El hombre y el oso, cuanto mas feo mas hermoso

Ci ho pensato un po’ perchè credevo testardamente che ci dovesse essere una strategia dietro le scelte di comunicazione di Vodafone, terzo investitore italiano in pubblicità.

Allora mi sono sforzato per comprendere cosa mi poteva/doveva rappresentare l’orso della nuova campagna Vodafone in assoluto e, ancora di più dopo la campagna estiva basata sul tuca tuca.

L’unica cosa che mi è venuta in mente è che l’orso antropomorfo (onestamente brutto a vedersi), con atteggiamenti e toni bauscia anni ’80 sia un’allegoria di Formigoni (anche lui un po’ peloso, un po’ goffo e sicuramente bauscia stile “Vacanze di…dove volete voi”).

Ecco alla fine magari questa pubblicità coglie lo spirito (negativo) del tempo. A me però fa venir voglia di cambiare gestore dell’abbonamento aziendale.

Di solito in questi casi mi immagino le paranoie che si raccontano i creativi per convincersi della bontà di idee evidentemente forzate. Questa volta non ho dovuto fare fatica perchè sul web c’è l’intervista a Federico Ghiso e Giorgio Cignoni direttori artistici dell’agenzia 1861 United, responsabile della campagna.

Non aggiungo altro, ognuno si faccia la propria opinione

Perdono …

… il post di questa settimana ce l’ho in testa, però sono stato impegnato a scrivere un articolo un po’ denso (e anche un po’ a vivere).

Settimana prossima faccio la Barcolana e quindi dubito che riuscirò a scrivere.

Torno appena riesco.

Amici, nemici e semplici conoscenti

Mi è scoppiato l’embolo politico e non si rimargina più.
Però siccome questo vuole rimanere un blog di marketing, non parlerò di Fioroni-Minetti-Polverini-Berlusconi-Fini-Squinzi per onestà intellettuale nei confronti miei e dei lettori.
Parlerò invece del numero di Dunbar, perchè la settimana scorsa ho letto un’intervista a Robin Dunbar su “Il Piccolo” di Trieste e mi stupisce sempre trovare conferme scientifiche e serie ad alcuni miei personali (nel senso che me li sono creati da solo) generici concetti antropologici e sociologici. Metafisica da portinai l’avrebbe chiamata Saint Exupery, affermazione che aasume tutta un’altra valenza da quando è stato pubblicato nel 2006 “L’eleganza del riccio” .
Robin Dunbar è un antropologo in glese che alcuni anni fa ha definito in circa 150 il numero massimo di amici, ovvero “relazioni umane significative”, che un individuo di specie umana può avere. Il cosiddetto numero di Dunbar.
Questo risultato è basato sia su ricerche paleo-antropologiche (tribù preistoriche di cacciatori, censimenti inglesi dell’alto medioevo) che su “conferme” (il virgolettato e mio, se c’è qualche scienzato in ascolto può dimostrare che vanno tolte) di neuro-fisiologia. Il numero di Dunbar infatti è legato allo spessore della corteccia orbitale frontale, dove vengono prese le decisioni di alto livello.
E’ quindi un numero specifico, nel senso che è legato alla specie umana, e non individuale.
Di conseguenza “… noi umani abbiamo una riserva limitata di emozioni da spendere. Possiamo consumarle in quantità minime, ma in molti rapporti. Oppure investirne in quantità cospicue, ma con pochi.”. Ed è qui che mi sono stupito perchè molti anni fa, tanti che oramai non ne parlo quasi mai, mi sono fatto l’idea delle emozioni di ognuno come di una superficie rettangolare data, in cui possono variare le lunghezze dei lati che rappresentano il numero e l’intensità delle relazioni. Quindi, geometria elementare, se aumenta la lunghezza del lato “intensità” deve per diminuire di conseguenza la lunghezza del lato “numerosità” e viceversa. Non mi ero posto la questione se questa superficie data e costante è individuale o specifica, adesso Dunbar mi ha dato la risposta.
Al di là che questo argomento sia, apparentemente, collegato ai social networks del web 2.0 (mentre in realtà lo è solo in parte), cosa c’entra con il marketing?
Secondo c’entra in base al tipo di rapporti che le marche vogliono stabilire con le persone. Secondo le parole di Dunbar, gli “amici” sono le persone con cui si stringe una relazione reciproca che include obblighi, fiducia e buonafede.
E’ indubbio che le marche di maggior successo nel lungo periodo sono sempre state quelle che sono riuscite a stabilire un rapporto di amicizia (volutamente senza vigolette, adesso che c’è una definizione a cui riferirsi) con i loro clienti. Ed è altrettanto indubbio che nella situazione di eccesso di offerta che contraddistingue moltissimi settori in moltissimi mercati, la capacità di costruire questo rapporto di amicizia diventi sempre di più un must piuttosto che un plus (per approfondimenti al concetto segnalo due miei vecchi post qui e soprattutto qui).
Allora (mi) consiglio di tenere sempre bene in mente che l’amicizia si basa sulla reciprocità di obblighi, fiducia e buonafede (repetita iuvant). Se l’avessero avuto chiaro anche i signori che si occupano della comunicazione di Parah non avrebbero organizzato la sfilata con la Minetti (ma qualcuno sa dirmi chi era l’agenzia, così evito di correre il rischio di lavorarci in futuro?).
C’è poi un’altra implicazione di marketing, legata al concetto del numero di Dunbar: se io come marca punto a costruire un rapporto di amicizia con i miei clienti, rientro anch’io nel numero massimo di rapporti che una persona può mantenere?
Secondo me sì, e questo implica un limite teorico al numero dei clienti. E’ vero che 150 amici è un numero tutt’altro che basso, però è anche vero che i social networks permettono di mantenere un numero maggiore di amicizie rispetto al passato.
Forse le marche potranno imparare da Bonvi e puntare a diventare, per i loro clienti, “semplici conoscenti”.

“resistere restire resistere” è la visione Fiat all’ineluttabile declino dell’automobile?

Per compensare il rischio di astrattezza dei post strategici, oggi ho deciso di dedicarmi all’attualità.
Tra i temi che mi hanno più incuriosito ero indeciso se occuparmi della comunicazione con cui si sta gestendo lo scandalo del Consiglio Regionale del Lazio oppure dell’incontro FIAT vs. Governo. Alla fine ho deciso di parlare delle due cose.

Il concetto secondo cui “(per fortuna) la Polverini resiste (stoicamente)” (ho messo tra parentesi i sottointesi che implica l’uso del termine “resiste”, corroborato dagli autorevoli inviti che ha ricevuto a farlo per evitare che crolli tutto) è quanto meno curioso, visto che l’esplosione dei finanziamenti ai gruppi del consiglio regionale (14 di cui 8 composti da un solo consigliere) si è realizzata proprio da uqando lei è presidente. E che dire delle procedure per cui questi finanziamenti venivano erogati senza alcun controllo? Dovrebbe essere scontata almeno una responsabilità oggettiva del presidente e quindi un’incompetenza di fatto. Se poi ci aggiungiamo che il bubbone è scoppiato per il comportamento dei consiglieri del suo partito non mi sembra così fuori luogo rilevare anche una complicità politica, indipendetemente dagli aspetti giudiziari, ossia se siano o meno verificati degli illeciti, cosa che riguarda la magistratura e non me come cittadino-elettore (argomento di cui ho già parlato in altre occasioni su questo blog qui e qui).
Ed invece tutti i giornali, di qualsiasi orientamento titolano che la Polverini resiste. A chi e a cosa non si sa? Però vanno fatti i complimenti a chi gestisce la comunicazione del PDL che si è appropriato nell’inconscio collettivo della famosa espessione del Procuratore Borrelli (espressione che personalmente ritengo un obbrobrio da parte di un magistrato).

Riprendo un tono meno personale e più professionale sulla questione FIAT. Se ho ben capito, il nocciolo della questione secondo l’azienda è che il fortissimo ed imprevedibile crollo del mercato dell’auto in Italia ha modificato lo scenario su cui era stato sviluppatro il piano di investimento del gruppo in Italia.
Ora mi chiedo, chi sviluppa le analisi di scenario in Fiat? Il pulcino Pio? (potrebbe essere un bel nome per il prossimo modello: mi compro una Pio!).
Un po’ di dati a caso, facilmente intuibili ed ancor più facilmente confermabili con una breve ricerca sul web:
- L’italia ha il più alto tasso di motorizzazione europeo con 60 auto ogni 100 abitanti (abitanti, si badi bene, non residenti oltre i 18 anni),
- negli ultimi anni il mercato è stato sostenuto/drogato dalle campagne di incentivo alla rottamazione con contributi pubblici, che ha permesso di rinnovare il parco automobilistico italiano.
- dal 2008 in avanti si assite ad un calo delle vendite degli elettrodomestici durevoli, con la solita eccezione delle apparecchiature informatiche (vedi rapporto CECED 2012), segno che gli italiani a fronte di una diminuzione del reddito disponibile stanno rinviando gli acquisti di beni durevoli. Aggiungerei anche la minor propensione ad acquistare nuovi beni durevoli nelle, crescenti, fasce di consumatori anziani.
- la benzina ed costo dell’assicurazione sono tra le voci di spesa delle famiglie che hanno avuto i maggiori incrementi nel corso degli ultimi 3-4 anni (ben oltre il tasso medio di inflazione).

E’ questi parlano di crollo imprevedibile? A questo punto mi sono ricordato della querelle tra Bill Gate e la General Motors, generata diversi anni fa e sono andato a cercarla in rete (qualcuno riesce a darmi la data? In rete non sono riuscito a travarla ma sarà stato almeno 7-8 anni fa).
Questa è una delle tante versioni che girano:
Durante una manifestazione, Bill Gates ha voluto rendere chiari a tutti i presenti i progressi fatti dall’industria informatica facendo un parallelo con l’industria automobilistica, e ha dichiarato: «Se la General Motors fosse tecnologicamente avanzata come l’industria informatica, oggi staremmo guidando macchine che costerebbero 25 dollari e farebbero 500 km con un litro di benzina!».
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La General Motors ha prontamente replicato con il seguente commento:
“Stiamo meditando sull’ipotesi di prendere Microsoft come partner. Gli unici motivi che per il momento ci trattengono dal farlo sono:
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1. Ogni volta che viene rifatta la segnaletica stradale bisognerebbe anche acquistare una macchina nuova;
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2. Occasionalmente, il motore si fermerebbe in autostrada senza alcuna ragione apparente, e bisognerebbe semplicemente accettare il fatto, riavviare il motore e ripartire dal casello da dove era iniziato il viaggio;
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3. Inaspettatamente, l’esecuzione di una manovra potrebbe fermare la macchina e bloccarla definitivamente, e per ovviare all’inconveniente sarebbe necessario reinstallare il motore;
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4. Sarebbe possibile avere solo una persona a bordo alla volta, a meno di non acquistare «Macchina 98» o «Macchina NT», con i relativi sedili addizionali;
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5. Con la Apple le cose sarebbero diverse: essa sarebbe in grado di progettare una macchina alimentata a energia solare, affidabile, cinque volte più veloce e due volte più facile da guidare, ma in grado di girare solo sul 5 per cento delle autostrade;
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6. Quest’ultimo problema potrebbe essere risolto molto facilmente, acquistando degli upgrade carissimi compatibili con le autostrade Microsoft, in grado di offrire prestazioni dimezzate rispetto a un’analoga macchina Microsoft;
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7. Le spie dell’olio, della benzina, dei freni e della batteria dovrebbero essere rimpiazzate da un unico segnale che dice «Questa macchina ha eseguito un’operazione illegale e sarà arrestata»;
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8. I nuovi sedili costringerebbero tutti ad avere la stessa misura di «sedere»;
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9. Prima di entrare in FUNZIONE, l’airbag chiederebbe «Sei sicuro di voler eseguire questa operazione?»;
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10. In caso di collisione, non sarebbe possibile avere la minima idea di che cosa sia accaduto al pilota e alla macchina, e di come ripararla”.

Pensavo di chiudere qui il post, facendo ammenda alla visione di Bill Gates, adesso che sappiamo come è finita e ricordando come tutti (io compreso) abbiamo sorriso con complicità alla replica della GM.

Invece cercando in rete la storia mi sono imbattuto in qualcosa di più interessante: un forum dove nel 2011 si citava questa “leggenda”. Leggere gli interventi di questi digital natives, tra lo stupito e l’annoiato per l’assurdità di un confronto tra l’evidentemente superiore industria informatica ed i dinosauri dell’automobile.

Delle volte la rete permette di risparmiare lunghe e costose ricerche di mercato, basta avere l’intelligenza e, soprattutto, la voglia di saperla leggere.

Intanto io domani mi farò i miei 250 km quotidiani in macchina.
non sto neanche a dire http://forum.ubuntu-it.org/viewtopic.php?p=3862823#down

S O R P R E S A !!! Biscomarketing è ospite di Vino al Vino

La scorsa settimana ho lasciato un breve commento al post di Franco Ziliani relativo all’esternazione di Angelo Gaja sulla venedemmia 2012, preannunciando un approfondimento qui per questa settimana.
Franco Ziliani mi ha fatto l’onore e la cortesia di chiedermi di ospitare il mio intervento su Vino al Vino, ed io ho accettato con piacere.

Ecco quindi il link al post Angelo Gaja, le previsioni di vendemmia e le brioches di Maria Antonietta su Vino al Vino.

Poichè un mio vecchio lettore si è lamentato (giustamente) della lunghezza e densità del mio post pubblicato ieri qui su biscomarketing (ho dovuto ridurre il pezzo persino per l’uscita su “Il Mio Vino” avverto che l’intervento su Vino al Vino è stato spezzato in due parti.

Anche così consiglio di armarsi di un po’ di tempo e di attenzione. D’altra parte ci sono argomenti per cui è necessario un certo approfondimento e completezza di analisi.

Buone letture.

RILANCIARE IL CONSUMO DEL VINO IN ITALIA PER SOSTENERE LA CRESCITA DELLE ESPORTAZIONI

Lo scorso fine settimana l’ho passato in giro a cavallo per l’entroterra tra Trieste e Capodistria (primum vivere, deinde philosophari) e in questo invece sto preparando una sorpresa. Pensavo quindi di far sopravvivere il blog pubblicando il mio ultimo articolo apparso su “Il Mio Vino”, quando mi sono reso conto di non aver ancora postato il primo articolo che ho scritto per quella rivista.
Siccome mi sembrava particolarmente interessante, pur se totalmente vitivinicolo, rimedio subito qui sotto. Nel caso la mia attenzione abbia avuto un cortocircuito ed abbia già postato questo testo, mi appello alla vostra comprensione.

Il 2011 è stato l’anno in cui il settore del vino italiano si è posto la questione del calo del mercato interno Evidentemente la cosa ha raggiunto una dimensione tale da non poter più essere ignorata.
Visto che non è che si faccia molto, vediamo di inquadrare la dimensione del fenomeno. Normalmente si cita il confronto con il passato, diciamo i 100 litri pro-capite consumati 30-35 anni fa rispetto ai 43 litri di oggi. Si tratta di un dato sicuramente eclatante, ma che ritengo poco efficace per trasmettere l’urgenza di attivare azioni di contrasto alla tendenza in corso.
Preferisco quindi provare a fare delle previsioni e farle a lungo termine visto che il tempo del vigneto e del vino spesso non coincidono con il tempo dell’uomo (citazione da Alberto Ugolini).
Incrociando i dati dell’ultima ricerca sul consumo di alcolici realizzata da Doxa per l’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcol con una proiezione della distribuzione della popolazione per classi di età da qui a 25 anni (preso come il tempo medio di vita produttiva di un vigneto) ho calcolato che nel 2024 il consumo di vino in Italia sarà di circa 2,3 milioni di hl inferiore a quello attuale. Per dare un parametro di riferimento si tratta di una quantità superiore di oltre 9 volte al vino italiano esportato in Cina (la grande speranza dei mercati mondiali) nei primi dieci mesi del 2011.
Personalmente la ritengo una stima per difetto, ma potrei sbagliarmi. Commissionando ad un Istituto una ricerca del costo di 3.000-4.000 euro si può facilmente avere una previsione molto più solida. Comunque questi valori sono tali da giustificare una reale preoccupazione per il settore viti-vinicolo e mi è sembrata meritevole l’iniziativa del Vinitaly che nel 2011 nell’imminenza della Fiera ha stimolato un dibattito sull’argomento, coinvolgendo operatori appartenenti a tutte le diverse categorie che operano nel sistema vino in Italia.
Al di là dei diversi spunti che ne sono seguiti, di fatto le aziende continuano ad operare soprattutto in un logica sintetizzata nella dichiarazione di Piero Antinori, presidente dell’Istituto del vino di qualità: “Quello della crisi dei consumi interni di vino è un falso problema, preoccupiamoci piuttosto di vendere bene nel resto del mondo. Il vino di qualità e’ il prodotto più globale in assoluto, non vedo perché ci si debba focalizzare su una nicchia di 60 milioni di abitanti quando fuori c’è un mercato di 6 miliardi di persone da conquistare. Allarmarsi per un calo fisiologico dei consumi interni è come guardare la pagliuzza per non vedere la trave. Negli ultimi 10 anni gli Stati Uniti hanno visto raddoppiare i consumi interni, per non parlare dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), dove 3 miliardi di persone e centinaia di milioni di nuovi ricchi si ‘occidentalizzano’ attraverso i nostri status symbol, vino di qualità in primis. In Cina – che è già un mercato potenziale da un miliardo di bottiglie l’anno – ogni 100 litri di vino provenienti dall’estero solo 5 portano l’etichetta italiana. E ancora, a Hong Kong, hub principale per la distribuzione del vino in Asia, il vino italiano si colloca in settima posizione, con una quota di penetrazione del 2,3%, contro il 33% della Gran Bretagna – che distribuisce per lo più vino francese – o il 31% della Francia. Sono questi – ha aggiunto il presidente Antinori – i veri problemi del nostro vino, non tanto quelli legati ai consumi interni.”
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E qui entra in gioco la microeconomia, perché questo approccio segue il principio di massimizzazione della produttività (e redditività) marginale della teoria dell’impresa. Detto in altre parole oggi la redditività di 1 euro investito in determinati mercati esteri è (con ogni probabilità) superiore a quella dello stesso euro investito sul mercato nazionale.
La teoria microeconomica dell’impresa si basa però su alcuni assiomi che non sempre trovano riscontro nella realtà, soprattutto nel periodo medio lungo, a cui bisogna guardare se si vuole vivere e non solo sopravvivere. Se così non fosse non si spiegherebbe, ad esempio, il successo di un denominazione come la Franciacorta, le cui vendite si rivolgono in larghissima prevalenza al mercato italiano.

In merito alle ragioni del trend negativo dei consumi interni , spesso le argomentazioni sono le seguenti:

1) Sono cambiati gli stili di vita/consumo (risposta semitautologica).
2) Si è ridotto il consumo dei giovani (come sopra).
3) Il consumo di vino è penalizzato dalla stretta dei controlli alcol test su chi guida.
Considerando l’ultima risposta c’è da chiedersi come mai il consumo di birra cresca (fenomeno che si verifica in maniera ancora più eclatante in Spagna e, in modo meno chiaro, in Francia: guarda caso i tre storici paesi produttori e consumatori di vino).
La risposta è sempre la stessa: “Perché la birra è meno alcolica”. Peccato che si tratti di un falso mito, basato sul fatto intuitivo che la gradazione alcolica unitaria della birra è inferiore a quella del vino. Esistono però anche le verità contro-intuitive, che quindi vanno spiegate ed in questo caso la verità è che i grammi di alcol contenuti in un bicchiere standard (qui il termine inglese serving è veramente l’ideale) di vino, birra o superalcolico è il medesimo.
Questa semplice (e non semplicistica) considerazione racchiude buona parte del problema del calo dei consumi di vino in Italia, che è sostanzialmente un problema di percezione.Tale problema nasce probabilmente dall’evoluzione che ha avuto il settore negli ultimi vent’anni in risposta allo scandalo del metanolo, sia in termini di qualità e profilo dei prodotti che, soprattutto, in termini di come questi sono stati presentati e comunicati dai mass media negli ultimi vent’anni. Il miglioramento della qualità del vino italiano, sia nella media che nelle sue punte di eccellenza raramente raggiunte in precedenza, è stato allo stesso tempo sostenuto e stimolato da un approccio al prodotto centrato sull’approfondimento degustativo delle sue caratteristiche organolettiche, partito da un nuovo movimento di critica enologica che si è man mano diffuso in fasce sempre più ampie di consumatori. Il cristallizzarsi di questi due fattori, che hanno indubbiamente creato il rinascimento del vino italiano, è sfociato nell’attuale problema di percezione, che, per essere compreso con maggior chiarezza, va suddiviso almeno in tre aspetti:
1) Perdita di identità della categoria di prodotto.
Circa 50/40 anni fa, quando il consumo italiano era di 100 litri/annui pro-capite, il vino era un alimento, o per meglio dire un nutriente, poi è divento una bevanda. Il cambiamento è determinato dall’evoluzione della società e non è necessariamente negativo, poiché riduce l’effetto della legge di Engel che prevede una diminuzione della parte di reddito destinata all’acquisto dei beni alimentari al crescere del reddito in quanto questa interessa solamente la componente nutritiva di un alimento e non quella edonistica.
Attualmente però la componente culturale, ancor più che edonistica, del vino è diventata talmente preponderante da fargli perdere in larga misura la sua natura di bevanda. Il problema è che se un liquido che si beve non è una bevanda che cos’è?Può sembrare un discorso di lana caprina, ma per rendersi conto che non lo è basta ricordare che Giorgio Calabrese (docente di alimentazione e nutrizione umana e presidente dell’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino) sta portando avanti da qualche anno il ritorno al concetto (reinterpretato) del vino-alimento.
Di fatto oggi ci troviamo nella situazione in cui quando qualcuno ha sete, il vino raramente rientra tra le possibili opzioni. Oggi la stragrande maggioranza delle persone beve vino quando ha fame (escludo la numerosissima minoranza dei cosiddetti wine lovers per cui il vino è spesso un riferimento costante nella definizione di se stessi. ).
Se a questo aggiungiamo la destrutturazione dei pasti conseguente alle modifiche dell’organizzazione della società, l’impatto sui consumi di vino è evidentemente fortissimo.
Pensando alla crescita del consumo della birra credo che conti anche il fatto che ha mantenuto la sua caratteristica di bevanda con funzione anche dissetante e non credo sia un caso che la categoria di vino con la maggior crescita in Italia sia quella degli spumanti, ossia vini che si bevono anche e soprattutto in occasioni diverse dai pasti. Quello che invece mi stupisce è notare la sostanziale ineluttabilità con cui il fenomeno viene affrontato dal settore vinicolo, se anche un guru della critica enologica quale Sandro Sangiorgi nel suo ultimo libro “L’invenzione della gioia” prende come un dato di fatto che “Il vino, per la gran parte delle persone, è legato a un momento speciale, raramente è quotidianità”.
2) Il vino si è appiattito sull’eccellenza diventando sempre più impegnativo.
Qui c’è poco da girarci intorno: oramai la parodia del sommelier di Albanese non fa nemmeno più ridere. A furia di far roteare i bicchieri alla maggioranza dei consumatori sono roteate le … scatole. Bere un bicchiere di vino in compagnia (ma per assurdo anche quando si è da soli) richiede spesso un impegno psicologico (ed economico). Sempre meno interessante, quasi mai divertente, il vino diventa noioso.
Attenzione è vero che il vino per sua natura è complesso, ma questo non significa che sia per forza necessario ricercarne e sottolinearne la complessità in ogni occasione e situazione. Tornando alla birra, l’interesse sta crescendo in certe fasce di consumatori anche grazie alla percezione di una certa complessità, mantenuta e gestita però entro limiti che incuriosicono, senza debordare nell’atteggiamento da comunità di iniziati che, inevitabilmente, diventa settaria ed escludente.
Va riscoperto il divertimento di bere un bicchiere di vino e, nuovamente, non a caso vanno bene gli spumanti, ossia vini divertenti per stile e situazioni di consumo.
3) Gli attuali messaggi e i mezzi attraverso cui vengono comunicati si rivolgono ad una limitata fascia di consumatori.
La comunicazione del vino oggi si rivolge principalmente ai consumatori residenti nelle aree urbane, di età tra i 40-60 anni (sarei tentato di scrivere 35, ma temo sia un’illusione giovanilistica). Si tratta dei consumatori che negli ultimi vent’anni hanno reso l’enogastronomia una componente culturalmente importante della società e per i quali la (ri)scoperta del vino è sostanzialmente la (ri)scoperta di arcadia. Il fatto è che credevamo (ci sono dentro anche io) di essere la prima generazione della società industriale ed invece eravamo l’ultima della società contadina emigrata in città.
Tutti quei valori legati alla tradizione (di fatto ai nostri nonni contadini) per noi sono rassicuranti, ma agli under 30 dicono poco o niente. Mentre sono ovviamente questi i consumatori che daranno o meno un futuro al vino (e, nuovamente, i consumatori alla base della crescita di birra e spumanti).
Su questo aspetto un’ultima considerazione sui consumatori oltre i 60 (prima che si dica che me li sono dimenticati): sono in genere forti consumatori perché sono quelli che vivono il vino con normale quotidianità.
Se il problema è sostanzialmente di percezione, la soluzione non può che essere di comunicazione. Il sistema del vino italiano dedica gran parte delle risorse finanziarie ed umane ad interagire con la critica enologica in termini di PR e per la pubblicità sulle testate specializzate.
Dal punto di vista dei contenuti redazionali e dello stile il tono più frequentemente utilizzato è da esperti, in un certo senso coerente con il target, così tradizionale ed ortodosso da risultare a volte (frequentemente?) settario. Il tutto con un’autoreferenzialità che ha già vistosamente ridotto il seguito dei mezzi off line e si sta rapidamente estendendo a quelli on line.
La pubblicità del vino su questi mezzi rischia di rivelarsi inutile, se non addirittura controproducente perché ha una credibilità e rilevanza per i lettori molto più bassa rispetto alla parte redazionale (gli articoli). Se non si riescono ad individuare dei contenuti originali e credibili, espressi in modo coerente ed interessante, l’effetto banalizzazione e conseguente massificazione è praticamente automatico, soprattutto ricordando qual è il target dei lettori di questi mezzi.
Ritengo quindi estremamente improbabile che da qui nascano nuovi spunti di interesse per avvicinare al vino nuovi consumatori. In realtà il problema principale della comunicazione del vino in Italia è il ridottissimo livello della comunicazione diretta delle aziende e delle marche al consumatore, sia in termini di pubblicità che di publicity/pubbliche relazioni.
Facendo una stima spannometrica, il valore del mercato del vino in Italia ai prezzi di consumo si aggira sui 3 miliardi di euro. Un’incidenza delle spese di comunicazione del 2% porterebbe ad un investimento di 60.000.000 di euro. Ora i dati sugli investimenti pubblicitari non credo che superino i 10 milioni di euro, comprendendo le campagne TV delle marche di vino in brick.
Non c’è quindi da stupirsi del calo di interesse nei confronti della categoria da parte dei nuovi potenziali consumatori.
Spesso il ridotto livello degli investimenti viene ricondotto alla frammentazione del settore ed alla conseguente piccola dimensione delle cantine. E’ un’affermazione che non condivido per due motivi:
- c’è comunque un gruppo di aziende che sviluppa sul mercato italiano un fatturato tale da giustificare/richiedere un sostegno pubblicitario della marca e l’investimento necessario, oltre ad avere (potenzialmente) la struttura e le competenze per sviluppare una comunicazione rilevante per ampie fasce di consumatori.
- il calo dei consumi è legato ad un problema di percezione della categoria di prodotto e quindi può essere efficacemente affrontato con strategie di comunicazione collettiva di respiro nazionale, vino italiano, o di distretto, Consorzi. In quest’ultimo caso addirittura favorita dalla frammentazione dei consumi che porta i consumatori a riconoscere più i marchi consortili delle marche aziendali.
Il problema quindi è più culturale che strutturale.
Concludo sottolineando come tralasciare di affrontare il problema del calo dei consumi sul mercato italiano comporti per il nostro sistema vitivinicolo un rischio per certi versi maggiore rispetto a quello, già grave, della corrispondente perdita di fatturato.
Si tratta del rischio di perdita di identità ed originalità dello stile dei nostri vini, identità ed originalità di stile che sono alla base del crescente successo del vino italiano sui mercati esteri.
Come dice Carlo Petrini i consumatori sono in realtà co-produttori perché giocano un ruolo cruciale nella definizione ed evoluzione della caratteristiche sensoriali e culturali di un prodotto alimentare. Se continua ad indebolirsi il rapporto con il consumatore italiano si indebolirà anche la sua originalità e, di conseguenza, la capacità di differenziarsi rispetto ai vini provenienti da altri paesi produttori. Paesi che sono sostanzialmente assenti dal mercato italiano, ma agguerriti concorrenti del vino italiano sui principali mercati mondiali.
In sintesi se non verranno realizzate strategie in grado di mantenere/rilanciare il consumo di vino sul mercato italiano assisteremo nel breve periodo ad un aumento della pressione concorrenziale tra i produttori italiano, sia sul mercato nazionale che su quelli esteri, a cui bisognerà giocoforza rivolgersi per trovare nuovi sbocchi.
Nel periodo medio lungo si aggiunge il rischio di un indebolimento dell’identità del vino italiano e della sua capacità di differenziarsi, con un ulteriore aumento della concorrenzialità da parte dei vini di altri Paesi sui mercati esteri nei confronti dei vini italiano.
Credo sia un quadro che il sistema del vitivinicolo italiano debba cercare in tutti i modi di evitare.

Rassegna pubblicitaria, ovvero Carosello.

Ho come l’impression che quest’anno ilreintro all’attività post vacanze sia un po’ più rallentato del solito. Forse perchè le vacanze si sno ridotte (se non eliminate) e siamo tutti più stanchi.
Ad ogni modo vedo di contribuire ad un rientro soft con un post leggero di segnalazione/commento di alcune campagne pubblicitarie che ho sentito e visto recentemente.

CERULISINA: premetto che non sono molto amico del marketing farmaceutico, meno che meno quando la strategia di fondo è quella di “curare i sani”, cosa molto diversa dalla prevenzione.
Però credo che anche se fossi un fervente sostenitore dell’industria farmaceutica difficilmente potrei giudicare meno che terribile questo spot cantato sulla musica di “Bididi Bodidi Bu” del film Cenerentola di Walt Disney. La cigliegina sulla torta, si fa per dire, è l’introduzione della bambina che chiede alla mamma di raccontarli una storia. C’è davvero un target per una comunicazione con questo stile e questi contenuti ed io dopo tanti anni sono diventato uno snob pubblicitariamente parlando? Per completezza dell’informazione l’agenzia è la ADV Activa di Milano.

PROCTER & GAMBLE E LE MAMME: è da qualche mese che la Procter & Gamble si sta posizionando come “sponsor delle mamme”. In occasione delle olimpiadi ha trasmesso due spot. Il primo non l’avevo visto mentre il secondo è quello che mi ha colpito negativamente per la banalità. Sugli spot ho poco da aggiungere alla precisione dell’analisi fatta da Giovanna Cosenza nel suo blog, segnalo solo che gli spot che trovate ai link di cui sopra sono quelli della versione director’s cut, ben più lunga dei 30″ e 15″ che vanno in onda in TV.
Il posizionamento invece mi stupisce un po’ almeno in Italia (va ricordato che si tratta di una campagna mondiale). Se la domanda sul target dello spot Cerulisina era poco retorica, in questo caso lo è anche meno, ma davvero è efficace questo posizionamento da mamma anni ’50. Ossia io mamma mi sento gratificata dal riconoscimento che le marche P&G fanno al mio essere mamma e quindi acquisto quei prodotti? Mi sembra di essere tornato ai tempi di Beniamino Gigli (già ai suoi tempi “quelle parole non si usavano più”). Per completezza in termini di marketing, va sottolineata la novità della scelta di P&G di utilizzare il marchio corporate come marchio ombrello. Un cambio di strategia non da poco per l’azienda che ha fatto la storia del brand management, seguito (o forse anticipato) dal loro principale competitor Unilever.

ACQUA LETE E POLTRONE E SOFA’: cosa mi fa accumunare due spot così diversi sia in termini di realizzazione che di prodotto? Il cambio di posizionamento che spreca gli investimenti precedenti invece di sfruttarli (vedi il mio post della settimana scorsa). Sono infatti convinto che le strategie efficaci si basino su un’evoluzione dei posizionamenti delle marche che crescono aggiungendo nuovi valori e stili a quelli precedenti.
A parte che “amigo sei figo” mi sembra un tentativo mal riuscito di creare un tormentone tipo “o così o pomì” o “chi c’è c’è, chi non c’è non c’è”, ma cosa c’entra con la particella di sodio solitaria? Magari quello non funzionava, però non c’era il modo di sfruttare un po’ di anni di pianificazione pubblicitaria? Lo stesso discorso vale per la nuova campagna di Poltrone & Sofà che è passata da un posizionamento “Beato che se lo fà ..er sofà” (appena un scalino sopra a “la patatina tira” di Amica Chips”) al nuovo “Artigiani della qualità”. Il fatto che non abbiano cambiato testimonial indebolisce ulteriormente la credibilità del nuovo posizionamento, ma forse su questa scelta pesa la vertenza tra la Ferilli e l’azienda (come sia finita non lo so, ma certo che risolvere un problema da eccessivo sfruttamento di immagine, legandosi ad una nuova campagna dello stesso prodotto non mi sembra una gran soluzione).

COCA COLA – CENIAMO INSIEME: quando la Coca Cola fa un nuovo spot, chiunque si occupi di marketing deve drizzare le orecchie, ed infatti ho già parlato a suo tempo della campagna 2010. Se ci aggiungete che già nel 2006 in Stock volevo fare una concorso rivolto al consumatore basato sul concetto di “uno chef a casa tua” (realizzato quest’anno da Santa Margherita) e che nel 2010 in santa Margherita avevamo contatto Simone Rugiati per una nostra iniziativa (tutta la parte femminile del mio staff era d’accordo, ma i costi erano troppo elevati), capite perchè l’ultima campagna della Coca Cola non poteva sfuggirmi.
In termini strategici è il contrario degli esempi Lete e Poltrone e Sofà perchè costruisce sul concetto della felicità in tavola costruito nella campagna precedente. Sarà (l’ennesimo) successo? L’unico rischio che vedo è la perdità di semplicità nel legarsi ad un concetto di pasto troppo sofisticato. Vero è che l’ambientazione stressa il divertimento e la convivialità, mentre Rugiati ha un’alone di simpatia unico tra gli chef celebri. In questo caso confesso un po’ di invidia di budget.

LA SETTIMANA ENIGMISTICA: il mondo cambia ed i tempi sono duri per tutti, anche per la settimana enigmistica che si trova costretta a farsi pubblicità (cosa impensabile solo 5 anni fa). La campagna 2012 è un egregio esempio di eccellente comunicazione sia in termini di posizionamento che di realizzazione. Ammiro le idee creative così forti e chiare da poter essere realizzate con produzioni economiche. Ancora di più quando funzionano perfettamente in un 15″, così si riesce a risparmiare anche nella pianificazione.
L’unico dubbio che mi è venuto guardando questo spot è: sotto i 35 anni capiranno il concetto del filo tirato che “dà la carica”?.

Come quelle precedenti è una domanda vera, non retorica. Perchè in generale vedo poche campagne che possano interessare il pubblico sotto i trent’anni. e’ vero che il più difficile, ma è anche (banalmente) vero che è quello su cui si costruirà il successo futuro di ogni marca.

Fare comunicazione dando per scontato che tutti sappiano cos’è Carosello può portare risultati immediati, ma dubito ne porterà in futuro.

Make the money work harder

Dopo lunga pausa estiva, riprende Biscomarketing pubblicando un mio articolo uscito sull’ultimo numero de “Il Mio Vino”.
E’ un po’ lungo, ma punto sul recupero di energie che spero abbiate fatto durante questa calda estate.
Prima dell’articolo una precisazione: qualche settimana fa un’amica mi ha chiesto come mai scrivo su “Il Mio Vino” ed il tono suonava circa “Cosa ci fa un tipo come te in un posto come quello?”. La ragione è molto semplice, seguivano il blog ed ad un certo punto mi hanno chiesto se potevano riprenderne i post (ricordo che questo blog pratica il copyleft). A quel punto io ho suggerito di scrivere dei contenuti originali (finchè mi vengono in mente argomenti), quindi scrivo su “Il Mio Vino” perchè sono stati i primi a chiedermelo. Ovviamente non seguo nessuna linea editoriale e sono totalmente libero nei contenuti.
Ed ecco di seguito l’articolo, con il suo titolo originale:
MAKE THE MONEY WORK HARDER
Chi mi conosce sa che cerco di limitare l’utilizzo dei termini inglesi ai casi cui è strettamente necessario, per l’effettiva mancanza dell’equivalente italiano.
Uno di questi casi è l’espressione “make your money work harder”. Si potrebbe tradurre come far “fruttare al massimo i propri soldi”, ma secondo me non rende appieno quell’idea di soldi che lavorano, delle gocce di sudore che cadono dalle banconote e dalle monete nello sforzo di produrre di più, dato un determinato investimento. Non si tratta tanto ( o solamente) di scegliere l’ottimale allocazione delle risorse finanziarie tra le diverse strategie di investimento possibili, si tratta soprattutto di realizzare le strategie in modo da spremere al massimo i soldi spesi.
Un esempio esterno al mondo del vino credo renda immediatamente chiaro il concetto: l’inserimento del logo della Apple sul retro dello schermo dei computer MacIntosch, logo che si illumina quando il computer è acceso. E’ un accorgimento che non aumenta i costi di produzione (o li aumenta in misura risibile), però trasforma ogni computer Mac in un potentissimo mezzo di comunicazione, attraverso cui si moltiplica la visibilità del marchio ed il posizionamento del marchio. La pubblicità intrinseca nella macchina crea delle sinergie con le altre forme di comunicazione realizzate dalla Apple e viceversa. In più crea una sorta di effetto “passaparola” per cui ogni utente dichiara al mondo, volente o nolente, “io sto utilizzando un computer Mac”. NdA: settimane dopo aver scritto questo pezzo, ieri ho visto su “La Stampa” la nuova pubblicità dell’HP Spectre Ultrabook che ha come claim “Non ti servono le parole per dire chi sei”. Peccato che poi l’aspetto del portatile ricalchi quello del notebook Apple ultrapiatto. Possibile che nell’elettronica nessuno sia capace di differenziarsi dall’immagine della Apple, risultando alla fine sempre e comunque dei followers? Se nella moda c’è mercato per il minimalismo di Armani e per il barocco di Versace perchè non dovrebbe essere così anche nell’elettronica?
Come e dove si può applicare questo principio al mondo del vino?
Durante lo scorso Vinitaly in un momento di leggero sadomasochismo ho sfogliato il numero dedicato alla fiera veronese di tutte le riviste della stampa specializzata e non, guardando la pubblicità delle cantine. Purtroppo ho trovato quello che mi aspettavo: la grande maggioranza degli annunci (compreso uno mio, da qui il sadomasochismo) non indicava la posizione dello stand all’interno della fiera.
E’ vero che molte di quelle pubblicità sono state realizzate indipendentemente dal Vinitaly e quindi perseguivano obiettivi di comunicazione diversi. E’ però altrettanto vero che l’attenzione di operatori ed appassionati di vino in quel momento e focalizzata al Vinitaly, aumentando quindi la visibilità di tutto quello che ne è collegato, pubblicità compresa, e, soprattutto, che è molto probabile che si trovino in fiera.
Evitare, o dimenticare, di fornire il riferimento dello stand è un’occasione persa, che riduce in partenza la resa potenziale dei soldi investiti nell’acquisto di quella pagina pubblicitaria.
Sicuramente errori e mosse vincenti fanno parte della vita di tutte le aziende, ma sarebbe sbagliato ridurre questi due esempi a semplice aneddotica perché sono in realtà indicatori di un metodo (o della sua assenza), ed è attraverso il metodo che sistematicamente si riducono gli errori di gestione.
E’ giusto quindi trarre alcuni principi generali per ottenere il massimo dalle proprie strategie:
1. Riuscire ad ottenere il massimo dai propri soldi è innanzitutto una questione di atteggiamento mentale e non implica necessariamente costi aggiuntivi. L’atteggiamento mentale consiste nella consapevolezza che ogni attività genera (potenzialmente) una molteplicità di risultati.
2. Il passaggio successivo consiste nell’analizzare con il maggior dettaglio possibile e da diversi punti di vista cosa succede quando una determinata attività viene, chi ne viene effettivamente toccato e come.
3. A questo punto si è in possesso degli elementi per immaginare quali altri risultati, oltre a quelli principali per cui è nata, l’attività è in grado di generare. L’immaginazione, o se preferite la creatività, è fondamentale perché normalmente la misurazione e la ricerca dell’efficienza si basa sul miglioramento della resa rispetto ai parametri esistenti piuttosto che sull’aggiunta di altri risultati.
4. Infine va pianificata la realizzazione delle modalità operative in modo da raggiungere tutti gli obiettivi possibili. Attenzione che qui il termine possibili vuole anche sottolineare la necessità evitare di mettere troppo carne al fuoco, con il risultato di non cucinare niente.
Teoria? Io credo che in questo momento nel settore del vino ci sia una situazione di grande spreco di risorse potenziali che riguarda le modalità di realizzazione delle azioni di promozione del vino sui mercati extra-comunitari co-finanziate con i fondi UE.
Non mi riferisco a come questi sono spesi, ai vari richiami a fare sistema o a concentrarsi maggiormente su certi mercati o su determinate aziende. Questi sono discorsi di politica economica che esulano dal tema di questo articolo.
Mi riferiscono invece ad ottenere di più dalle attività già adesso, sostanzialmente con gli attuali meccanismi e l’unica cosa che cambierei è l’obbligo di inserire in tutti i materiali realizzati per le attività finanziati con i fondi europei la dicitura “Progetto finanziato ai sensi del Reg ….” accompagnata dalle bandiere italiana e della comunità. Si tratta di una dicitura che non ha nessuna utilità, anzi nei paesi che sono anche produttori di vino rischia di venir percepita come una sorta di concorrenza sleale operata da parte dell’Unione Europea ai danni dei produttori nazionali.
Prevederei invece al suo posto l’obbligo di inserire un slogan di posizionamento dei vino italiano, o quanto meno dei vini europei, qualcosa tipo “Vini italiani: il gusto della vita” (tanto per buttare lì una frase che renda l’idea). In realtà non è questo il contesto in cui definire quali dovrebbe essere i valori portanti del posizionamento tra i tanti possibili: storia, cultura, tradizione, qualità, sicurezza, autenticità, diversità, abbinabilità con il cibo, ecc..
Il punto è che così facendo il costo di tutto quello spazio, oggi sprecato, diventerebbe immediatamente un veicolo per rafforzare il posizionamento dei vini dell’Unione Europea nella competizione con quelli provenienti da altri paesi del vecchio e nuovo mondo.
Per di più creando delle sinergie con la comunicazione aziendale o consortile, che rimane la parte principale dell’attività.
Un aumento della produttività degli investimenti che, soprattutto in questa fase di riduzione delle risorse, mi sembra più un dovere che un’opportunità.

Trend spotting

Questa settimana sono stato due giorni a Londra e per qualche strana congiunzione astrale il 2012 è l’anno in cui Londra mi piace, anche se c’erano 20 gradie la classica pioggerellina londinese (o magari proprio per questo arrivando dalla minima di 30 gradi di Trieste).

Confermando la sua fama di metropoli d’avanguardia, ho notato alcune cose che mi hanno incuriosito e potrebbero essere segnali di tendenze, eccole:

CROWD JOURNALIM

Le cose curiose ho iniziato a vederle sulla rivista di bordo di Ryanair. D’altra parte buona parte del presente che viviamo oggi lo dobbiamo anche alla visione del futuro di Ryanair riguardo ai viaggi in aereo, quindi non c’è da stupirsi che siano dei catalizzatori di tendenze.
Ecco quindi l’incipit della rubrica di viaggi dove sono i lettori a segnalare, tramite i social media, dove manadare il giornalista e cosa deve vedere. Oramai può sembrare quasi ovvio, ma è un bel cambiamento rispetto allo standard ancora prevalente per cui io lettore mi aspetto che un (presunto) esperto di viaggi mi consigli dove andare e cosa fare/vedere.
Qui l’esperto è sostituito dalle indicazione di normali turisti che nei posti ci sono già stati. Non so se tra le tante segnalazioni, la decisione di quale seguire sia semplicemente quantitativa (si sceglie il luogo suggerito da più persone) oppure se c’è una valutazione qualitativa del giornalista/redazione. Vedo già la perplessità di chi dubita che la “massa” posso dare indicazioni interessanti rispetto ad un esperto specializzato, da cui il conseguente rischio di banalizzazione.
Potrebbero anche aver ragione, se solo i contenuti editoriali delle riviste di viaggio (e non solo) fossere dettati da scelte squisitamente giornalistiche e non dalle attività di PR dei vari enti di turismo. Ai giornali prezzolati, preferisco il crowd journalism.
Che poi l’autore dell’articolo non fosse un giornalista in senso stretto, ma un comico/umorista mi sembra la perfetta chiusura del cerchio.

LE CURE DENTALI COME COMMODITY

Questo è veramente opera di Ryanair, perchè senza i voli low cost a nessuno verrebbe in mente di prendere un aereo per andare dal dentista.
Quindi, ricordando dagli studi di economia aziendale, un’area d’affari viene definita dalla triade prodotto-mercato-teconologia. Qui la tecnologia dei voli low cost ha potenzialmente allargato l’area d’affari “cure dentali” in termini geografici all’intero continente. Questo è un dato di fatto e rappresenta un segnale delle tendenze che, grazie a questa tecnologia, si potranno verificare anche in altre aree d’affari.
Ma la cosa stupefacente è l’atteggiamento del mercato, inteso come consumatore. Credo di aver già scritto da qualche parte su questo post che uno dei trend del marketing è, già da anni, la banalizzazione o commoditization dei prodotti, ma mai avrei immaginato che si sarebbe applicato anche alle cure dentali. Il dentista è un medico che ti fa male, da poco a tanto in proporzione alla sua bravura. Io non metterei mai la mia bocca nelle mani di uno sconosciuto e non riesco a capire se è il rispamio che crea la fiducia o se c’è anche una valutazione di fondo da parte del mercato (consumatori) che le cure dentali siano oramai un prodotto standard in U.K. come in Italia, Lettonia o Portogallo.
Giuro: fossi stato un dentista inglese, mai sarei preoccupato della concorrenza da altri paesi europei. Anche perchè il turismo dentale implica il superamento di altre barriere operative come la conoscenza delle lingue (almeno l’inglese) da entrambe la parti ed il tempo necessario per le cure. Forse il mio dentista sarà arretrato (Fabio: lo scrivo ai fini del post, ma non lo penso), ma non è che tutti gli interventi si possano fare in una sola seduta.
Magari è qui che Oporto ha un vantaggio competitivo sulla Lettonia, grazie alla maggiore offerta turistica. Infatti la loro pubblicità recita “Visita Oporto e torna a casa con un sorriso nuovo”, mentre i lettoni dicono “Perchè volare in Lettonia? Per le cure dentali ovviamente” (come se non ci fossero altri motivi; chissà cosa ne pensa l’ufficio turistico di Riga).
Mi rimane un’ultima perplessità: se poi il risultato non è quello voluto (i ponti traballano, le gengive fanno male ecc..) uno cosa fa? Riprende l’aereo?

PUBBLICITA’ DRITTA AL PUNTO

Questa è la pubblicità del mio nuovo cliente che serve i locali horeca nella zona di Londra. Mi è sembrato un esempio eccellente di call to action il “Contact us URGENTLY” e di reson why il “for the BEST price/service in town”. Poi bisogna mantenere la promessa, ma a questo ci pensa la cultura del lavoro degli indiani emigrati in U.K. di cui ho già scritto.

BACARDI CHI?

Facciamo finta che voi siate una multinazionale di liquori e distillati con un logo consolidato a livello mondiale, allestireste lo stand in una Fiera rivolta al settore horeca del Regio unito, uno dei principali mercati del bere miscelato, con un logo nuovo? Io direi di no e quindi non mi spiego questa scelta di Bacardi, soprattutto visto che non era supportata da alcuna comunicazione e sulla bottiglie di rum c’era il noto, solito, logo del pipistrello (meno male mi viene da dire).

VANTAGGI, NON CARATTERISCTICHE

Come le due foto di prima, anche questa è un esempio di marketing ben fatto, più che segnale di tendenza.
La nota, spesso dimenticata e sottovalutata, questione che il cliente acquista i vantaggi/servizi contenuti nelle caratteristiche del prodotto e non le caratteristiche in sè.
C’è chi se lo ricorda e ne fà il centro della propria porposta, bravi!

BEVANDE AROMATIZZATE
Qui non ho una foto perchè mi sono dimenticato la rivista in ufficio, però la dichiarazione di un operatore mi ha colpito talmente che me la ricordo a memoria “Il problema con la gente del vino e che parlano ai consumatori (alle persone, n.d.a.) partendo dal presupposto che siano totalmente coinvolti dal prodotto, mentre per la maggior parte delle persone il vino non è altro che una bevanda aromatizzata fatta con l’uva”. Questo lo dedico a Chiara Giovoni per il suo ultimo post sull’industria del vino.

Biscomarketing chiude per ferie (almeno lui). Ci si ritrova dopo ferragosto, buon riposo a tutti.

Precisetti

Lo so che avevo promesso la seconda parte del tema “C’è un sistema per fare sistema”, però è estate anche per i blogger, oltre che per chi li legge.
Il tempo è sempre poco e si riduce ancora di più se uno pèassa un mezzo pomeriggio al mare (d’altra parte con questo caldo, abitando a Trieste, non farlo sarebbe un’assurdità).

Allora rimando i ragionamenti sui massimi sistemi sine die, ma ci torno prometto, e metto il blog in modalità estiva con i classici pensieri in libertà su un paio di pubblicità recenti.

La prima l’ho sentita in radio venerdì ed è la nuova campagna di Europ Assistance. Ora non posso essere sicuro perchè non sono riuscito a riascoltarlo, però mi pare che ad un certo punto dica di “…quella volta in turchia con il dottore che parlva arabo”. Ora, se fosse vero, capisco che il “parlar arabo” è un archetipo che ha una sua efficacia intrinseca, ma perchè non usare la Tunisia, che è una meta esotica dai tempi di “Poster” di Baglioni.

Ho già sottolineato il 30 marzo 2009 (tempus fugit)che distinguere tra falce messoria e falce da foraggio è forse eccessiva pignoleria, però quella tra i turco e l’arabo mi sembra una differenza abbastanza macroscopica.

Se trovate lo spot sul web, per cortesia segnalatemelo così verifico. In realtà però questo dettaglio da precisetti forse non è poi così importante, perchè cercando lo spot sul web ho trovato una serie di cose curiose:
1. sulla rete si trovano vari blog che riportano la campagna stampa, nessuno che riporti quella web e quella radio (problemi di diritti?).
2. Nella campagna stampa si invita a seguire Europe Assistance su facebook, peccato che sul sito non ci sia alcun pulsante di collegamento diretto con la pagina facebook.
3. Andando su facebook con un minimo impegno (ma perchè un cliente normale dovrebbe metterci dell’impegno anche minimo?) ho trovato la pagina di Europe Assistance Italia, ma anche qui niente campagne web e radio.

Per la cronaca la campagna è stata realizzata dall’agenzia Publicis, mentre PR on e off line sono curate dall’agenzia weber shandwick.

La seconda l’ho vista oggi al mare leggendo l’ultimo numero dell’Internazionale: è la campagna delle auto Honda “super formula relax”. Non è firmata e non sono riuscito a scoprire qual’è l’agenzia però devo ringraziarli perchè mi hanno rubato un sorriso di dolce nostalgia quando ho letto la call to action a fondo pagina: “GUIDALE E RITIRA SUBITO IL SIMPATICO OMAGGIO”. L’ultima volta che ho visto l’espressione “simpatico omaggio” sarà stato vent’anni fa.

Si vede che è estate anche per i creativi.

State freschi se potete.

C’e’ un sistema per fare sistema? 1

Due premesse per aprire questo post:
- non e’ un post che riguarda solo il settore vitivinicolo, e’ un post che riguarda ANCHE il settore vitivinicolo. L’ho specificato perche’, come sapete, mi preoccupa un po’ la deriva enologica che puo’ prendere il blog e dopo 5 anni nel settore comincio anche io ad essere vittima dello strabismo che porta chi si occupa di vino a percepire il settore come assolutamente specifico e centrale dell’universo. Se credete che esageri, eccovi due citazioni da “L’invenzione della gioia” di Sandro Sangiorgi
Pag 5 … “Essere nel vino” non e’ solo un dovere di chi lo produce ma snche di chi lo consuma….
Pag 21 il Vino contiene il mondo, per questo motivo non dobbiamo precluderci alcuna associazione……
E poi ci stupiamo se i consumi di vino calano e quelli di birra crescono ….
- Leonardo Sciascia riferendosi alla sua Sicilia natale parlava di terra irredimibile. Recentemente ho sentito questa medesima espressione riferita all’Italia sia nelle conversazioni di colleghi che in un articolo sul Corriere (credo). Se la condividete (e non e’ detto che abbiate torto) potete risparmiavi di leggere questo post. Se invece non ci credete perche’ siete testardi e/o sognatori, magari trovate qualcosa di interessante.
Entrando nel merito, sento l’espressione “necessita’ di fare sistema” almeno da quando lavoro (ma probabilmente qualcuno me l’avra’ gia’ detta all’universita’). Visto che la si ripete da oltre vent’anni ho e’ una bugia (falso ideologico), nel senso che questa necessita’ o utilita’ non e’ reale, oppure siamo tutti degli incapaci.
Il corollario, almeno in ambito alimentare, e’ tipicamente “dovremmo imparare dai francesi e dalla loro Sopexa”. Sopexa e’ l’agenzia a capitale pubblico (ma forse adesso la struttura dell’azionariato e’ cambiata) che guida le strategie di internazionalizzazione dei prodotti agro alimentari francesi. In pratica l’equivalente in termini istituzionale del nostro ICE (che non ho capito se esiste ancora oppure no); per un’ idea sul livello di equivalenza operativa credo che basti vedere i due siti.
E qui nuovamente viene il sospetto che siamo degli incapaci perche’ alla fin fine copiare da quelli piu’ bravi non dovrebbe essere cosi’ difficile.
Per affrontare la questione in modo efficace, ossia sperando di trovare delle soluzioni, la capacita’ va analizzata nelle sue due componenti: l’abilita’ e la volonta’. In realtà molti anni fa, in una serata al Caffè Concerto di Favaro Veneto (il locale esiste ancora), ero arrivato alla convinzione che la componente essenziale sia la volontà perchè con la volontà (e con il tempo) le abilità di acquisiscono.
Però per capire che abilità ci vogliono per fare sistema e quindi dove dirigire la nostra volontà bisogna prima definire cosa si intende per fare sistema.
Io mi sono applicato un po’ in ricerche in rete, ho trovato un’infinità di link (come tutti non sono andato oltre alla seconda pagina di google), riguardanti i settori più diversi e gli ambiti territoriali più vari, però una definizione chiara e condivisa di cosa significhi e di quali siano i requisisti necessari per fare sistema, non l’ho trovata.
L’espressione, o lo slogan se preferite, “fare sistema” viene utilizzato senza circostanziarlo, dando per scontato che tutti gli interlocutori ne diano la medesima interpretazione, ne riconoscano i medesimi vincoli e vantaggi. I problemi sorgono quando si cerca di passare dalle parole ai fatti, quando le diverse interpretazioni vengono evidenziata dalla realtà.
Credo quindi sia fondamentale definire in modo più preciso il concetto e soprattutto circoscriverlo perchè anche la pratica aziendale dimostra che nell’integrazione tra diverse aree di business si raggiunge un punto in cui la complessità dovuta all’eterogeneità, più che alla dimensione, crea dei problemi di efficacia e l’efficienza si stabilizza (quando non incomincia a peggiorare).
Da qui in avanti quindi cercherò di analizzare il concetto del “fare sistema” relativamente al settore agro-alimentare, in termini settoriali ed all’Italia in termini geografici. L’approccio sarà, ovviamente, di marketing quindi partendo dal mercato l’obiettivo del fare sistema sarà principalmente quello di migliorare la proposta del settore agro-alimentare sui mercati esteri.
Non è detto che quello che ne verrà fuori non possa essere valido anche per altri settori, oppure per aggregazioni di diversa dimensione settoriale e/o territoriale oppure anche per il mercato nazionale. Anzi spero sia così, ma circoscrivendo (relativamente la questione) credo sia più facile evitare il rischio di perdersi nell’eccessiva complessità e non arrivare a nessuna conclusione.
Nel prossimo post il primo punto dell’analisi: PERCHE’ fare sistema?

Un posto pulito, illuminato bene.

Ho come il timore che il blog stia prendendo una piega da “pensierini sparsi” o, bene che vada, anedottica. Forse è inevitabile dopo tanta teorizzazione strategica e forse per un po’ non fa neanche male.
L’impressione però è di aver già detto tutte le cose interessanti che avevo da dire perchè quello che mi viene da scrivere oscilla tra considerazioni sui massimissimi sistemi, destinate quindi a rimanere fini a se stesse, è quotidianità spicciola.
Magari è un sintomo che l’eccesso di operatività quotidiana mi impedisce di vedere l’essenza della cose oppure una conseguenza di aver girato 3 continenti in poco più di un mese.

Ad ogni modo questo episodio che mi è successo a Londra 3 settimane fa mi frulla in testa da allora, quindi un senso dovrebbe pur averlo. Eccolo.
Un dopo cena non avevo voglia di andare direttamente in camera a guardare le mail (sic!) prima di dormire, così sono andato sulla terrazza fronte Tamigi dell’albergo (Hilton Docklands Riverside, non fatevi ingannare dall’altisonanza del nome: costa poco più di 100 euro a notte) ed ho chiesto un bourbon sour al cameriere. Dopo mezz’ora che mi godevo il panorama di Canary Warf ho cominciato ad avere qualche dubbio sul fatto che mi avrebbero portato qualcosa, quindi mi sono alzato (il cameriere latitava da un po’) e sono andato a al bar a chiedere lumi. Chiesto al ragazzo che c’era al bar, non gli risultava nessun ordine e quindi ho chiesto a lui di prepararmi un bourbon sour (ci ho messo un po’ perchè lui continuava a chiamarlo un whisky sour con il bourbon ed io volevo essere sicuro che non mi arrivasse nè uno scotch sour nè un Jck Daniels sour). A questo punto mi sono seduto ad un tavolo lì davanti stile “pro memoria” vivente. Passato un’altro quarto d’ora invano ho chiesto lumi al capo barman, che non ne sapeva niente nemmeno lui (serata sfortunata) ma, visto anche il mio tono un po’ brusco, mi ha detto che me lo avrebbe portato subito.
Altri dieci minuti ed arriva scusandosi, ma non avevano zucchero (???!!!) per cui non poteva farmi il bourbon sour e mi ha proponeva un’altro cocktail in alternativa (che adesso neanche mi ricordo). Ho detto sì per puro sfinimento, ho bevuto il mio drink rapidamente (oramai si stava facendo tardi) e sono andato a pagare. A quel punto con un cenno il capo barman mi ha detto che offriva la casa
L’esperienza, fino a quel momento pessima, si è trasfomata in positiva di fronte alla considerazione che avevano avuto nei miei confronti.
Ne ricavo almeno due considerazioni:
- la deontologia del servizio, rispetto (recirpoco) e etica del proprio lavoro che permea la professione del bartender (barman è in realtà un anglicismo italiano). Più uno chef senza prosopopea che un cameriere specializzato.
- l’”empowerment” che discende da questa deontologia e che permette al bartender di gestire le situazioni secondo la sua sensibilità (quante volte a fronte di un disservizio ci siamo sentiti dire che avevamo ragione, ma purtroppo le regole impedivano di trattarci in modo diverso oppure che c’era bisogno di parlare con un “responsabile”)
Forse è un film che mi faccio io, influenzato dalle letture idealizzanti, da Hemingway a Marco Mascardi, però nell’economia del terziario avanzato basata sui servizi, la cultura dei bartender professionisti potrebbe essere un utile riferimento negli ambiti più diversi.
La cosa più interessante è che si tratta di una cultura talmente solida e consolidata da mantenersi sostanzialmente inalterata in tutto il mondo.
La settimana scorsa ero al banco del bar dell’ Hotel International di Pechino (poco meno di 100 euro a notte), ho chiesto un Singapore Sling e il bartender, ancora prima di preparare il cocktail, mi ha allungato il quotidiano del giorno.
“Is not what you do, is the way you do it”.

Istantanee dalla Cina

Dopo una settimana in cina l’impressione è che l’asticella della turbocompetizione sia parecchio alta. Un paio di esempi fotografici

LO SPIRITO DI PECHINO

Questo qui sopra è il cartello che si trova sui nastri del ritiro bagagli dell’aeroporto, ma lo si ritrova in città un po’ ovunque (su tutti i cantieri delle opere pubbliche per esempio).
E’ ovvio che tra l’ideale e la realtà non è detto che ci sia corrispondenza perfetta, comunque una città che si dà una mission (e la condivide con i propri cittadini) che recita: pattriottismo-innovazione-inclusione-virtù sposta sicuramente in alto il livello della competizione.

TRACCIABILITA’ ALIMENTARE

Quello che vedete qui di fianco sono invece il fronte ed il retro della cartolina che mi hanno dato in un ristorante quando mi hanno servito l’anatra arrosto alla pechinese.
Sul fronte viene riportato il numero identificativo della nostra anatra, mentre sul retro (pre affrancato) il talloncino del ministero (presumo dalla citazione del sito www.safetyfood.gov.cn).
La tracciabilità portata fin sul tavolo del consumatore ed un obbligo di legge trasformato in strumento di posizionamento e comunicazione sia per il cliente al tavolo che per quelli a cui viene (eventualmente) inviata la cartolina.
Chapeau anche per l’anatra: buonissima.

Una nota conclusiva: queste foto in realtà voleto postarle già dalla Cina, però lì non è possibile accedere nè a twitter, nè a facebook, nè a youtube, nè a google maps. Malgrado uno lo sappia prima di andarci, ricevere il messaggio che la pagina non può essere caricata fa un po’ strano (e anche un po’ paura).

LA CINA E’ VICINISSIMA

Oggi parto per Pechino e torno domenica (lavoro, ma spero di attaccarci almeno un giorno di turismo).

Salta quindi l’usuale post del fine settimana.

Se proprio ne sentite la mancanza, rileggetevi quello sul terroir di martedì scorso.

Ni hao.

Di terroir e territori.

Su “Il mio vino” di oggi è uscito il mio articolo sul concetto di terroir. Benchè sia, ovviamente, focalizzato sul settore vitivinicolo molte considerazioni valgono per i prodotti a denominazione d’origine in generale.
Qui sotto trovate il pezzo in versione integrale, senza i tagli necessari per farlo rientrare negli spazi del giornale (niente di criciale, però probabilmente così scorre un po’ più fluido). Qualche piccolo privilegio per i lettori di biscomarketing.
Ul lato negativo è che, essendo l’articolo già uscito, non ha senso pubblicarlo qui in due puntate, come la lunghezza e densità dell’argomento avrebbe consigliato. Comunque niente vi impedisce di leggerlo a pezzi, anche perchè sabato parto per la Cina e quindi forse il blog avrà una pausa più lunga del solito.

Il mio professore di marketing management in Canada diceva che un problema mal risolto è un problema mal definito almeno nel 50% dei casi. Alla luce dell’esperienza di quasi vent’anni di professione in diverse aziende del settore agro-alimentare mi sento di dire che se sbagliava, forse era nella percentuale che secondo me è ancora più alta.
Ecco perché sono un convinto assertore della necessità di definire chiaramente i termini delle questioni che si presentano nella pratica della gestione aziendale. La chiarezza deriva innanzitutto dalla condivisione del significato delle parole da parte di tutte le persone coinvolte, perché questa è la precondizione per sviluppare poi soluzioni il più possibile efficienti nell’uso delle risorse ed efficaci nel raggiungimento dei risultati. Viceversa si rischia di definire percorsi che portano in luoghi diversi da quelli previsti (i risultati) o ci arrivano con percorsi più lunghi/tortuosi e quindi costosi di quelli che si sarebbero tracciati con una più corretta comprensione del problema.
Per fugare ogni dubbio che si tratti di un discorso un po’ troppo teorico e fumoso aziendale, vorrei utilizzare l’esempio della terminologia nautica, la cui conoscenza precisa da parte di tutti quelli che sono sulla barca è essenziale per navigare in sicurezza secondo la rotta stabilita.
Operando nel settore vitivinicolo confesso che mi sento sempre un po’ in “pericolo” quando si affrontano questioni legate al concetto di terroir.
Io ho iniziato ad occuparmi di terroir nel 1992, che è stato l’anno di promulgazione dei primi regolamenti UE sui prodotti alimentari DOP ed IGP da cui è derivato il modello utilizzato poi recentemente anche dall’OCM vino. Al tempo stavo facendo il dottorato in Università ed ero tra i componenti di un gruppo di ricerca pan-europeo guidato, ovviamente, da ricercatori francesi.
Il concetto di terroir che ho imparato quella volta dalla cultura che l’ha creato, corrisponde sostanzialmente con quello che si può trovare sull’edizione francese di Wikipedia (la libera traduzione e mia e mi scuso in anticipo per le eventuali imprecisioni): il terroir è uno spazio geografico delimitato, definito a partire di una comunità umana che nel corso della propria storia ha costruito un insieme di tratti culturali distintivi, di saperi e di pratiche. fondati sull’interazione tra l’ambiente naturale ed i fattori umani. Il saper fare così sviluppato rivela una originalità, conferisce una tipicità e permette di riconoscere i prodotti o servizi originari di quel determinato spazio e dunque provenienti dalle persone che lì vivono. I terroirs sono degli spazi viventi ed innovatori che non possono essere assimilati alla sola tradizione.
Detto in altre parole un terroir è il risultato della combinazione con cui si sono sviluppati nel corso della storia di elementi geoclimatici e socioeconomici presenti in una determinata zona
Sempre Wikipedia francese sottolinea come spazi con potenzialità e limiti fisici uguali (o simili) diano luogo a terroir diversi, a seconda delle civiltà che ci si sono insediate, sottolineando così il ruolo qualificante della dimensione culturale del terroir.
Se riferendosi ai francesi è tutto chiaro, le cose cambiano per la definizione di terroir data dalla versione di Wikipedia italiana: Il terroir può essere definito come un’area ben delimitata dove le condizioni naturali, fisiche e chimiche, la zona geografica ed il clima permettono la realizzazione di un prodotto specifico e identificabile mediante le caratteristiche uniche della propria territorialità. Il terroir definisce anche l’interazione tra più fattori, come terreno, disposizione, clima, viti, viticoltori e consumatori del prodotto. Il terreno, la sua composizione geologica, le varie erosioni intervenute per fattori chimici, fisici e biologici, i microrganismi, la macrofauna, la concimazione minerale in aggiunta alla concimazione organica, la topografia del terreno con i diversi approvvigionamenti idrici, i diversi tipi di clima e di conseguenza le diverse temperature, ventilazioni, esposizioni solari ed umidità, fanno si che un vitigno, impiantato in diversi terroir possa produrre uve con caratteristiche diverse e di conseguenza vini molto differenti tra loro nella struttura e negli aromi. Con terroir, quindi, si intende un concetto molto vasto che riassume tutti i criteri che contribuiscono alla tipicità di un vino.
Si nota infatti come la componente socioeconomica sia considerata in modo estremamente sfumato, citando viticoltori e consumatori, a cui si contrappone una caratterizzazione delle uve e del vino legata esclusivamente agli aspetti pedoclimatici. In realtà questa definizione si riferisce più ad un territorio che ad un terroir. Colpisce anche che il concetto di terroir sia implicitamente riferito esclusivamente al vino.
A questo punto conviene allora vedere cosa intende per terroir vitivinicolo l’O.I.V. (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino con sede, si badi bene, a Parigi. La definizione ufficiale di terroir vitivinicolo adottata nel 2010 recita: il terroir vitivinicolo è un concetto che si riferisce ad uno spazio (geografico) sul quale si è sviluppato un sapere collettivo dall’interazione tra un ambiente fisico e biologico identificabile e le pratiche vitivinicole applicate, fino a conferire delle caratteristiche distintive ai prodotti originari di quel determinato spazio (geografico).
In questa definizione gli aspetti socioeconomici hanno un peso maggiore, però sono considerati in un’ottica sostanzialmente statica per cui le pratiche vitivinicole si fossilizzano nelle forme raggiunte attraverso il processo storico di apprendimento e consolidamento. Diventa così impossibile trovare quell’equilibrio tra storia ed innovazione che permette alla tradizione di evolversi per non tradire se stessa.
Concludendo questa lunga premessa teorica credo sia giusto ricordare che dell’ambiente socio-economico fanno parte anche i consumatori, o co-produttori come direbbe Petrini, attraverso l’adozione e diffusione dei prodotti provenienti da un determinato terroir. Se già in passato ci sono esempi di separazione geografica tra il terroir di produzione ed i suoi consumatori (come sarebbe evoluto il terroir Bordeaux senza il mercato inglese?), oggigiorno questo è la norma più che l’eccezione. Confrontarsi con un’eterogeneità di consumatori, appartenenti a culture diverse, richiede da parte delle componenti produttive del sistema del terroir una particolare attenzione alla propria identità essenziale.
Fin qui solo teorica, ma in pratica? In pratica una interpretazione del concetto di terroir chiara e condivisa da tutti gli operatori è indispensabile per gestire con successo le Denominazioni d’Origine.
L’esempio dell’importanza del ruolo delle componenti socio-economiche nella definizione e nel successo di un terroir appare evidente nel caso della Franciacorta.
Si tratta infatti di uno spazio geografico senza tradizione vitivinicola, che nell’arco di 50/40 anni è diventato per tutti il terroir di eccellenza delle bollicine italiane. Eppure, pur non essendo un esperto in agronomia ed ampelografia, dubito si possa dire che dal punto di vista pedoclimatico presenti delle condizioni migliori e più omogenee rispetto a zone di maggior tradizione come, ad esempio, Asti, Trentino o L’Oltrepo Pavese.
Quello che ha permesso al Franciacorta di diventare il successo che è oggi è stata l’interpretazione originale, direi pure la scoperta, di una specifica visione dell’enologia applicata ad un determinato territorio.
Ancora più interessante notare come in Franciacorta questa interpretazione del territorio sia partita da alcune cantine e si sia poi diffusa tra i nuovi produttori che man mano entravano ad operare nella zona, che consolidavano così quella cultura vitivinicola su cui si basa la creazione del terroir.
E un fenomeno unico nella realtà italiana dove normalmente ad una denominazione forte corrispondono marchi aziendali deboli e viceversa. In Franciacorta invece la coesione dei produttori nell’adottare un’interpretazione omogenea del territorio determina una sinergia in cui il riferimento delle cantine di eccellenza ricade su tutto il territorio, stimolando comportamenti di emulazione, più che di imitazione, in un circolo virtuoso che rafforza ulteriore la cultura, l’identità e quindi l’immagine del terroir.
In sintesi nell’eccellenza che sta alla base del successo del Franciacorta il fattore umano gioca un ruolo almeno altrettanto determinante dei fattori pedoclimatici (se non di più). Tralasciare questa componente nella gestione di una denominazione comporta sicuramente un indebolimento dell’identità che impedisce al terroir nel suo complesso di mantenersi dinamico ed allo stesso tempo coerente con la propria storia.
La conseguenza è oscillare tra i due estremi della fossilizzazione in una tradizione fine a se stessa o l’inseguimento di consumi congiunturali attraverso scelte che rischiano di disperdere in pochi anni una reputazione costruita nel corso di decenni, quando non di secoli.