L’importanza del vantaggio del pioniere.

Con il termine “vantaggio del pioniere” in economia aziendale si intende quel vantaggio competitivo intrinseco a quei prodotti/marche che sono stati i primi portatori di una innovazione, capaci nei casi più eclatanti di dare origine ad una nuova categoria di prodotto.
Ne ho accennato brevemente in un mio post del 2015 che riguardava Melegatti, ma credo valga la pena di riprendere, approfondendolo, il concetto per i vantaggi che porta all’azienda “pioneristica” e quindi come fare a valorizzarlo e mantenerlo.

Il vantaggio del pioniere è potenzialmente più diffuso di quanto non si pensi, perché può collegarsi ad innovazioni anche (apparentemente) non radicali dal punto di vista industriale, ma significative per il consumatore. Come sempre parlando di marketing il riferimento è il vantaggio percepito dalle persone (consumatori).
Questo permette quindi di anche ad aziende già esistenti ed operanti in mercati consolidati, se non maturi, di creare prodotti (servizi) in grado di ottenere un “vantaggio del pioniere”. Evidentemente per farlo è necessario comunicare alle audiencies la propria innovazione.
Restando nel campo che conosco meglio, quello degli alimenti e bevande, un esempio di questo tipo può essere il salame Golfetta, creato pochi decenni fa dall’azienda Golfera (interessante il loro positioning statement “I nuovi salumi dal sapore antico”).

Il vantaggio del pioniere può essere sfruttato per ottenere grandi volumi, come ha fatto la Coca Cola, oppure un prezzo di vendita superiore, come Nescafè, oppure entrambi, come Nutella.
C’è un continuum che va dai volumi di vendite al prezzo esclusivo che dipende dalle strategie della marca, ma anche dalla portata dell’innovazione pioneristica.

L’altra cosa interessante è che il plus di immagine che deriva dall’essere (considerati) pionieri per un determinato prodotto conferisce un affetto alone alla marca di cui possono beneficiarsi altri prodotti nella stessa categoria e persino prodotti e marche dell’azienda in categorie diverse.

Vista l’importanza del vantaggio del pioniere è sorprendente la frequenza con cui le aziende lo lasciano indebolirsi fino a svanire. Indipendentemente da quello che possono fare i concorrenti, la responsabilità della perdita del vantaggio del pioniere ricade innanzitutto sull’azienda che lo detiene.
Essenzialmente il vantaggio del pioniere infatti si perde sempre perché si smette di coltivarlo. E si smette di coltivarlo perché in azienda si smette di crederci. E si smette di crederci perché nelle aziende le persone cambiano o (forse più spesso) si stufano.
Ricordo che in una delle aziende in cui ho lavorato, all’inizio i miei sforzi maggiori si sono rivolti a rifocalizzare l’azienda sul proprio vantaggio del pioniere. Mentre definivamo e sviluppavamo la strategia un collaboratore mi ha chiesto “Ancora? Ma fino a quando potremmo andare avanti a dire che siamo stati i primi?” e io ho risposto “Per sempre.”

Essere il pioniere di un determinato tipo di prodotto / categoria non scade mai, è per sempre.

Purtroppo però questo in azienda viene scambiato come la necessità/possibilità di ripetere semplicemente e meccanicamente il fatto, come si trattasse di un compleanno.

Con il passare del tempo, e con l’intensificarsi della concorrenza da parte di followers e/o imitatori il pionerismo va coltivato alimentandolo di idee. Tanto di più quanto più il nostro prodotto ha un successo tale da diventare il nome generico della categoria per la maggioranza delle persone, come ad esempio nel caso delle Sottilette Kraft.
Il pionerismo quindi dovrà essere citato in tutti gli ambiti e le occasioni, sia perché non venga dimenticato dal mercato sommerso e confuso dai concorrenti, sia perché è la base del nostro valore superiore.
Allo stesso tempo però dovrà essere confermato da una continua innovazione che andrà ad arricchire il prodotto/marca in tutti i suoi aspetti. Detto in altre parole bisognerà continuare ad essere pionieri e dimostrare di vivere alla frontiera del settore, con la capacità e curiosità di spostarla sempre un po’ più (avanti, di lato, sopra, sotto).

Non dovrebbe essere difficile perché in quanto pionieri, oltre ad una maggiore credibilità intrinseca in quello che facciamo nei confronti delle audiencies, abbiamo un vantaggio di partenza nelle curve di esperienza, sia che si tratti di sviluppo di prodotto che di processo.
A meno che, come dicevo, non ci annoiamo/rilassiamo oppure ci distraiamo. Capita infatti che il successo dell’innovazione pioneristica sia tale da creare risorse che ci portano ad entrare in settori totalmente distanti rispetto a quello in cui siamo nati e cresciuti. Magari anche potenzialmente più redditizi. Ecco quindi che il nostro prodotto pioneristico con il tempo perde di importanza fino a diventare marginale.
Il problema è che nel momento in cui il nostro business originario va in crisi, rischia di entrare in crisi tutta l’azienda, settori nuovi compresi.

Mi rendo conto che (come al solito?) queste riflessioni possono sembrare pure speculazioni teoriche, ma vi assicuro che non è così. Pensate a Nokia (noia/rilassamento) oppure a Benetton (distrazione).

Sicuro che se vi concentrate un attimo vi vengono in mente altri esempi relativi al vostro settore. Fatelo e cercate di imparare dagli errori altrui, che costa meno di imparare dai propri.

E se il problema principale di Melegatti fosse la qualità del prodotto e non comunicazione e posizionamento?

Si sa, biscomarketing è un blog “freddo” che raramente è sulla notizia, ma spesso ci torna.

Un paio di settimane fa è “esploso” il caso Melegatti a causa di una serie di comportamenti erratici che l’azienda ha tenuto in termini di comunicazione (stile, toni e contenuti), soprattutto legati al lancio del pandoro ad edizione speciale Valerio Scanu.

La questione è stata analizzata approfonditamente in un lungo post di Frank Merenda, che in diversi cruciali passaggi ho trovato sinceramente grossolano. Detto in sintesi “marketing da bar” o, parafrasando Saint-Exupery nei confronti di Pirandello, “marketing da portinai” (poi è arrivato “L’eleganza del riccio” a smentirlo, riguardo ai portinai non su Pirandello).

Sarà per questo che il post di Merenda ha poi trovato grande diffusione sul web? Forse si, o forse sono io che da presuntuoso sto diventando elitista. Poco importa, il punto è che un analisi basata su presupposti sbagliati rischia fortemente di portare a soluzioni altrettanto sbagliate.

Il posizionamento di Melegatti come il Pandoro Originale è già stato sconfitto sul mercato.
Io sono nato nel 1963 e mi ricordo che da piccolo a Natale ero il bambino “rompiscatole” perchè mangiavo solo il pandoro ed assolutamente non mangiavo l’onnipresente panettone (non mi piacevano i canditi, che oggi adoro).

Ovviamente mangiavo Melegatti, che era l’unico pandoro sul mercato.

Dati aggiornati sui consumi non ne ho trovati, quelli del 2004 davano la produzioni di panettoni doppia rispetto al pandoro (fonte AIDI/Mark-up). Oggi, se guardo gli spazi che hanno i prodotti nella grande distribuzione credo di non sbagliare troppo stimando che la vendite delle due categorie di prodotto sia sostanzialmente equivalente (sarei tentato di dire che si vende più pandoro, ma magari sono influenzato dai miei ricordi d’infanzia).

Diciamo quindi che negli ultimi vent’anni c’è stato uno spostamento delle preferenze dal panettone al pandoro.

Chi ne ha beneficiato? Le quote nel mercato del pandoro+panettone nel 2012 (anche qui dati più recenti non ne ho trovati) vedevano il primato di Bauli con il oltre il 40%, seguita da Melegatti con il 15%, Balocco 12%, Maina 7%, Dal Colle e Paluani con il 3%-4% ognuna (fonte L’arena)

Bauli per il 2011 ha pubblicato i dati distinti per segmento ed indicava una quota nel mercato del pandoro pari al 31,9%.

Sostanzialente negli ultimi 30 anni Melegatti è stata doppiata sul mercato dei prodotti da ricorrenza da un concorrente che nasce con il pandoro e prima era praticamente inesistente.

Un concorrente che ha saputo avvantaggiarsi molto di più della tendenza di mercato a favore del pandoro e, forse, ha anche contribuito a crearla.

Un concorrente che grazie al pandoro ha saputo costruire una marchio con una forza tale da poter diventare un marchio ombrello con cui entrare con successo prima nel mercato del panettone e poi in quello delle merendine. Tutti mercato che apparivano fortemente presidiati da marchi storici.

Qual’è il punto? I punti sono 4:

1) Dopo tutti questi anni da follower il posizionamento intrinseco di Melegatti come pioniere del pandoro si è consumato. Questo non significa che non possa essere il posizionamento corretto per la marca, ma va ri-costruito ex novo.

2) Il “vantaggio del pioniere” esiste (lo so per esperienza avendo gestito Stock 84, Keglevich, Pinot Grigio Santa Margherita), ma non è basato sui valori della tradizione. E’ basato sui valori dell’avanguardia e dell’archetipicità. Va quandi alimentato e rinnovato attraverso ricerca ed innovazione. Non rispetto al mercato, ma rispetto a se stessi.

3) Il marketing della nostalgia è di corto respiro e raramente è riuscito a rilanciare i marchi.

4) Forse è vero che Melegatti non può essere altro che pandoro e quindi deve rassegnarsi a vedere ridimensionato il suo ruolo rispetto ai concorrenti, ma posso capire che l’azienda cerchi di recuperare posizioni visto che i concorrenti dimostrano che estendere il marchio a nuovi, profittevoli, segmenti. Attenzione, non si tratta di semplice ambizione, ma della necessità di creare risorse per competere anche nei segmenti tradizionali (in altre parole fare i soldi con le merendine per finanziare le campagne pubblicitarie dei pandori).

Poi ci sarebbero anche delle interessanti considerazioni sulle peculiarità del marketing dei prodotti da ricorrenza (ho gestito anche quelli), ma poi il post diventa lungo e dispersivo.

 

Torno al titolo del post: e se il problema del pandoro Melegatti fosse la qualità intrinseca del prodotto?

Nel “marketing da bar” si trova spesso quella che io chiamo la “sindrome del persuasore occulto” dal titolo del libro di Packard del 1957.

E’ la sindrome di chi crede che sia sufficente saperla raccontare bene ed avere grandi budget pubblicitari per sbolognare qualsiasi cosa a chiunque.

La teoria e la pratica del marketing ci dicono che non è così. Meno che meno nel caso dei prodotti alimentari, visto che tutti siamo esperti dei nostri gusti.

E se la vittoria di Bauli nella guerra dei pandori fosse dovuta ad una migliore qualità intrinseca.

Da vecchio consumatore di pandoro il dubbio l’avevo già, mi si è rafforzato quando ho visto l’immagine con cui Melegatti è tornata alla tradizione, seguendo i “consigli” della rete.

Pandoro Melegatti.jpg large

Ora, signori Melegatti se questo è il meglio che avete scelto per di-mostrare la qualità (se non l’eccellenza) del vostro pandoro io consiglieri di concentrarsi sulla P di Prodotto, non a caso la prima del marketing mix.