C’e’ un sistema per fare sistema? 1

Due premesse per aprire questo post:
- non e’ un post che riguarda solo il settore vitivinicolo, e’ un post che riguarda ANCHE il settore vitivinicolo. L’ho specificato perche’, come sapete, mi preoccupa un po’ la deriva enologica che puo’ prendere il blog e dopo 5 anni nel settore comincio anche io ad essere vittima dello strabismo che porta chi si occupa di vino a percepire il settore come assolutamente specifico e centrale dell’universo. Se credete che esageri, eccovi due citazioni da “L’invenzione della gioia” di Sandro Sangiorgi
Pag 5 … “Essere nel vino” non e’ solo un dovere di chi lo produce ma snche di chi lo consuma….
Pag 21 il Vino contiene il mondo, per questo motivo non dobbiamo precluderci alcuna associazione……
E poi ci stupiamo se i consumi di vino calano e quelli di birra crescono ….
- Leonardo Sciascia riferendosi alla sua Sicilia natale parlava di terra irredimibile. Recentemente ho sentito questa medesima espressione riferita all’Italia sia nelle conversazioni di colleghi che in un articolo sul Corriere (credo). Se la condividete (e non e’ detto che abbiate torto) potete risparmiavi di leggere questo post. Se invece non ci credete perche’ siete testardi e/o sognatori, magari trovate qualcosa di interessante.
Entrando nel merito, sento l’espressione “necessita’ di fare sistema” almeno da quando lavoro (ma probabilmente qualcuno me l’avra’ gia’ detta all’universita’). Visto che la si ripete da oltre vent’anni ho e’ una bugia (falso ideologico), nel senso che questa necessita’ o utilita’ non e’ reale, oppure siamo tutti degli incapaci.
Il corollario, almeno in ambito alimentare, e’ tipicamente “dovremmo imparare dai francesi e dalla loro Sopexa”. Sopexa e’ l’agenzia a capitale pubblico (ma forse adesso la struttura dell’azionariato e’ cambiata) che guida le strategie di internazionalizzazione dei prodotti agro alimentari francesi. In pratica l’equivalente in termini istituzionale del nostro ICE (che non ho capito se esiste ancora oppure no); per un’ idea sul livello di equivalenza operativa credo che basti vedere i due siti.
E qui nuovamente viene il sospetto che siamo degli incapaci perche’ alla fin fine copiare da quelli piu’ bravi non dovrebbe essere cosi’ difficile.
Per affrontare la questione in modo efficace, ossia sperando di trovare delle soluzioni, la capacita’ va analizzata nelle sue due componenti: l’abilita’ e la volonta’. In realtà molti anni fa, in una serata al Caffè Concerto di Favaro Veneto (il locale esiste ancora), ero arrivato alla convinzione che la componente essenziale sia la volontà perchè con la volontà (e con il tempo) le abilità di acquisiscono.
Però per capire che abilità ci vogliono per fare sistema e quindi dove dirigire la nostra volontà bisogna prima definire cosa si intende per fare sistema.
Io mi sono applicato un po’ in ricerche in rete, ho trovato un’infinità di link (come tutti non sono andato oltre alla seconda pagina di google), riguardanti i settori più diversi e gli ambiti territoriali più vari, però una definizione chiara e condivisa di cosa significhi e di quali siano i requisisti necessari per fare sistema, non l’ho trovata.
L’espressione, o lo slogan se preferite, “fare sistema” viene utilizzato senza circostanziarlo, dando per scontato che tutti gli interlocutori ne diano la medesima interpretazione, ne riconoscano i medesimi vincoli e vantaggi. I problemi sorgono quando si cerca di passare dalle parole ai fatti, quando le diverse interpretazioni vengono evidenziata dalla realtà.
Credo quindi sia fondamentale definire in modo più preciso il concetto e soprattutto circoscriverlo perchè anche la pratica aziendale dimostra che nell’integrazione tra diverse aree di business si raggiunge un punto in cui la complessità dovuta all’eterogeneità, più che alla dimensione, crea dei problemi di efficacia e l’efficienza si stabilizza (quando non incomincia a peggiorare).
Da qui in avanti quindi cercherò di analizzare il concetto del “fare sistema” relativamente al settore agro-alimentare, in termini settoriali ed all’Italia in termini geografici. L’approccio sarà, ovviamente, di marketing quindi partendo dal mercato l’obiettivo del fare sistema sarà principalmente quello di migliorare la proposta del settore agro-alimentare sui mercati esteri.
Non è detto che quello che ne verrà fuori non possa essere valido anche per altri settori, oppure per aggregazioni di diversa dimensione settoriale e/o territoriale oppure anche per il mercato nazionale. Anzi spero sia così, ma circoscrivendo (relativamente la questione) credo sia più facile evitare il rischio di perdersi nell’eccessiva complessità e non arrivare a nessuna conclusione.
Nel prossimo post il primo punto dell’analisi: PERCHE’ fare sistema?

La forza delle abitudini: riassunto e commento.

Come annunciato ecco le riflessioni che mi ha suscitato l’articolo “La forza delle abitudini” riportato nei due post precedenti a questo (se volete approfondire, l’autore dell’articolo ha anche scritto un libro sull’argomento).

Per compensare la lunghezza dei post 1 e 2, cercherò di essere sintetico con questo, limitandomi solo agli spunti più intensi.

X Factor. Mi ha colpito scoprire una volta di più l’importanza data dalle aziende americane alla ricerca ed all’analisi per la produzioni di informazioni rilevanti allo sviluppo dell’attività. Mi ha colpito soprattutto per il confronto con la realtà italiana, che continua ad essere pervasa da una cultura umanista basata sulla logica e sul ragionamento speculativo, dove la quantificazione riguarda quasi esclusivamente i risultati (di vendita, di reddività) e raramente i diversi aspetti che detrminano quei risultati.
Non credo che il problema sia la disponibilità dei dati, perchè oramai anche in Italia le azienda della grande distribuzione (e non solo) dispongono di carte fedeltà, programmi di fidelizzazione eccetera. Però non riescono a trasformare i dati in informazioni perchè non investono in persone come Andrew Pole, con forti competenza, ma, magari, non altrettanto forte personalità.
In genere nelle aziende italiane, a tutti i livelli, l’intraprendenza viene considerata l’X-factor sulla competenza. Secondo me invece ci sono livelli, ruoli e posizioni dove l’intraprendenza non è fondamentale, purchè le competenze siano valorizzate dall’imprenditore (o dalla figura imprenditoriale). Cosa sarebbero le imprese italiane se alla creatività, diciamo pure all’inventiva, si aggiungesse l’analisi?

Il grande fratello non abita qui. Le scelte del consumatore sono sempre soggettivamente razionali, ma quel “soggettivamente” implica che non c’è una linearità nei comportamenti delle persone e l’esempio dello sviluppo e lancio di Febreze è illuminante su questo aspetto: le persone non acquisteranno un prodotto che non gli interessa, nemmeno con una campagna pubblicitaria fatta dalla Procter and Gamble. Spesso chi fa marketing se ne dimentica, ancor più se dispone dei grandi mezzi delle multinazionali.
In realtà l’esempio di Febreze interessa anche l’annosa questione dell’eticità delle attività di marketing, perchè alla fine non ha dato consumatori quello che gli serviva (un prodotto per eliminari gli odori), bensì quello che volevano (un deodorante per la casa che lasciava un buon odore). Sembra tanto persuasione occulta.
Però mi chiedo: trattando di persone adulte chi ha il diritto di decidere se quello che vogliono non è quello che gli serve? Si tratta come minimo di paternalismo, che rischia di essere un sinonimo di dittatura.
E questa considerazione vale anche per le campagne di mailing della Target, che non stimolano richieste ma le intercettano.

Dinamite. Tanti anni fa ho letto la biografia a fumetti di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, mi è rimasto impresso il concetto (autoassolutorio come la mia riflessione qui sopra?) che la dinamite non è buona o cattiva di per sè, dipende dall’uso che ne fanno le persone. Allo stesso modo le tecniche di analisi del comportamento umano non sono buone o cattive di per sè dipende dall’uso che se ne fa.
Dopo tanti anni di azienda credo che sia normale chiedersi perchè non destinare tutte quelle risorse umane ed economiche a scopi più ampi di benessere pubblico.
Ecco quindi che pensare di utilizzare la “scienza delle abitudini” per determinare comportamenti di utilità sociale la mette in tutt’altra luce rispetto al suo utilizzo da parte delle imprese. Oppure ne fa il vero grande fratello?

La forza delle abitudini 2

Ecco la seconda, ed ultima, tranche dell’articolo La forza delle abitudini Charles Duhigg, The New York Times Magazine. E’ un po’ (poco) più corta della prima.

Nell’ultima puntata, le mie impressioni.

Buona lettura.

Acquisti per eventi speciali
Andrew Pole era stato assunto dalla Target per aumentare le vendite usando lo stesso tipo di studio sulle abitudini dei consumatori. Doveva analizzare tutti i cicli stimoloroutine-gratificazione e aiutare l’azienda a capire come poteva sfruttarli. Il compito del suo reparto era piuttosto semplice: trovare i clienti che avevano dei bambini per mandargli il catalogo dei giocattoli prima di Natale; cercare le persone che di solito in aprile comprano un costume da bagno per mandargli buoni per l’acquisto di creme solari a luglio e la pubblicità di libri sulle diete a dicembre. Ma il compito più importante di Pole era individuare quei momenti unici nella vita delle persone in cui le abitudini di spesa diventano particolarmente flessibili e la pubblicità o il buono sconto giusto possono spingerle a modificare le abitudini di acquisto.
Negli anni ottanta un gruppo di ricercatori guidati da un professore dell’università della California a Los Angeles di nome Alan Andreasen condusse uno studio sugli acquisti più comuni, come il sapone, il dentifricio, i sacchetti della spazzatura e la carta igienica. Scoprirono che la maggior parte delle persone non prestava quasi nessuna attenzione a quegli acquisti, erano un’abitudine che non richiedeva decisioni complicate.
Questo signiicava che, nonostante i buoni e le promozioni, era difficile convincerle la gente a cambiare.
Ma quando nella vita di qualcuno c’era un evento speciale, come una laurea, un nuovo lavoro o il trasferimento in un’altra città, le abitudini d’acquisto diventavano più flessibili e prevedibili, trasformando quei clienti in potenziali miniere d’oro per i venditori. Dallo studio emerse che quando una persona si sposa è più probabile che cambi marca di caffè. Quando una coppia si trasferisce in una nuova casa, è più disposta a cambiare tipo di cereali per la colazione.
Quando divorzia, ci sono più probabilità che cominci a comprare una marca di birra diversa. I consumatori che attraversano una fase particolare della loro vita spesso non si accorgono che le loro abitudini d’acquisto sono cambiate, ma per i rivenditori è importante.
Dal punto di vista delle aziende, il più significativo di questi eventi speciali è l’arrivo di un bambino. Quando nasce un figlio,le abitudini dei genitori sono più flessibili che in qualsiasi altro periodo della vita di un adulto. Se le aziende riescono a individuare le donne che aspettano un bambino possono guadagnare milioni.
Ma individuarle è più diicile di quanto si possa immaginare. La Target ha un registro delle baby shower, le feste in cui si portano dei regali alle future mamme, e Pole cominciò da lì. Osservò come cambiavano le abitudini d’acquisto delle donne dell’elenco via via che si avvicinavano al parto, in base ai racconti che loro stesse avevano fornito all’azienda. Condusse un test dopo l’altro, analizzò i dati e dopo un po’ cominciarono a essere evidenti alcuni schemi. Per esempio, molte persone comprano creme per il corpo, ma un suo collega aveva notato che le donne incinte comprano più creme senza profumo dopo il terzo mese di gravidanza. Un altro analista si era accorto che durante i primi cinque mesi, le donne incinte compravano più integratori alimentari a base di calcio, magnesio e zinco.
Molte persone acquistano saponi e ovatta, ma quando una donna comincia a comprare saponi senza profumo e buste giganti di batuffoli di cotone, disinfettanti per le mani e asciugamani nuovi, significa che si sta avvicinando il momento del parto.
Quando i computer ebbero elaborato i dati, Pole riuscì a individuare circa venticinque prodotti che, messi insieme, gli permettevano di attribuire a ogni donna un “punteggio gravidanza”. Ma soprattutto, poteva calcolare la data del parto con una buona approssimazione, per permettere alla Target di mandare alla futura mamma i buoni relativi alle diverse fasi della gravidanza.
Pole applicò il suo programma a tutte le clienti abituali del database nazionale dell’azienda e ben presto ebbe una lista di
decine di migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino. Se riuscivano a convincere quelle donne o i loro mariti ad andare nei loro negozi e comprare prodotti per neonati, con il sistema stimoloroutine-gratiicazione potevano spingerli a comprare anche prodotti alimentari, costumi da bagno, giocattoli e vestiti. Quando Pole presentò la sua lista, gli esperti di marketing rimasero estasiati. Cominciarono a invitarlo a tutte le riunioni importanti. E alla fine gli aumentarono lo stipendio.
Ma a quel punto qualcuno si chiese: come reagiranno le donne quando capiranno quante cose sappiamo di loro?
“Se si vede arrivare un catalogo con la scritta: ‘Congratulazioni per il suo primo figlio!’ e non ci ha mai detto di essere incinta, qualcuna si insospettirà”, mi ha raccontato Pole. “Siamo molto attenti alle norme sulla privacy. Ma anche se rispetti la legge certe cose mettono in guardia le persone”.
Circa un anno dopo che Pole aveva creato il suo modello per prevedere le gravidanze, un uomo entrò in un negozio Target alla periferia di Minneapolis e chiese di vedere il direttore. Aveva in mano dei buoni che erano stati mandati a sua figlia e, secondo un impiegato che aveva assistito alla conversazione, era molto arrabbiato. “Questi sono arrivati per posta a mia figlia!”, disse. “È ancora alle superiori e le mandate buoni per comprare abbigliamento da neonato e culle? State cercando di incoraggiarla a rimanere incinta?”.
Il direttore non aveva idea di cosa fosse successo. Guardò la busta, senza dubbio era indirizzata alla figlia dell’uomo e conteneva la pubblicità di abiti premaman, mobili per la stanza dei bambini e foto di bimbi sorridenti. Si scusò e qualche giorno dopo lo richiamò per scusarsi ancora.
Ma al telefono il padre sembrava imbarazzato.
“Ho parlato con mia figlia”, disse. “Ho scoperto qualcosa di cui non ero al corrente. Partorirà in agosto. Sono io che devo
scusarmi”.
Quando mi sono rivolto alla Target per discutere il lavoro di Pole, i rappresentanti dell’azienda si sono rifiutati di parlare con me. “Il nostro obiettivo è fare dei magazzini Target la destinazione preferita dei nostri clienti garantendo loro prodotti validi, innovazione continua e un’esperienza d’acquisto eccezionale”, mi hanno scritto. “Abbiamo creato una serie di strumenti di ricerca che ci consentono di capire meglio le tendenze e le preferenze di vari segmenti demografici della popolazione”. Quando gli ho mandato una sintesi del mio articolo, la risposta è stata più lapidaria: “Quasi tutte le sue affermazioni si basano su notizie inesatte e la loro pubblicazione sarebbe fuorviante.
Non intendiamo discuterle punto per punto”. L’azienda si rifiutava di specificare quali fossero le inesattezze, ma aggiungeva che “la Target rispetta tutte le leggi statali e federali, comprese quelle sulla segretezza delle informazioni sanitarie”.
Quando mi sono offerto di andare da loro per discutere le cose che li preoccupavano, una portavoce dell’azienda mi ha
scritto un’email dicendo che nessuno mi avrebbe ricevuto. Ci sono andato lo stesso, e mi hanno comunicato che ero nella lista dei visitatori indesiderati. “Ho ricevuto l’ordine di non farla entrare e di chiederle di andarsene”, mi ha detto un gentile agente di sicurezza di nome Alex.
Poco dopo che Pole aveva perfezionato il suo modello, la Target si era resa conto che usare i dati in suo possesso per scoprire una gravidanza sarebbe stato disastroso per i suoi rapporti con il pubblico. Quindi il problema era diventato: come far arrivare le pubblicità alle donne incinte senza che si sentano spiate? Come sfruttare le abitudini di qualcuno senza fargli capire che state studiando la sua vita?

Decifrare la sequenza
Prima di incontrare Andrew Pole, prima ancora di decidere di scrivere un libro sulla teoria della formazione delle abitudini, avevo un altro obiettivo: volevo perdere peso. Avevo preso la brutta abitudine di andare ogni pomeriggio alla caffetteria del giornale e di mangiare un dolce al cioccolato, così avevo preso qualche chilo. Quattro, per essere precisi. Avevo incollato un foglietto sul mio computer con scritto: “Niente più dolci”. Ma tutti i pomeriggi riuscivo in qualche modo a ignorarlo, entravo nella caffetteria e mangiavo un dolce parlando con i colleghi. Domani, mi dicevo sempre, troverò la forza di resistere.
E il giorno dopo ne mangiavo un altro.
Quando ho cominciato a intervistare gli esperti di formazione delle abitudini, concludevo ogni intervista chiedendo cosa dovevo fare. La prima cosa, mi dicevano, era capire come funziona la sequenza. La routine era semplice: tutti i pomeriggi entravo nella caffetteria, compravo un dolce e lo mangiavo chiacchierando con gli amici. Poi sono arrivate le domande meno ovvie. Qual’era lo stimolo: la fame, la noia, un calo della glicemia? E qual era la gratificazione: il sapore del dolce, la distrazione dal lavoro, la possibilità di socializzare con i colleghi? Le gratificazioni sono importanti perché soddisfano sempre un nostro desiderio, ma spesso non sappiamo qual è il bisogno che dà origine a un’abitudine. Perciò un giorno, quando ho sentito il desiderio del dolce, ho deciso invece di andare a fare una passeggiata. Il giorno dopo sono andato alla caffetteria e ho preso un caffè. Quello successivo ho comprato una mela e l’ho mangiata parlando con gli amici. È chiaro, no? Volevo verificare qual era la gratificazione che cercavo. Se avevo fame, la mela avrebbe dovuto funzionare. Avevo bisogno di una carica di energia? Allora bastava il cafè. Oppure, come avrei scoperto alla fine, dopo tante ore di concentrazione sul lavoro volevo socializzare, essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi dell’ufficio, e il dolce era solo una scusa. Mi bastava avvicinarmi alla scrivania di un collega e fare due chiacchiere con lui per non sentire più il bisogno del dolce. Ora dovevo capire qual era lo stimolo. Ma decifrare gli stimoli è molto difficile.
Spesso nella nostra vita ci sono troppe informazioni per permetterci di capire cosa scatena un particolare comportamento.
Facciamo colazione a una certa ora perché abbiamo fame? O perché è cominciato il tg della mattina? O perché mangiano i nostri figli? Alcuni esperimenti hanno dimostrato che quasi tutti gli stimoli rientrano in cinque categorie: luogo, tempo, stato emotivo, presenza di altre persone o azioni immediatamente precedenti. Quindi per capire cosa scatenava il mio desiderio di dolce, nel momento in cui ne sentivo il bisogno ho cominciato a rispondere a queste cinque domande.
Dove sei? (Seduto alla mia scrivania).
Che ore sono? (Le 15.36).
Qual è il tuo stato emotivo? (Sono annoiato).
Chi c’è con te? (Nessuno).
Cosa hai fatto prima? (Ho risposto a un’email).
Il giorno dopo l’ho fatto di nuovo. E anche quello successivo. Dopo un po’ ho capito qual era lo stimolo: sentivo sempre il bisogno di mangiare qualcosa intorno alle tre e mezzo del pomeriggio. Una volta individuata la sequenza, sembrava piuttosto facile cambiare abitudine.
Ma gli psicologi e i neuroscienziati mi hanno avvertito che per modificare il mio comportamento dovevo basarmi sullo stesso principio che aveva permesso alla Procter & Gamble di vendere Febreze. Per cambiare la routine – cioè socializzare invece che mangiare un dolce – dovevo sfruttare un’abitudine già esistente. Perciò ora, tutti i giorni intorno alle tre e mezza, mi alzo, mi guardo intorno per vedere se in redazione c’è qualcuno con cui chiacchierare, passo una decina di minuti a scambiare pettegolezzi e poi torno alla mia scrivania. Lo stimolo e la gratificazione sono rimasti gli stessi. È cambiata solo la routine. Non mi sembrava di aver preso una decisione più di quanto i topi dell’Mit avessero deciso di correre attraverso il loro labirinto. È diventata un’abitudine, e da allora ho perso dieci chili (metà dei quali eliminando il rituale del dolce).

Tosaerba e pannolini
Dopo che Andrew Pole aveva perfezionato il suo modello e individuato migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino, dopo che qualcuno aveva pensato che forse alcune di quelle donne sarebbero rimaste turbate ricevendo una pubblicità dalla quale si capiva chiaramente che la Target spiava il loro comportamento riproduttivo, tutti decisero di allentare la pressione.
Il reparto marketing condusse alcuni test scegliendo un piccolo campione a caso di donne dalla lista di Pole e mandando loro varie combinazioni di pubblicità per vedere come reagivano. “Siamo in grado di mandare a ogni cliente un opuscolo pubblicitario studiato specificamente per lui o per lei che dice: ‘Queste sono le cose che ha comprato la settimana scorsa e un buono per ricomprarle’”, mi ha spiegato uno dei dirigenti dell’azienda. “Per i prodotti alimentari lo facciamo sempre”. Ma con le donne in attesa, l’obiettivo della Target era vendere prodotti per neonati dei quali non sapevano ancora di aver bisogno.
“Con i prodotti per la gravidanza, però, abbiamo scoperto che alcune donne reagiscono veramente male”, ha continuato il dirigente. “Perciò abbiamo cominciato ad aggiungere la pubblicità di prodotti che una donna incinta non comprerebbe mai per far sembrare casuale la nostra scelta. Mettevamo la pubblicità di un tosaerba accanto a quella dei pannolini. Quella di un vino accanto a quella dell’abbigliamento per neonati. Così sembrava che tutti i prodotti fossero stati scelti a caso. E abbiamo scoperto che se una donna incinta non pensa di essere spiata, alla fine usa i buoni. Immagina semplicemente che tutti nel suo palazzo abbiano ricevuto lo stesso opuscolo, così non si spaventa e il sistema funziona”.
In altre parole, sfruttando le abitudini già esistenti – gli stessi stimoli e le stesse gratificazioni che già spingevano i clienti a comprare detersivi o calzini – la Target poteva creare una nuova routine e spingerli a omprare prodotti per neonati. Lo stimolo è “Guarda, un buono per una cosa che mi serve!”, la routine è “Compra, compra, compra” e la gratificazione è “Così posso risparmiare”. Poi, una volta che la persona entra nel negozio, trova altri stimoli e gratificazioni che la spingono a mettere nel carrello tutto quello che normalmente compra altrove. Quando la Target riuscì a dare l’impressione che tutto rientrasse nella norma, la sua pubblicità funzionò.
Poco dopo l’inizio della nuova campagna, le vendite di prodotti per neonati salirono alle stelle. L’azienda non rende note le cifre relative a settori specifici, ma tra il 2002 – anno in cui assunse Pole – e il 2010, i suoi incassi sono passati da 44 a 67 miliardi.
Nel 2005 il presidente della Target, GreggSteinhafel, si è vantato con gli investitori della “maggiore attenzione della sua azienda per i prodotti che interessano particolari categorie di consumatori come le mamme e i bambini”.
Pole è stato promosso e invitato a parlare ai convegni. “Non avrei mai pensato che diventasse una cosa così importante”, mi ha detto l’ultima volta che gli ho parlato.
Qualche settimana prima che questo articolo venisse pubblicato, sono andato a Minneapolis per cercare di parlarne con lui ancora una volta. Era più di un anno che non ci sentivamo. Quando eravamo ancora amici gli avevo detto che mia moglie era incinta di sette mesi. Anche lei fa la spesa alla Target, gli avevo detto, e gli avevo lasciato il nostro indirizzo per ricevere i buoni. Man mano che la gravidanza di mia moglie procedeva, avevo notato un leggero aumento delle pubblicità di pannolini e abbigliamento per neonati che arrivavano a casa.
Quando sono arrivato a Minneapolis, Pole non ha risposto né alle mie email né alle mie telefonate. Sono andato a casa sua, in un bel quartiere, ma nessuno mi ha aperto. Mentre tornavo in albergo, mi sono fermato in un grande magazzino Target perché mi serviva un deodorante e ho comprato anche una maglietta e un gel per i capelli. Poi mi è venuto in mente di aggiungerci qualche ciuccio per vedere come reagivano i computer. Ormai nostro figlio ha nove mesi
e i ciucci non bastano mai.
Quando sono andato a pagare, con mia grande delusione, non mi hanno offerto nessun buono per i pannolini o il latte in
polvere. D’altra parte era comprensibile, ero in una città dove non ero mai stato prima, alle dieci di sera di un giorno feriale e avevo comprato tutte cose diverse. Stavo usando una carta di credito aziendale e, a parte i ciucci, non avevo comprato nulla di quello che di solito serve a chi ha un bambino.
I computer avevano capito benissimo che ero in viaggio di lavoro. Il calcolatore di Pole mi aveva dato un’occhiata e aveva deciso di aspettare un momento più opportuno.
Una volta tornato a casa, le offerte sarebbero arrivate. Come mi aveva detto Pole l’ultima volta: “Aspetta. E vedrai che ti manderemo i buoni per le cose che vuoi prima ancora che tu sappia di volerle”.

La forza delle abitudini 1

Interessantissimo articolo del New York Time Magazine pubblicato sull’Internazionale. Lo pubblico a puntate perchè (purtoppo) è veramente troppo lungo per il web; limiti del digitale (come quelli che mi dicono “L’i-pad è troppo comodo per leggere il giornale la mattina”, però con l’i-pad non leggi il giornale, lo guardi e non è la stessa cosa).

Forse sto facendo una violazione del copyright, ma se Zuckerberg dice (probabilmente a ragione) che la privacy è un concetto superato, spero che citare la fonte basti a farmi perdonare.

Poi finite le puntate probabilmente farò un post sulle riflessioni stimolate da questo articolo, nel frattempo se volete mandare le vostre ….. Mettetivi comodi e cominciate

La forza delle abitudini
Charles Duhigg, The New York Times Magazine,Stati Uniti.

Condizionano la nostra vita ogni giorno, da quando ci laviamo i denti a quando guidiamo la macchina. Da vent’anni gli scienziati cercano di capire come nascono le abitudini. Ora le loro ricerche hanno un nuovo campo di applicazione: il marketing.

Nel 2002 Andrew Pole era appena entrato a lavorare come esperto di statistica alla catena di grandi magazzini Target, quando due colleghi del reparto marketing si fermarono accanto alla sua scrivania per fargli una strana domanda: “Siamo in grado di scoprire se una cliente è incinta, anche se lei non vuole farcelo sapere?”. Pole ha un master in statistica e uno in economia e si è occupato per tutta la vita dell’incrocio tra i dati e il comportamento umano. I suoi genitori insegnavano nel North Dakota, e mentre gli altri ragazzi andavano in campeggio, Pole studiava algebra e scriveva programmi per computer. “Lo stereotipo del nerd della matematica non è un mito”, mi ha detto quando ho parlato con lui l’anno scorso. “Mi piace andare in giro a diffondere il vangelo dell’analisi”. Come gli spiegarono gli esperti di marketing – e come lui stesso ha spiegato a me prima che la Target gli proibisse di parlarmi – le persone che hanno appena avuto un figlio sono una miniera d’oro. La maggior parte della gente non compra in un unico posto tutto quello che le serve. Fa la spesa nei negozi di alimentari, compra i giocattoli nei negozi di giocattoli e va alla Target solo quando ha bisogno di certe cose che
associa ai grandi magazzini, come i detersivi, i calzini o la carta igienica. Ma la Target vende di tutto, dal latte agli orsacchiotti di peluche, dai mobili da giardino all’elettronica, perciò uno dei suoi obiettivi principali è convincere i clienti che l’unico negozio di cui hanno bisogno è il suo. Ma questo è un messaggio difficile da trasmettere, anche con le campagne pubblicitarie più ingegnose, perché non è facile far cambiare abitudini alla gente. Tuttavia, ci sono alcuni periodi della vita in cui una persona è costretta a modificare la sua routine e le abitudini d’acquisto sono più fluide. Uno di questi momenti, anzi il principale, è quando nasce un bambino, perché i genitori sono esausti e soprafatti dal nuovo impegno e più disposti a cambiare abitudini d’acquisto. Ma come spiegarono a Pole i colleghi del marketing, il tempismo è fondamentale. Dato che i registri delle nascite sono pubblici, quando una coppia ha un figlio viene immediatamente tempestata di offerte e pubblicità da aziende di ogni tipo. Perciò è decisivo riuscire a conquistare quella famiglia prima che chiunque altro scopra che è in arrivo un bambino. In particolare, i colleghi di Pole volevano mandare pubblicità mirate alle donne che avevano superato i primi tre mesi di gravidanza, perché quello è il periodo in cui la maggior parte delle mamme in attesa comincia a comprare cose come le vitamine e l’abbigliamento premaman. “Sapevamo che se fossimo riusciti a conquistare le future mamme in quel periodo, sarebbero rimaste nostre clienti per anni”, mi ha spiegato Pole. “Se cominciano a comprare i pannolini da noi, poi comprano anche tutto il resto”. Naturalmente, questo desiderio di
raccogliere informazioni sui clienti non è una novità né per la Target né per le altre catene di distribuzione. Sono decenni che la Target accumula dati sulle persone che entrano regolarmente nei suoi negozi. Quando è possibile, assegna a ognuna di loro un codice, che chiama numero di identificazione del cliente, grazie al quale controlla tutto quello che compra. “Se qualcuno usa la carta di credito o un buono sconto, risponde a un questionario, chiede un rimborso, chiama il nostro servizio clienti, apre l’email che gli abbiamo mandato o visita il nostro sito, noi registriamo l’operazione e la colleghiamo al codice”, spiega Pole. “Vogliamo più informazioni possibile”. Collegate al numero di identificazione del cliente sono anche tutte le informazioni di tipo demografico: l’età, se una persona è sposata, se ha figli, in quale zona della città vive, quanto tempo ci mette a raggiungere il negozio, approssimativamente quanto guadagna, se ha cambiato casa di recente, che carte di credito ha e quali siti visita. La Target può comprare anche i dati sull’origine etnica, sui lavori che una persona ha fatto, su quali riviste legge, se ha mai dichiarato fallimento o ha divorziato, in che anno ha comprato (o perso) la casa, se è andata all’università, di cosa parla online, se preferisce una certa marca di caffè, di tovaglioli di carta, di cereali o di succo di mela, qual è il suo orientamento politico e il suo genere letterario preferito, se fa donazioni e quante auto possiede. Tutte queste informazioni però sono inutili se non c’è qualcuno che le analizza e gli dà un senso. Era proprio questo il compito di Andrew Pole e dei suoi colleghi dell’ufficio Guest marketing analytics Quasi tutti i grandi rivenditori, dalle catene di prodotti alimentari alle banche di investimento, hanno un reparto “analisi predittive” che si occupa di scoprire non solo le abitudini d’acquisto dei consumatori, ma anche le abitudini personali, per poter arrivare a loro più facilmente. “La Target è sempre stata una delle migliori in questo campo”, dice Eric Siegel, un consulente che presiede una conferenza del settore chiamata Predictive analytics world. “Siamo nell’epoca d’oro della ricerca sui comportamenti. È incredibile quante cose possiamo sapere oggi su cosa pensano le persone”. Il motivo per cui la Target può ficcare il naso nelle nostre abitudini d’acquisto è che, negli ultimi vent’anni, la scienza della formazione delle abitudini è diventata uno dei maggiori campi di ricerca degli istituti di neurologia e di psicologia di centinaia di centri medici e di università, per non parlare dei ricchi laboratori delle aziende. “Accaparrarsi gli statistici più in gamba ormai è una specie di corsa agli armamenti”, dice Andreas Weigend, l’ex capo scienziato di Amazon. “I matematici sono improvvisamente diventati molto ricercati”. L’analisi dei dati è sempre più sofisticata, e il desiderio di capire come le abitudini quotidiane influiscono sulle nostre decisioni è uno dei temi più appassionanti della ricerca, anche se la maggior parte di noi non si rende conto di essere schiava di certi schemi. Secondo uno studio condotto dalla Duke university, sono le abitudini più che le decisioni coscienti a condizionare il 45 per cento delle scelte che facciamo ogni giorno. Le ultime scoperte stanno cambiando completamente il modo di vedere molte cose, da come concepiamo una dieta a come
i medici stabiliscono le cure per l’ansia, la depressione e le dipendenze. I ricercatori hanno scoperto come impedire a qualcuno di mangiare troppo o di rosicchiarsi le unghie. Sono in grado di spiegare perché alcuni di noi ogni mattina vanno a correre e sono più efficienti nel loro lavoro, mentre altri non riescono ad alzarsi dal letto e perdono tempo. A quanto sembra, esiste una formula per controllare i nostri desideri inconsci. Il processo grazie al quale il cervello trasforma una sequenza di azioni in una routine automatica è chiamato chunking. Ogni giorno ripetiamo decine, se non centinaia, di comportamenti di questo tipo. Alcuni sono semplici, per esempio mettere il dentifricio sullo spazzolino prima di spazzolare i denti. Altri, come preparare il pranzo per i figli, sono un po’ più complicati. Altri ancora sono così complessi che il fatto che siano diventati abitudini ci sembra incredibile. Prendiamo, per esempio, uscire dal garage di casa a marcia indietro. Quando abbiamo imparato a guidare, questa manovra richiedeva, giustamente, una buona dose di concentrazione, perché bisogna guardare nello specchietto retrovisore e in quelli laterali per vedere se ci sono ostacoli, spingere con un piede il pedale della frizione, ingranare la retromarcia, togliere il piede dalla frizione, calcolare la distanza tra il garage e la strada, mantenere dritte le ruote, calcolare come le immagini che vediamo negli specchietti si traducono in distanze reali, e regolare la pressione sull’acceleratore e sul freno. Ora facciamo tutte queste cose ogni volta che usciamo, senza pensarci troppo. Il nostro cervello ha trasformato in routine una buona parte di questi gesti. Se lo lasciamo fare, il cervello cerca di trasformare tutti i comportamenti ripetuti in abitudini, perché così si sforza di meno. Ma questa tendenza a conservare l’energia mentale può essere pericolosa, perché se il nostro cervello va in automatico nel momento sbagliato, potremmo non accorgerci di qualcosa di importante, come un bambino che attraversa la strada in bici o una macchina che arriva a tutta velocità. Perciò abbiamo inventato un sistema per decidere quando possiamo agire automaticamente. È qualcosa che scatta all’inizio e alla fine di un segmento di comportamento, e ci aiuta a capire perché, anche con le migliori intenzioni, è così difficile cambiare un’abitudine.

Cambiare si può
Il processo di formazione delle abitudini è formato da tre fasi. Prima di tutto c’è uno stimolo che dice al nostro cervello che può andare in automatico e quale sequenza deve usare. Poi c’è la routine, che può essere fisica, mentale o emotiva. Infine c’è la gratificazione, che aiuta il cervello a capire se vale la pena di ricordare quella sequenza in futuro. Nel corso del tempo, questo ciclo – stimolo, routine, gratificazione, stimolo, routine, gratificazione – diventa sempre più automatico. Livello neurologico, lo stimolo e la gratificazione si legano strettamente tra loro fino a quando non si instaura il desiderio. L’aspetto particolare di questo meccanismo è che gli stimoli e le gratificazioni possono essere molto sottili. Alcuni studi neurologici hanno dimostrato che certi stimoli durano solo qualche millesimo di secondo. E le gratificazioni possono andare dalle più ovvie (come l’innalzamento del livello glicemico provocato dalla ciambella che mangiamo al mattino) alle più insignificanti (come il senso di sollievo impercettibile, ma misurabile, che proviamo quando usciamo dal garage). Nella maggior parte dei casi tutto succede così rapidamente che non ce ne rendiamo conto. Ma il nostro sistema neurale se ne accorge e usa queste sequenze per costruire comportamenti automatici. Le abitudini non sono immutabili. Possono essere ignorate, modificate o sostituite. Ma quando abbiamo issato una sequenza e acquisito un’abitudine, il cervello smette di intervenire nelle decisioni. Perciò, a meno che non decidiamo di combattere quell’abitudine, cioè di trovare una nuova sequenza, la vecchia si ripeterà automaticamente. “Abbiamo condotto alcuni esperimenti con i ratti, addestrandoli a percorrere un labirinto fino a quando per loro non è diventata un’abitudine. Poi abbiamo modificato l’abitudine spostando la ricompensa finale”, racconta Ann Graybel, una neuro scienziata del Massachusetts institute of technology. “Un giorno abbiamo rimesso il premio dov’era prima e la vecchia abitudine, incredibilmente, è riemersa. Le abitudini non scompaiono mai del tutto”. Fortunatamente, capire come funzionano le abitudini le rende più facili da controllare. Prendiamo per esempio una serie di studi condotti qualche anno fa alla Columbia university e all’università di Alberta. I ricercatori volevano capire come si instaura l’abitudine di fare esercizio fisico. Il programma prevedeva che 256 persone con un’assicurazione sulla salute frequentassero un corso in cui si dava molta importanza all’esercizio fisico. Metà dei partecipanti assisteva a una lezione in più su come si formano le abitudini e in seguito doveva individuare gli stimoli e le gratificazioni che avrebbe potuto usare per prendere abitudini più sane. Il risultato fu sorprendente. Nel corso dei quattro mesi successivi, le persone che avevano imparato a individuare la sequenza facevano il doppio dell’attività fisica di quelle che non avevano imparato a farlo. Altri studi hanno prodotto risultati simili. Secondo un recente studio, se vogliamo cominciare a correre tutte le mattine, è essenziale scegliere uno stimolo semplice (come mettere sempre le scarpe da ginnastica prima di colazione o preparare la tuta vicino al letto) e una gratificazione chiara (come un dolcetto a mezzogiorno o la soddisfazione che dà registrare i chilometri percorsi in un diario). Dopo un po’ di tempo il cervello comincia ad aspettarsi la gratificazione – a desiderare il dolce o quel senso di soddisfazione – e produrrà un impulso neurologico a infilarci le scarpe da ginnastica ogni mattina. Il nostro rapporto con la posta elettronica funziona nello stesso modo. Quando il computer o il cellulare segnalano che c’è un nuovo messaggio, il cervello comincia ad anticipare il “piacere” che (anche se non lo riconosce) gli provoca cliccarci sopra e leggerlo. Se non viene soddisfatta, questa aspettativa può crescere fino a farci impazzire all’idea che c’è un messaggio non letto, anche se a livello razionale sappiamo che probabilmente non è niente di importante. Se rimuoviamo lo stimolo togliendo la vibrazione al telefono o il volume al computer, il desiderio non si scatena, e riusciamo a lavorare tranquillamente senza controllare di continuo la posta in arrivo.

Piccoli riti
In questo campo, alcuni degli esperimenti più ambiziosi sono stati condotti dalle aziende private. Per capire perché i manager sono così affascinati da questa scienza, pensate che una delle più grandi aziende del mondo, la Procter & Gamble, ha usato la teoria delle abitudini per trasformare un flop in uno dei suoi prodotti più venduti. Questo colosso produce una gamma vastissima di articoli, dagli ammorbidenti per il bucato agli asciugamani di carta, dalle batterie a decine di prodotti per la casa. A metà degli anni novanta i manager della Procter & Gamble avviarono un progetto segreto per la creazione di un nuovo prodotto in grado di eliminare i cattivi odori. L’azienda spese milioni di dollari per creare un liquido incolore e poco costoso che si poteva spruzzare su una camicetta impregnata di fumo, su un divano puzzolente, su una vecchia giacca o sulla tappezzeria macchiata di un’automobile e far sparire ogni odore. Per lanciare sul mercato il prodotto, che si chiamava Febreze, la società creò una squadra formata da un ex matematico di Wall street di nome Drake Stimson e da alcuni studiosi della teoria delle abitudini. Il loro compito era garantire che gli spot televisivi, trasmessi in via sperimentale a Phoenix, Salt Lake City e Boise, nell’Idaho, sottolineassero nel modo giusto gli stimoli e le gratificazioni del prodotto. Nel primo spot c’era una donna che si lamentava della zona fumatori di un ristorante. Ogni volta che mangiava lì, diceva, la sua giacca si impregnava di fumo. Un’amica le faceva notare che con Febreze avrebbe potuto eliminare quell’odore. Lo stimolo era chiaro: l’odore acre del fumo di sigaretta. E anche la gratificazione: la scomparsa di quell’odore dai vestiti. Nel secondo spot c’era una donna preoccupata per il fatto che la sua cagnetta Sophie saliva sempre sul divano. “Sophie avrà sempre il suo odore”, diceva, ma con Febreze, “non ce l’hanno più i miei mobili”. Gli spot furono mandati in onda a rotazione e i pubblicitari cominciarono a pregustare i loro premi. Passò una settimana. Un mese. Due mesi. Le vendite erano sempre più basse. Febreze era un lop. In preda al panico, la squadra di esperti condusse una serie di interviste approfondite tra i consumatori per capire cosa non andava. Il primo sospetto lo ebbero quando andarono a intervistare una donna alla periferia di Phoenix. La sua casa era pulita e ben organizzata. Lei stessa si definiva una maniaca della pulizia. Ma quando i ricercatori della Procter & Gamble entrarono nel salotto, dove i suoi nove gatti passavano la maggior parte del tempo, l’odore era così forte che uno di loro ebbe un conato di vomito. Stimson ricorda che un suo collega chiese alla donna: “Cosa fa per l’odore dei gatti?”. “Di solito non è un problema”, disse lei. “Non lo sente?”. “No”, rispose la donna. “Non è meraviglioso? Non puzzano affatto!”. La stessa scena si ripeté in decine di altre case. Il motivo per cui Febreze non vendeva era che la gente non sentiva i cattivi odori. Se vivi con nove gatti, non ti accorgi più che puzzano. Se fumi, dopo un po’ non senti più l’odore di fumo. Quando l’esposizione è costante, non sentiamo più neanche gli odori più forti. Lo stimolo che avrebbe dovuto far scattare il bisogno di usare Febreze tutti i giorni non veniva recepito. E la gratiicazione, una casa senza odori, non aveva senso per chi non li sentiva. La Procter & Gamble chiese a un professore della Harvard business school di analizzare la campagna di marketing del prodotto. I ricercatori raccolsero ore e ore di filmati di persone che pulivano la casa per cercare qualche indizio che potesse aiutarli a collegare Febreze alle abitudini quotidiane delle persone. Non scoprirono nulla e decisero di fare altre interviste. La svolta avvenne quando andarono a trovare una donna sulla quarantina con quattro figli che viveva alla periferia di Scottsdale, in Arizona. La casa era pulita, anche se non perfettamente ordinata, e non sembrava avere alcun odore, non c’erano animali né fumatori. Con grande sorpresa di tutti, lei adorava Febreze.
“Lo uso tutti i giorni”, disse. “Quali odori cerca di eliminare?”, le chiese un ricercatore. “Non devo eliminare nessun odore specifico”, disse la donna. “Lo uso durante le pulizie, un paio di spruzzi quando ho finito una stanza”. I ricercatori la seguirono mentre riordinava la casa. In camera da letto, rifaceva il letto, tirava bene le lenzuola e poi spruzzava Febreze sulla trapunta. In soggiorno, passava l’aspirapolvere, raccoglieva le scarpe dei bambini, rimetteva a posto il tavolino e poi
spruzzava Febreze sul tappeto appena pulito.
“È piacevole, no?”, disse. “È un piccolo rito per concludere la pulizia di una stanza”. A quel ritmo, calcolarono i ricercatori, avrebbe finito un flacone in due settimane. Quando tornarono nel loro ufficio, gli esperti riguardarono i filmati. Ora sapevano cosa cercare e videro gli errori scena dopo scena. Chi pulisce ha già delle abitudini.
In uno dei video, una donna entrava in una stanza sporca (stimolo), cominciava a spazzare e a raccogliere giocattoli (routine), poi riguardava la stanza e sorrideva (gratificazione).
In un altro, una donna guardava il letto disfatto (stimolo), aggiustava le lenzuola e le coperte (routine) e poi sospirava mentre passava la mano sui cuscini appena sbattuti (gratificazione). Con Febreze la Procter & Gamble aveva cercato di creare una nuova abitudine, ma la mossa vincente era sfruttare quelle già esistenti. Doveva presentare il prodotto come il momento conclusivo del rituale delle pulizie, come una gratificazione piuttosto che come una nuova routine.
L’azienda preparò nuovi cartelloni pubblicitari in cui si vedevano finestre aperte dalle quali entrava aria fresca. Venne aggiunto più profumo a Febreze, così invece di eliminare gli odori lo spray ne aveva uno tutto suo. Nei nuovi spot televisivi le donne, dopo aver finito di pulire, lo spruzzavano sui letti appena fatti e sulla biancheria fresca di bucato. Le pubblicità si basavano su abitudini già esistenti: quando vedi una stanza appena pulita (stimolo), tira fuori Febreze (routine) e goditi il profumo che ti conferma di aver fatto un buon lavoro (gratificazione).
Quando inisci di rifare il letto (stimolo), spruzza Febreze e tira un sospiro di soddisfazione (gratificazione). Febreze, lasciavano intendere gli annunci, era un piacere in più, non un modo per ricordarti che la tua casa puzza.
E così un prodotto che in origine era stato concepito come un sistema rivoluzionario per eliminare gli odori diventò un deodorante per la casa che si usava dopo aver pulito. Tutto questo successe nell’estate del 1998. Nel giro di due mesi, le vendite raddoppiarono. Un anno dopo, Febreze fece incassare all’azienda 230 milioni di dollari. Da allora è nata tutta una serie di prodotti collaterali – deodoranti, candele e detersivi per il bucato – le cui vendite hanno raggiunto un miliardo di dollari l’anno. In seguito la Procter & Gamble ha cominciato a dire ai suoi clienti che, oltre ad avere un buon profumo, Febreze eliminava anche i cattivi odori. Oggi è uno dei prodotti più venduti nel mondo.

Ancora sul Vinitaly 2012

Ho in canna un paio di post su altri argomenti ma i commenti di Lizzy alle mie impressioni di Vinitaly mi hanno suscitato una serie di riflessioni che sarebbero state strette in un semplice commento al commento.
Continuo ad essere preoccupato del rischio che questo blog prenda un’eccessiva deriva enologica, ma spero che le considerazioni di metodo di marketing, oltre che di merito sulla fiera, siano sufficenti a fugare il pericolo.
Per mettere in pari anche chi non si occupa di vino una breve premessa.ta
Il Vintaly è la principale fiera del vino in Italia ed una delle più importanti a livello europeo e mondiale. Oramai da anni soffre di enormi problemi di viabilità e parcheggio (diciamo un paio d’ore per arrivare in fiera e quasi altrettante per andare via), di affollamento (code chilometriche ai bagni, per citare un problema che tocca tutti), di tipologia di pubblico (i grandi operatori del vino a fianco dei piccoli a fianco del semplice appassionato, tutti cercando di non inciampare sui giovani alticci che non riebtrano in nessuna delel precedenti categorie). Da circa 3 anni si è aggiunto anche il problema del collasso delle reti telefoniche per cui dalle 10:00 alle 17:00 telefonare con un cellulare o connettersi al web con un collegamento wireless è sostanzialmente impossibile.
Per l’edizione 2012, con l’obiettivo di professionalizzare maggiormente la manifestazione (nel senso di renderla più business e meno consumer) l’ente fiera ha preso la decisione di modificare le date e quindi vinitaly 2012 si è svolto dalla domenica al mercoledì invece che dal giovedì al lunedì, come gli anni scorsi. Decisione che definirei coraggiosa, se non altro sapendo quello che significa in termini di indotto per la città un giorno in meno, e su cui, forse giustamente, non tutti erano d’accordo (adesso tutti sono saltati sul carro dei vincitori, ma non tutti sono sinceri).
Il risultato è andato oltre ogni aspettativa, nel senso che il numero di visitatori è rimasto sostanzialmente quello delle edizioni precedenti, con una certa riduzione degli ubriaconi (riduzione non eliminazione si badi bene), malgrado la riduzione di un giorno per di più semi-festivo come il sabato. La conseguenza è che tutti i problemi legati al sovraffollamento sono rimasti, come hanno sottolineato un po’ tutti i commenti che potete trovare sul web e sulla stampa off line (colgo l’occasione per riconoscere in ritardo il dovuto omaggio a Filippo Ronco per i suoi commenti in versi).
Orbene se uno dei grandi vantaggi del web è quello di poter essere un mezzo di condivisione, discussione e confronto, rimane comunque necessario definire correttamente i termini del problema. Viceversa le eventuali soluzioni che si applicheranno non riusciranno a risolverlo. Detto in altri termini, con le parole del mio docente di marketing all’Università di Guelph “Un problema mal risolto è un problema mal definito”.
Per definire i problemi correttamente uno dei modi migliori rimane quello di mettere in fila i numeri, nel nostro caso qeullo delle principali fiere europee dedicate al vino:
- Prowein 2012: 3.635 espositori, 39.034 visitatori. Si svolge a Dusseldorf che con 586.000 abitanti è la settimana città della Germania.
- Vinexpo 2011 (fiera biennale): 2.400 espositori, 48.122 visitatori. Si svolge a Bordeaux, 240.522 abitanti nel comune, ma 1.204.846 abitanti nell’area metropolitana che ne fanno la quarta citta di Francia.
- Vinitaly 2012: 4.321 espositori, 140.000 visitatori. Si svolge a Verona, 264.354 abitanti, dodicesima città italiana.

Mi sembra evidente che i problemi che presenta il Vinitaly non sono problemi di organizzazione della fiera quanto piuttosto problemi di struttura della città (ed in questo includo anche l’adeguatezza o meno del quartiere fieristico).
La domanda corretta da porsi è: Verona è ancora in grado di ospitare una manifestazione della portata del Vinitaly?
Visto il successo di quest’anno, la risposta affermativa potrebbe essere automatica e d’altra parte i tentativi da parte di altri enti fieristici di creare fiere alternative fino ad oggi sono falliti.
Allora cambio la domanda: Verona vuole mettersi in grado di ospitare una manifestazione del livello (a cui è riuscita a portare) il Vinitaly? Secondo me qualsiasi altro modo, limitato alla sola fiera, di focalizzare il problema porterà a soluzioni altrettanto limitate, destinate a venire travolte dal successo dell’evento.
E così arriviamo all’altra possibile soluzione: se i problemi sorgono dal sovraffollamento, perchè non puntare sulla decrescita? Credo ci fosse anche questa intenzione nella scelta di cambiare le date e sono convinto che nemmeno il più ottimista degli organizzatori si aspettasse il picco di pubblico che si è avuto lunedì.
Però il Vinitaly, come tutti i marchi, ha una sua propria personalità che è solo parzialmente controllabile da chi lo gestisce. Lizzy commentando il mio post dice “Concordo. Vinitaly è la festa del vino italiano, e come tale andrebbe vissuta e frequentata. Ad una festa trovi gli amici che vogliono solo divertirsi (e bere) ,e quelli a cui non dispiacerebbe ottimizzare la propria presenza e combinare qualcosa di buono.
Ora che finalmente abbiamo chiarito la mission di questo circo, vediamo di spiegarla anche a chi affronta trasvolate oceaniche nella convinzione di andare a un evento professionale, diciamo la versione italiana di Vinexpo, o della London Fair.”
Ma io dicendo che si tratta di una “Kermesse debordante” intendevo una cosa un po’ diversa rispetto al concetto di mission (ci arrivo in un attimo), intendevo che la personalità del Vinitaly, il suo modo di essere, è talmente forte da rimanere sostanzialmente immutato anche di fronte ad un radicale cambiamento organizzativo, come la cancellazione del venrdì e del sabato. Volendo si può provare a snaturare il Vinitaly per renderlo una fiera professionale come le altre, basta essere coscienti che ci vorrà (molto) tempo e che non ci sono garanzie di successo. Più o meno lo stesso tempo e le stesse garanzie di successo che ci sono per l’adeguamento della città.
Concludo con una considerazione sul concetto di mission.
La mission serve per orientare/guidare le aspettative delle persone nei confronti dell’azienda/organizzazione. Grazie alla mission le persone esterne sanno cosa devono/possono attendersi dall’azienda/organizzazione e le persone interne all’azienda/organizzaizone sanno in quali direzioni è giusto muoversi ed in quali no. Per questo la mission deve essere una sintetica formalizzazione reale ed ispirata della personalità dell’azienda/organizzazione.
E’ necessario che sia reale perchè altrimenti le persone non ci si riconosceranno e quindi la mission non riceverà la credibilità necessaria per svolgere la funzione dinamica di guida contenuta nella componente ispirata.
Per tornare al caso del Vinitaly e del commento di Lizzy, non basterà cambiare l’enunciato della mission per cambiare la realtà della fiera.
L’ultimo affascinante tema che mi ha fatto venire in mente il commento di Lizzy è quello del target: chi è il target principale del Vinitaly? E quanti sono quelli secondari? Gli espositori che pagano gli spazi o i visitatori che pagano il biglietto? Quali segmenti di visitatori (vista al loro eterogeneità) e quali segmenti di visitatori (altrettanto eteregenei)? Oppure i media che trattano/rendono il Vinitaly un evento mediatico di portata nazionale.
Ormai però questo post è già troppo lungo e la, pur piovosa, domenica mi reclama ad altre faccende.
Grazie Lizzy.

L’infedeltà delle aziende: i due esempi, a caso, di Alitalia e Vodafone

Cercando di gestire il cambio di fuso, sfrutto la rete wireless della hall dell’albergo di Rio de Janeiro per scrivere questo post in modo da far passare il tempo negessario a digerire il chirrasco e poter andare a fare il bagno.
Ieri sono arrivato a Rio ed ho viaggiato Alitalia per sfruttare il diretto Roma -Rio. Anche se ai tempi sono inorridito sul concetto di salvataggio dell’Alitalia come atto di orgoglio nazionale perchè ha fatto pagare i debiti ai contribuenti invece che ad Air France ed ha ricreato il monopolio su numerose tratte, non ho mai avuto problemi a viaggiare Alitalia. Mi è sempre sembrata nella media come servizio e come puntualità, però l’esperienza di questo viaggio mi ha fatto riflettere sul concetto di fedeltà delle azinede ai loro clienti.
Lo so che di solito si parla sempre del contrario, però credo sia difficile per le aziende ottenere la fedeltà dai clienti se sono loro le prime a mettergli le corna.
Inoltre ho la sensazione che ampie fasce della popolazione abbiano sviluppato una tendenza alla fedeltà alle marche per non complicarsi una vita già molto compressa e complicata, fatte salve differenze molto nette di prezzo o servizio. Detto in altri termini credo che la percezione dei costi transazionali sia aumentata.
Dovrebbe quindi essere più facile per le aziende mantenere i propri clienti se si organizzasero di conseguenza.
Ma veniamo al caso di specie. Per vari motivi ho prenotato il viaggio in economy. Siccome essere alti 1,93 m e fare un volo di 12 ore in economy per essere poi pronti a lavorare il giorno dopo sono concetti che non stanno troppo bene insieme, ho pensato di fare l’upgrade utilizzando le miglia che ho accumulato nelgi anni.
Vado quindi sul sito Alitalia e scopro che questa operazione non si può fare on line, ma solo contattando il call center del servizio clienti. Evito di dilungarmi sulla frustrazione che genera nelle persone passare le decine di minuti al telefono seguendo le istruzione dei risponditori automatici, perchè esiste già un’ampia letteratura e tutti lo sappiamo per esperienza.
Quando riesco a aprlare con una gentile assistente, questa mi dice che non ci sono posti disponibili. Stupito penso che forse il nostro ex premier aveva ragione a dire che la crisi non è poi così grave e mi riprometto di riprovare l’operazione al momento dell’imbarco, sicuro che qualche posto si sarà liberato.
Quando arrivo al banco transiti di Fiumicino la gentile hostess di terra mi spiega che posti ce ne sono in assoluto, ma per prenotarli attraverso le miglia la disponibilità è limitata. Ad ogni modo lei non può farlo e mi dice di chiedere alla sua collega all’imbarco.
E qui incomincio a sentirmi trattato più da frequent mona che da frequent flyer. Capisco benissimo il concetto monetario cha sta alla basa di limitare la disponibilità dei biglietti premio, evitop il rischio di non poter vendere biglietti a prezzo pieno per esaurimento di posti, però in termini di rapporto con i propri clienti mi sembra un’ impostazione alquanto vampiresca. Alla fin fine le miglia me le sono guadagnate viaggiando con Alitalia secondo i termini che loro hanno stabilito, non è che mi stiano facendo un favore. Per di più a due ore dalla partenza del volo, con tutti i biglietti venduti, anche l’eventuale rischio di perdere un biglietto a prezzo pieno è oramai superato.
Vado quindi all’imbarco parto con l’ennesima gentile signorina che mi dice che è impossibile fare l’upgrade perchè loro non sono in grado di fare il conteggio delle miglia dal terminale che hanno al gate. Ma chi costruisce le piattaforme informatiche in Alitalia? E’ tanto complicato impostare una piattaforma web based che permetta operare da tutti i terminali con una connesione internet. Tra l’altro questo mi ricorda che quando ho parlato con il call center avevo chiesto di prenotarmi almeno l’uscita di emergenza e la signorina mi aveva risposto che non poteva perchè non riusciva a vedere a terminale la disposizione dell’aereo.
Quello che mi fa impazzire di tutto questo è che potevamo essere tutti contenti se solo ci fosse stato un diverso approccio culturale e organizzativo, nel senso che io sarei stato contento di spendere le mie miglia per avere il mio posto (posti liberi in business ce n’erano a iosa) e Alitalia sarebbe stata (avrebbe dovuto essere) contenta che io riducessi il mio saldo di miglia nonchè di aver soddisfatto una mia richiesta. Il tutto non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo.
Avrebbe forse anche evitato che il mio stato d’animo mi facesse notare un paio di cose:
- annunciano che l’aeromobile è dotata di telecamere esterne per seguire le fasi di rullaggioe di decollo. Peccato che attivino i sistemi di intrattenimento a bordo almeno 15 minuti dopo il decollo. Underdelivering la propria overpromise, delle serie stata zitti che fate più bella figura.
- io mi stavo tranquillamente ascoltando la radio quando mi hanno sparato 10 minuti di pubblicità+descrizione dei servizi di bordo (non sicurezza si noti bene) che non potevo nè spegnere nè abbassare il volume. Della serie benvenuti a bordo.
- alla fine della descrizione delle procedure di sicurezza è apparso il messaggio che le cinture di sicurezza in classe Magnifica sono dotate di un airbag automatico che si gonfia se necessario. Io ho guardato la mia normale cintura di sicurezza ed ho pensato che fin che si tratta di pagare di più per la comodità siamo nell’ambito delle libere scelte e/o possibilità, ma quando il prezzo del biglietto implica differenze sugli standard di sicurezza è un segnale che forse siamo andati troppo oltre con il turbo capitalismo.
La storia che relativa a Vodafone non riguarda me direttamente, mi è stata raccontata, ma è veramente incredibile. Il Natale scorso una persona che aveva già un abbonamento vodafone decide di passare ad un’altra tariffa, nel negozio vodafone le consigliano di disdire l’abbonamento e prendersi una prepagata di un’altro gestore per poter usufruire delle offerte dedicate ai nuovi clienti. Lei lo fa, ma l’organizzazione per attivare il nuovo abbonamento non è delle migliori ed il risultato è che sta ancora andando avanti con la prepagata dell’altro gestore. Il risultato è che l’utente è scontento perchè sta utilizzando una tariffa che non risponde alle sue asigenze e deve stare lì ogni momento a ricaricare e vodafone a perso fatturato. Tutto per una cultura che non dà la giusta importanza ai prorpi clienti e per cattiva organizzazione.
Tanti anni fa sono stato ad un seminario organizzato da Centromarco dove interveniva un professore americano che aveva appena pubblicato un libro “Loyalty” ed era rimasto stupito a scoprire che nessuno aveva ancora pubblicato un libro con questo titolo (un po’ come Leo Buscaglia con “Love”).
Nella sua ricerca aveva trovato che una delle cose che i clienti di una marca trovavano più odiose erano le offerte speciali rivolte esclusivamente ai clienti delle marche concorrenti. Loro che costituivano la base dell’esistenza della marca, trovavano ingiusto di essere trattati peggio degli “estranei”.
Alquanto logico, ma avete presente l’ultima campagna delle poste?
Domani torno domani – per quello li chiamano viaggio di lavoro – e prometto tornerò anche a a fare dei post più seri (ma un po’ di cazzeggio ogni tanto ci vuole).

Procter & Gamble entra nel XXI secolo

Non sono morto, sono solo molto occupato. Sto pagando, come molti, il fatto che l’anno lavorativo e’ iniziato il 9 gennaio e sto cercando di recuperare. Quindi quando non lavoro mi dedico al riposo piu’ totale. In attesa di tornare a post piu’ corposi, linko (sara’ ammesso il neologismo?) questa notizia sul cambio di strategia di Procter & Gamble. Notizia di assoluto rilievo se si considera che P&G viene ritenuta l’azienda che ha negli anni 50-60 del secolo scorso ha creato il marketing management come modello aziendale.

Marketing di Natale: 1880, el turron mas caro del mundo

Per le feste appena trascorse, conoscendo le mie passioni, mi hanno portato del torrone dalla Spagna.
Il torrone in Spagna è IL dolce di Natale ed è quindi un settore su cui, soprattutto durante le feste c’è una fortissima concorrenza.
In teoria il torrone spagnolo non è molto diverso da quello italiano, in pratica è tutto altro perchè le proporzioni degli ingredienti vedono la netta predominanza delle mandorle (circa il 65% dell’impasto) e del miele sullo zucchero. Leggete la lista degli ingredienti, elencati per legge in ordine decrescente, su una confezione di torrone italiano e capirete cosa intendo. Poi in Spagna si produce un tipo particolare denominato di Jijona, dal nome della località che gli dà la denominazione d’origine, che è una specie di crema/pasta friabile fatta con gli stessi ingredienti del torrone “duro” macinati molto, molto finemente.
Prima di andare in Spagna e scoprire il torrone spagnolo, portato comunque, anche lì come da noi, dagli arabi, compravo lo Sperlari “Antica Ricetta”, ma non lo trovo da anni. Il mandorlato di cologna Veneta invece, non so perchè, non mi ha mai entusiasmato, malgrado le elevate percentuali di ingredienti “nobili”.

Ad ogni modo apro la sulla scatola della marca 1880 (una delle aziende storiche del settore) e sul film alluminato nero che avvolge il prodotto trovo il claim “1880, el turron mas caro del mundo” ossia “1880, il torrone più costose del mondo”.
Questa affermazione così ostentativa mi ha colpito visto che da diversi mesi a questa parte il sentiment è tutto basato sui concetti di convenienza e understatement. Mi mi ha anche colpito perchè mi ha dato immediatamente l’idea che avrei mangiato un prodotto di altissima qualità.
Attenzione si tratta di una marca e di prodotti che si comprano normalmente nei supermercati e, tra l’altro, non era nemmeno la mia marca preferita (io normalmente compravo El Almendro). Però quel claim inaspettato, anche perchè non era sulla confezione esterna, ma solo su quella interna, ha modificato il mio percepito.
Andando poi a vedere il sito ho scoperto che si tratta del posizionamento strategico della marca, su cui si basa tutta la comunicazione (spot TV compreso).
Ho ripensato quindi al razionale che ci può essere dietro a questa strategia:
- il consumo di torrone a Natale è sempre condiviso nel senso che è un prodotto che si regala oppure che si mangia insieme in famiglia e/o si offre a chi viene a casa
- il posizionamento come “più costoso del mondo” differenzia la marca rispetto ai concorrenti, anzi la stacca portandola nell’eccellenza assoluta;
- gratifica chi lo compra per il proprio consumo o chi lo riceve come regalo;
- rassicura chi lo utilizza come regalo, perchè gli garantisce di fare bella figura (che il prodotto piaccia o meno, io per te non ho badato a spese comprando il torrone più costoso del mondo);
- il prezzo oscilla tra i 7 e gli 8,5 euro (a seconda della pezzatura e del punto vendita) ed è quindi in assoluto accessibile alla stragrande maggiornaza dei consumatori. In media il torrone 1880 costa circa il 20% in più rispetto ai concorrenti, ossia 2 euro in più a pezzo. Non è poco, ma quanto vale la sensazione di sapere di aver dato il meglio a noi stessi ed ai nostri cari, almeno a Natale? Ancora di più in un periodo di incertezza e sacrifici.

Come sempre le strategie di marketing sembrano tutte ovvie a posteriori, ma a me questa sembra una delle strategie di “lusso accessibile” più brillanti che abbia visto ultimamente e probabilmente è quella che più si avvicina al concetto di “lusso inclusivo” di cui fantasticavo oramai più di tre anni fa.

E se vi sembrano considerazioni un po’ autoincensatorie provate a pensare alle strategie di posizionamento delle marche italiane da ricorrenza (Bauli, Motta, Melegatti, Paluani e compagnia).

Buon lavoro a tutti per domani.

Il calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia 3

L’intenzione era che questo post fosse l’ultimo della serie, però ho approfittato delle vacanze per leggermi con calma il numero di dicembre della rivista Meininger’s Wine Business International (rivista che consiglio caldamente a chiunque si occupi di vino) e ci ho trovatop una serie di spunti tale che forse un solo post non basterà per esaurire l’agomento. Ad ogni modo cominciamo.
Nella puntata n. 2 di questa serie dicevo che il principale problema da affrontare da parte del settore per rilanciare il consumo di vino in Italia è quello della percezione. Per chiarire meglio ed inquadrare la cosa attingo da diversi articoli che trovate nella rivista sopracitata. Mi scuso in anticipo con chi ha poca dimestichezza con l’inglese, ma lascerò le citazioni in originale per evitare di dare l’impressione di essere io troppo enfatico nella traduzione.
Joel Peterson, considerato uno dei più importanti enologi californiani di sempre, su come creare un vino super-premium: I’ve always thought the less advertising I do the better off I am.
Pancho Campo, cileno, tennista, allenatore di tennis alla Bollettieri Academy e della nazionale cilena, organizzatore di eventi e concerti a livello mondiale, fondatore della Wine Academy of Spain e creatore dei seminari internazionali Winefuture e World Conference on Climate Change & Wine in un’intervista a tutto campo (gioco di parole involontario) sul mondo del vino:
DOMANDA: The worlds of sports and event management are very different? What surprised you about the wine industry?
CAMPO: two things. One is that it is a very closed environment, especially in Spain. … I was also surprised to see the way that wine was marketed, sold and promoted. It was so ancient.
DOMANDA: What’s the biggest issue facing wine?
CAMPO: … We are losing consumers, which is for me the most worrying challenge. The wine industry is not exciting potential consumers…
DOMANDA: What’s the problem?
CAMPO: The way we communicate is only understood by wine people (n.d.a.: visto lo spessore del personaggio qui confesso che ho avuto un innalzamento di amor proprio). 90% of people who write or blog about wine look only at the top wines, the one above € 25,00. These are wines for experts and serious aficionados. What makes the industry tick is the bottom of the pyramid, the wines below € 7,00 (n.d.a: nella GDO italiano oltre il 50% delle vendite a volume di vino in bottiglia è realizzato con vino di prezzo inferiore a 5 €/bottiglia), but we pay no respect to those wines or those consumers.
DOMANDA: Is more education the key?
CAMPO: I am so totally against “we need to educate the consumer” (n.d.a.: adesso si che mi pento di non aver trovato il tempo di andare al Winefuture in Rioja). Somebody says, “I know nothing about wine,” and we say, “Oh! You should take a course!” no you don’t. If I go to a restaurant, I do not want to take a course to understand cheese. I just want the hedonistic experience. I will be ruined if someone tels meI can’t have the cheese unless I do a course. The people who need to be educated are the trade, on how to communicate, promote and sell wine.

Chiudo le citazioni riportando l’esempio che Robert Joseph fa nella sua rubrica (impossibile riassumerla, ma raccomando fortissimamente di leggerla) della descrizione che una cantina del Nuovo Mondo (nel settore del vino si intendono tutti i paesi al di fuori dell’Europa) fa del proprio Pinot Nero: 82 parole per descrivere come il vino è stato fatto e solo 31 per descriverne le caratteristiche o come scrive Robert … about the stuff a consumer might pay for…
Quanto si applicano queste considerazioni alla situazione italiana? Azzarderei un 100%.
Escludendo per un momento il vino in brick (ma poi ci ritorno) il sistema della comunicazione del vino in Italia italiana è dedica il la grandissima parte delle risorse finanziarie ed umane ad interagire con la critica enologica in termini di PR e per pubblicità sulle testate specializzate.
Dal punto di vista del target questo implica sostanzialmente predicare ai convertiti, ossia ai famosi wine lovers stimati in circa il 10%.
Dal punto di vista dei contenuti redazionali si utilizza un approccio da iniziati, in un certo senso coerente con il target, così tradizionale ed ortodosso nei contenuti e nello stile da risultare a volte (frequentemente?) settario. Il tutto con un’autorefrenzialità, che ha già vistosamente ridotto il seguito dei mezzi off line e si sta rapidamente estendendo a quelli on line.
La pubblicità del vino su questi mezzi rischia frequentemente di rivelarsi inutile, se non addirittura controproducente come dice come dice Peterson, perchè ha una credibilità e rilevanza per i lettori intrinsecamente molto più bassa rispetto alla parte redazionale (gli articoli). Se non si riescono ad individuare dei contenuti originali e credibili, espressi in modo coerente ed interessante (ma Robert Joseph ha evidenziato quanto sia difficile), l’effetto banalizzazione e conseguente massificazione è praticamente automatico, soprattutto ricordando qual’è il target dei lettori di questi mezzi.
Ritengo quindi estremamente improbabile che da qui nascano nuovi spunti di interesse per avvicinare al vino nuovi consumatori.

In realtà il problema principale della comunicazione del vino in Italia è il ridottissimo livello della comunicazione diretta delle eziende e delle marche al consumatore, sia in termini di pubblicità che di publicity/pubbliche relazioni.
Facendo una stima spannometrica per difetto il valore del mercato del vino in Italia ai prezzi di consumo si aggira sui 3 MILIARDI di euro. Un’incidenza delle spese di comunicazione del 2% porterebbe ad un investimento di 60.000.000 di euro. Ora i dati che ho sugli investimenti pubblicitari sono piuttosto vecchi, ma non credo che questi superino i 10 milioni di euro, comprendendo le campagne TV delle marche di vino in brick.
La conseguenza è che la principale comunicazione sul vino che riceve il 90% dei consumatori sono le (forti) campagne pubblicitarie di Tavernello, Ronco, ecc… Non c’è da stupirsi del calo di interesse nei confronti della categoria da parte dei nuovi potenziali consumatori.
Il ridotto livello degli investimenti viene spesso ricondotto alla frammentazione del settore ed alla conseguente piccola dimensione delle cantine.
E’ un’affermazione che non condivido per due motivi:
1) c’è comunque un gruppo di aziende che sviluppa sul mercato italiano un fatturato tale da giustificare/richiedere un sostegno pubblicitario della marca e l’investimento necessario, oltre ad avere (potenzialmente) la struttura e le competenze per sviluppare una comunicazione rilevante per ampie fasce di consumatori.
2) il calo dei consumi è legato ad un problema di percezione della categoria e quindi può essere efficacemente affrontato con strategie di comunicazione collettiva di respiro nazionale, vino italiano, o di distretto, Consorzi. In quest’ultimo caso addirittura favorita dalla frammentazione dei consumi che porta i consumatori a riconoscere più i marchi consortili delle marche aziendali.
Il problema quindi è più CULTURALE che strutturale.

Già che ci sono vorrei smentire un’altro mito del mondo del vino italiano relativamente alla mancanza di informazioni: il sito del Vinitaly fornisce ricerche che bastano per sviluppare strategie per i prossimi 5 anni a cui si accede con una semplicw registrazione e Marco Baccaglio continua il suo ottimo lavoro di quantificazione dei fenomeni di mercato sul suo blog “I numeri del vino”.
Anche qui il problema è culturale e non strutturale.

Concludo (finalmente) con l’ultima citazione da un articolo di Meininger’s Wine Business International sui Super Tuscans. Dice Sean O’ Callaghan, winemaker (uso il termine inglese visto il cognome) “The problem now though is that the “Super Tuscans” are basically French varieties, maybe blended with some Sangiovese, and the result is they are boring as these wines can be found all around the world”.

Senza aprire la questione del concetto di terroir (altrimenti non finisco più) mi basta prendere a prestito da Petrini il concetto del consumatore come co-produttore per sottolineare l’importanza della domanda interna nel mantenimento dell’identità del prodotto e quindi nella sua differenziazione rispetto ai prodotti concorrenti. Una domanda interna debole indebolisce l’identità del vino italiano, esponendolo ad una maggior concorrenza da parte dei vini prodotti in altri paesi sui mercati esteri.

A tutti il mio augurio di un felice 2012.

Il calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia 2

In realtà la questione del calo del consumo di vino nel mercato italiano io l’avevo posta un paio di mesi prima del Vinitaly ai partecipanti al corso di sommelier di IV livello organizzatto da AIS ed Alma (detto senza ironia, l’apice istituzionale della conoscenza del vino in Italia), durante una mia testimonianza aziendale.
Alla domanda “perchè il consumo di vino in Italia continua a calare?” gli allievi avevano risposto in sintesi:
1) sono cambiati gli stili di vita/consumo (risposta semitautologica).
2) si è ridotto il consumo dei giovani (come sopra).
3) il consumo di vino è penalizzato dalla stretta dei controlli alcol test su chi guida.

Partendo dall’ultima risposta allora sono passato al livello superiore e quindi ho chiesto “e allora come mai il consumo di birra cresce” (fenomeno che si verifica in maniera ancora più eclatante in Spagna e, in modo meno chiaro in Francia: guarda caso i tre storici paesi produttori e consumatori di vino).
Qui la risposta è stata unanime: “perchè la birra è meno alcolica”. Peccato che si tratti di un falso mito, basato sul fatto intuitivo che la gradazione alcolica unitaria della birra è inferiore a quella del vino. Esistono però anche le verità contro-intuitive, che quindi vanno spiegate ed in questo caso la verità è che i grammi di alcolo contenuti in un bicchiere standard (qui il termine inglese serving è veramente l’ideale) di vino, birra o superalcolico è il medesimo.
Questa semplice (e non semplicistica) considerazione racchiude buona parte del problema del calo dei consumi di vino in Italia, che è sostanzialmente un problema di PERCEZIONE. A corollario aggiungo che la cosa curiosa è che il consumo di birra sta crescendo trainato da una ricerca e curiosità di approfondimento della varietà degli aspetti organolettici molto simili a quelli che (hanno) caratterizzato il vino.
Il problema di PERCEZIONE del vino nasce probabilmente dall’evoluzione che ha avuto il settore negli ultimi vent’anni in risposta allo scandalo del metanolo, sia in termini di qualità e profilo dei prodotti che, soprattutto, in termini di come questi sono stati presentati e comunicati dai mass media negli ultimi vent’anni. Il miglioramento della qualità del vino italiano, sia nella media che nelle sue punte di eccellenza raramente raggiunte in precedenza, è stato allo stesso tempo sostenuto e stimolato da un approccio al prodotto centrato sull’approfondimento degustativo delle sue caratteristiche organolettiche partito da un nuovo movimento di critica enologica che si è man mano diffuso in fasce sempre più ampie di consumatori. Il cristallizzarsi di questi due fattori, che hanno indubbiamente creato il rinascimento del vino italiano, è sfociato nell’attuale problema di PERCEZIONE, che, per essere compreso con maggior chiarezza, va suddiviso almeno in tre aspetti:
1) PERDITA DI IDENTITA’ DELLA CATEGORIA DI PRODOTTO
Circa 50/40 anni fa, quando il consumo italiano era di 100 litri/annui pro-capite, il vino era un alimento, o per meglio dire un nutriente, poi è divento una bevanda. Il cambiamento è determinato dal cambiamento della società e non è necessariamente negativo, poichè riduce l’effetto della legge di Engel che prevede una diminuzione della parte di reddito destinata all’acquisto dei beni alimentari al crescere del reddito in quanto questa interessa solamente la componente nutritiva di un alimento e non quella edonistica.
Attualmente però la componente culturale, ancor più che edonistica, del vino è diventata talmente preponderante da fargli perdere in larga misura la sua natura di bevanda. Il problema è che se un liquido che si beve non è una bevanda che cos’è. Può sembrare un discorso di lana caprina, ma per rendersi conto che non lo è basta ricordare che Giorgio Calabrese (docente di alimentazione e nutrizione umana e presidente dell’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Vino) sta portando avanti da qualche anno il ritorno al concetto (reinterpretato) del vino-alimento.
Detto in maniera ancora più chiara e netta non è un discorso di lana caprina perchè oggi ci troviamo nella situazione in cui quando qualcuno ha sete il vino raramente rientra tra le possibili opzioni. Oggi la stragrande maggioranza delle persone beve vino quando ha fame (escludo la numerossisima minoranza dei cosiddetti wine lovers per cui il vino è un riferimento costante dell’esistenza).
Se a questo aggiungiamo la destrutturazione dei pasti conseguente alle modifiche dell’organizzazione della società, l’impatto sui consumi di vino è evidentemente fortissimo.
Pensando alla crescita del consumo della birra credo che conti anche il fatto che ha mantenuto la sua caratteristica di bevanda con funzione anche dissetante e non credo sia un caso che la categoria di vino con la maggior crescita in Italia siano gli spumanti, ossia vini che si bevono anche e soprattutto in occasioni diverse dai pasti (gli spumanti hanno anche un’altra importante caratteristica che vedremo in seguito).
Quello che invece mi stupisce è notare la sostanziale ineluttabilità con cui il fenomeno viene affrontato dal settore vinicolo se anche un guru del vino come Sandro Sangiorgi nel suo ultimo libro “L’invenzione della gioia” prende come un dato di fatto che “Il vino, per la gran parte delle persone, è legato a un momento speciale, raramente è quotidianità”.
2) IL VINO SI E’ APPIATTITO SULL’ECCELLENZA DIVENTANDO SEMPRE PIU’ IMPEGNATIVO.
Qui c’è poco da girarci intorno: oramai la parodia del sommelier di Albanese non fa nemmeno più ridere. A furia di far roteare i bicchieri alla maggioranza dei consumatori sono roteate le … scatole. Bere un bicchiere di vino in compagnia (ma per assurdo spesso anche da soli) richiede spesso un impegno psicologico (ed economico). Sempre meno interessante, quasi mai divertente, il vino diventa noioso.
Attenzione è vero che il vino per sua natura è complesso, ma questo non significa che sia per forza necessario ricercarne e sottolinearne la complessità in ogni occasione e situazione. Tornando alla birra, l’interesse sta crescendo in certe fasce di consumatori anche grazie alla percezione di una certa complessità, mantenuta e gestita però entro limiti stimolanti e non da comunità di iniziati che, inevitabilmente, diventa settaria ed escludente. Qui posso non dilungarmi perchè recentemente si è espresso benissimo l’ottimo Alessandro Masnaghetti.
Va riscoperto il divertimento di bere un bicchiere di vino e, nuovamente, non a caso vanno bene gli spumanti, ossia vini intrinsecamente divertenti per stile e situazioni di consumo.
3) GLI ATTUALI MESSAGGI ED I MEZZI ATTRAVERSO CUI VENGONO COMUNICATI SI RIVOLGONO AD UNA LIMITATA FASCIA DI CONSUMATORI.
La comunicazione del vino oggi si rivolge principalmente ai consumatori residenti nelle aree urbane, di età (circa ovviamente) tra i 40-60 anni (sarei tentato di scrivere 35, ma temo sia un’illusione giovanilistica). Si tratta dei consumatori che negli ultimi vent’anni hanno reso l’enogastronomia una componente culturalmente importante della società e per i quali la (ri)scoperta del vino è sostanzialmente la (ri)scoperta di arcadia. Il fatto è che credevamo (ci sono dentro anche io) di essere la prima generazione della società industriale ed invece eravamo l’ultima della società contadina emigrata in città.
Tutti quei valori legati alla tradizione (di fatto ai nostri nonni contadini) per noi sono rassicuranti, ma agli under 30 dicono poco o niente. Mentre sono ovviamente questi i consumatori che daranno o meno un futuro al vino (e, nuovamente, i consumatori alla base della crescita di birra e spumanti).
Su questo aspetto un’ultima considerazione sui consumatori oltre i 60 (prima che si dica che me li sono dimenticati): sono in genere forti consumatori perchè sono quelli che vivono il vino con normale quotidianità.

L’idea era che l’argomento si esaurisse con 2 post, ma l’ora è tarda e le forze sacrseggiano. Arrivederci alla puntata n.3.

Non c’è più Limoncè.

Quando faccio la spesa dedico una particolare attenzione al reparto dei vini e liquori per ovvie ragioni professionali. Ieri ho notato con sconcerto la nuova bottiglia di limoncè, che vedete nella foto qui sotto (non a caso di fianco a Limoncetta di Sorrento).
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Conoscendo bene la storia strategica e di risultati di mercato di Limoncè per averlo “frequentato” 7 anni e gestito circa 4, ho mentalmente ripercorso l’evoluzione dei pack: da qui lo sconcerto.
In ordine cronologico, questo era la versione precedente (in realtà questa è l’immagine del prodotto al momento del lancio nel 1997, poi negli anni il tappo di sughero è stato sostituito da un tappo a vite, la scritta Stock sulla capsula sul collo della bottiglia è stata sostituita da una ripetizione del logo che è evoluto graficamente ammorbidendosi come lo si vede oggi) e sotto si vede il Limoncè ’83 inserito nel contesto competitivo dei limoncelli nel 1997, prima del lancio di Limoncè come lo conoscono tutti.

Ora non entrerò nei dettagli perchè rischio di scrivere non un post ma un blog intero.
In sintesi nel 1997 Stock con Limoncè 83 era già il leader di mercato dei limoncelli grazie alla sua forza distributiva, ma,notando un forte potenziale di mercato inespresso, decide di uccidere quel prodotto (leader di mercato sottolineo una volta di più) per lanciarne uno in grado di dare contemporaneità alla categoria di prodotto.
Limoncè diventa così uno dei più grandi successi nel mercato dei liquori e distillati degli ultimi quindici anni grazie ad una strategia pensata e realizzata con chiarezza e precisione (la fortuna, chissà come mai, accompagna sempre queto tipo di operazioni, mentre scarseggia in quelle strategicamente deboli).
Uno dei principali elementi di differenziazione che hanno costruito l’immagine della marca è stato il packaging sia in termini di forma della bottiglia ovale e allungata, che in termini di logo, in cui l’elemente del limonè diventa parte integrante di una grafica che va in direzione opposta a quelle utilizzate fino a quel momento (anche da Stock).
In poche parole Stock crea il nuovo stile del limoncello, oggi si sarebbe detto un esempio di blue ocean strategy (però il libro non era ancora stato pubblicato).
Con questa modifica di packaging l’attuale management della Stock, dopo l’insulsa campagna TV di due anni fa e l’inutile lancio del liquore Limoncè, fa abdicare la marca al proprio ruolo di leader una volta di più e quindi le dà un ulteriore spinta verso il declino.
I ghirigori su bottiglia e capsula vogliono rimandare ad una generica tradizione (e ricordano stranamente l’immagine liberty del Limoncè 83) ed indeboliscono il logo. Il limone del logo ripetuto sulla capsula è diventato una (confusa) spirale di bucce e su capsula e bottiglia si trovano due frasi diverse ma simili che reclamano la genuinità del prodotto: “Solo Limoni italiani” e “Liquore naturale di limoni”. Excusatio non petita,accusatio manifesta.

Nel frattempo il pack di Limoncetta, da anni il principale concorrente, si è raffinato unendo simpatia ed eleganza nel comunicare il suo plus intrinseco: essere prodotto con limoni di Sorrento IGP.

In sintesi Limoncè ha perso la sua leadership innazitutto concettuale e di stile e si propone con un immagine che va nella direzione di Limoncetta di Sorrento, puntando, goffamente ed inutilmente (visto che è già contenuto nel logo), sul limone quale ingrediente principale della ricetta. Carta che risulterà sempre perdente nei confronti di Limoncetta che in etichetta dichiara nell’ordine “Liquore di limoni di Sorrento”, “l’Originale”, “Ricetta tradizionale per infusione”. Ho solo un appunto da fare ad Averna, proprietari del marchio “Limoncetta” (cosa credavate? Che lo facessero le suore cieche di qualche monastero della costiera amalfitana?): sul sito c’è ancora la foto del pack vecchio.

Se penso che nella proposta che avevo raccomandato per l’aggiornamento del marchio Limoncè nel 2006 il marchio diventatava l’immagine del limone+c’è, forse capite un po’ meglio il mio sconcerto.

Bare bones marketing 2

All’inizio dell’anno ho fatto un posto sul marketing all’osso o, in inglese, “bare bones” marketing (alla fine del post capirete perchè stavolta uso la terminologia inglese).

Non arrivava ad essere un concetto razionalizzato e formalizzato come quello del lusso inclusivo e nemmeno al livello di idea. Era più un’impressione, una sensazione a livello quasi inconscio (si lo so che avere “sensazioni” di marketing è preoccupante, ed in effetti ogni tanto mi preoccupo).

Non mi sono quindi preoccupato di pensarci in modo specifico, ma l’ho lasciata lì libera di maturare ed evolvere per conto suo. Ahimè però non è che abbia fatto grandi progressi, quindi l’altro giorno ho deciso di passare dalla teoria (inesistente) ai fatti (concreti per definizione) ed ho mandato a due buyers stranieri una mail di presentazion e dell’azienda senza la classica presentazione power point con luci, colori ed animazioni che rischiano di far perdere tempo e distrarre dal contenuto/messaggio.

Al suo posto ho allegato un documento word di una pagina che riportava le caratteristiche essenziali dell’azienda ed i conseguenti benefit nel valutarci come business partner . In realtà avrei voluta fare un testo più corto ed inserirlo nella mail invece che allegarlo (due click in meno), ma non ci sono riuscito. Ecco la dimostrazione che chi mi dice che mi sopravvaluto (talvolta) ha ragione.

Se funziona ve lo dico. Intanto godetevi Luois Amstrong bare necessity (se qualcuno mi insegna ad inserire i video in modo che si vedano anche nel post e non solo come link, lo ringrazio).

Perchè tutti vogliono George Clooney?!

Confesso che non sono mai stato un fautore dell’utilizzo dei testimonial nella pubblicità.
Un testimonial apporta sostanzialmente due vantaggi:
1. Aumenta la visibilità/attenzionalità della campagna (sempre).
2. Rafforza il posizionamento della marca/prodotto (nel caso in cui il suo percepito pubblico sia coerente con quello della marca/prodotto a cui è associato e/o che la sua presenza nella comunicazione sia funzionalmente inserita in una creatività che avrebbe comunque funzionato anche senza la sua presenza).

Ho sempre pensato che i soldi del compenso di un testimonial sia meglio spenderli aumentando la pressione della campagna (equivalente in parte al punto 1) e concentrarsi nel lavoro dell’agenzia per arrivare ad una comunicazione rilevante, aumentandone di conseguenza l’attenzioanlità e la capacità di rafforzare il posizionamento.

Questo anche per evitare i due rischi intrinseci all’uso di un testimonial:
3. Catalizzazione dell’attenzione del pubblico sul testimonial a detrimento della marca/prodotto.
4. Appiattimento creativo sulla presenza del testimonial, sviluppando la creatività sulle sue caratteristiche e non su quelle della marca/prodottorischi di rilassamento creativo che (quasi) automaticamente implica l’utilizzo del testimonial.

Fin qui la fisiologia. Volendo c’è anche la patologia/sfiga che il testimonial faccia o gli succeda qualcosa di inadeguato rispetto al posizionamento della marca/prodotto durante la campagna.

Credo che un eccellente esempio di cattivo uso del testimonial sia rappresentato dalle campagne delle compagnie di telefonia mobile, che, tra l’altro, un giorno mi spiegheranno perchè l’unico modo di comunicare l’uso dei telefonini sia entrando nel tunnel del divertimento (cfr. Caparezza). Divertimento che, volendo aprire un’altra parentesi, è cosa ben diversa dalla felicità, come ha ben capito la Coca Cola ed anzi potrebbe perfino essere antitetico (pensiero mio).

Tornando ai testimonial, come sempre nel marketing, disciplina analitica e non deterministica basata quindi più sui principi che su regole, ci sono anche esempi di grande efficacia.
uno l’ho vissuto in prima persona ed era la canzone “Lemon tree” nello spot del Limoncè. Non credo sia una caso l’assoluta coerenza tra testimonial, messaggioe e prodotto, nè il fatto che si sia trattato di un long seller, trasmesso ogni tanto ancora oggi a quasi 15 anni di distanza (probabilmente aiutato anche dalle campagne pubblicitarie). il fatto che l’attuale management Stock abbia deciso un paio di anni fa di non usarla più per il nuovo spot spiega tante cose, ma se continuo ad aprire parentesi questo post diventerà un labirinto in cui tutti si perderanno.

Un’altro esempio perfetto di utilizzo del testimonial sono state le prime due campagne Martini con George Clooney. Lo spot stava in piedi ugualmente, ma la presenza di Clooney dava immediatamente ed implicitamente, quindi con la massima efficacia, una dimensione di eleganza internazionale alla marca. La stessa delle precedenti campagne Martini (se il mio pubblico femminile sta sognando dall’inizio del post con il fascino di George, adesso il mio pubblico maschile è acceso dal ricordo di Charlize Theron che si alza e se ne va, incurante del vestito impligliato nella sedia).
In più lo slogan “No Martini non party”, con tanto di porta sbattuta in faccia, affermava una superiorità dalla marca anche rispetto ad una star di Hollywood. Chapeau alla creatività!

L’efficacia di quelle campagne ha creato un legame talmente forte tra Martini e Clooney che avrebbe dovute da dissuadere chiunque altro ad utilizzarlo come testimonial.

E invece l’altro giorno me lo sono trovato nello spot di Fastweb (c’era già da un po’, ma la prima serie mi erano sembrati spot di una banca), dopo averlo visto in quella di Nespresso (magari quella era una comunicazione mondiale), e prima della Fiat.

Allora ripeto la domanda del titolo: perchè? Possibile che a nessuna di queste aziende/agenzie venga il dubbio che la figura di Clooney non solo non sia in grado di differenziare il prodotto, ma anzi tenda ad indifferenzialo?.

Le agenzie sono davvero così a corto di idee e le aziende così cariche di soldi?

The CEO’s Marketing Manifesto

Come promesso eccomi di nuvo qui dopo un po (poche) ferie e parecchio lavoro nuovo.
Purtroppo non sono riuscito a dedicare molto tempo alle letture di marketing durante queste ferie, quindi continuo ad approfittare delle letture fatte a giugno del numero di novembre-dicembre 2008 di Marketing Management.
Oltre a quello sul marketing democratico c’era un interessantissimo articolo con il titolo di questo post, che contiene, circostanziandole, parecchie conferme al tema di fondo di questo blog e diversi spunti di sviluppo.
Ecco la sintesi fatta pescando dalle mie sottolineature a margine.
Già nel 2001 uno studio sulle aziende che compongono il FTSE 100 index (circa l’80% della capitalizzazione della borsa di Londra) rilevava come solamente 13 amministratori delegati avessero un background di marketing, contro 26 che provenivano dalla finanza. Il numero di A.D. provenienti dal marketing era diminuito negli ultimi tre anni ed anche nella aziende che operavano nei beni di consumo gli A.D. con provenienza dalla finanza superavano quelli di provenienza dal marketing.
Questo ha provocato un declino del peso del marketing a livello di comitati di direzione, tanto che nel 2008 si stimava che il tempo dedicato al marketing durante le riunioni dell’alta direzione si aggirava intorno al 10%
Come dire: il declino del marketing nella definizione delle strategie aziendali non è solo un amia impressione.
La cosa curiosa è che conteporaneamente alla perdita di importanza della FUNZIONE MARKETING, l’importanza del marketing come approccio strategico non è assolutamente messa in discussione.
La vecchia storia che la creazione di valore per i propri clienti può realizzarsi davvero solamente integrando l’attività delle funzioni aziendali. Cosa tanto più vera tenuto conto dei cambiamenti in atto nelle aziende:
1) approccio organizzativo ed operativo basato più sui processi che sulle funzioni.
2) da strutture gerarchiche a gruppi di lavoro.
3) da partnership a transazione a “portata di mano” (“arms-length” nell’originale inglese) con fornitori e distributori.
Ergo le aziende (gli A.D., perchè alla fin fine le aziende sono fatte di persone e funzionano attraverso queste) terrenna in considerazione solamente iniziative che siano strategiche, interfunzionali ed orientate al risultato. Ho già detto tante volte in questo blog che la funzione (le persone) naturalmente più indicate per formazione, approccio e posizione all’interno dell’azienda è il marketing (ovviamente quello fatto bene).
Come fare a mettere in piedi iniziative di questo tipo?
1) da segmenti di mercato a segmenti strategici.
2) da vendere prodotti a fornire soluzioni.
3) dai canali distributivi in declino a quelli in crescita.
4) da bulddozer di marca (“branded buldozzer” in inglese) a partner globali delle catene distributive.
5) soprattutto da essere guidati dal mercato (“market-driven” a guidare il mercato (“market driving”) attraverso vera e significativa (per il cliente) innovazione.

Il nodo del punto 5 è l’equilibrio tra soddisfare meglio le richieste attuali dei clienti attraverso i processi guidati dal mercato e soddisfare nuove/latenti richieste attarverso processi di guida del mercato, senza essere troppo avanti rispetto ai clienti. Anche se ho il dubbio che oggi come oggi il rischio di essere troppo avanti sia minimo, se anche questo può significare delle inefficenze nel breve (quindi risultati economici inferiori a quelli che si avrebbero con un equilibrio più spostato sul presente), nel medio-lungo sar à sicuramente vantaggiose grazie alla differenziazione che creata dall’innovazione, sia in termini oggettivi che di percezione. L’esempio Apple è anche troppo banale.
Diventa quindi necessario attivare degli indicatori che misurino la salute dell’azienda nel futuro da affiancare a quelli tradizionalmente utilizzati per misurare la salute dell’azienda nel presente (vendite e profittabilità). Indicatori legati alla brand equity, alla fedeltà dei clienti ed alla loro soddisfazione. Io ci agggiungerei anche alla propensione all’acquisto dei prodotti della marca/azienda.

L’articolo conclude indicando che gli A.D. hanno bisogno di managers che pre-VEDANO il futuro piuttosto che conoscano i meccanismi causa-effetto (“foresight vs. insight” nell’originale inglese), di INNOVATORI e non di tattici, di STRATEGHI DI MERCATO e non pianificatori di mercato (“market strategists vs. marketing planners” nell’originale inglese).
In altre parole i professionisti di marketing devono imparare a condurre con un’immaginazione guidata dalla conoscenza del consumatore-cliente e non basarsi sulle previsioni delle ricerche di mercato.
Detto con parole mie aggiungendo una piccola postilla alla serie dei post sulle ricerche di mercato, le ricerche di mercato sono uno strumento analitico, non deterministico.
Detto in un altro modo ancora, che forse ho letto da qualche parte, ma non mi ricordo dove: tutto quello che viene fatto è stato prima immaginato.
Concludo io ricordando che un po’ di tempo fa in un post dicevo che probababilmente il marketing del futuro è quello fatto dai BRICS. A chi mi chiedeva di che tipo di marketing si trattava ho risposto che non lo sapevo perchè non ho frequentato abbastanza quei Paesi (ok qualche pista ce l’avevo, abbastanza per accendere una spia, ma non per mettere niente nero su bianco). Forse adesso un inizio di risposta ce l’ho perchè l’autore dell’articolo è il prof Nirmalya Kumar, indiano che insegna alla London Business School.

Il marketing democratico

Durante il mese di giugno ho dedicato un po’ di tempo alla lettura dei numeri arretrati di Marketing Management e Marketing News (le riviste dell’American Marketing Asocciation).
Ovviamente non sono riuscito a portarmi in pari, ed e’ un peccato perche’, come sempre, ho trovato dei concetti che mi sarebbero stati di grande utilita’ per i progetti realizzati. Meno male che comunque sono riuscito in buina parte ad arrivarci da solo quando mi e’ servito ed ho trovato anche cose che mi verranno buone per i progetti futuri.
Ad ogni modo un numero particolarmente ricco di Marketing Management e’ stato quello del novembre-dicembre 2008, dove c’era un articolo su motivi del declino del marketing all’interno delle organizzazioni e relativi rimedi (argomento fondante di biscomarketing) ed uno sul marketing democratico. Oggi volevo riportare una seintesi di quest’ultimo.
L’analisi prende le mosse dal successo della campagna “Evolution” realizzata nel 2006 per il sapone DOVE dell’Unilever dall’agenzia Ogilvy & Mather, nella quale in un minuto si mostra l’evouzione di una normale ragazza in una modella da copertina attraverso il make-up e l’uso di photoshop per concludere con lo slogan “Non c’è da stupirsi se la nostra percezione della bellezza è distorta”.
Alla base della campagna c’era una nuova definzione della mission della marca: “la missione di DOVE è far sì che più donne si sentano belle ogni giorno allargando la ristretta definizione di bellezza ed inspirandole a prendersi cura di sè stesse”.
Detto in altre parole, quelle di Philippe Harousseau, Direttore dello sviluppo della marca: “Se tu non sei adamantino riguardo alla mission della marca non puoi controllare cosa succede quando le persone la amplificano. Tutti coloro che lavorano in Dove le conoscono a memoria. La nostra nozione di bellezza non è elitaria, è celebrativa, inclusiva e democratica.”
Con il termine democratico gli autori intendono il fatto che i consumatori giocano un ruolo maggiore nel mercato e di conseguenza l’aspettativa che il marketing porti benefici anche alla società in generale.
Si basa innanzitutto sul rispetto per il consumatore; come dice Leonard Marsh, uno dei fondatori della Snapple Beverage Company, “Noi non abbiamo mai pensato di essere meglio dei nostri consumatori”. Può sembrare una banalità, ma chi ha frequentato le aziende sa quanto spesso si propongano (e talvota si realizzino) strategie basate sul presupposto che tanto il consumatore è, in qualche misura, ignorante.
Gli autori quindi definiscono i 6 principi del marketing democratico:
Scambio: lo scambio tra un compratore ed un venditore può creare valore per ognuno ed anche aggiungere valore alla società. Gli scambi sono giusti, equi e socialmente responsabili.
Consumo: il marketing offre ai consumatori l’opportunità di consumare prodotti e servizi innovativi che migliorano la qualità della vita. Non promuove il consumo di beni e servizi che danneggiano i cosnumatori.
Scelta: la scelta segna un equilibrio tra diversità e confusione. Esistono significative differenza tra scelte e benefici, reali e percepiti, che nascono dalla disponibilità di scelte diverse.
Informazione: gli operatori del mercato informano i consumatori con la minima intrusione. Forniscono informazioni interessanti e rilevanti. Proteggono scrupolosamente le informazioni relative ai consumatori che raccolgono nella loro attività.
Partecipazione: gli operatori del mercato danno ai consumatori il potere di realizzarsi, li coinvolgono nello sviluppo dei beni e servizi, li sollecitano ed ascoltano e si comportano di conseguenza alle informazioni fornite dai consumatori.
Inclusione: gli operatori del mercato si rivolgono a tutti i consumatori, rispettando i diversi valori e le diverse culture.
Quest’ultimo punto può essere descritto anche come universitalità del marketing democratico, che tratta tutti gli individui come potenziali clienti.
Evidentemente si può vedere tutta questa analisi con gli occhi del cinismo e dire che si tratta solo di belle parole che hanno l’obiettivo di far apparire il marketing sotto una luce positiva, che in realtà non ha.
Io però, a parte l’esempio di DOVE riportato nell’articolo, se penso ad alcuni casi di successo negli ultimi anni (il primo che mi vien in mente è Diesel e prima ancora Benetton, per rimanere nel tessile) ritrovo questo tipo di approccio.
Leggendo poi ho anche ritrovato il concetto di lusso inclusivo sviluppato a suo tempo ed un supporto alla mia sparata sulla marginalizzazione del marketing come una delle concause della crisi economica mondiale.
Infine la scarsa diffusione del marketing democratico si può collegare anche al suo declino nelle aziende e nella società.
Il prossimo post quindi sarà dedicato all’articolo che analizza qesta situazione.