Melegatti batte Bauli 4 a 0 (almeno in quantità)

Lo so che avevo già fatto gli auguri e chiuso per ferie, ma poi sono andato a fare la spesa e vedere dal vivo le teorie messe in pratica mi affascina sempre.
Cosa ci fanno 4 pandori Bauli sull’espositore (si fa per dire) di quelli Melegatti?

Se aggiungo che nel piccolo supermercato Essepiù di Trieste – Roiano gli espositori di Bauli si trovavano vicino all’entrata, sono, con ogni probabilità, i pandori lasciati lì dai clienti che hanno cambiato la loro scelta di fronte all’espositore Melegatti che hanno trovato più avanti.

Sono i consumatori che hanno deciso che tra la marca Bauli a 3,49 euro/pezzo e la marca Melegatti a 2,49 euro/pezzo, la seconda era un’opzione migliore. Senza contare quei consumatori più diligenti (ci sono) che dopo aver cambiato scelta sono tornati a rimettere il pandoro Bauli al proprio posto.

I marketing delle due aziende a fine gennaio guarderanno i dati di vendita confrontando le rotazioni nei punti vendite dove erano presenti le due marche ai diversi livelli promozionali e vedranno se le loro strategie avranno raggiunto i risultati previsti. Magari saranno contente entrambe le aziende, Melegatti per l’aumento della quota di mercato e Bauli per la redditività (1 euro in più a questi livelli di prezzo non è poco).

Quello che a me è sembrato interessante è stato vedere nella pratica quanto gioca la tattica per prodotti fortemente stagionali come il pandoro. D’altra parte già quando lavoravo in Stock, i numeri della promozione natalizia di Limoncè dipendevano anche dal gradimento della grafica dell’astuccio di metallo realizzato per quell’anno (oggi, dopo un paio d’anni di astucci di cartoni, la bottiglia di Limoncè si presenta sullo scaffale “direttamente nuda”, ma questa è ancora un’altra storia).

Tornando a Bauli e Melegatti ed alla combinazione “immagine di marca+convenienza” vale anche la pena di ricordare le strategie pubblicitarie delle due aziende.
Bauli, che gode di un maggior “stock” di comunicazione dagli anni passati e dagli altri prodotti venduti nell’arco dell’anno continua ad utilizzare lo stesso spot da diversi anni, e se questo arriva a diventare argomento delle battute della Litizzetto a “Che tempo che fa” forse è arrivato il momento di chiedersi se non sia il caso di investire per rinnovare e rinforzare l’equity della marca (soprattutto se si vuole/deve sostenere un posizionamento di prezzo del 30% superiore ai concorrenti).
Melegatti invece propone un posizionamento completamente diverso con uno spot che mi ricorda quello di Illy a fine anni ’80 (quello di mio papa diceva qui si offre solo il meglio”. Anche in questo caso lo spot si svolge in una famiglia di italo-americani, allo stesso tempo custodi ed ambasciatori dell’eccellenza alimentare italiana.
Anche lo spot Melegatti non è nuovo, però appare sicuramente meno datato (anche in termini di messaggio) di quello di Bauli.
Che strategie ci attendono per l’anno prossimo? Bauli cercherà di recuperare quote investendo in comunicazione o in promozione? Melegatti cercherà di alzare il proprio posizionamento di prezzo sostenendolo con più pubblicità oppure tornando all’utilizzo del concorso a premi?
Magari si presenterà qualche nuovo competitor con un prodotto diverso.
Uno dei ricordi dei miei Natali bambino è quello del pandoro (Melegatti ovviamente, non c’era altro) portato apposta per me, unico a cui non piaceva il panettone per via di canditi ed uvette. Adesso è il contrario: quando e perchè c’è stato il sorpasso del pandoro sul panettone?

Mangiate quello che volete e passate un lieto Natale.

Ancora sul futuro delle agenzie pubblicitarie

Oggi due post (è festa).

In realtà questo era quello previsto ed è una specie di seguito di quello dello scorso 11 novembre (il tempo non corre, galoppa).

In qurl post c’erano due concetti che mi sembravano meritassero un approfondimento. Il primo è come opera il modello AIDA nell’attuale scenario di frammentazione dei mezzi di comunicazione e dei luoghi/occasioni di consumo/acquisto.

Mi chiedo se non ho liquidato troppo sbrigativamente la questione “tecnica” sull’altere della solidità teorica dei frlussi mentale attraverso i 4 stadi attenzione-interesse-desiderio-azione.

Riflettendoci in queste settimane ho l’impressione che gli attivatori dell’AIDA (i triggers per parlare come i profesionisti) derivino sempre meno dalla specifica attività pubblicitaria ed anche dalla comunicazione in generale. Questo probabilmente implica la necessità della presenza di un substrato di percezione della marca/prodotto su cui si innestino gli attivatori provenienti dall’ambiente. Ha un senso? Mi sto avvicinando all’idea dei persuasori occulti dopo aver passato anni a contestare le tesi di Packard?

L’altra concetto che credo meriti un’ulteriore riflessione è il rapporto tra marketing e vendite, anche perchè una definizione sintetica, semplice ed elegante del marketing è sempre utile.

Le strategie di marketing hanno l’obiettivo di far sì che sia il consumatore a comprare e non l’azienda a vendere.

Nuovamente persuasione occulta? Sicuramente una cosa diversa da quanto fanno oggi la grandissima magigoranza delle aziende.

Un’ultima considerazione dettata dai dati sul mercato pubblicitario in Italia usciti in queste settimane (li trovate riportati ed ottimamente commentati nel blog Il Giornalaio di Pier Luca Santoro): nel periodo gennaio-settembre 2012 gli investimenti pubblicitari in Italia sono calati di 720 milioni di euro. Questo significa circa 35 milioni in meno di fatturato delle agenzie.

Una cifra, che al di là di tutti i ragionamenti, deve spingere le agenzie di pubblicità a trovare nuove strade.

Quale futuro per le agenzie pubblicitarie?

Dopo l’ennesimo intermezzo sul sistema del vino dello scorso 4 novembre, eccomi come promesso con il seguito del post sul futuro della pubblicità, pubblicato lo scorso 28 ottobre.

Salterò a piè pare l’interessante questione del futuro del giornalismo, buttata lì come nota di colore e che ha suscitato il commento di Diego. Opinioni ed informazioni più qualificate delle mie le potete trovare sul blog “Il Giornalaio” di Pier Luca Santoro e l’articolazione del il mio punto di vista l’ho data in un post del 2008 (non so perchè, ma ho come la sensazione di aver già scritto questa cosa da qualche parte).

Vado quindi all’argomento del futuro delle agenzie pubblicitarie in uno scenario di declino (dei consumi) di pubblicità, e lo faccio partendo dal modello AIDA (Attention-Interest-Desire-Action). Dopo aver letto il post un’amico (sempre lui) mi ha detto che nell’attuale contesto di frammentazione dell’uso dei mezzi di comunicazione il modello AIDA non vale più perchè gli stimoli che attivano i diversi livelli del processo non arrivano più alle persone in modo univoco e lineare. Io concordo con lui solo sull’ultima parte del ragionamento.
Dal punto di vista dei processi di comportamento continuo a credere che le persone debbano passare attraverso i livelli del modello AIDA quando fanno qualcosa e se abbiamo l’impressione che si tratti di un modello lineare ad imbuto è solo perchè nella pratica del marketing è stato applicato in tempi in cui gli scenari competitivi (la società) era più semplice e quindi le risposte agli stimoli più dirette.
Esempio 1: confeziono il formaggio Philadelphia Kraft in una scatolina di legno grezzo ed “automaticamente” aumento le vendite. La scatolina mi porta ad avere maggior visibilità sullo scaffale (attention), dare una percezione di genuinità (interest), farmi venir voglia di mangiarlo (desire) e comprarlo (action).
Questo però non significa che anche in passato il modello AIDA potesse realizzarsi anche in assenza di pubblicità, attraverso il passaparola, vedere una cosa per strada ecc.., con tempi indeterminati e magari circolari che tornavano ad attivare i diversi livelli AIDA rimasti sospesi.
E oggi? Oggi la norma sta diventando/è ricevere stimoli da fonti diverse su mezzi diversi ed è per questo che nel mio post precedente parlavo del fatto che la pubblicità non è più in grado di esaurire tutto il processo del modello AIDA, ma può svolgere un ruolo di attivatore (o ri-attivatore) dei vari livelli. Dovrà quindi articolarsi con gli altri (nuovi) strumenti.
Attenzione, ho detto “strumenti”, perchè i principi non cambiano. Ed analizzare la combinazione principi/strumenti è fondamentale per non fare errori.
Esempio 2: La pubblicità di un’azienda nella colonna di destra di facebook (ovvio che finivo lì) è una fonte diversa dal pensiero sullo stesso prodotto/servizio scritto da un nostro amico che appare di fianco. Allo stesso tempo però condividere lo stesso mezzo, dà a quella pubblicità un valore diverso rispetto ad un annuncio sul giornale, se non altro perchè mi permette immediatamente di approfondire il mio interesse per quello che viene pubblicizzato, aumentare il desiderio attraverso le informazioni che posso raccogliere e passare all’azione di acquisto tramite l’e-commerce.
E mi sono limitato solo ad un media del digitale, senza allargarmi a QR codes, Groupon e simili, Twitter, ecc…

Quindi la prima direttrice di sviluppo futuro/sopravvivenza per le agenzie è quello di passare dalla pubblicità alla COMUNICAZIONE. Ma questo non è nè nuovo, anche se non basta cambiare “Agenzia di pubblicità” con “Agenzia di comunicazione” per cambiare il servizio offerto ai clienti, nè sufficiente.

Proprio la frammentazione dei mezzi e la perdità di efficacia della pubblicità ha fatto crescere negli utlimi anni gli investimenti in attività di Pubbliche Relazioni, a loro volta frammentate su più mezzi. Ora faccio una domanda: la sponsorizzazione del lancio con paracadute dalla stratosfera da parte della Red Bull è pubblicità o sono pubbliche relazioni? Boh! La cosa importante è che è un’attività che rafforza il posizionamento perseguito dalla marca con diversi strumenti che, nel caso della Red Bull, vanno (a scendere) dagli sport estremissimi, a quelli estremi, a quelli avventuro/ludici, alla pubblicità.
In questo scenario, se l’agenzia di pubblicità si limita solo alla pubblicità sta perdendo buona parte del business potenziale.

L’altro giorno una persona mi ha detto una cosa che gli hanno insegnato ad un corso per venditori: tu incominci a vendere da quando il consumatore dice che non gli interessa il prodotto. Viceversa non sei tu che stai vendendo, è lui/lei che sta comprando. Ovvio, ma illuminante.

Tornando al modello AIDA, la pratica del marketing l’ha legato finora esclusivamente o soprattutto all’attività pubblicitaria e comunicazione, ma la capacità di un prodotto/servizio di attivare il ciclo Attenzione-Interesse-Desiderio-Azione risiede principalmente nei benefit che è in grado di promettere (e mantenere) ai consumatori. In altri termini nella capacità di rappresentare e sostenere un pozionamento. Che è poi lo scopo del marketing.

Utilizzando la terminologia del corso per venditori, il prodotto perfetto è quello che non viene venduto dall’azienda, ma comprato dal consumatore.

Ecco perchè secondo me il futuro delle agenzie di pubblicità è il ritorno al passato dell’agenzia a servizio completo. Quella che insieme al cliente (o da sola se il cliente non era in grado) realizzava l’analisi dello scenario competitivo, definiva l’identità di marca, il concetto di prodotto, coordinava l’attività di comunicazione e di acquisto dei mezzi in modo coerente (funzione che l’attuale frammentazione dovrebbe rendere oggi più importante che in passato), indicava le linee guida distributive e realizzava le attività promozionali.

Vedo questo futuro sia guardandolo dalla parte delle agenzie (o ritornano a coprire altri ambiti oltre a quello specifico della pubblicità oppure faticheranno ad uscire dalla crisi) si guardandolo dalla parte dei clienti, che non hanno la dimensione e/o le competenze e/o il tempo per sviluppare e gestire autonomamente le strategie di marketing.

A questo punto le questioni sono due: le agenzie pubblicitarie hanno le competenze e la cultura necessaria per (tornare ad) essere agenzie di marketing? I clienti sono disposti a pagare queste competenze come facevano in passato?

Quale futuro per la pubblicità?

L’altro giorno mi hanno detto che sembro/sono presuntuoso. Storia vecchia. La cosa curiosa per me è che in ambito lavorativo questa valutazione (negativa) mi è stata data spesso da chi stava a livelli gerarchici superiori al mio, raramente da chi si trovava allo stesso livello e quasi mai da chi rispondeva a me più o meno direttamente (intendo sia colleghi che agenzie e consulenti).
Questa valutazione non derivava dal millantare del credito, bensì dall’atteggiamento professorale nella convinzione/certezza delle mie competenze, che ostacolava i rapporti con i colleghi. La conseguenza era un invito ad essere più terra-terra per rendermi più accessibile. E questa per me è la cosa più curiosa perchè non riesco ad immaginare niente di più presuntuoso e poco rispettoso delle persone che accondiscendere a semplificare il proprio comportamento per “abbassarsi” (lo metto tra virgolette perchè non condivido il concetto in assoluto) al loro livello.
Cosa c’entra questa (auto)analisi da dilettanti con il futuro della pubblicità? E’ che mi è successo troppe volte di vedere scartare delle campagne pubblicitarie con il giudizio: “E’ bella, ma il consumatore non la capirebbe” da non pensare che la pubblicità dovrebbe essere meno presuntuosa nel giudicare il proprio pubblico.
Metto un attimo da parte questo concetto, per riprenderlo dopo aver inserito il secondo spunto di queste mie riflessioni. L’altro giorno (è stato un giorno intenso) stavo parlando con un amico importante dirigente di un’importante agenzia italiana, parte di un importante gruppo pubblicitario multinazionale che ha fatto, sintetizzanto, questa riflessione:
“se la pubblicità lavora sull’orientamento delle preferenze rispetto alla scelte fatte dal consumatore ad un livello superiore in termini decisionali (vero n.d.a.) qual’è il suo ruolo in una scenario di drastica riduzione dei consumi?”.
Detto in altre parole più semplici (più vicine a quelle che ha usato lui) se lo scopo della pubblicità è quello di orientare le scelte dei consumatori verso l’automobile B piuttosto che all’automobile A, quale diventa il suo ruolo quando le persone smettono di acquistare le automobili?
E’ opinione comune che viviamo in tempi di cambiamento (l’aveva già detto Eraclito) e, secondo me, il modo migliore per affrontarli è tornare ai fondametali. E nel marketing i fondamentali resta Philip Kotler, il suo libro Marketing Management e le famose 4P.
Nell’impostazione kotleriana la pubblicità rientra nella “P” di promotion. Forse si è trattato di una scelta dettata dall’eleganza della solida coerenza insita nel concetto “4P” (“4P + 1A” di avertising non avrebbe avuto onestamente la stessa efficacia comunicativa) però credo che l’eleganza non sia mai casuale e l’estetica costruisca (almeno in parte) la propria etica.
Quindi parto dalla funzione di promotion, che Kotler divide in due macro strategie: quelle che forniscono incentivi all’aquisto e quelle che forniscono ragioni all’acquisto. Il tecnicismo di ricondurre gli incentivi all’acquisto alle attività di promozioni di vendita e le ragioni all’acquisto alle attività di comunicazione, ossia pubblicità, pubbliche relazioni ed argomentazioni di vendita utilizzate da un venditore nella vendita diretta ad un consumatore, non modifica le due funzioni che il concetto di “promotion” svolge nei confronti dei consumatori.
Il futuro della pubblicità quindi, secondo me, sta nell’assolvere l’una o l’altra funzione, fornire sia incentivi che ragioni all’acquisto, sempre secondo il classico paradigma del processo A.I.D.A.: attention-interest-desire-action
L’esempio tipico della pubblicità che fornisce incentivo all’acquisto sono gli spot di LIDL trasmessi la domenica per annunciare le promozioni in corso da lunedì. In questi casi i meccanismi sono piuttosto semplici e diretti perchè gli elementi di attenzione-interesse-desiderio-azione risiedono in grandissima parte sull’attrattività dell’offerta.
Fornire con successo ragioni all’acquisto è diventato invece sempre più difficile, sia perchè dal lato dell’offerta aumenta la sostituibilità tra prodotti di marche diverse (riduzione del contenuto innovativo), sia perchè la proliferazione dei media rende neccessario l’utilizzo di un sistema di comunicazione articolato su più fonti. Si è passati da una situazione in cui la pubblicità poteva tranquillamente esaurire tutta la strategia di comunicazione ad una in cui ne è, sempre più spesso, solo l’attivatore.
Ecco che in questo contesto l’eccessiva ricerca di semplificazione, per presunzione nei confronti del consumatore di cui sopra, rischia facilmente di trasformarsi in banalizzazione e quindi di non ottenere l’attenzione o di non suscitare poi l’interesse.
Come il futuro dei giornali di carta a poco a che vedere con il futuro del giornalismo, così il futuro della pubblicità ha poco a che vedere con il futuro delle agenzie pubblicitarie.
Ma per oggi carne al fuoco ce n’è a sufficienza e quindi lascio questo argomento per la prossima volta.

WOW! EFFECT

Valutare la creatività non è mai una cosa semplice.
Il rischio di perseguire l’originalità e l’estetica fini a se stesse, senza veri contenuti e valori distintivi, è sempre in agguato. Con l’aggravante che proposte vacue, proprio per la loro mancanza di sostanza, si prestano ad essere razionalizzate come si vuole a posteriori in modo da (auto)convincersi che si tratta della trovata del secolo (vedi il mio post della scorsa settimana).
Anni fa una delle grandi agenzie pubblicitarie italiane venne in azienda a presentare le proposte per la nuova campagna pubblicitaria di una delle nostre marche più importanti. Dopo un quaranta minuti buoni di presentazione delle 3 proposte io espressi i miei dubbi perchè mi sembrava che non centrassero gli obiettivi della comunicazione, erano intrinsecamente poco coerenti, confuse e, soprattutto, artificiali e farraginose.
Il direttore clienti che guidava il gruppo, non potendo dire che ero scemo, disse di non preoccuparmi, che tutte le perplessità si sarebbero risolte quando avremmo effettivamente prodotto lo spot e che il problema era solo dovuto al fatto che, ricordo ancora le parole, “.. la lingua italiana non ha abbastanza parole per esprimere con chiarezza i concetti delle proposte”. Risultato: non fatta la campagna e cambiato agenzia.
Eppure è questo il modo più diffuso di presentare e valutare la creatività: sintesi degli obiettivi, spiegazione del ragionamento fatto dall’agenzia per lo sviluppo delle proposte, presentazione delle proposte, razionalizzazione di come le proposte rispondono agli obiettivi da cui si è partiti. Vale per le campagne pubblicitarie, quelle promozionali, il design dei prodotti, degli stand alle fiere, ecc…). I rischio di perdersi nel puro ragionamento o, peggio, nella soggettività sono altissimi.
Io da anni uso un’altro metodo che nel tempo è diventato quasi un segreto professionale, visto quanto poco è diffuso. Lo condivido volentieri sul blog, convinto della bontà della co-opetizione e sperando che il detto “you get what you give” sia vero.
Anche perchè anch’io l’ho imparato da qualcuno. Esattamente da un designer venuto, un paio di mesi dopo l’agenzia di pubblicità, a presentare le proposte per un nuovo packaging che gli avevo affidato.
Invece di cominciare a spiegare cosa ci avrebbe mostrato, cominciò a mostrarci (c’era ovviamente tutto l’ufficio marketing) le diverse proposte (5 o 6 se non ricordo male) per un paio di minuti senza dire niente.
Aspettava di vedere quale etichetta avrebbe suscitato il WOW! effect. Erano tutte valide, ma per un paio la reazione del gruppo era stata un (silenzioso) WOW.
Solo dopo siamo passati all’analisi “tecnica” di tutte le proposte, identificati i punti di forza e di debolezza e deciso su quali andare avanti per un affinamento.
Giustamente l’etichetta finalizzata presentava delle differenze (miglioramenti) rispetto alla prima proposta, mantenendo però il concetto che ci aveva fatto dire WOW!.
Da quella volta io evito sempre (se possibile) di analizzare il processo prima di vedere il risultato, e mi affido al WOW effect.
Potrebbe sembrare soggettivo, ma non lo è. Una proposta fondamentalmente valida, che coglie ed interpreta nel modo giusto gli obiettivi valorizzandoli anche se è in nuce, suscita un convinzione immediata nella grandissima maggioranza delle persone (consiglio sempre di fare queste cose in un gruppo di lavoro).
E’ un metodo che consiglio, con l’avvertenza che richiede disciplina ed è molto darwinistico nel valutare le idee: se non c’è nessun WOW, bisogna ricominciare daccapo (oppure cambiare agenzia).

Rassegna pubblicitaria, ovvero Carosello.

Ho come l’impression che quest’anno ilreintro all’attività post vacanze sia un po’ più rallentato del solito. Forse perchè le vacanze si sno ridotte (se non eliminate) e siamo tutti più stanchi.
Ad ogni modo vedo di contribuire ad un rientro soft con un post leggero di segnalazione/commento di alcune campagne pubblicitarie che ho sentito e visto recentemente.

CERULISINA: premetto che non sono molto amico del marketing farmaceutico, meno che meno quando la strategia di fondo è quella di “curare i sani”, cosa molto diversa dalla prevenzione.
Però credo che anche se fossi un fervente sostenitore dell’industria farmaceutica difficilmente potrei giudicare meno che terribile questo spot cantato sulla musica di “Bididi Bodidi Bu” del film Cenerentola di Walt Disney. La cigliegina sulla torta, si fa per dire, è l’introduzione della bambina che chiede alla mamma di raccontarli una storia. C’è davvero un target per una comunicazione con questo stile e questi contenuti ed io dopo tanti anni sono diventato uno snob pubblicitariamente parlando? Per completezza dell’informazione l’agenzia è la ADV Activa di Milano.

PROCTER & GAMBLE E LE MAMME: è da qualche mese che la Procter & Gamble si sta posizionando come “sponsor delle mamme”. In occasione delle olimpiadi ha trasmesso due spot. Il primo non l’avevo visto mentre il secondo è quello che mi ha colpito negativamente per la banalità. Sugli spot ho poco da aggiungere alla precisione dell’analisi fatta da Giovanna Cosenza nel suo blog, segnalo solo che gli spot che trovate ai link di cui sopra sono quelli della versione director’s cut, ben più lunga dei 30″ e 15″ che vanno in onda in TV.
Il posizionamento invece mi stupisce un po’ almeno in Italia (va ricordato che si tratta di una campagna mondiale). Se la domanda sul target dello spot Cerulisina era poco retorica, in questo caso lo è anche meno, ma davvero è efficace questo posizionamento da mamma anni ’50. Ossia io mamma mi sento gratificata dal riconoscimento che le marche P&G fanno al mio essere mamma e quindi acquisto quei prodotti? Mi sembra di essere tornato ai tempi di Beniamino Gigli (già ai suoi tempi “quelle parole non si usavano più”). Per completezza in termini di marketing, va sottolineata la novità della scelta di P&G di utilizzare il marchio corporate come marchio ombrello. Un cambio di strategia non da poco per l’azienda che ha fatto la storia del brand management, seguito (o forse anticipato) dal loro principale competitor Unilever.

ACQUA LETE E POLTRONE E SOFA’: cosa mi fa accumunare due spot così diversi sia in termini di realizzazione che di prodotto? Il cambio di posizionamento che spreca gli investimenti precedenti invece di sfruttarli (vedi il mio post della settimana scorsa). Sono infatti convinto che le strategie efficaci si basino su un’evoluzione dei posizionamenti delle marche che crescono aggiungendo nuovi valori e stili a quelli precedenti.
A parte che “amigo sei figo” mi sembra un tentativo mal riuscito di creare un tormentone tipo “o così o pomì” o “chi c’è c’è, chi non c’è non c’è”, ma cosa c’entra con la particella di sodio solitaria? Magari quello non funzionava, però non c’era il modo di sfruttare un po’ di anni di pianificazione pubblicitaria? Lo stesso discorso vale per la nuova campagna di Poltrone & Sofà che è passata da un posizionamento “Beato che se lo fà ..er sofà” (appena un scalino sopra a “la patatina tira” di Amica Chips”) al nuovo “Artigiani della qualità”. Il fatto che non abbiano cambiato testimonial indebolisce ulteriormente la credibilità del nuovo posizionamento, ma forse su questa scelta pesa la vertenza tra la Ferilli e l’azienda (come sia finita non lo so, ma certo che risolvere un problema da eccessivo sfruttamento di immagine, legandosi ad una nuova campagna dello stesso prodotto non mi sembra una gran soluzione).

COCA COLA – CENIAMO INSIEME: quando la Coca Cola fa un nuovo spot, chiunque si occupi di marketing deve drizzare le orecchie, ed infatti ho già parlato a suo tempo della campagna 2010. Se ci aggiungete che già nel 2006 in Stock volevo fare una concorso rivolto al consumatore basato sul concetto di “uno chef a casa tua” (realizzato quest’anno da Santa Margherita) e che nel 2010 in santa Margherita avevamo contatto Simone Rugiati per una nostra iniziativa (tutta la parte femminile del mio staff era d’accordo, ma i costi erano troppo elevati), capite perchè l’ultima campagna della Coca Cola non poteva sfuggirmi.
In termini strategici è il contrario degli esempi Lete e Poltrone e Sofà perchè costruisce sul concetto della felicità in tavola costruito nella campagna precedente. Sarà (l’ennesimo) successo? L’unico rischio che vedo è la perdità di semplicità nel legarsi ad un concetto di pasto troppo sofisticato. Vero è che l’ambientazione stressa il divertimento e la convivialità, mentre Rugiati ha un’alone di simpatia unico tra gli chef celebri. In questo caso confesso un po’ di invidia di budget.

LA SETTIMANA ENIGMISTICA: il mondo cambia ed i tempi sono duri per tutti, anche per la settimana enigmistica che si trova costretta a farsi pubblicità (cosa impensabile solo 5 anni fa). La campagna 2012 è un egregio esempio di eccellente comunicazione sia in termini di posizionamento che di realizzazione. Ammiro le idee creative così forti e chiare da poter essere realizzate con produzioni economiche. Ancora di più quando funzionano perfettamente in un 15″, così si riesce a risparmiare anche nella pianificazione.
L’unico dubbio che mi è venuto guardando questo spot è: sotto i 35 anni capiranno il concetto del filo tirato che “dà la carica”?.

Come quelle precedenti è una domanda vera, non retorica. Perchè in generale vedo poche campagne che possano interessare il pubblico sotto i trent’anni. e’ vero che il più difficile, ma è anche (banalmente) vero che è quello su cui si costruirà il successo futuro di ogni marca.

Fare comunicazione dando per scontato che tutti sappiano cos’è Carosello può portare risultati immediati, ma dubito ne porterà in futuro.

Make the money work harder

Dopo lunga pausa estiva, riprende Biscomarketing pubblicando un mio articolo uscito sull’ultimo numero de “Il Mio Vino”.
E’ un po’ lungo, ma punto sul recupero di energie che spero abbiate fatto durante questa calda estate.
Prima dell’articolo una precisazione: qualche settimana fa un’amica mi ha chiesto come mai scrivo su “Il Mio Vino” ed il tono suonava circa “Cosa ci fa un tipo come te in un posto come quello?”. La ragione è molto semplice, seguivano il blog ed ad un certo punto mi hanno chiesto se potevano riprenderne i post (ricordo che questo blog pratica il copyleft). A quel punto io ho suggerito di scrivere dei contenuti originali (finchè mi vengono in mente argomenti), quindi scrivo su “Il Mio Vino” perchè sono stati i primi a chiedermelo. Ovviamente non seguo nessuna linea editoriale e sono totalmente libero nei contenuti.
Ed ecco di seguito l’articolo, con il suo titolo originale:
MAKE THE MONEY WORK HARDER
Chi mi conosce sa che cerco di limitare l’utilizzo dei termini inglesi ai casi cui è strettamente necessario, per l’effettiva mancanza dell’equivalente italiano.
Uno di questi casi è l’espressione “make your money work harder”. Si potrebbe tradurre come far “fruttare al massimo i propri soldi”, ma secondo me non rende appieno quell’idea di soldi che lavorano, delle gocce di sudore che cadono dalle banconote e dalle monete nello sforzo di produrre di più, dato un determinato investimento. Non si tratta tanto ( o solamente) di scegliere l’ottimale allocazione delle risorse finanziarie tra le diverse strategie di investimento possibili, si tratta soprattutto di realizzare le strategie in modo da spremere al massimo i soldi spesi.
Un esempio esterno al mondo del vino credo renda immediatamente chiaro il concetto: l’inserimento del logo della Apple sul retro dello schermo dei computer MacIntosch, logo che si illumina quando il computer è acceso. E’ un accorgimento che non aumenta i costi di produzione (o li aumenta in misura risibile), però trasforma ogni computer Mac in un potentissimo mezzo di comunicazione, attraverso cui si moltiplica la visibilità del marchio ed il posizionamento del marchio. La pubblicità intrinseca nella macchina crea delle sinergie con le altre forme di comunicazione realizzate dalla Apple e viceversa. In più crea una sorta di effetto “passaparola” per cui ogni utente dichiara al mondo, volente o nolente, “io sto utilizzando un computer Mac”. NdA: settimane dopo aver scritto questo pezzo, ieri ho visto su “La Stampa” la nuova pubblicità dell’HP Spectre Ultrabook che ha come claim “Non ti servono le parole per dire chi sei”. Peccato che poi l’aspetto del portatile ricalchi quello del notebook Apple ultrapiatto. Possibile che nell’elettronica nessuno sia capace di differenziarsi dall’immagine della Apple, risultando alla fine sempre e comunque dei followers? Se nella moda c’è mercato per il minimalismo di Armani e per il barocco di Versace perchè non dovrebbe essere così anche nell’elettronica?
Come e dove si può applicare questo principio al mondo del vino?
Durante lo scorso Vinitaly in un momento di leggero sadomasochismo ho sfogliato il numero dedicato alla fiera veronese di tutte le riviste della stampa specializzata e non, guardando la pubblicità delle cantine. Purtroppo ho trovato quello che mi aspettavo: la grande maggioranza degli annunci (compreso uno mio, da qui il sadomasochismo) non indicava la posizione dello stand all’interno della fiera.
E’ vero che molte di quelle pubblicità sono state realizzate indipendentemente dal Vinitaly e quindi perseguivano obiettivi di comunicazione diversi. E’ però altrettanto vero che l’attenzione di operatori ed appassionati di vino in quel momento e focalizzata al Vinitaly, aumentando quindi la visibilità di tutto quello che ne è collegato, pubblicità compresa, e, soprattutto, che è molto probabile che si trovino in fiera.
Evitare, o dimenticare, di fornire il riferimento dello stand è un’occasione persa, che riduce in partenza la resa potenziale dei soldi investiti nell’acquisto di quella pagina pubblicitaria.
Sicuramente errori e mosse vincenti fanno parte della vita di tutte le aziende, ma sarebbe sbagliato ridurre questi due esempi a semplice aneddotica perché sono in realtà indicatori di un metodo (o della sua assenza), ed è attraverso il metodo che sistematicamente si riducono gli errori di gestione.
E’ giusto quindi trarre alcuni principi generali per ottenere il massimo dalle proprie strategie:
1. Riuscire ad ottenere il massimo dai propri soldi è innanzitutto una questione di atteggiamento mentale e non implica necessariamente costi aggiuntivi. L’atteggiamento mentale consiste nella consapevolezza che ogni attività genera (potenzialmente) una molteplicità di risultati.
2. Il passaggio successivo consiste nell’analizzare con il maggior dettaglio possibile e da diversi punti di vista cosa succede quando una determinata attività viene, chi ne viene effettivamente toccato e come.
3. A questo punto si è in possesso degli elementi per immaginare quali altri risultati, oltre a quelli principali per cui è nata, l’attività è in grado di generare. L’immaginazione, o se preferite la creatività, è fondamentale perché normalmente la misurazione e la ricerca dell’efficienza si basa sul miglioramento della resa rispetto ai parametri esistenti piuttosto che sull’aggiunta di altri risultati.
4. Infine va pianificata la realizzazione delle modalità operative in modo da raggiungere tutti gli obiettivi possibili. Attenzione che qui il termine possibili vuole anche sottolineare la necessità evitare di mettere troppo carne al fuoco, con il risultato di non cucinare niente.
Teoria? Io credo che in questo momento nel settore del vino ci sia una situazione di grande spreco di risorse potenziali che riguarda le modalità di realizzazione delle azioni di promozione del vino sui mercati extra-comunitari co-finanziate con i fondi UE.
Non mi riferisco a come questi sono spesi, ai vari richiami a fare sistema o a concentrarsi maggiormente su certi mercati o su determinate aziende. Questi sono discorsi di politica economica che esulano dal tema di questo articolo.
Mi riferiscono invece ad ottenere di più dalle attività già adesso, sostanzialmente con gli attuali meccanismi e l’unica cosa che cambierei è l’obbligo di inserire in tutti i materiali realizzati per le attività finanziati con i fondi europei la dicitura “Progetto finanziato ai sensi del Reg ….” accompagnata dalle bandiere italiana e della comunità. Si tratta di una dicitura che non ha nessuna utilità, anzi nei paesi che sono anche produttori di vino rischia di venir percepita come una sorta di concorrenza sleale operata da parte dell’Unione Europea ai danni dei produttori nazionali.
Prevederei invece al suo posto l’obbligo di inserire un slogan di posizionamento dei vino italiano, o quanto meno dei vini europei, qualcosa tipo “Vini italiani: il gusto della vita” (tanto per buttare lì una frase che renda l’idea). In realtà non è questo il contesto in cui definire quali dovrebbe essere i valori portanti del posizionamento tra i tanti possibili: storia, cultura, tradizione, qualità, sicurezza, autenticità, diversità, abbinabilità con il cibo, ecc..
Il punto è che così facendo il costo di tutto quello spazio, oggi sprecato, diventerebbe immediatamente un veicolo per rafforzare il posizionamento dei vini dell’Unione Europea nella competizione con quelli provenienti da altri paesi del vecchio e nuovo mondo.
Per di più creando delle sinergie con la comunicazione aziendale o consortile, che rimane la parte principale dell’attività.
Un aumento della produttività degli investimenti che, soprattutto in questa fase di riduzione delle risorse, mi sembra più un dovere che un’opportunità.

Precisetti

Lo so che avevo promesso la seconda parte del tema “C’è un sistema per fare sistema”, però è estate anche per i blogger, oltre che per chi li legge.
Il tempo è sempre poco e si riduce ancora di più se uno pèassa un mezzo pomeriggio al mare (d’altra parte con questo caldo, abitando a Trieste, non farlo sarebbe un’assurdità).

Allora rimando i ragionamenti sui massimi sistemi sine die, ma ci torno prometto, e metto il blog in modalità estiva con i classici pensieri in libertà su un paio di pubblicità recenti.

La prima l’ho sentita in radio venerdì ed è la nuova campagna di Europ Assistance. Ora non posso essere sicuro perchè non sono riuscito a riascoltarlo, però mi pare che ad un certo punto dica di “…quella volta in turchia con il dottore che parlva arabo”. Ora, se fosse vero, capisco che il “parlar arabo” è un archetipo che ha una sua efficacia intrinseca, ma perchè non usare la Tunisia, che è una meta esotica dai tempi di “Poster” di Baglioni.

Ho già sottolineato il 30 marzo 2009 (tempus fugit)che distinguere tra falce messoria e falce da foraggio è forse eccessiva pignoleria, però quella tra i turco e l’arabo mi sembra una differenza abbastanza macroscopica.

Se trovate lo spot sul web, per cortesia segnalatemelo così verifico. In realtà però questo dettaglio da precisetti forse non è poi così importante, perchè cercando lo spot sul web ho trovato una serie di cose curiose:
1. sulla rete si trovano vari blog che riportano la campagna stampa, nessuno che riporti quella web e quella radio (problemi di diritti?).
2. Nella campagna stampa si invita a seguire Europe Assistance su facebook, peccato che sul sito non ci sia alcun pulsante di collegamento diretto con la pagina facebook.
3. Andando su facebook con un minimo impegno (ma perchè un cliente normale dovrebbe metterci dell’impegno anche minimo?) ho trovato la pagina di Europe Assistance Italia, ma anche qui niente campagne web e radio.

Per la cronaca la campagna è stata realizzata dall’agenzia Publicis, mentre PR on e off line sono curate dall’agenzia weber shandwick.

La seconda l’ho vista oggi al mare leggendo l’ultimo numero dell’Internazionale: è la campagna delle auto Honda “super formula relax”. Non è firmata e non sono riuscito a scoprire qual’è l’agenzia però devo ringraziarli perchè mi hanno rubato un sorriso di dolce nostalgia quando ho letto la call to action a fondo pagina: “GUIDALE E RITIRA SUBITO IL SIMPATICO OMAGGIO”. L’ultima volta che ho visto l’espressione “simpatico omaggio” sarà stato vent’anni fa.

Si vede che è estate anche per i creativi.

State freschi se potete.

Malati di Marketing

Questo post lo stavo scrivendo la sera prima del Vinitaly, quando un viros mi ha bloccato il computer per i 4 giorni successivi.

Poco male perchè, malgrado i commenti al Vinitaly 2012 di giovedì scorso, il blog continua ad essere abbastanza slegato dall’attualità.

Tutto nasce da questa pagina pubblicitaria del nostro Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG “Vini dei Cardinali”, uscita lunedì 26 marzo sullo speciale del Corriere della Sera dedicato al Vinitaly.

La settimana prima della pubblicazione ho mostrato la bozza ad un giovane ex stagista passato a collega per una sostituzione maternità, chiedendogli cosa ne pensava.
Matteo: “Peccato di gola, sì suona bene, ma perchè?”
Lorenzo: “Perchè si collega a Vini dei Cardinali”
Matteo: “Aahh”
Lorenzo: “Sì forse è un claim un po’ troppo alimentare, però secondo me ci sta”

Andiamo avanti a parlare di altre cose e dopo 5 minuti Matteo mi fa “No scusa è che davvero non ho capito il senso della pagina pubblicitaria, perchè Peccato di gola?”
Lorenzo: “In contrapposizione/associazione al concetto di Vino dei Cardinali, talmente buono da far commettere peccato di gola”
Matteo: “Ah, ok. Allora vado. Ciao…”
il resto della frase non l’ha detto ma l’espressione era del tipo “io vado così possono entrare i signori in camice che ti danno le goccine e ti portano via. Io preferisco non essereci, perchè non vorrei restarci in mezzo e poi sono scene brutte da vedere.”

La sera tornando a casa raccontavo l’episodio ad un amico, managing director di una nota agenzia milanese e mentre gli raccontavo la pagina diceva “Peccato di gola? Giochino un po’ ovvio, però ci può stare. Ha anche un po’ di sapore di trasgressione per il target dai 40 anni in su, cresciuto comunque in una cultura cattoolica del peccato (e del perdono).

Se non altro quando gli ho raccontato la fine della storia, almeno ci siamo preoccupati entrambi della nostre distorsioni mentali. Temo però che ormai la sindrome sia cronica.

Procter & Gamble entra nel XXI secolo

Non sono morto, sono solo molto occupato. Sto pagando, come molti, il fatto che l’anno lavorativo e’ iniziato il 9 gennaio e sto cercando di recuperare. Quindi quando non lavoro mi dedico al riposo piu’ totale. In attesa di tornare a post piu’ corposi, linko (sara’ ammesso il neologismo?) questa notizia sul cambio di strategia di Procter & Gamble. Notizia di assoluto rilievo se si considera che P&G viene ritenuta l’azienda che ha negli anni 50-60 del secolo scorso ha creato il marketing management come modello aziendale.

Il calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia 3

L’intenzione era che questo post fosse l’ultimo della serie, però ho approfittato delle vacanze per leggermi con calma il numero di dicembre della rivista Meininger’s Wine Business International (rivista che consiglio caldamente a chiunque si occupi di vino) e ci ho trovatop una serie di spunti tale che forse un solo post non basterà per esaurire l’agomento. Ad ogni modo cominciamo.
Nella puntata n. 2 di questa serie dicevo che il principale problema da affrontare da parte del settore per rilanciare il consumo di vino in Italia è quello della percezione. Per chiarire meglio ed inquadrare la cosa attingo da diversi articoli che trovate nella rivista sopracitata. Mi scuso in anticipo con chi ha poca dimestichezza con l’inglese, ma lascerò le citazioni in originale per evitare di dare l’impressione di essere io troppo enfatico nella traduzione.
Joel Peterson, considerato uno dei più importanti enologi californiani di sempre, su come creare un vino super-premium: I’ve always thought the less advertising I do the better off I am.
Pancho Campo, cileno, tennista, allenatore di tennis alla Bollettieri Academy e della nazionale cilena, organizzatore di eventi e concerti a livello mondiale, fondatore della Wine Academy of Spain e creatore dei seminari internazionali Winefuture e World Conference on Climate Change & Wine in un’intervista a tutto campo (gioco di parole involontario) sul mondo del vino:
DOMANDA: The worlds of sports and event management are very different? What surprised you about the wine industry?
CAMPO: two things. One is that it is a very closed environment, especially in Spain. … I was also surprised to see the way that wine was marketed, sold and promoted. It was so ancient.
DOMANDA: What’s the biggest issue facing wine?
CAMPO: … We are losing consumers, which is for me the most worrying challenge. The wine industry is not exciting potential consumers…
DOMANDA: What’s the problem?
CAMPO: The way we communicate is only understood by wine people (n.d.a.: visto lo spessore del personaggio qui confesso che ho avuto un innalzamento di amor proprio). 90% of people who write or blog about wine look only at the top wines, the one above € 25,00. These are wines for experts and serious aficionados. What makes the industry tick is the bottom of the pyramid, the wines below € 7,00 (n.d.a: nella GDO italiano oltre il 50% delle vendite a volume di vino in bottiglia è realizzato con vino di prezzo inferiore a 5 €/bottiglia), but we pay no respect to those wines or those consumers.
DOMANDA: Is more education the key?
CAMPO: I am so totally against “we need to educate the consumer” (n.d.a.: adesso si che mi pento di non aver trovato il tempo di andare al Winefuture in Rioja). Somebody says, “I know nothing about wine,” and we say, “Oh! You should take a course!” no you don’t. If I go to a restaurant, I do not want to take a course to understand cheese. I just want the hedonistic experience. I will be ruined if someone tels meI can’t have the cheese unless I do a course. The people who need to be educated are the trade, on how to communicate, promote and sell wine.

Chiudo le citazioni riportando l’esempio che Robert Joseph fa nella sua rubrica (impossibile riassumerla, ma raccomando fortissimamente di leggerla) della descrizione che una cantina del Nuovo Mondo (nel settore del vino si intendono tutti i paesi al di fuori dell’Europa) fa del proprio Pinot Nero: 82 parole per descrivere come il vino è stato fatto e solo 31 per descriverne le caratteristiche o come scrive Robert … about the stuff a consumer might pay for…
Quanto si applicano queste considerazioni alla situazione italiana? Azzarderei un 100%.
Escludendo per un momento il vino in brick (ma poi ci ritorno) il sistema della comunicazione del vino in Italia italiana è dedica il la grandissima parte delle risorse finanziarie ed umane ad interagire con la critica enologica in termini di PR e per pubblicità sulle testate specializzate.
Dal punto di vista del target questo implica sostanzialmente predicare ai convertiti, ossia ai famosi wine lovers stimati in circa il 10%.
Dal punto di vista dei contenuti redazionali si utilizza un approccio da iniziati, in un certo senso coerente con il target, così tradizionale ed ortodosso nei contenuti e nello stile da risultare a volte (frequentemente?) settario. Il tutto con un’autorefrenzialità, che ha già vistosamente ridotto il seguito dei mezzi off line e si sta rapidamente estendendo a quelli on line.
La pubblicità del vino su questi mezzi rischia frequentemente di rivelarsi inutile, se non addirittura controproducente come dice come dice Peterson, perchè ha una credibilità e rilevanza per i lettori intrinsecamente molto più bassa rispetto alla parte redazionale (gli articoli). Se non si riescono ad individuare dei contenuti originali e credibili, espressi in modo coerente ed interessante (ma Robert Joseph ha evidenziato quanto sia difficile), l’effetto banalizzazione e conseguente massificazione è praticamente automatico, soprattutto ricordando qual’è il target dei lettori di questi mezzi.
Ritengo quindi estremamente improbabile che da qui nascano nuovi spunti di interesse per avvicinare al vino nuovi consumatori.

In realtà il problema principale della comunicazione del vino in Italia è il ridottissimo livello della comunicazione diretta delle eziende e delle marche al consumatore, sia in termini di pubblicità che di publicity/pubbliche relazioni.
Facendo una stima spannometrica per difetto il valore del mercato del vino in Italia ai prezzi di consumo si aggira sui 3 MILIARDI di euro. Un’incidenza delle spese di comunicazione del 2% porterebbe ad un investimento di 60.000.000 di euro. Ora i dati che ho sugli investimenti pubblicitari sono piuttosto vecchi, ma non credo che questi superino i 10 milioni di euro, comprendendo le campagne TV delle marche di vino in brick.
La conseguenza è che la principale comunicazione sul vino che riceve il 90% dei consumatori sono le (forti) campagne pubblicitarie di Tavernello, Ronco, ecc… Non c’è da stupirsi del calo di interesse nei confronti della categoria da parte dei nuovi potenziali consumatori.
Il ridotto livello degli investimenti viene spesso ricondotto alla frammentazione del settore ed alla conseguente piccola dimensione delle cantine.
E’ un’affermazione che non condivido per due motivi:
1) c’è comunque un gruppo di aziende che sviluppa sul mercato italiano un fatturato tale da giustificare/richiedere un sostegno pubblicitario della marca e l’investimento necessario, oltre ad avere (potenzialmente) la struttura e le competenze per sviluppare una comunicazione rilevante per ampie fasce di consumatori.
2) il calo dei consumi è legato ad un problema di percezione della categoria e quindi può essere efficacemente affrontato con strategie di comunicazione collettiva di respiro nazionale, vino italiano, o di distretto, Consorzi. In quest’ultimo caso addirittura favorita dalla frammentazione dei consumi che porta i consumatori a riconoscere più i marchi consortili delle marche aziendali.
Il problema quindi è più CULTURALE che strutturale.

Già che ci sono vorrei smentire un’altro mito del mondo del vino italiano relativamente alla mancanza di informazioni: il sito del Vinitaly fornisce ricerche che bastano per sviluppare strategie per i prossimi 5 anni a cui si accede con una semplicw registrazione e Marco Baccaglio continua il suo ottimo lavoro di quantificazione dei fenomeni di mercato sul suo blog “I numeri del vino”.
Anche qui il problema è culturale e non strutturale.

Concludo (finalmente) con l’ultima citazione da un articolo di Meininger’s Wine Business International sui Super Tuscans. Dice Sean O’ Callaghan, winemaker (uso il termine inglese visto il cognome) “The problem now though is that the “Super Tuscans” are basically French varieties, maybe blended with some Sangiovese, and the result is they are boring as these wines can be found all around the world”.

Senza aprire la questione del concetto di terroir (altrimenti non finisco più) mi basta prendere a prestito da Petrini il concetto del consumatore come co-produttore per sottolineare l’importanza della domanda interna nel mantenimento dell’identità del prodotto e quindi nella sua differenziazione rispetto ai prodotti concorrenti. Una domanda interna debole indebolisce l’identità del vino italiano, esponendolo ad una maggior concorrenza da parte dei vini prodotti in altri paesi sui mercati esteri.

A tutti il mio augurio di un felice 2012.

Luck is an attitude

Il titolo di questo post è il claim dell’ultima campagna di Martini. Ancora una volta giù il cappello davanti alle loro strategie di posizionamento e di comunicazione (l’agenzia sarà ancora Armando Testa?).
Concetto positivo ed ottimista, però con trattamento cool e non buonista. Lancio della campagna su e con i social networks. Spot tv con schermo diviso in due, un po’ sliding doors, un po’ multitasking un po’ programma 3D senza occhialini. Tra l’altro la complessità della visione aumenta l’attenzionalità invece di diminuirla. Per di più un concetto alla base di un libro di gestione aziendale che avuto un discreto successo alcuni anni fa (come sempre meglio il libro del video, ma altro non ho trovato).

Altro spot degno di nota di questi tempi è quello di Campari che torna alle atmosfere un po’ oniriche e molto glamour/aspirazionali degli spot con cui 10 anni fa è riuscito a riposizionare la marca da vecchia ad “eterna”, senza però la cripticità di una volta (lo spot con i duel duellanti nel tempio indiona non l’ho capito nemmeno quando me l’hanno spiegato i pubblicitari.

Ci sono invece due spot alla radio che non si possono sentire.
“La festa decolla se non c’è il gorgonzolla” riesce a non vincere il premio come peggior campagna del consorzio solo perchè la precedente “bella topolona” toccava qualsiasi fondo immaginabile, soprattutto considerando che le donne sono le principali responsabili d’acquisto del prodotto. Sarà che mi hanno trattato con prosopopea fin dalla prima volta che ho conosciuto (l’allora) direttore del consorzio ai tempi della mia tesi di master, ma le strategie del Gorgonzola non riesco proprio a capirle. Non solo in termini di comunicazione, in termini di prodotto hanno abbandonato totalmente il segmento del formaggio erborinato piccante ai prodotti olandesi o danesi. Va bene che è una tipologia di consumo in calo, ma abbandonare anche solo una nicchia di mercato di questi tempi mi sembra parecchio miope (in realtà è una strategia che va avanti da lustri). Spero solo che non prendano troppi soldi pubblici.

Ma la palma della pubblicità radiofonica più insopportabile dell’anno va a quella della skoda dove c’è uno che parla tutto lo spot con la bocca piena. Tutte le volte che schiaccio il mute della radio appena la sento penso alle storie che avranno raccontato i creativi al cliente sull’impatto di questo trattamento iconoclasta.

Forse sono gli stessi che si sono autoconvinti che “La festa decolla se non c’è il gorgonzolla” sarebbe diventato un tormentone.

Chiudo con una frase di Peter Sellars che amo (la frase, non Peter Sellars): “la vita è uno stato mentale”. Non so come fosse in originale, ma credo si possa tradurre come “life is an attitude”.

Live happilly

Chi segue questo blog sa che non ho lesinato in passato le critiche ad alcune strategie della Illy. Non perchè ce l’abbia particolarmente con loro, anzi per la ragfione contraria: mi rattrista vedere un chiaro leader di opinione di mercato abdicare al suo ruolo ed agli oneri che comporta, perdendo di conseguenza gli onori.

E’ stato quindi un grande piacere vedere il nuovo spot live happily con cui l’azienda della mia città d’adozione torna a ridefinire il confine dello stile, interpretando i suoi valori fondanti, e quindi atemporali, nell’attuale contesto sociale con una coerenza, forza ed efficacia come, secondo me non faceva dai tempi dello spot con Ines Sastre (1996/97).

Chapeau!

Perchè tutti vogliono George Clooney?!

Confesso che non sono mai stato un fautore dell’utilizzo dei testimonial nella pubblicità.
Un testimonial apporta sostanzialmente due vantaggi:
1. Aumenta la visibilità/attenzionalità della campagna (sempre).
2. Rafforza il posizionamento della marca/prodotto (nel caso in cui il suo percepito pubblico sia coerente con quello della marca/prodotto a cui è associato e/o che la sua presenza nella comunicazione sia funzionalmente inserita in una creatività che avrebbe comunque funzionato anche senza la sua presenza).

Ho sempre pensato che i soldi del compenso di un testimonial sia meglio spenderli aumentando la pressione della campagna (equivalente in parte al punto 1) e concentrarsi nel lavoro dell’agenzia per arrivare ad una comunicazione rilevante, aumentandone di conseguenza l’attenzioanlità e la capacità di rafforzare il posizionamento.

Questo anche per evitare i due rischi intrinseci all’uso di un testimonial:
3. Catalizzazione dell’attenzione del pubblico sul testimonial a detrimento della marca/prodotto.
4. Appiattimento creativo sulla presenza del testimonial, sviluppando la creatività sulle sue caratteristiche e non su quelle della marca/prodottorischi di rilassamento creativo che (quasi) automaticamente implica l’utilizzo del testimonial.

Fin qui la fisiologia. Volendo c’è anche la patologia/sfiga che il testimonial faccia o gli succeda qualcosa di inadeguato rispetto al posizionamento della marca/prodotto durante la campagna.

Credo che un eccellente esempio di cattivo uso del testimonial sia rappresentato dalle campagne delle compagnie di telefonia mobile, che, tra l’altro, un giorno mi spiegheranno perchè l’unico modo di comunicare l’uso dei telefonini sia entrando nel tunnel del divertimento (cfr. Caparezza). Divertimento che, volendo aprire un’altra parentesi, è cosa ben diversa dalla felicità, come ha ben capito la Coca Cola ed anzi potrebbe perfino essere antitetico (pensiero mio).

Tornando ai testimonial, come sempre nel marketing, disciplina analitica e non deterministica basata quindi più sui principi che su regole, ci sono anche esempi di grande efficacia.
uno l’ho vissuto in prima persona ed era la canzone “Lemon tree” nello spot del Limoncè. Non credo sia una caso l’assoluta coerenza tra testimonial, messaggioe e prodotto, nè il fatto che si sia trattato di un long seller, trasmesso ogni tanto ancora oggi a quasi 15 anni di distanza (probabilmente aiutato anche dalle campagne pubblicitarie). il fatto che l’attuale management Stock abbia deciso un paio di anni fa di non usarla più per il nuovo spot spiega tante cose, ma se continuo ad aprire parentesi questo post diventerà un labirinto in cui tutti si perderanno.

Un’altro esempio perfetto di utilizzo del testimonial sono state le prime due campagne Martini con George Clooney. Lo spot stava in piedi ugualmente, ma la presenza di Clooney dava immediatamente ed implicitamente, quindi con la massima efficacia, una dimensione di eleganza internazionale alla marca. La stessa delle precedenti campagne Martini (se il mio pubblico femminile sta sognando dall’inizio del post con il fascino di George, adesso il mio pubblico maschile è acceso dal ricordo di Charlize Theron che si alza e se ne va, incurante del vestito impligliato nella sedia).
In più lo slogan “No Martini non party”, con tanto di porta sbattuta in faccia, affermava una superiorità dalla marca anche rispetto ad una star di Hollywood. Chapeau alla creatività!

L’efficacia di quelle campagne ha creato un legame talmente forte tra Martini e Clooney che avrebbe dovute da dissuadere chiunque altro ad utilizzarlo come testimonial.

E invece l’altro giorno me lo sono trovato nello spot di Fastweb (c’era già da un po’, ma la prima serie mi erano sembrati spot di una banca), dopo averlo visto in quella di Nespresso (magari quella era una comunicazione mondiale), e prima della Fiat.

Allora ripeto la domanda del titolo: perchè? Possibile che a nessuna di queste aziende/agenzie venga il dubbio che la figura di Clooney non solo non sia in grado di differenziare il prodotto, ma anzi tenda ad indifferenzialo?.

Le agenzie sono davvero così a corto di idee e le aziende così cariche di soldi?

La pubblicità perfetta può essere sbagliata?

Perfetto target per la pubblicità radiofonica, da qualche settimana ce n’è una che mi ha colpito particolarmente, ma non ricordo di che prodotto si tratta.
Il motivo di questa contraddizione in termini è che è una pubblicità insopportabile e quando la sentivo all’inizio semplicemente mi distraevo, mentre da un po’ di giorni a questa parte zittisco proprio la radio.
Allora perchè il titolo di questo post? Perchè probabilmente la realizzazione è perfetta, sia tecnicamente che in termini di rispondenza al brief.
Si tratta infatti della pubblicità del deodorante per auto Ambipur car (l’ho scoperto cercandola su internet), nella quale l’agenzia Grey di milano è riuscita nella difficile operazione di rendere per radio il fastidio dei deodoranti per auto troppo intensi. Uno spot perfetto, soprattutto se si considera che comunica attraverso l’udito sensazioni che nella realtà sono olfattive. Con tutta probabilità questo era il risultato richiesto dal brief.
Proprio perchè riuscito nel suo obiettivo, nel mio caso è uno spot completamente inefficace perchè il fastidio mi porta a spegnere la radio.
Sono l’unico? Di sicuro nel web ho trovato un po’ di fans e nessuna critica.
Dopo tanti anni di lavoro ho perso il contatto con la normalità del consumatore?
Una volta ho letto da qualche parte che scrivendo un post è sbagliato chiedere la partecipazione dei lettori, ma in questo caso sarei proprio curioso di sentire la vostra.