rete non sono riuscito a travarla ma sarà stato almeno 7-8 anni fa).
Questa è una delle tante versioni che girano:
Durante una manifestazione, Bill Gates ha voluto rendere chiari a tutti i presenti i progressi fatti dall’industria informatica facendo un parallelo con l’industria automobilistica, e ha dichiarato: «Se la General Motors fosse tecnologicamente avanzata come l’industria informatica, oggi staremmo guidando macchine che costerebbero 25 dollari e farebbero 500 km con un litro di benzina!».
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La General Motors ha prontamente replicato con il seguente commento:
“Stiamo meditando sull’ipotesi di prendere Microsoft come partner. Gli unici motivi che per il momento ci trattengono dal farlo sono:
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1. Ogni volta che viene rifatta la segnaletica stradale bisognerebbe anche acquistare una macchina nuova;
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2. Occasionalmente, il motore si fermerebbe in autostrada senza alcuna ragione apparente, e bisognerebbe semplicemente accettare il fatto, riavviare il motore e ripartire dal casello da dove era iniziato il viaggio;
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3. Inaspettatamente, l’esecuzione di una manovra potrebbe fermare la macchina e bloccarla definitivamente, e per ovviare all’inconveniente sarebbe necessario reinstallare il motore;
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4. Sarebbe possibile avere solo una persona a bordo alla volta, a meno di non acquistare «Macchina 98» o «Macchina NT», con i relativi sedili addizionali;
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5. Con la Apple le cose sarebbero diverse: essa sarebbe in grado di progettare una macchina alimentata a energia solare, affidabile, cinque volte più veloce e due volte più facile da guidare, ma in grado di girare solo sul 5 per cento delle autostrade;
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6. Quest’ultimo problema potrebbe essere risolto molto facilmente, acquistando degli upgrade carissimi compatibili con le autostrade Microsoft, in grado di offrire prestazioni dimezzate rispetto a un’analoga macchina Microsoft;
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7. Le spie dell’olio, della benzina, dei freni e della batteria dovrebbero essere rimpiazzate da un unico segnale che dice «Questa macchina ha eseguito un’operazione illegale e sarà arrestata»;
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8. I nuovi sedili costringerebbero tutti ad avere la stessa misura di «sedere»;
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9. Prima di entrare in FUNZIONE, l’airbag chiederebbe «Sei sicuro di voler eseguire questa operazione?»;
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10. In caso di collisione, non sarebbe possibile avere la minima idea di che cosa sia accaduto al pilota e alla macchina, e di come ripararla”.

Pensavo di chiudere qui il post, facendo ammenda alla visione di Bill Gates, adesso che sappiamo come è finita e ricordando come tutti (io compreso) abbiamo sorriso con complicità alla replica della GM.

Invece cercando in rete la storia mi sono imbattuto in qualcosa di più interessante: un forum dove nel 2011 si citava questa “leggenda”. Leggere gli interventi di questi digital natives, tra lo stupito e l’annoiato per l’assurdità di un confronto tra l’evidentemente superiore industria informatica ed i dinosauri dell’automobile.

Delle volte la rete permette di risparmiare lunghe e costose ricerche di mercato, basta avere l’intelligenza e, soprattutto, la voglia di saperla leggere.

Intanto io domani mi farò i miei 250 km quotidiani in macchina.
non sto neanche a dire http://forum.ubuntu-it.org/viewtopic.php?p=3862823#down

S O R P R E S A !!! Biscomarketing è ospite di Vino al Vino

La scorsa settimana ho lasciato un breve commento al post di Franco Ziliani relativo all’esternazione di Angelo Gaja sulla venedemmia 2012, preannunciando un approfondimento qui per questa settimana.
Franco Ziliani mi ha fatto l’onore e la cortesia di chiedermi di ospitare il mio intervento su Vino al Vino, ed io ho accettato con piacere.

Ecco quindi il link al post Angelo Gaja, le previsioni di vendemmia e le brioches di Maria Antonietta su Vino al Vino.

Poichè un mio vecchio lettore si è lamentato (giustamente) della lunghezza e densità del mio post pubblicato ieri qui su biscomarketing (ho dovuto ridurre il pezzo persino per l’uscita su “Il Mio Vino” avverto che l’intervento su Vino al Vino è stato spezzato in due parti.

Anche così consiglio di armarsi di un po’ di tempo e di attenzione. D’altra parte ci sono argomenti per cui è necessario un certo approfondimento e completezza di analisi.

Buone letture.

RILANCIARE IL CONSUMO DEL VINO IN ITALIA PER SOSTENERE LA CRESCITA DELLE ESPORTAZIONI

Lo scorso fine settimana l’ho passato in giro a cavallo per l’entroterra tra Trieste e Capodistria (primum vivere, deinde philosophari) e in questo invece sto preparando una sorpresa. Pensavo quindi di far sopravvivere il blog pubblicando il mio ultimo articolo apparso su “Il Mio Vino”, quando mi sono reso conto di non aver ancora postato il primo articolo che ho scritto per quella rivista.
Siccome mi sembrava particolarmente interessante, pur se totalmente vitivinicolo, rimedio subito qui sotto. Nel caso la mia attenzione abbia avuto un cortocircuito ed abbia già postato questo testo, mi appello alla vostra comprensione.

Il 2011 è stato l’anno in cui il settore del vino italiano si è posto la questione del calo del mercato interno Evidentemente la cosa ha raggiunto una dimensione tale da non poter più essere ignorata.
Visto che non è che si faccia molto, vediamo di inquadrare la dimensione del fenomeno. Normalmente si cita il confronto con il passato, diciamo i 100 litri pro-capite consumati 30-35 anni fa rispetto ai 43 litri di oggi. Si tratta di un dato sicuramente eclatante, ma che ritengo poco efficace per trasmettere l’urgenza di attivare azioni di contrasto alla tendenza in corso.
Preferisco quindi provare a fare delle previsioni e farle a lungo termine visto che il tempo del vigneto e del vino spesso non coincidono con il tempo dell’uomo (citazione da Alberto Ugolini).
Incrociando i dati dell’ultima ricerca sul consumo di alcolici realizzata da Doxa per l’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcol con una proiezione della distribuzione della popolazione per classi di età da qui a 25 anni (preso come il tempo medio di vita produttiva di un vigneto) ho calcolato che nel 2024 il consumo di vino in Italia sarà di circa 2,3 milioni di hl inferiore a quello attuale. Per dare un parametro di riferimento si tratta di una quantità superiore di oltre 9 volte al vino italiano esportato in Cina (la grande speranza dei mercati mondiali) nei primi dieci mesi del 2011.
Personalmente la ritengo una stima per difetto, ma potrei sbagliarmi. Commissionando ad un Istituto una ricerca del costo di 3.000-4.000 euro si può facilmente avere una previsione molto più solida. Comunque questi valori sono tali da giustificare una reale preoccupazione per il settore viti-vinicolo e mi è sembrata meritevole l’iniziativa del Vinitaly che nel 2011 nell’imminenza della Fiera ha stimolato un dibattito sull’argomento, coinvolgendo operatori appartenenti a tutte le diverse categorie che operano nel sistema vino in Italia.
Al di là dei diversi spunti che ne sono seguiti, di fatto le aziende continuano ad operare soprattutto in un logica sintetizzata nella dichiarazione di Piero Antinori, presidente dell’Istituto del vino di qualità: “Quello della crisi dei consumi interni di vino è un falso problema, preoccupiamoci piuttosto di vendere bene nel resto del mondo. Il vino di qualità e’ il prodotto più globale in assoluto, non vedo perché ci si debba focalizzare su una nicchia di 60 milioni di abitanti quando fuori c’è un mercato di 6 miliardi di persone da conquistare. Allarmarsi per un calo fisiologico dei consumi interni è come guardare la pagliuzza per non vedere la trave. Negli ultimi 10 anni gli Stati Uniti hanno visto raddoppiare i consumi interni, per non parlare dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), dove 3 miliardi di persone e centinaia di milioni di nuovi ricchi si ‘occidentalizzano’ attraverso i nostri status symbol, vino di qualità in primis. In Cina – che è già un mercato potenziale da un miliardo di bottiglie l’anno – ogni 100 litri di vino provenienti dall’estero solo 5 portano l’etichetta italiana. E ancora, a Hong Kong, hub principale per la distribuzione del vino in Asia, il vino italiano si colloca in settima posizione, con una quota di penetrazione del 2,3%, contro il 33% della Gran Bretagna – che distribuisce per lo più vino francese – o il 31% della Francia. Sono questi – ha aggiunto il presidente Antinori – i veri problemi del nostro vino, non tanto quelli legati ai consumi interni.”
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E qui entra in gioco la microeconomia, perché questo approccio segue il principio di massimizzazione della produttività (e redditività) marginale della teoria dell’impresa. Detto in altre parole oggi la redditività di 1 euro investito in determinati mercati esteri è (con ogni probabilità) superiore a quella dello stesso euro investito sul mercato nazionale.
La teoria microeconomica dell’impresa si basa però su alcuni assiomi che non sempre trovano riscontro nella realtà, soprattutto nel periodo medio lungo, a cui bisogna guardare se si vuole vivere e non solo sopravvivere. Se così non fosse non si spiegherebbe, ad esempio, il successo di un denominazione come la Franciacorta, le cui vendite si rivolgono in larghissima prevalenza al mercato italiano.

In merito alle ragioni del trend negativo dei consumi interni , spesso le argomentazioni sono le seguenti:

1) Sono cambiati gli stili di vita/consumo (risposta semitautologica).
2) Si è ridotto il consumo dei giovani (come sopra).
3) Il consumo di vino è penalizzato dalla stretta dei controlli alcol test su chi guida.
Considerando l’ultima risposta c’è da chiedersi come mai il consumo di birra cresca (fenomeno che si verifica in maniera ancora più eclatante in Spagna e, in modo meno chiaro, in Francia: guarda caso i tre storici paesi produttori e consumatori di vino).
La risposta è sempre la stessa: “Perché la birra è meno alcolica”. Peccato che si tratti di un falso mito, basato sul fatto intuitivo che la gradazione alcolica unitaria della birra è inferiore a quella del vino. Esistono però anche le verità contro-intuitive, che quindi vanno spiegate ed in questo caso la verità è che i grammi di alcol contenuti in un bicchiere standard (qui il termine inglese serving è veramente l’ideale) di vino, birra o superalcolico è il medesimo.
Questa semplice (e non semplicistica) considerazione racchiude buona parte del problema del calo dei consumi di vino in Italia, che è sostanzialmente un problema di percezione.Tale problema nasce probabilmente dall’evoluzione che ha avuto il settore negli ultimi vent’anni in risposta allo scandalo del metanolo, sia in termini di qualità e profilo dei prodotti che, soprattutto, in termini di come questi sono stati presentati e comunicati dai mass media negli ultimi vent’anni. Il miglioramento della qualità del vino italiano, sia nella media che nelle sue punte di eccellenza raramente raggiunte in precedenza, è stato allo stesso tempo sostenuto e stimolato da un approccio al prodotto centrato sull’approfondimento degustativo delle sue caratteristiche organolettiche, partito da un nuovo movimento di critica enologica che si è man mano diffuso in fasce sempre più ampie di consumatori. Il cristallizzarsi di questi due fattori, che hanno indubbiamente creato il rinascimento del vino italiano, è sfociato nell’attuale problema di percezione, che, per essere compreso con maggior chiarezza, va suddiviso almeno in tre aspetti:
1) Perdita di identità della categoria di prodotto.
Circa 50/40 anni fa, quando il consumo italiano era di 100 litri/annui pro-capite, il vino era un alimento, o per meglio dire un nutriente, poi è divento una bevanda. Il cambiamento è determinato dall’evoluzione della società e non è necessariamente negativo, poiché riduce l’effetto della legge di Engel che prevede una diminuzione della parte di reddito destinata all’acquisto dei beni alimentari al crescere del reddito in quanto questa interessa solamente la componente nutritiva di un alimento e non quella edonistica.
Attualmente però la componente culturale, ancor più che edonistica, del vino è diventata talmente preponderante da fargli perdere in larga misura la sua natura di bevanda. Il problema è che se un liquido che si beve non è una bevanda che cos’è?Può sembrare un discorso di lana caprina, ma per rendersi conto che non lo è basta ricordare che Giorgio Calabrese (docente di alimentazione e nutrizione umana e presidente dell’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino) sta portando avanti da qualche anno il ritorno al concetto (reinterpretato) del vino-alimento.
Di fatto oggi ci troviamo nella situazione in cui quando qualcuno ha sete, il vino raramente rientra tra le possibili opzioni. Oggi la stragrande maggioranza delle persone beve vino quando ha fame (escludo la numerosissima minoranza dei cosiddetti wine lovers per cui il vino è spesso un riferimento costante nella definizione di se stessi. ).
Se a questo aggiungiamo la destrutturazione dei pasti conseguente alle modifiche dell’organizzazione della società, l’impatto sui consumi di vino è evidentemente fortissimo.
Pensando alla crescita del consumo della birra credo che conti anche il fatto che ha mantenuto la sua caratteristica di bevanda con funzione anche dissetante e non credo sia un caso che la categoria di vino con la maggior crescita in Italia sia quella degli spumanti, ossia vini che si bevono anche e soprattutto in occasioni diverse dai pasti. Quello che invece mi stupisce è notare la sostanziale ineluttabilità con cui il fenomeno viene affrontato dal settore vinicolo, se anche un guru della critica enologica quale Sandro Sangiorgi nel suo ultimo libro “L’invenzione della gioia” prende come un dato di fatto che “Il vino, per la gran parte delle persone, è legato a un momento speciale, raramente è quotidianità”.
2) Il vino si è appiattito sull’eccellenza diventando sempre più impegnativo.
Qui c’è poco da girarci intorno: oramai la parodia del sommelier di Albanese non fa nemmeno più ridere. A furia di far roteare i bicchieri alla maggioranza dei consumatori sono roteate le … scatole. Bere un bicchiere di vino in compagnia (ma per assurdo anche quando si è da soli) richiede spesso un impegno psicologico (ed economico). Sempre meno interessante, quasi mai divertente, il vino diventa noioso.
Attenzione è vero che il vino per sua natura è complesso, ma questo non significa che sia per forza necessario ricercarne e sottolinearne la complessità in ogni occasione e situazione. Tornando alla birra, l’interesse sta crescendo in certe fasce di consumatori anche grazie alla percezione di una certa complessità, mantenuta e gestita però entro limiti che incuriosicono, senza debordare nell’atteggiamento da comunità di iniziati che, inevitabilmente, diventa settaria ed escludente.
Va riscoperto il divertimento di bere un bicchiere di vino e, nuovamente, non a caso vanno bene gli spumanti, ossia vini divertenti per stile e situazioni di consumo.
3) Gli attuali messaggi e i mezzi attraverso cui vengono comunicati si rivolgono ad una limitata fascia di consumatori.
La comunicazione del vino oggi si rivolge principalmente ai consumatori residenti nelle aree urbane, di età tra i 40-60 anni (sarei tentato di scrivere 35, ma temo sia un’illusione giovanilistica). Si tratta dei consumatori che negli ultimi vent’anni hanno reso l’enogastronomia una componente culturalmente importante della società e per i quali la (ri)scoperta del vino è sostanzialmente la (ri)scoperta di arcadia. Il fatto è che credevamo (ci sono dentro anche io) di essere la prima generazione della società industriale ed invece eravamo l’ultima della società contadina emigrata in città.
Tutti quei valori legati alla tradizione (di fatto ai nostri nonni contadini) per noi sono rassicuranti, ma agli under 30 dicono poco o niente. Mentre sono ovviamente questi i consumatori che daranno o meno un futuro al vino (e, nuovamente, i consumatori alla base della crescita di birra e spumanti).
Su questo aspetto un’ultima considerazione sui consumatori oltre i 60 (prima che si dica che me li sono dimenticati): sono in genere forti consumatori perché sono quelli che vivono il vino con normale quotidianità.
Se il problema è sostanzialmente di percezione, la soluzione non può che essere di comunicazione. Il sistema del vino italiano dedica gran parte delle risorse finanziarie ed umane ad interagire con la critica enologica in termini di PR e per la pubblicità sulle testate specializzate.
Dal punto di vista dei contenuti redazionali e dello stile il tono più frequentemente utilizzato è da esperti, in un certo senso coerente con il target, così tradizionale ed ortodosso da risultare a volte (frequentemente?) settario. Il tutto con un’autoreferenzialità che ha già vistosamente ridotto il seguito dei mezzi off line e si sta rapidamente estendendo a quelli on line.
La pubblicità del vino su questi mezzi rischia di rivelarsi inutile, se non addirittura controproducente perché ha una credibilità e rilevanza per i lettori molto più bassa rispetto alla parte redazionale (gli articoli). Se non si riescono ad individuare dei contenuti originali e credibili, espressi in modo coerente ed interessante, l’effetto banalizzazione e conseguente massificazione è praticamente automatico, soprattutto ricordando qual è il target dei lettori di questi mezzi.
Ritengo quindi estremamente improbabile che da qui nascano nuovi spunti di interesse per avvicinare al vino nuovi consumatori. In realtà il problema principale della comunicazione del vino in Italia è il ridottissimo livello della comunicazione diretta delle aziende e delle marche al consumatore, sia in termini di pubblicità che di publicity/pubbliche relazioni.
Facendo una stima spannometrica, il valore del mercato del vino in Italia ai prezzi di consumo si aggira sui 3 miliardi di euro. Un’incidenza delle spese di comunicazione del 2% porterebbe ad un investimento di 60.000.000 di euro. Ora i dati sugli investimenti pubblicitari non credo che superino i 10 milioni di euro, comprendendo le campagne TV delle marche di vino in brick.
Non c’è quindi da stupirsi del calo di interesse nei confronti della categoria da parte dei nuovi potenziali consumatori.
Spesso il ridotto livello degli investimenti viene ricondotto alla frammentazione del settore ed alla conseguente piccola dimensione delle cantine. E’ un’affermazione che non condivido per due motivi:
- c’è comunque un gruppo di aziende che sviluppa sul mercato italiano un fatturato tale da giustificare/richiedere un sostegno pubblicitario della marca e l’investimento necessario, oltre ad avere (potenzialmente) la struttura e le competenze per sviluppare una comunicazione rilevante per ampie fasce di consumatori.
- il calo dei consumi è legato ad un problema di percezione della categoria di prodotto e quindi può essere efficacemente affrontato con strategie di comunicazione collettiva di respiro nazionale, vino italiano, o di distretto, Consorzi. In quest’ultimo caso addirittura favorita dalla frammentazione dei consumi che porta i consumatori a riconoscere più i marchi consortili delle marche aziendali.
Il problema quindi è più culturale che strutturale.
Concludo sottolineando come tralasciare di affrontare il problema del calo dei consumi sul mercato italiano comporti per il nostro sistema vitivinicolo un rischio per certi versi maggiore rispetto a quello, già grave, della corrispondente perdita di fatturato.
Si tratta del rischio di perdita di identità ed originalità dello stile dei nostri vini, identità ed originalità di stile che sono alla base del crescente successo del vino italiano sui mercati esteri.
Come dice Carlo Petrini i consumatori sono in realtà co-produttori perché giocano un ruolo cruciale nella definizione ed evoluzione della caratteristiche sensoriali e culturali di un prodotto alimentare. Se continua ad indebolirsi il rapporto con il consumatore italiano si indebolirà anche la sua originalità e, di conseguenza, la capacità di differenziarsi rispetto ai vini provenienti da altri paesi produttori. Paesi che sono sostanzialmente assenti dal mercato italiano, ma agguerriti concorrenti del vino italiano sui principali mercati mondiali.
In sintesi se non verranno realizzate strategie in grado di mantenere/rilanciare il consumo di vino sul mercato italiano assisteremo nel breve periodo ad un aumento della pressione concorrenziale tra i produttori italiano, sia sul mercato nazionale che su quelli esteri, a cui bisognerà giocoforza rivolgersi per trovare nuovi sbocchi.
Nel periodo medio lungo si aggiunge il rischio di un indebolimento dell’identità del vino italiano e della sua capacità di differenziarsi, con un ulteriore aumento della concorrenzialità da parte dei vini di altri Paesi sui mercati esteri nei confronti dei vini italiano.
Credo sia un quadro che il sistema del vitivinicolo italiano debba cercare in tutti i modi di evitare.

Rassegna pubblicitaria, ovvero Carosello.

Ho come l’impression che quest’anno ilreintro all’attività post vacanze sia un po’ più rallentato del solito. Forse perchè le vacanze si sno ridotte (se non eliminate) e siamo tutti più stanchi.
Ad ogni modo vedo di contribuire ad un rientro soft con un post leggero di segnalazione/commento di alcune campagne pubblicitarie che ho sentito e visto recentemente.

CERULISINA: premetto che non sono molto amico del marketing farmaceutico, meno che meno quando la strategia di fondo è quella di “curare i sani”, cosa molto diversa dalla prevenzione.
Però credo che anche se fossi un fervente sostenitore dell’industria farmaceutica difficilmente potrei giudicare meno che terribile questo spot cantato sulla musica di “Bididi Bodidi Bu” del film Cenerentola di Walt Disney. La cigliegina sulla torta, si fa per dire, è l’introduzione della bambina che chiede alla mamma di raccontarli una storia. C’è davvero un target per una comunicazione con questo stile e questi contenuti ed io dopo tanti anni sono diventato uno snob pubblicitariamente parlando? Per completezza dell’informazione l’agenzia è la ADV Activa di Milano.

PROCTER & GAMBLE E LE MAMME: è da qualche mese che la Procter & Gamble si sta posizionando come “sponsor delle mamme”. In occasione delle olimpiadi ha trasmesso due spot. Il primo non l’avevo visto mentre il secondo è quello che mi ha colpito negativamente per la banalità. Sugli spot ho poco da aggiungere alla precisione dell’analisi fatta da Giovanna Cosenza nel suo blog, segnalo solo che gli spot che trovate ai link di cui sopra sono quelli della versione director’s cut, ben più lunga dei 30″ e 15″ che vanno in onda in TV.
Il posizionamento invece mi stupisce un po’ almeno in Italia (va ricordato che si tratta di una campagna mondiale). Se la domanda sul target dello spot Cerulisina era poco retorica, in questo caso lo è anche meno, ma davvero è efficace questo posizionamento da mamma anni ’50. Ossia io mamma mi sento gratificata dal riconoscimento che le marche P&G fanno al mio essere mamma e quindi acquisto quei prodotti? Mi sembra di essere tornato ai tempi di Beniamino Gigli (già ai suoi tempi “quelle parole non si usavano più”). Per completezza in termini di marketing, va sottolineata la novità della scelta di P&G di utilizzare il marchio corporate come marchio ombrello. Un cambio di strategia non da poco per l’azienda che ha fatto la storia del brand management, seguito (o forse anticipato) dal loro principale competitor Unilever.

ACQUA LETE E POLTRONE E SOFA’: cosa mi fa accumunare due spot così diversi sia in termini di realizzazione che di prodotto? Il cambio di posizionamento che spreca gli investimenti precedenti invece di sfruttarli (vedi il mio post della settimana scorsa). Sono infatti convinto che le strategie efficaci si basino su un’evoluzione dei posizionamenti delle marche che crescono aggiungendo nuovi valori e stili a quelli precedenti.
A parte che “amigo sei figo” mi sembra un tentativo mal riuscito di creare un tormentone tipo “o così o pomì” o “chi c’è c’è, chi non c’è non c’è”, ma cosa c’entra con la particella di sodio solitaria? Magari quello non funzionava, però non c’era il modo di sfruttare un po’ di anni di pianificazione pubblicitaria? Lo stesso discorso vale per la nuova campagna di Poltrone & Sofà che è passata da un posizionamento “Beato che se lo fà ..er sofà” (appena un scalino sopra a “la patatina tira” di Amica Chips”) al nuovo “Artigiani della qualità”. Il fatto che non abbiano cambiato testimonial indebolisce ulteriormente la credibilità del nuovo posizionamento, ma forse su questa scelta pesa la vertenza tra la Ferilli e l’azienda (come sia finita non lo so, ma certo che risolvere un problema da eccessivo sfruttamento di immagine, legandosi ad una nuova campagna dello stesso prodotto non mi sembra una gran soluzione).

COCA COLA – CENIAMO INSIEME: quando la Coca Cola fa un nuovo spot, chiunque si occupi di marketing deve drizzare le orecchie, ed infatti ho già parlato a suo tempo della campagna 2010. Se ci aggiungete che già nel 2006 in Stock volevo fare una concorso rivolto al consumatore basato sul concetto di “uno chef a casa tua” (realizzato quest’anno da Santa Margherita) e che nel 2010 in santa Margherita avevamo contatto Simone Rugiati per una nostra iniziativa (tutta la parte femminile del mio staff era d’accordo, ma i costi erano troppo elevati), capite perchè l’ultima campagna della Coca Cola non poteva sfuggirmi.
In termini strategici è il contrario degli esempi Lete e Poltrone e Sofà perchè costruisce sul concetto della felicità in tavola costruito nella campagna precedente. Sarà (l’ennesimo) successo? L’unico rischio che vedo è la perdità di semplicità nel legarsi ad un concetto di pasto troppo sofisticato. Vero è che l’ambientazione stressa il divertimento e la convivialità, mentre Rugiati ha un’alone di simpatia unico tra gli chef celebri. In questo caso confesso un po’ di invidia di budget.

LA SETTIMANA ENIGMISTICA: il mondo cambia ed i tempi sono duri per tutti, anche per la settimana enigmistica che si trova costretta a farsi pubblicità (cosa impensabile solo 5 anni fa). La campagna 2012 è un egregio esempio di eccellente comunicazione sia in termini di posizionamento che di realizzazione. Ammiro le idee creative così forti e chiare da poter essere realizzate con produzioni economiche. Ancora di più quando funzionano perfettamente in un 15″, così si riesce a risparmiare anche nella pianificazione.
L’unico dubbio che mi è venuto guardando questo spot è: sotto i 35 anni capiranno il concetto del filo tirato che “dà la carica”?.

Come quelle precedenti è una domanda vera, non retorica. Perchè in generale vedo poche campagne che possano interessare il pubblico sotto i trent’anni. e’ vero che il più difficile, ma è anche (banalmente) vero che è quello su cui si costruirà il successo futuro di ogni marca.

Fare comunicazione dando per scontato che tutti sappiano cos’è Carosello può portare risultati immediati, ma dubito ne porterà in futuro.

Make the money work harder

Dopo lunga pausa estiva, riprende Biscomarketing pubblicando un mio articolo uscito sull’ultimo numero de “Il Mio Vino”.
E’ un po’ lungo, ma punto sul recupero di energie che spero abbiate fatto durante questa calda estate.
Prima dell’articolo una precisazione: qualche settimana fa un’amica mi ha chiesto come mai scrivo su “Il Mio Vino” ed il tono suonava circa “Cosa ci fa un tipo come te in un posto come quello?”. La ragione è molto semplice, seguivano il blog ed ad un certo punto mi hanno chiesto se potevano riprenderne i post (ricordo che questo blog pratica il copyleft). A quel punto io ho suggerito di scrivere dei contenuti originali (finchè mi vengono in mente argomenti), quindi scrivo su “Il Mio Vino” perchè sono stati i primi a chiedermelo. Ovviamente non seguo nessuna linea editoriale e sono totalmente libero nei contenuti.
Ed ecco di seguito l’articolo, con il suo titolo originale:
MAKE THE MONEY WORK HARDER
Chi mi conosce sa che cerco di limitare l’utilizzo dei termini inglesi ai casi cui è strettamente necessario, per l’effettiva mancanza dell’equivalente italiano.
Uno di questi casi è l’espressione “make your money work harder”. Si potrebbe tradurre come far “fruttare al massimo i propri soldi”, ma secondo me non rende appieno quell’idea di soldi che lavorano, delle gocce di sudore che cadono dalle banconote e dalle monete nello sforzo di produrre di più, dato un determinato investimento. Non si tratta tanto ( o solamente) di scegliere l’ottimale allocazione delle risorse finanziarie tra le diverse strategie di investimento possibili, si tratta soprattutto di realizzare le strategie in modo da spremere al massimo i soldi spesi.
Un esempio esterno al mondo del vino credo renda immediatamente chiaro il concetto: l’inserimento del logo della Apple sul retro dello schermo dei computer MacIntosch, logo che si illumina quando il computer è acceso. E’ un accorgimento che non aumenta i costi di produzione (o li aumenta in misura risibile), però trasforma ogni computer Mac in un potentissimo mezzo di comunicazione, attraverso cui si moltiplica la visibilità del marchio ed il posizionamento del marchio. La pubblicità intrinseca nella macchina crea delle sinergie con le altre forme di comunicazione realizzate dalla Apple e viceversa. In più crea una sorta di effetto “passaparola” per cui ogni utente dichiara al mondo, volente o nolente, “io sto utilizzando un computer Mac”. NdA: settimane dopo aver scritto questo pezzo, ieri ho visto su “La Stampa” la nuova pubblicità dell’HP Spectre Ultrabook che ha come claim “Non ti servono le parole per dire chi sei”. Peccato che poi l’aspetto del portatile ricalchi quello del notebook Apple ultrapiatto. Possibile che nell’elettronica nessuno sia capace di differenziarsi dall’immagine della Apple, risultando alla fine sempre e comunque dei followers? Se nella moda c’è mercato per il minimalismo di Armani e per il barocco di Versace perchè non dovrebbe essere così anche nell’elettronica?
Come e dove si può applicare questo principio al mondo del vino?
Durante lo scorso Vinitaly in un momento di leggero sadomasochismo ho sfogliato il numero dedicato alla fiera veronese di tutte le riviste della stampa specializzata e non, guardando la pubblicità delle cantine. Purtroppo ho trovato quello che mi aspettavo: la grande maggioranza degli annunci (compreso uno mio, da qui il sadomasochismo) non indicava la posizione dello stand all’interno della fiera.
E’ vero che molte di quelle pubblicità sono state realizzate indipendentemente dal Vinitaly e quindi perseguivano obiettivi di comunicazione diversi. E’ però altrettanto vero che l’attenzione di operatori ed appassionati di vino in quel momento e focalizzata al Vinitaly, aumentando quindi la visibilità di tutto quello che ne è collegato, pubblicità compresa, e, soprattutto, che è molto probabile che si trovino in fiera.
Evitare, o dimenticare, di fornire il riferimento dello stand è un’occasione persa, che riduce in partenza la resa potenziale dei soldi investiti nell’acquisto di quella pagina pubblicitaria.
Sicuramente errori e mosse vincenti fanno parte della vita di tutte le aziende, ma sarebbe sbagliato ridurre questi due esempi a semplice aneddotica perché sono in realtà indicatori di un metodo (o della sua assenza), ed è attraverso il metodo che sistematicamente si riducono gli errori di gestione.
E’ giusto quindi trarre alcuni principi generali per ottenere il massimo dalle proprie strategie:
1. Riuscire ad ottenere il massimo dai propri soldi è innanzitutto una questione di atteggiamento mentale e non implica necessariamente costi aggiuntivi. L’atteggiamento mentale consiste nella consapevolezza che ogni attività genera (potenzialmente) una molteplicità di risultati.
2. Il passaggio successivo consiste nell’analizzare con il maggior dettaglio possibile e da diversi punti di vista cosa succede quando una determinata attività viene, chi ne viene effettivamente toccato e come.
3. A questo punto si è in possesso degli elementi per immaginare quali altri risultati, oltre a quelli principali per cui è nata, l’attività è in grado di generare. L’immaginazione, o se preferite la creatività, è fondamentale perché normalmente la misurazione e la ricerca dell’efficienza si basa sul miglioramento della resa rispetto ai parametri esistenti piuttosto che sull’aggiunta di altri risultati.
4. Infine va pianificata la realizzazione delle modalità operative in modo da raggiungere tutti gli obiettivi possibili. Attenzione che qui il termine possibili vuole anche sottolineare la necessità evitare di mettere troppo carne al fuoco, con il risultato di non cucinare niente.
Teoria? Io credo che in questo momento nel settore del vino ci sia una situazione di grande spreco di risorse potenziali che riguarda le modalità di realizzazione delle azioni di promozione del vino sui mercati extra-comunitari co-finanziate con i fondi UE.
Non mi riferisco a come questi sono spesi, ai vari richiami a fare sistema o a concentrarsi maggiormente su certi mercati o su determinate aziende. Questi sono discorsi di politica economica che esulano dal tema di questo articolo.
Mi riferiscono invece ad ottenere di più dalle attività già adesso, sostanzialmente con gli attuali meccanismi e l’unica cosa che cambierei è l’obbligo di inserire in tutti i materiali realizzati per le attività finanziati con i fondi europei la dicitura “Progetto finanziato ai sensi del Reg ….” accompagnata dalle bandiere italiana e della comunità. Si tratta di una dicitura che non ha nessuna utilità, anzi nei paesi che sono anche produttori di vino rischia di venir percepita come una sorta di concorrenza sleale operata da parte dell’Unione Europea ai danni dei produttori nazionali.
Prevederei invece al suo posto l’obbligo di inserire un slogan di posizionamento dei vino italiano, o quanto meno dei vini europei, qualcosa tipo “Vini italiani: il gusto della vita” (tanto per buttare lì una frase che renda l’idea). In realtà non è questo il contesto in cui definire quali dovrebbe essere i valori portanti del posizionamento tra i tanti possibili: storia, cultura, tradizione, qualità, sicurezza, autenticità, diversità, abbinabilità con il cibo, ecc..
Il punto è che così facendo il costo di tutto quello spazio, oggi sprecato, diventerebbe immediatamente un veicolo per rafforzare il posizionamento dei vini dell’Unione Europea nella competizione con quelli provenienti da altri paesi del vecchio e nuovo mondo.
Per di più creando delle sinergie con la comunicazione aziendale o consortile, che rimane la parte principale dell’attività.
Un aumento della produttività degli investimenti che, soprattutto in questa fase di riduzione delle risorse, mi sembra più un dovere che un’opportunità.

Trend spotting

Questa settimana sono stato due giorni a Londra e per qualche strana congiunzione astrale il 2012 è l’anno in cui Londra mi piace, anche se c’erano 20 gradie la classica pioggerellina londinese (o magari proprio per questo arrivando dalla minima di 30 gradi di Trieste).

Confermando la sua fama di metropoli d’avanguardia, ho notato alcune cose che mi hanno incuriosito e potrebbero essere segnali di tendenze, eccole:

CROWD JOURNALIM

Le cose curiose ho iniziato a vederle sulla rivista di bordo di Ryanair. D’altra parte buona parte del presente che viviamo oggi lo dobbiamo anche alla visione del futuro di Ryanair riguardo ai viaggi in aereo, quindi non c’è da stupirsi che siano dei catalizzatori di tendenze.
Ecco quindi l’incipit della rubrica di viaggi dove sono i lettori a segnalare, tramite i social media, dove manadare il giornalista e cosa deve vedere. Oramai può sembrare quasi ovvio, ma è un bel cambiamento rispetto allo standard ancora prevalente per cui io lettore mi aspetto che un (presunto) esperto di viaggi mi consigli dove andare e cosa fare/vedere.
Qui l’esperto è sostituito dalle indicazione di normali turisti che nei posti ci sono già stati. Non so se tra le tante segnalazioni, la decisione di quale seguire sia semplicemente quantitativa (si sceglie il luogo suggerito da più persone) oppure se c’è una valutazione qualitativa del giornalista/redazione. Vedo già la perplessità di chi dubita che la “massa” posso dare indicazioni interessanti rispetto ad un esperto specializzato, da cui il conseguente rischio di banalizzazione.
Potrebbero anche aver ragione, se solo i contenuti editoriali delle riviste di viaggio (e non solo) fossere dettati da scelte squisitamente giornalistiche e non dalle attività di PR dei vari enti di turismo. Ai giornali prezzolati, preferisco il crowd journalism.
Che poi l’autore dell’articolo non fosse un giornalista in senso stretto, ma un comico/umorista mi sembra la perfetta chiusura del cerchio.

LE CURE DENTALI COME COMMODITY

Questo è veramente opera di Ryanair, perchè senza i voli low cost a nessuno verrebbe in mente di prendere un aereo per andare dal dentista.
Quindi, ricordando dagli studi di economia aziendale, un’area d’affari viene definita dalla triade prodotto-mercato-teconologia. Qui la tecnologia dei voli low cost ha potenzialmente allargato l’area d’affari “cure dentali” in termini geografici all’intero continente. Questo è un dato di fatto e rappresenta un segnale delle tendenze che, grazie a questa tecnologia, si potranno verificare anche in altre aree d’affari.
Ma la cosa stupefacente è l’atteggiamento del mercato, inteso come consumatore. Credo di aver già scritto da qualche parte su questo post che uno dei trend del marketing è, già da anni, la banalizzazione o commoditization dei prodotti, ma mai avrei immaginato che si sarebbe applicato anche alle cure dentali. Il dentista è un medico che ti fa male, da poco a tanto in proporzione alla sua bravura. Io non metterei mai la mia bocca nelle mani di uno sconosciuto e non riesco a capire se è il rispamio che crea la fiducia o se c’è anche una valutazione di fondo da parte del mercato (consumatori) che le cure dentali siano oramai un prodotto standard in U.K. come in Italia, Lettonia o Portogallo.
Giuro: fossi stato un dentista inglese, mai sarei preoccupato della concorrenza da altri paesi europei. Anche perchè il turismo dentale implica il superamento di altre barriere operative come la conoscenza delle lingue (almeno l’inglese) da entrambe la parti ed il tempo necessario per le cure. Forse il mio dentista sarà arretrato (Fabio: lo scrivo ai fini del post, ma non lo penso), ma non è che tutti gli interventi si possano fare in una sola seduta.
Magari è qui che Oporto ha un vantaggio competitivo sulla Lettonia, grazie alla maggiore offerta turistica. Infatti la loro pubblicità recita “Visita Oporto e torna a casa con un sorriso nuovo”, mentre i lettoni dicono “Perchè volare in Lettonia? Per le cure dentali ovviamente” (come se non ci fossero altri motivi; chissà cosa ne pensa l’ufficio turistico di Riga).
Mi rimane un’ultima perplessità: se poi il risultato non è quello voluto (i ponti traballano, le gengive fanno male ecc..) uno cosa fa? Riprende l’aereo?

PUBBLICITA’ DRITTA AL PUNTO

Questa è la pubblicità del mio nuovo cliente che serve i locali horeca nella zona di Londra. Mi è sembrato un esempio eccellente di call to action il “Contact us URGENTLY” e di reson why il “for the BEST price/service in town”. Poi bisogna mantenere la promessa, ma a questo ci pensa la cultura del lavoro degli indiani emigrati in U.K. di cui ho già scritto.

BACARDI CHI?

Facciamo finta che voi siate una multinazionale di liquori e distillati con un logo consolidato a livello mondiale, allestireste lo stand in una Fiera rivolta al settore horeca del Regio unito, uno dei principali mercati del bere miscelato, con un logo nuovo? Io direi di no e quindi non mi spiego questa scelta di Bacardi, soprattutto visto che non era supportata da alcuna comunicazione e sulla bottiglie di rum c’era il noto, solito, logo del pipistrello (meno male mi viene da dire).

VANTAGGI, NON CARATTERISCTICHE

Come le due foto di prima, anche questa è un esempio di marketing ben fatto, più che segnale di tendenza.
La nota, spesso dimenticata e sottovalutata, questione che il cliente acquista i vantaggi/servizi contenuti nelle caratteristiche del prodotto e non le caratteristiche in sè.
C’è chi se lo ricorda e ne fà il centro della propria porposta, bravi!

BEVANDE AROMATIZZATE
Qui non ho una foto perchè mi sono dimenticato la rivista in ufficio, però la dichiarazione di un operatore mi ha colpito talmente che me la ricordo a memoria “Il problema con la gente del vino e che parlano ai consumatori (alle persone, n.d.a.) partendo dal presupposto che siano totalmente coinvolti dal prodotto, mentre per la maggior parte delle persone il vino non è altro che una bevanda aromatizzata fatta con l’uva”. Questo lo dedico a Chiara Giovoni per il suo ultimo post sull’industria del vino.

Biscomarketing chiude per ferie (almeno lui). Ci si ritrova dopo ferragosto, buon riposo a tutti.