Eterodossia ed innovazione.

Negli ultimi tre mesi mi sono trovato a riflettere sul concetto di “eterodossia” (i motivi che mi hanno spinto a farlo non sono importanti).

Questa riflessione mi ha portato al convincimento che il senso delle situazioni si può comprendere in larga misura partendo dal significato preciso delle parole che le descrivono. I ragionamenti sul concetto di eterodossia sono infatti proseguiti per quelle che potrei definire “tautologie successive”.

A ben guardare anche il titolo è una tautologia come si nota analizzando il significato della parola eterodossia:
Wikipedia: Con la parola eterodossia, dal greco heteros («diverso», «differente») e [[Doxa (filosofia)|doxa}} («opinione», «dottrina]]») ci si riferisce ad una serie di opinioni, ideologie, scelte di vita o credenze non in linea con quelle dominanti o maggiormente diffuse. È spesso usata, in modo contrastivo con ortodossia, per sottolineare e rivendicare la propria posizione non allineata a quella tradizionale.

Devoto-Oli: Atteggiamento di totale o parziale distacco dalle idee imposte o subite dalla maggioranza in determinati campi..

L’eterodossia è importante dal punto di vista della strategia (aziendale) perchè è la base dell’innovazione (o volendo si può anche dire che l’innovazione è sempre eterodossa), ergo del progresso (delle persone, delle organizzazioni, ecc…Scegliete voi la dimensione a cui volete riferirvi).

Risulta interessante come l’eterodossia si definisca in base all’ortodossia (non viceversa) perchè in realtà l’innovazione di successo nasce (quasi sempre) dal SUPERAMENTO dell’ortodossia. Citando Picasso “A quattro anni dipingevo come Raffaello
mi ci è voluta una vita intera per imparare a disegnare come un bambino”
.

Non si tratta di fare qualcosa di diverso dal solito per il semplice gusto di farlo o per spirito di contraddizione. Si tratta di trovare un modo nuovo e proprio per risolvere le situazioni meglio di quanto non si possa fare con i modi ortodossi. L’eterodossia efficente parte dai limiti dell’ortodossia, che possono essere risonosciuti solamente se si ha il dominio della materia.

Conoscere la genesi dell’eterodossia che si ha di fronte serve per valutarne la credibilità e quindi ridurre la (forte) resistenza al cambiamento delle organizzazioni che puntano a garantire e massimizzare efficacia ed efficienza.

Per definizione (tautologia) l’eterodossia è destabilizzante e, sempre per definizione, la destabilizzazione spaventa.

Per questa ragione spesso si cerca di favorire l’adozione dell’innovazione nascondendone l’effettivo livello di cambiamento. E’ una soluzione che funziona solamente se l’adozione dell’innovazione è semplice in termini di processo e porta rapidamente a risultati che permettono di fugare qualsiasi dubbio.

Se invece l’adozione dell’innovazione richiede un intervento sui processi (quindi sull’organizzazione delle persone) ampio nel tempo e nello spazio prima di ottenere i risultati, sarà più efficace esplicitarne l’origine dall’ortodossia.

Lo so che, soprattutto a quest’ora tarda, il post puzza di fuffa, eppure è STRATEGIA (e i due termini NON sono sinonimi).

Cos’è (e a cosa serve) il posizionamento.

Oggi torno all’essenza più pura del bisco-marketing, ossia del marketing secondo me (boom!) e lo faccio trattando un argomento apparentemente teorico, ma in realtà molto pratico, che spesso non viene approfondito come merita nella disciplina di marketing (premetto che ahimè ho lasciato in ufficio il Libro, intendo Marketing Management del Kotler, e quindi non sono riuscito a verificarne la trattazione che ne fa la bibbia del marketing.)

Se divento dottrinale fermatemi.

La migliore definizione di posizionamento rimane quella che ho sentito Thomas Funk, mio prof. di marketing in Canada, in una gelida mattina di dicembre (inizio lezione ore 8:00 a.m.): “il vostro posizionamento è quello che rappresentate nella testa del consumatore” (definizione che credo comunque essere Kotleriana).

Con l’esperienza di questi anni di lavoro io modificherei leggermente questa definizione e direi che “il posizionamento definisce quello una marca/organizzazione vuole rappresentare per il mercato”, dove “mercato” va inteso nell’accezione più ampia dei portatori di interessi (stakeholders). Poi ogni marca deciderà con quanta forza e con quali aspetti della propria personalità vuole rappresentare qualcosa per i diversi segmenti di portatori di interessi (lo so: ho già inserito altri concetti senza spiegarli, continuate a leggere …).

In realtà sono vere entrambe le definizioni, come spiega con estrema chiarezza questo post del Dr. Narayana Rao che raccoglie il pensiero di Kotler.

La seconda definizione si riferisce alla definizione dell’identità della marca, mentre la prima all’immagine che ne viene percepita dai consumatori.

E’ evidente che quanto la definizione dell’identità è chiara, forte e coerente con l’effettiva personalità della marca e tanto più ci sarà corrispondenza tra questa e l’immagine proiettata, quindi percepita, all’esterno.

Il “vuole” nella mia definizione infatti non significa che la definizione del posizionamento che rappresenta la personalità aziendale deve essere un auspicio. Significa che la definizoine del posizionamento deve esprimere una tensione verso quelli che SONO i valori dell’azienda e,soprattutto, verso la loro realizzazione con tutte le attività aziendali. “Vuole” sottolinea il fatto che la definizoine del posizionamento rappresenta una scelta che va confermata continuamente con il proprio comportamento.

Ne consegue che la definizione del posizionamento non può essere la somma delle diverse percezioni di sè e del proprio ruolo (come marca/organizzazione) che hanno le diverse persone/funzioni, ma deve esserne la SINTESI.

Solo in questo modo riuscirà ad essere allo stesso tempo precisa nel rappresentare la marca/organizzazione in modo chiaro ed unico, ma sufficientemente ampia da rappresentare un punto di convergenza per tutte le persone coinvolte con la marca/organizzazione.

Solo in questo modo diventerà la “mano invisibile” (termine utilizzato da kotler riferendosi alla mission aziendale) che allinea “automaticamente” tutte le attività legate alla marca/organizzazione (sia che vengano realizzate da soggeti interni che esterni all’organizzazione) verso un unico sistema di valori coerente perchè condiviso.

Questo si traduce in maggiore efficenza ed efficacia nell’attività dell’organizzazione perchè il posizionamento scelto definisce quali ambiti gli appartengono e quali no e come i primi vanno presidiati. In parole povere cosa e come l’organizzazione può e deve fare (prima che mi diventiate troppo talebani vi linko un mio vecchio post dal titolo: “Il posizionamento della vostra marca è davvero così stretto?”).

Viceversa se la definizione del posizionamento risulta generica, espressione di auspipci più che di aspirazioni legittimate dalla realtà aziendale, o, peggio ancora, avulsa dall’affettiva personalità dell’organizzazione si trasforma in un formalismo inutile o, più spesso, dannoso.

Crea infatti delle inefficienze per l’incoerenza tra quello che si dichiara di voler fare e quello che si può e vuole effettivamente fare.

Mi rendo conto che forse sarebbe opportuno spipegare un po’ più diffusamente qualche concetto, però e già tardi quindi vi auguro buonanotte e resto disponibile a tutti gli spunti che vorrete darmi con i commenti.

Il marketing virale di successo si può pianificare (!)(?)

Oggi avevo in mente di scrivere un post, alquanto pessimistico, sulla visione di Oscar Farinetti su come affrontare la crisi che attraversa il paese. Poi però ho pensato di curare un po’ il mio karma (evitando le negatività) e magari anche le statistiche di biscomarketing che vedono le visite in picchiata.

Allora ho deciso di concentrarmi sul punto di forza del blog, ossia il marketing strategico, evitando di lanciarmi ancora una volta in ragionamenti sui massimi sistemi, argomento su cui la mia credibilità langue.

Prendo quindi spunto da un articolo dell’ultimo numero di Marketing News, che ha intervistato il prof. Jonah Berger, autore del libro “Contagious: why things catch up” che raccoglie i risultati delle sue ricerche sul marketing virale (il link al sito del prof. Berger potrebbe valere da solo questo post).

Ovviamente nell’intervista Berger non spiega tutto, altrimenti perchè comprare il libro, ma quello che spiega è già sufficente per migliorare una strategia di marketing virale.

Condivido con il prof. Berger lo stupore per il mistero di cosa diventa di tendenza e cosa no, lui però ha studiato e dice che, passata la prima sorpresa, ci sono elementi comuni che caratterizzano la diffusione di idee e contenuti, anche molto diversi tra loro.

L’argomento mi sembra di estremo interesse perchè è da oltre dieci anni che periodicamente qualche agenzia di pubblicità/pr mi propone una strategia basata su iniziare un’attività/un racconto/ecc… per poi vederla crescere grazie alla rete/comunità. Le centinaia (migliaia?) di profili facebook aziendali che languono sono la dimostrazione che le cose non sono così semplici ed automatiche.

Da buon americano ha creato un acronimo (potenza della semiotica): STEPPS = Social currency (rilevanza sociale), Triggers (attivatori), Emozioni, Public (pubblico), Practical value (valore pratico), Storie.

I casi di marketing virale di successo hanno alla base un mix di questi fattori.

La base della ricerca nasce dall’analisi nel 2011 dei contenuti dei 7.000 articoli più condivisi del New York Time. Innazitutto si è riscontrato che le persone sono meno propense a condividere le storie tristi (vedi il karma di cui sopra?), mentre quelle condivise sono quelle che suscitatano emozioni forti come rabbia, stupore, ansia o meraviglia.

L’implicazione pratica è che la creazione di contenuti genericamente positivi che contraddistingue la gran parte (totalità?) dei contenuti creati dalle aziende hanno poca probabilità di essere condivisi. Detto in altri termini: per avere emozioni forti (condivisione dei contenuti) devo offrire emozioni forti.

Oppure trovare degli attivatori. La campagna Kit Kat “Give me a break” con il trigger pausa caffè (coffee break) ha portato un aumento di vendite del +8%.

L’analisi suggerisce anche come l’importanza che spesso viene data agli “influenzatori”, a far arrivare il messaggio alle persone “giuste”, appaia eccessiva. Non ci sono evidenze come il fatto che provenga da una fonte “popolare” stimoli la condivisione di un messaggio tanto quanto le caratteristiche dei contenuti. Il punto quindi è concentrarsi nel creare messaggi che si diffondano da persona a persona, indifferentemente se le persone hanno 10 o 1.000 amici. L’aumento delle interconnesioni tra le persone fa sì che la differenza sia soprattutto nella velocità del risultato.

Dalla relativa rilevanza degli influenzatori deriva la cruciale implicazione del potenziale rappresentato dagli attuali consumatori di una marca in ragione di una considerazione talmente semplice da essere banale: gli attuali consumatori sono persone a cui la marca piace già.

Sono le persone che più facilmente parleranno della marca, se gli si aiuta a farlo. Ed aiutarli ha più a che vedere con le storie ed i contenuti che gli si dà piuttosto che con gli strumenti, i quali diventano ogni giorno più diffusi, accessibili e banali.

Come dice Berger: smettete di focalizzarvi sulla tecnologia e concentratevi sulla psicologia. Anche perchè, come ho già detto lo scorso 18 agosto, quando il mezzo diventa mainstream non fa più il messaggio.

A rafforzare l’importanza della psicologia Berger aggiunge un dato sorprendente, che vi giro così com’è: l’85% del passaparola avviene faccia a faccia e solo il 7% avviene on line (dell’altro 8% non so).

Nutella diventa adulta, quale sarà il suo futuro?

“Stabilità demografica: i vecchi non invecchiavano, i giovani non maturavano, i bambini non crescevano.” Vignetta di “El Roto” su El Pais di venerdì 18 ottobre.

La settimana scorsa ero partito dalla copiatura, consapevole o casuale che sia, della campagna Coca Cola con i nomi da parte di Nutella, ma ero finito a parlare più dello sdoppiamento di personalità di Coca Cola con la promozione Vodafone.

Oggi invece mi concentro su Nutella, perchè la nuova campagna rappresenta un sostanziale cambio di posizionamento.
Guardando questa breve storia degli spot Nutella appare evidente come:
- nel tempo ci sia stato uno spostamento dai bambini agli adolescenti;
- dal 1988 al 2003 si sia abbandonato il coinvolgimento della famiglia ed il legame tra generazioni per focalizzarsi sul circolo degli amici e le situazioni di consumo si allargano, andando oltre (abbandonando?) la colazione e la merenda;
- dopo il 2003 il convolgimento famigliare ed il legame tra generazioni vengono ripresi, allargando lo “scopo” della marca alla società nel suo complesso (ma escludendo gli anziani), sia in termini di immagini/situazioni che con il claim “Nutella fa più buona la vita”;
- con l’attuale spot Nutella fa un giro di 360° ed abbandona la dimensione sociale del consumo per concentrarsi su quella individuale, la situazione di consumo ritorna nell’ambito della della famiglia tradizionale, però la comunicazione è rivolta in modo quasi esclusivo ai consumatori over 40. Torna a rafforzarsi nelle immagini e nel testo il collocamento nella situazione di consumo a colazione, mentre rimane assente la merenda.

Vale la pena anche di ricordare l’evoluzione degli slogan:”Nutella Ferrero”; “Mamma tu lo sai”; “Energia per fare e per pensare”; “Che mondo sarebbe senza Nutella”; “Che colazione sarebbe senza Nutella”; “Nutella fa più buona la vita”; “Il buongiorno ha un nuovo nome, il tuo”.

Nel concludere questa breve analisi segnalo come dal 1971 al 1988 la comunicazione sottolineasse gli ingredienti e la genuinità del prodotto, concetti abbandonati/tralasciati poi fino al 2011, ripresi brevemente con lo spot “Che colazione sarebbe senza Nutella” e poi tralasciati nuovamente. Quindi meno razionalità e più emozione.

Partendo dal presupposto, dimostrato in tanti anni di campagne, che alla Ferrero sono dei signori professionisti, viene da pensare che questa evoluzione dei posizionamenti abbia l’obiettivo di seguire l’evoluzione del proprio target, nonchè l’evoluzione demografica del Paese. Il pensiero pare confermato dal fatto che gli spot spagnoli, dove la campagna “personalizza la tua Nutella” è partita già in primavera sono targettizzati sui bambini/famiglie

A questo punto mi pongo una prima domanda: l’accettabilità sociale della Nutella è tale da permettere di pubblicizzare interamente sugli adulti un prodotto per bambini? Probabilmente la risposta è affermativa visto che la scena di Moretti con il mega bicchiere di Nutella nel film “Bianca” risale al 1984. Nella storia del marketing è successo spesso che quote importanti di consumo di un prodotto provenissero da target socio-demografici diversi da quelli previsti, ma che per diversi motivi si riconoscevano nelle caratteristiche/valori della marca. E’ successo altrettanto spesso che quando le marche si sono accorte di questo ed hanno rivolto il proprio posizionamento direttamente a questi consumatori, li abbiamo persi perchè quello che gli piaceva erano proprio i valori estranei al loro profilo (come è successo nel caso della Ford Mustang).

La seconda domanda è: e i bambini? L’altro giorno ho sentito per l’ennesima volta l’ovvia tautologia che “dobbiamo occuparci dei bambini perchè sono il nostro futuro” (la cui conseguenza, poco ricordata, è che in una società la “presenza” del futuro e direttamente proporzionale alla “presenza” dei bambini).

I bambini sono il futuro comunque, anche se non ce ne occupiamo. A Nutella basterà occuparsi dei genitori per essere nel futuro dei loro (attuali) bambini?

Detto in sintesi la preoccupazione è che Nutella (e Ferrero, vedi anche la campagna Kinder cereali) stiano adottando una visione molto forte nel breve periodo ma con delle incognite nel medio-lungo.

Qui pensavo di aver finito, ma devo a Maria Grazia un commento sulla campagna istantanea “Siamo in vendita solo per i nostri consumatori”, apparsa in questi giorni sui principali quotidiani a seguito delle voci di una possibile vendita alla Nestlè.

Non è che mi abbia fatto impazzire perchè:
- suona un po’ ad excusatio non petita.. perchè la notizia della possibile vendita non mi sembra avesse fatto così tanto rumore, e comunque è stata data riportando la smentita di Ferrero;
- il concetto “Siamo in vendita…” suona comunque male.
- visto che in primo piano c’è la Nutella, almeno avrebbero potuto collegarsi alla campagna in corso con una cosa tipo “Siamo in vendita solo per Stefano, Federica, Marco, Giovanni, Roberta, Anna, Giulio ….” (adesso mi metto a fare anche il copy).

Concludo con un’ultima presa di posizione: la presenza di bambini nella pubblicità dovrebbe essere vietata!

Nutella copia Coca Cola e Coca Cola si sdoppia.

In questo post volevo scrivere di due promozioni che mi hanno lasciato perplesso, però facendo le solite ricerche/verifiche che accompagnano ogni post ho scoperto qualcosa di molto più interessante: la Coca Cola schizofrenica.

Andiamo con ordine. La prima promozione a lasciarmi perplesso è quella della Nutella con il proprio nome.

Non so se sia stata copiata da quella di “Condividi una Coca Cola” oppure è semplicemente una corrispondenza temporale (anni fa ho letto di un fisico teorico che aveva teorizzato la spiegazione del perchè alcuni concetti maturino contemporaneamente in posti e luoghi diversi in una specie di pensiero cosmico).

Poco importa, come non è sbagliato in assoluto copiare da quelli bravi. Dipende però da chi copia e come. Se sei un leader del peso della Nutella direi che non puoi copiare (quasi) da nessuno, sicuramente non da un’altro grande marchio dell’alimentare. Poi diranno che la promozione ha avuto un grande successo di partecipazione, ma secondo me resta una perdita netta di immagine.

Riguardo al “come” si copia, secondo me il concetto di “condividi questa Coca Cola con tizio” è molto più forte di “questa è la mia Nutella” e sono rimasto stupito di come invece tutti i commenti ed articoli che ho trovato in rete assimilino invece le due promozioni (paranoie da maniaco di marketing?)

L’altra promozione che mi ha lasciato perplesso è quella di Coca Cola e Vodafone che vedete qui sotto.

2013-10-13 20.52.24

I motivi della perplessità sono diversi:
- non ha alcun legame con la precedente nè con un concetto di posizionamento. E’ semplicemente un premio Vodafone per tutti. E’ quindi una promozione che potrebbe fare qualsiasi marca/prodotto.
- oltre che dall’etichetta, la bottiglia promozionata viene identificata da un tappo giallo che rischia di far percepire una variante di gusto (tipo la Coca Cola al limone realizzat anni fa, inseguendo il successo della Pepsi lime).
- è una promozione escludente per una marca universale come Coca Cola, perchè se io consumatore non ho vodafone sono in qualche modo penalizzato.

in una parola non sebrava neanche una promozione Coca Cola …. ed infatti, leggendo bene l’etichetta, non lo è.

Il regolamento del concorso infatti si trova su www.coca-colahellenic.it, ossia Coca Cola HBC Italia, ossia il principale (attenzione non l’unico) imbottigliatore italiano di prodotti The Coca Cola Company.

A questo punto la domanda (retorica?) è: questa operazione nasce da Coca Cola Italia, il cui sito è comunque riportato sull’etichetta della bottiglia promozionata, è almeno stata concordata oppure è stata fatta in totale autonomia?

In realtà qualunque sia la risposta, la domanda vera è: come si fa a gestire unm marchio con (almeno) due identità pubbliche?

Per quanto in Coca Cola siano bravi, la vedo una situazione rischiosa. Peggio che copiare le promozioni dalla Nutella.

L’evoluzione dell’e-commerce va contro gli interessi dei produttori?

Negli ultimi mesi mi sono occupato un po’ di e-commerce e mi sono reso conto che in molti settori, non solo nel vino, sta evolvendo verso il modello groupon: club aperti offrono continuamente a rotazione prodotti fortemente scontati per un periodo e/o quantità limitati.

I vantaggi per l’e-tailer sono:
- la possibilità di offrire una scontistica molto forte rispetto ai prezzi di mercato dà una forte capacità di attirare clientela.
- l’approvigionamento fatto dopo la chiusura dell’offerta permette di ridurre/azzerare il magazzino ed evitare il problema delle rimanenze di prodotto invenduto.
- la formula del club con iscrizione (facilitata utilizzando i prorpi profili social) permette di profilare gli iscritti e quindi realizzare attività di database marketing (con i siti di e-commerce tradizionali, che prevedono l’iserimento dei dati solo all’atto dell’acquisto questa possibilità è molto più limitata).

Il vantaggi per il consumatore è quello di essere costantemente informato di promozioni che gli permettono di acquistare prodotti fortemente scontati.

I vantaggi per il produttore sono: ???? Io non ne vedo.

Normalmente gli e-tailers che lavorano con questa modalità sottolineano che la presenza del prodotto nei loro siti va vista come un’attività promozionale che permette di far provare il prodotto ai loro iscritti. Sta poi alla forza/qualità del prodotto suscitare un interesse tale da fidelizzare chi l’ha provato.

Io però dubito che funzioni così, proprio per ragioni strutturali a questa modalità di vendita.

Prendiamo l’esempio del vino. E’ un prodotto di consumo, tecnicamente un “bene esperienza” che il consumatore tende ad acquistare sulla base di un numero limitato di informazioni. Non c’è bisogno di farsi un’opinione precisa ex-ante perchè il costo del giudizio a posteriori (quando si è fatta l’”esperienza” di consumo) è generalmente basso. Questo costo, della decisione sbagliata, si riduce ulteriormente nelle offerte di e-commerce sia per la convenienza del prezzo, sia per la quantità di informazioni che si possono fornire al potenziale acquirente.

In questo scenario quindi i comportamenti di acquisto tenderanno strutturalmente a cambiare ogni volta il prodotto offerto, provando ed approfittando di volta in volta delle diverse offerte. Tra l’altro anche se il consumatore volesse riacquistare un prodotto che gli era piaciuto, non ha come farlo perchè la politica di questi e-tailer è quella di non mantenere un assortimento fisso. E difficilmente sarà diffuso nei canali di distribuzione tradizionali, perchè altrimenti non si presterebbe ad essere venduto in promozione on-line.

Se invece l’e-tailer club riguarda beni durevoli, la situazione per il produttore rischia di essere ancora peggio. La capacità dell’offerta di stimolare l’acquisto di un bene durevole è infatti limitata, quasi sempre inferiore alla possibilità del consumatore di attendere l’occasione. Ecco quindi che il consumatore aspetterà fino a quando nelle varie newsletter delle offerte non troverà il prodotto che gli serve o gli interessa. di conseguenza il produttore venderà solamente in promozione.

La modalità di vendita rende strutturalmente possibile ad ampie fasce di consumatori di comportarsi come “cherry pickers”, ossia cogliere solo le offerte migliori e lasciar perdere tutto il resto.

Un paio di dati a corollario, ricavati dalla ricerca svolta dall’osservatorio Cetelem sui consumi in Europa:
- il 26% dei consumatori si rivolge ai social network per consultarsi sui propri acquisti.
- il 33% degli intervistati pensa che in futuro utilizzerà smartphone e tablet per fare i propri acquisti.
- il 78% dei consumatori utilizza siti comparatori di prezzi per informarsi al momento di fare acquisti e la percentuale di chi dichiara che li utilizzerà in futuro sale all’88%.

La cosa interessante, o preoccupante dipende dai punti di vista, è che questa modalità di vendita di vendita si sta spostando dall’on-line all’off-line, a conferma che la separazione tra mondo “reale” e “virtuale” è artificiosa) se la catena di negozi che ha vinto il Channel Innovation Award negli USA è Whole Sale Liquidators, catena che vende rimanenze di magazzino e lotti di prodotti provenienti da liquidazioni e fallimenti a prezzi superscontati. che nella loro attività off ed on-line siano integrati sia come canali di vendita che di comunicazione è persino banale.

Cosa resta da fare ai produttori? Dimenticarsi che nell’era dell’informazione sia possibile mantenere dei margini basati sull’opacità dei mercati e sull’arbitraggio in termini di tempo e spazio, concentrarsi sulle massimizzazione dell’efficienza delle proprie capacità specifiche per massimizzare l’effettivo valore offerto sul mercato (che può essere costitutito anche da elementi intangibili, purchè intrinseci alla proposta) e lavorare con una politica di prezzi costanti.

Concludo con il link ad un vecchio post che trattava del couponing, può essere interessante sia per completare il quadro che per vedere come sono cambiate le cose.

La S.W.O.T. secondo biscomarketing diventa T.O.W.S.

Qualche tempo fa Pier Luca Santoro sul suo progilo FB ha chiesto opinioni su un’analisi swot che stava facendo e così mi sono imbattuto in questo strano modello di swot, per scoprire che è quello pubblicato da wikipedia (e quindi quello destinato a diventare prevalente).

Per dare i miei suggerimenti al buon Pier Luca pensavo di linkare un post di biscomarketing e così mi sono accorto che in tutti questi anni non ho mai affrontato questo strumento di analisi di marketing tanto fondamentale quanto spesso fraintesa.

Per capire come massimizzare l’efficacia della swot va premesso che gli strumenti di marketing sono analitici e non deterministici. Questo significa che la funzione degli strumenti marketing è quella di fornire un quadro completo, preciso e rilevante della situazione analizzata, senza che questa analisi scaturiscano automaticamente le azioni da intraprendere. Poichè ogni combinazione azienda/marca/obiettivo con lo scenario competitivo è specifica, trarre conclusioni deterministica precostituite dall’analisi rischia di essere inefficace o, al massimo, tautologico, come nel caso delle varie strategie S-O, W-O, ecc.. del modello proposto da wikipedia.

Gli strumenti però sono in grado di garantire la completezza e precisione dell’analisi solamente se utilizzati correttamente in termini di forma logica e di flusso. Viceversa gli strumenti non aiuteranno all’analisi ragionata delle situazioni ma si ridurranno a schemi formali riempiti, per seguire consuetudini aziendali o mode, di considerazione sviluppate in modo disorganico.

Nel caso dell’analisi swot il flusso comincia definendo il proprio target di consumo. E’ evidente che il trend di invecchiamento della popolazione sarà valutato in modo completamente diverso se il mio target sono i neonati oppure gli over 65.

Il passo successivo è quello di individuare i fattori esteri all’organizzazione, ossia le minacce e le opportunità. Ecco perchè l’inversione delle lettere della sigla nel titolo.
In realtà questo percorso non me lo sono inventato io, ma è quello che riporta Kotler su Marketing Management.
Perchè è importante cominciare dall’identificazione dei fattori esterni all’organizzazione? Perchè è sulla base delle opportunità e minacce esterne che si andranno a definire le caratteristiche dell’organizzazione come punti di forza o di debolezza. Se il mio target sono gli over 65, l’invecchiamento della popolazione è un’opportunità, ma un’immagine di marca “giovane” sarà una debolezza.

Fin qu tutto semplice, ma posso assicurarvi per esperienza che se non si ha chiara la logica sottostante la swot e la distinzione tra ambiente esterno e caratteristiche dell’organizzazione, è molto facile mescolare opportunità con punti di forza e minacce con punti di debolezza. Questa fa perdere di efficacia all’analisi e di conseguenza darà origine a strategie più confuse.

Anche quando viene fatta correttamente, la swot presenta un rischio intrinseco di interpretazione legato alla numerosità dei diversi fattori T-O-S-W elencati. Sia perchè il numero diventa inconsciamente una misura del peso di quel componente, sia per la naturale tendenza a fermarsi dopo aver elencato un certo numero di fattori all’interno di un componente T-O-S-W e per la swot nella sua totalità.
Per ovviare a quest’ultimo rischio io cerco di fare sempre la swot in gruppo e cerco di avere nel gruppo persone che lavorano in tutte le funzioni aziendali per essere più sicuro di non perdere aspetti legato al prodotto, all’amministrazione, alla logistica, alle vendite, ecc… L’ideale probabilmente sarebbe che tutti i componenti del gruppo sviluppassero la loro swot individualmente per poi confrontarsi in gruppo.

Per ovviare invece a ritenere prevalenti i punti di forza rispetto a quelli di debolezza solo perchè sono di più, da anni ho adottato la tecnica di assegnare ad ogni fattore un punteggio che va da +2 a -2, in modo da ponderarli.
E’ una scala che presenta diversi vantaggi:
- è sufficientemente ampia da differenziare il peso dei fattori;
- è sufficientemente corta da costringere a dare valutazioni chiare, senza lasciare spazio a compromessi inconcludenti;
- contenendo lo 0 (grazie agli indiani ed agli arabi) permetto di indicare quei fattori che si ritiene importante evidenziare, ma che non si riesce a definire con certezza se punti di forza o debolezza, La soluzione di indicare la stessa voce sia come forza che come debolezza, che ho visto adottare talvolta, mi sembra molto più confusa.

Volendo questo sistema di ponderazione si può applicare anche alle Minacce ed alle Opportunità, ma per esperienza ho notato che l’aumento di formalismo rischia di ridurre l’estensione dell’analisi. Sembra che le persone dovendosi concentrare sul meccanismo, siano meno attente ad individuare tutti i fattori che influenzano la situazione. Vedete voi, io comunque consiglio di trovare un punto di equilibrio tra rigore metodologico e spontaneità/libertà di pensiero.

Un’ultima considerazione che deriva da questi anni di esperienza pratica e conferma quello che diceva Tom Funk, il mio professore di Marketing Management all’universita di Guelph: a parte casi eccezionali, l’implicazione della swot non è “oh mamma mia quante minacce/punti di debolezza, tiriamo una pietra sopra al progetto ed andiamo a casa” nè l’opposto “tranquilli, con tutte queste opportunità/punti di forza non possiamo sbagliare”.

La swot serve per identificare gli elementi dello scenario in un’ottica strategica, all’analisi si risponde usando la propria creatività e competenza (risultato di scienza, coscienza ed esperienza) per sviluppare strategie che sfruttino al massimo i punti di forza e riducano al minimo i punti di debolezza.

In altre parole, le risposte strategiche dovete trovarle voi.

La vita è tutta un budget (nel caso vi foste persi la pubblicazione su fb)

Ringrazio per l’ennesiam volta Pamela che mi ha rimesso in piedi il blog e pubblico il post scritto la settimana scorsa ed uscito sul mio profilo facebook per motivi tecnici

Prendo a prestito l’aggiornamento di stato della mia ex collega Elisa (uno delle persone che ho più stimato nella mia attività professionale) per alcune considerazione su come sono/dovrebbero essere cambiate le logiche di costruzione e gestione del budget di marketing al tempo della turbocompetizione e del big data.

La turbocompetizione ha aumentato l’incertezza e la velocità del cambiamento degli scenari relativi a fornitori, concorrenti e clienti/consumatori.

Big data (wikipedia in italiano non spiega molto) offre la possibilità di misurare quasi tutto, praticamente in tempo reale.

Questi due fattori dovrebbero portare ad un cambiamento sostanziale nella costruzione e gestione del budget marketing nella direzione della flessibilità.

Nella classica costruzione del budget si ipotizzano le attività necessarie alla realizzazione delle strategie, gli assegna una priorità strategica, se ne stima il costo e quindi si allocano le risorse. Se il conto economico di previsione, i cui ricavi sono basati sul budget di vendita, è in linea con gli obiettivi della proprietà dell’azienda (qualunque sia la forma societaria il discorso non cambia) il budget ha buone probabilità di venire approvato, viceversa viene ridotto. giusto o sbagliato che sia infatti, le risorse per far quadrare il bilancio vengono attinte (quasi) sempre dal budget di marketing. Piccolo inciso: anche quando i budget di vendita e di marketing sono preceduto da un confronto tra le due funzioni (e non sempre avviene, oppure il confronto è superficiale per mere questioni di tempo) la logica prudenziale che deve, giustamente, guidare un budget porta calcolare il bilancio di previsione sulla base dell’ipotesi di vendita minima e di spese di marketing massime. Il conseguente rischio di inutile riduzione delle spese di marketing con conseguente minor sostegno alle vendite ad al brand/corporate equity (circolo vizioso), sono evidenti. Specialmente nella turbocompetizione di cui si diceva poco sopra.

La soluzione è la costruzione di un budget che alloca alle diverse attività solo una parte delle risorse complessive, per andare man mano ad allocarle su quelle azioni che, grazie all’uso del big data, si dimostrano più efficaci ed efficienti rispetto agli obiettivi, eventualmente anche eliminando attività già previste, ma che si dimostrano invece fallimentari (o inferiori alle aspettative).

Uovo di Colombo? Più o meno. Questa soluzione implica alcune cose (partendo da valle e andando a monte:
1) la capacità aziendale di acquisire ed analizzare i dati dall’ambiente (parlare di mercato rischia oggi di essere riduttivo);
2) la presenza in azienda di un sistema informativo/controllo di gestione in grado di trasmettere le informazioni ottenute dall’analisi a tutte le funzioni/persone responsabili della realizzazione del budget, con una frequenza maggiore rispetto al classico Revised di giugno e Forecast di settembre (è risaputo che nel controllo di gestione si parla inglese);
3) l’identificazione dei diversi aspetti e passaggi della strategia in modo da identificare i parametri che indicano il livello di efficenza ed efficiacia delle diverse attività, con le relative metriche. Non basta dire dove vogliamo arrivare, ma serve anche definire il percorso per poter verificare se siamo sulla strada giusta.

Lascio ad ognuno valutare quale di queste cose è la più difficile nella sua realtà.

Ricordo solo che è meglio un budget approssimativo che nessun budget perchè, come dimostrava una ricerca che ho letto nel 1994, per raggiungere i propri obiettivi bisogna innanzitutto definirli.

Learning from the leaders: AIA dakota e mangiata!

E’ da un po’ che ho in testa un post sulle campagne a cui sono stati fatti piccoli aggiustamenti per cercare di ovviera alla loro debolezza strutturale, ma che continuano a non potersi vedere/sentire ed in più hanno perso il piccolo vantaggio della ripetitività.
Però più passano gli anni e più mi viene da pensare al mio karma, quindi lascio da parte le negatività (per la cronaca le campagane che ho in mente sono conad, Negroni Negronetto, Poltrone e Sofà e Citroen) e scriverò invece di una strategia fatta bene: il lancio della slasiccia Dakota di AIA.

Conviene ricordare che AIA con Wudy ha creato il segmento del wurstel di pollo, riuscendo ad avere spesso un doppio display, sia nel reparto pollame che nel reparto wurstel. A conferma che l’innovazione quando è sostanziale riesce sempre a trovare un suo spazio (non solo metaforico).

Questo per dire che l’azienda ha una solida esperienza e competenza di innovazione di successo, che si conferma con il lancio da manuale della nuova salsiccia Dakota:

Dakota AIA

dakota AIA 2

Target (presunto): ovviemente non posso conoscere i piani di AIA, ma considerando che con Wudy già presidiano il target dei bambini e visto il resto della strategia, immagino che l’obiettivo fosse quello di rafforzarsi nel target maschile più adulto, diciamo dagli adolescenti in su.

Prodotto: tecnicamente la salsiccia è un wurstel macinato più grosso (ricetta a parte). Però la salsiccia è anche un prodotto tipico della salumeria di tutte le regioni italiane (cosa che non vale per il wurstel), quindi ha un vissuto più genuino, vero e tipico. In una parola più adulto.

Nome e claim: anche se il claim della campagna non appare sulla confezione (e questo è forse l’unico, piccolo, errore della strategia), credo sia giusto trattarli insieme, vista la pressione pubblicitaria. Dakota rimanda all’America, quindi nuovamente ad un mondo di particolare appeal per quel target adolescente raffigurato anche nello spot (c’è di meglio, ma non l’ho trovato). Un’analisi più approfondita dal punto di vista semantico (che condivido solo in parte, ma non mi rovinerò il karma proprio adesso) la trovate nel blog di Linda Liguori. Aggiungo solo che dai tempi di Keglevich una ricerca fatta con la Naming dimostrava la forza iconica (ossia semiotica) oltre che semnatica della lettera “K” e che la cosa più intelligente mi sembra il collegamento nel claim al “Cotto e Mangiato” diventato familiare ai consumatori grazie/a causa di Benedetta Parodi. L’utilizzo di concetto che rientrano nel frame of reference delle persone si dimostra sempre efficiace quando, come in questo caso, si evita la scopiazzatura.

Packaging: fin dal 1999 le ricerche dicevano che, soprattutto nell’alimentare i consumatori vogliono vedere il prodotto (questo stesso concetto è quello che ha portato le cucine a vista nella ristorazione di alto livello). Il packaging di Dakota porta questo concetto all’estremo mettendo il marchio sul lato trasparente della confezione ed utilizzando la parte colortata per le informazioni nutrizionali e di utilizzo del prodotto. in pratica hanno capovolto la confezione. Qeullo che si perde in attrattività (il marchio appare meno ricco) si guadagna in autenticità e credibilità, già elevata grazie alla garanzia della firma AIA. Da sottolineare anche l’evidenziazione del bnefit “Novità”, soprattutto considerando il target presunto, e qualità premium, che si rivolge al target degli acquirenti, mamme, piuttosto che a quello dei consumatori.
Sull’altro lato una grafica scarna e chiara spiega come preparare la salsiccia con i diversi “strumenti” di cottura, informazioni oramai fondamentali per la gran parte dei consumatori e indispensabili nel caso la mamma non sia in casa. L’aggettivo “scarna” per la grafica non va letto in senso negativo: a me sembra un eccellente esempio di barebone marketing che trasmette un percepito di concretezza e risparmio.

Campagna pubblicitaria: visto che non trova in rete i vari spot non mi dilungo. Sottolineo l’intelligenza dello spot da 10 secondi che si concentra sul benefit principale della cottura in 2 minuti (manca il claim, peccato). Negli spot più lunghi il benefit della rapidità rimane centrale, aggiungendo però la presenza del target di consumo, ragazzi, e di acquisto/preparazione, mamma. Anche se non si vede la mamma è comunque un elemento chiave dello spot, viene quindi coinvolta nelle scelte alimentari della sua famiglia, anzi è lei che cucina. Questo significa (auto)rassicurazione e gratificazione.

Prezzo: la prima volta che si acquista un prodotto è la fase in cui un cosumatore pone la massima attenzione al prezzo. AIA ha laforza di controllare il prezzo a scaffale dei suoi prodotti e quindi è stata in grado di seguire la classica strategia del prezzo di lancio, che favorisce la prova senza sposizionare il prodotto. Oltre al merito di saper comunque tenere la barra a dritta, all’azienda va anche il merito di adottare uno sconto del 50%, immagino in considerazione della difficile situazione economica di una ampia fascia di consumatori. Sarà interessante vedere se dopo la fase di lancio riusciranno a consolidare il (presunto) prezzo normale.

E la comunicazione social: 3.625 mi piace su fb sono un po’ pochi (anche se fossero tutti veri), però mi chiedo: ha un ruolo così importante per il lancio/successo di un prodotto come questo?

illywords mi ha lasciato senza parole

Premetto il rammarico con cui scrivo questo post. illywords e la rivista grazie alla quale ho scoperto la co-opetition, e questo basterebbe già a garantire la mia riconoscenza imperitura.
A questo si aggiunge che illywords è la dimostrazione che il marketing basato sui contenuti NON è qualcosa legato al mezzo (WEB), ma dipende dalle idee e dalla capacità di metterle in pratica (e su quest’ultimo aspetto il MEZZO web sicuramente aiuta). Chiedo scusa a McLuhan, ma il mezzo NON è il messaggio, i cui contenuti rimangono centrali nel risultato della comunicazione (anche nel caso della loro eventuale incoerenza con il mezzo). Il primo numero di illywords è del 2002, quando il web 2.0 non era nemmeno un’ipotesi.
Infine il rammarico deriva anche dall’ammirazione per quello che illy in termini di gestione aziendale e marketing.
Per tutte queste ragioni è stato un grosso dispiacere quando lo scorso giugno ho ricevuto il n. 34 di illywords ed il titolo/tema della rivista era “coffetelling”.
Ma come? illy che ha dato al caffè un’etica ed un’estetica di dimensioni mai immaginate prima? La prima reazione è stata di non togliere nemmeno il cellophane e cestinarlo così come stava.
Poi per le ragioni dette prima (e per la necessità di separare i materiali per la raccolta differenziata) l’ho aperto e sfogliato, ma non sono riuscito a leggere gli articoli. Non so se riesco a spiegarmi, perchè sono un po’ arrugginito dopo la pausa estiva, ma non mi interessa che illy mi parli del caffè coma una Lavazza qualsiasi. Non mi interessa perchè Illy è stato capace di trasmettermi un mondo di valori di eccellenza che nasce, ed allo stesso tempo trascende, dal prodotto. E’ l’eccellenza del design delle tazzine (l’eccelenza della forma prima ancora della grafica), l’eccellenza dei reportage di Salgado sul percorso del caffè fin dalle origini, l’eccellenza ottenuta pagando equamente i produttori, l’eccellenza dei corsi per preparare un espresso perfetto (perchè costa così poco (di più) che non ha senso accontentarsi di meno).
Spiegare queste cose non aggiunge niente, anzi avvicina illy a tutti gli altri caffè. Basta guardare gli altri numeri di illywords per capire cosa intendo.
Pensa che ti ripensa mi è venuto in mente un pensiero che quasi mi vergogno a dire: illy è rimasta (sta rimanendo) una marca degli anni ’90, che non riesce ad evolvere su/da quei valori che l’hanno portata al successo mondiale di cui gode, e che merita. Eccessivo? Forse, però poi girando per il sito illywords si trovano sezioni vuote (nella versione in italiano la sezione Magazine e quella People ad esempio) articoli diversi tra la versione in inglese e quella in italiano (dove comunque la maggior parte degli articoli è in inglese e allora che senso ha?), profili di persone vuoti, tipo Riccardo Illy, ecc..
Allora il dubbio che illy non sia più in grado di cogliere/interpretare/rappresentare lo zeitgeist come ha fatto in questi anni si fà più forte.
Dove guardare per trovare lo spirito del tempo? Io consiglio l’ultimo video di Katy Perry (magari da un tablet, così alla fine vengono fuori in automatico i mini video con le autocitazioni ai video precedenti).
Sempre sul tema del peso del successo, magari la prossima settimana parlo dello spot radio di Negroni, che continua a rifarsi alle pubblicità di cinquant’anni fa (non si può sentire).

Coca Cola: l’avanguardia sempre e comunque.

Nella mia carriera professionale non ho mai voluto creare un reparto/funzione di trade marketing autonomo, separato dal brand management come ho spiegato molto sinteticamente in questo vecchio post.

Ieri al supermercato ho visto che Coca-Cola ha realizzato una bellissima strategia che conferma e allo stesso tempo smentisce questa mia scelta. Ecco le foto.

Espositore Coca Cola ortofrutta
Espositore Coca Cola gastronomia
buon appetito con Coca Cola

La realiazzazione della strategie risponde alla difficoltà che incontrano tutte le aziende (persino la Coca Cola) quando si tratta di avere del display fuori scaffale nei punti vendita di (relativamente) piccole dimensioni, come i supermercati. Se si considera che il supermercato è comunque la tipologia di negozio più importante a livello sia di numerosità che di vendite e che perde meno dell’ipermercato (dove invece lo spazio abbonda) si capisce l’interesse delle aziende a superare il problema.

Coca Cola l’ha fatto offrendo un servizio che risolve (o quantomeno riduce) il vincolo di spazio del cliente, incorporando all’espositore della Coca Cola le strutture che servona al punto vendita (il dispenser dei saccheti di plastica nel reparto ortofrutto e il distributore dei numeri al reparto panificio).
Conferma così la mia considerazione che i principi del trade marketing sono i medesimi di quelli del consumer marketing, sintetizzabili nel fornire servizi (che si possono concretizzare sotto le diverse forme di prodotti, strutture o servizi propriamente detti) che offrano vantaggi significativi al cliente.

Allo stesso tempo mi smentisce perchè sono (quasi) sicuro che Coca Cola ha una funzione di trade marketing (forse anche di più: una per canale) che si occupa di queste cose.

Due note a margine:
- incorporando attrezzature che servono al punto vendita Coca Cola si è messa nella posizione di ottenere uno spazio espositivo extra scaffale permanente. sono curioso di vedere cosa succederà dopo l’estate.
- continuando a dare visibilità al claim “Buon appetito con Coca Cola” sta rafforzando il proprio posizionamento nel momento di consumo di bevande (pasti nelle loro diverse forme) che genera il maggior consumo quantitativo (mentre il vino continua il suo inesorabile (?) declino abbandonando i suoi valori di convivialità e genuinità.

Ancora una volta Coca Cola conferma di essere un’azienda ricca di idee, prima ancora che di soldi.

Alcune considerazioni in vista della presentazione del 2° rapporto di filiera “Vino: futuri Possibili”

Nuovamente ringrazio Franco Ziliani che ha avuto la cortesia di ospitare un mio post nel suo blog “Vino al Vino”. Buona lettura.

http://www.vinoalvino.org/blog/2013/06/quale-principe-azzurro-risvegliera-lenologia-italiana-e-arrivera-in-tempo.html

A proposito della Coca Cola…..

Non sono d’accordo con i due commenti che Daniele Zanette e Diego Illeterati hanno fatto al mio ultimo post (questo ovviamente NON significa che io abbia ragione).
Troppo comodo pensare che le attività della Coca Cola hanno successo sempre e comunque grazie all’ampiezza dei budget. Almeno per 4 motivi:
1. I budget di cui dispone la Coca Cola sono commisurati all’ampiezza dell’audience, alla portata degli obiettivi da raggiungere ed alla forza dei concorrenti.
2. Le strategie mal pensate e peggio realizzate portano ai flop clamorosi di cui è pieno il mercato; e più grandi i budget, maggiori le perdite. Lo dico perchè viceversa le grandi multinazionali non sbaglierebbero mai un lancio (restando alla Coca Cola, ricordo il disastroso lancio della New Coke nel 1985, indipendentemente dal fatto che siano poi riusciti a trasformarlo in un successo), lo dico perchè l’ho visto succedere, anche sotto il mio naso. E questo è tanto più vero oggi perchè la frammentazione dei media, il moltiplicarsi dei messaggi, il conseguente abbassarsi dell’attenzione e la fruizione attiva del mezzo web hanno alzato il livello di investimento in mezzi e risorse umane per coprire in modo effettivamente massiccio l’audience.
3. Anche nel caso di una pressione comunicativa che permette di far passare comunque il messaggio (esempi emblematici Ferrero e Mulino Bianco in TV), una strategia concettualmente forte e chiara, ben realizzata renderà l’investimento nei mezzi più efficace di una strategia debole, mal realizzata. Lo so che sembra (è) una tautologia, però proprio il fatto che un grande budget porta spesso comunque qualche risultato, rischia di mascherare innefficacia ed inefficienza nello definizione della strategia e nella sua realizzazione.
4. Soprattutto è troppo comodo ridurre l’efficacia delle strategie di Coca Cola al budget nel momento in cui il diffondersi della fruizione del web per le attività più diverse (informative, ludiche, sociali, ecc….) ha abbassato enormemente i costi di accesso alla propria audience.

La differenza la fanno sempre di più le idee e la capacità di realizzarle/trasferirle in modo coerente, trasparente ed efficace alla propria audience.

Oggi efficace significa anche che le strategie devono avere una componente tattica (essere un moltiplicatore dei risultati a breve) e le tattiche una componente strategica (supportare e rafforzare il posizionamento/l’identità della marca).

Però misurare le strategie di pubblicità e PR in base agli effetti sul breve è una miopia di breve periodo che porterà giocoforza a ridurre gli investimenti sulle fondamenta della marca e quindi ad indebolirla nel medio periodo. Credo che l’evoluzione del settore nel mobile del manzanese sia emblematico in questo senso. Chi ha avuto la capacità di sviluppare una visione del proprio business è sopravvissuto (e magari prospera), chi ha cercato di resistere nel breve con una concetto di produzione o, bene che andasse, con una concetto di vendita sofre (o purtroppo è sparito).

E’ per questo che è importante imparare da quelli bravi, indipendentemente dal fatto che siano grandi o meno. Spesso però i grandi hanno la necessità e la mentalità di misurare gli effetti di quello che fanno per le ragioni di cui sopra, quindi fanno più ricerche ed analisi.

Tornando alla Coca Cola, giovedì ero in giro, mi fermo in autogrill e vedo le bottiglie della Coca Cola con i nomi di persona, mentalmente mi tolgo il cappello davanti all’idea che hanno avuto che uno possa prendersi la Coca Cola con il suo nome, mi avvicino per prendere la MIA Coca Cola e quando leggo l’etichetta vedo che gli strateghi della Coca Cola sono andati oltre le mie aspettative (always try to exceed consumer expectations diceva il mio professore di Marketing Management in Canada).
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Non si tratta, egoisticamente, di comprare la MIA Coca Cola, ma di condividere una Coca Cola, un momento di felicità, con una persona ben precisa. Non vi piacerebbe che qualcuno comprasse per voi una Coca cola con il vostro nome? Oppure non vi sembra una buon sistema di rompere il ghiaccio con qualcuno appena conosciuto quello di dargli una Coca Cola con il suo nome? Oppure con un aggettivo che lo rappresenta (a me sono sembrati in sincerità un po’ artificiali, ma magari è perchè sono fuori target)?
Sottolineo l’uso della parola “condividere”, che 10 anni fa sarebbe stata obsoleta e troppo aulica, ma oggi è assolutamente familiare nel linguaggio del web. D’altra parte il claim globale è o non è “share the happiness“.
Qui non si tratta di budget, qui si tratta di sviluppare una strategia che fa evolvere la marca, declinando i valori universali su cui si basa la sua identità in modo da mantenerne la vicinanza ad un target sempre più ampio in una logica additiva e non sostitutiva. Più che spostarsi, la personalità della marca si allarga.
Strategia di comunicazione sul pack (già ai tempi della Keglevich ho sostenuto ed utilizzato il fatto che 1,5 milioni di bottiglie sugli scaffali sono un media, figuriamoci 350) che si integra egregiamente con la campagna di comunicazione sui media “classici” in cui il Presidente 17enne della Coca Cola (in un paese gerontofilo, messaggio forte) annuncia a tutti, in special modo alle mamme (ampiezza del target) la sua decisione di regalare 1 bicchiere di felicità (non sconti, tagli prezzo o 3×2).
Un percorso forte e coerente inziato nel 2009 con la campagna della semplicità in tavola, proseguito nel 2010 con quella della formula della felicità e nel 2012 con la campagna “Ceniamo insieme” con protagonista Simone Rugiati.

Quindi secondo me la strategia della Coca Cola ha successo innazitutto per la validità dei concetti, la coerenza della strategia e la bontà della realizzazione.

Dopodichè nessuno è perfetto: nello scirvere questo post sono andato sul sito www.cocacola.it e non è bello trovare la scritta “stappa la felicit” senza la “a”, nè la finestra di fb bianca.

Per concludere, e non lasciare Diego senza risposta, la ricerca di Facebook e Datalogix non dava un risultato della pubblicità su fb 3 volte superiore ai media tradizionali. Dava, nel 70% dei casi, un ritorno pari almeno a 3 volte l’investimento media.

Comunque se penso alla multicanalità nella fruizione dei media ed ai canali di acquisto (mi informo sul web anche per gli acquisti off line) non mi stupisce che la pubblicità su fb abbia dei meccanismi simili a quelli dei media tradizionali. D’altra parte anche youtube alla fine non altro che una TV. Solo che posso targettizzare l’esposizione allo spot molto peglio che con tutti i mezzi off line.

E’ tardissimo, buonanotte.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale) 2.

Quando il primo maggio ho scritto il primo post su questo argomento non prevededo una seconda puntata.

Poi però mi sono accorto che gli interessanti stimoli forniti dalle pubblicazioni dell’American Marketing Association, mi avevano fatto dimenticare lo spunto da cui originariamente avevo avuto l’idea di scrivere su questo argomento.

Lo spunto in questione è stata la notizia dello scorso 19 marzo secondo cui uno studio condotto dalla Coca Cola rilevava che il livello di buzz della marca aveva un effetto praticamente nullo sulle vendite a breve termine.

Ora al di là dei distinguo fatti dal management della Coca Cola già nel comunicare i dati della ricerca e dall’innegabile moda per cui molte aziende investono (investivano) in attività web, social, buzz etc.. senza darsi degli obiettivi precisi nè dotarsi di strumenti di misurazione dei risultati, la notizia mi è sembrata fin da subito una s…tupidaggine.

Per la serie le ricerche bisogna saperle scrivere ogni analisi deve essere realizzata con un obiettivo di ricerca relativo ad un’ipotesi sul fenomeno analizzato. E l’ipotesi che il buzz abbia un rilevante effetto sulle vendite a breve termine mi sembra, quanto meno, sorprendente.

Secon l’approccio, che a questo punto definirei classico, del Kotler il Promotion mix che compone la “P” di promotion delle “4 P” marketing è formato da pubbiclità (advertising), pubbliche relazioni (publicity), promozioni alla vendita (sales promotion) e vendita diretta (personal selling). I primi due strumenti hanno prevalentemente la funzione di fornire alle persone ragioni per l’acquisto mentre gli ultimi due svolgono la funzione di fornire incentivi all’acquisto.

E’ evidente che l’effetto di pubblicità e PR si realizza nel periodo medio-lungo mentre promozioni e vendita diretta agiscono nel breve.

Ora, mantenendo l’approccio per cui l’avvento del web ha influenzato prevalentemente le modalità operative del marketing e della comunicazioni, non i concetti, io assimilerei il buzz alle PR. Ecco quindi che scoprire che non c’è una forte correlazione tra buzz e vendite a breve termine non mi stupisce.

C’è poi l’altra questione della difficoltà di misurazione degli effetti delle diverse attività di marketing sulle vendite, soprattutto di quelle che hanno il compito di creare il posizionamento della marca, ossia una predisposizione favorevole da parte del mercato (a quanto ne so le tecniche quantitative più efficaci sono ancora le regressioni doppio log con le vendite come variabile dipendente e gli investimenti nelle varie attività di marketing come variabili indipendenti, analisi sui cui limiti non mi sembra il caso di entrare qui).

Restando a livello concettuale è chiaro che l’effetto di un taglio prezzo (promozione alle vendite) o di una attività di telemarketing (vendita diretta) è fortemente influenzato dalla conoscenza e dall’immagine della marca creata dalle attività di pubblicità e PR realizzate non solo nel momento in cui taglio prezzo e telemarketing vengono realizzati, ma anche nei periodi precedenti. La difficoltà però sta nel separare l’effetto di pubblicità e PR dal resto.

In Coca Cola ne sono ovviamente ben coscienti, come dimostra questo intervento di Wendy Clarck, Direttore di Comunicazione di Marketing integrata della Coca Cola.

Ma c’è un altro motivo per aspettare prima di cantare il de profundis della comunicazione (in senso ampio) sul web. In base alle ricerche condotte dalla Datalogix sulle campagne pubblicitarie realizzate su Facebook risulta che i banner pubblicati sulla colonna di destra del nsotro schermo hanno un ritorno che, nel 70% dei casi, è superiore di tre volte rispetto al costo dell’investimento. Secondo queste ricerche le modalità con cui agiscono questi banner sono assimilabili a quelle degli spot TV (si torna al modello teorico kotleriano classico).

Quelo che invece è sorprendente è che secondo questi dati non c’è alcuna correlazione tra l’efficacia della campagna banner ed il numero di clik sul banner stesso. E questo mette un forte dubbio sul Sacro Graal della misurazione dell’effecicia della comunicazione on line.

Consiglio vivamente di leggere il breve articolo sull’argomento pubblicato su l’Internazionale n. 993.

La prossima volta concludo le disquisizioni su occupazione e disoccupazione, promessa.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale).

Dopo l’ultimo post su occupazione e disoccupazione un amico mi ha detto che sto sfocalizzando troppo il blog, che rischio il delirio tuttologico e l’appannamento della credibilità dedicandomi ad argomenti in cui non sono esperto.

C’è del vero, quindi ribadisco il core business di questo blog con un post strettamente di marketing, ispirato anche dal fatto che durante il recente viaggio di lavoro a Chicago, sulla strada per l’aeroporto ho trovato una mezz’ora per passare per gli uffici dell’American Marketing Association, rinnovare la mia iscrizione e recuperare i vecchi numeri di Marketing Management che non avevo ricevuto (da qualche parte c’è un postino esperto di marketing).

Comincio dicendo una cosa che ho ripetuto spesso nei miei post; i principi del buon marketing non sono cambiati (molto) nel tempo e non cambiano tra i diversi settori, quello che cambia è il contesto e quindi le modalità di applicazione.

Dimostrazione
Questi sono i principi di una buona pubblicità presentati da un manager di una grande agenzia italiana/multinazionale al master SMEA nel1988 (per capirsi 5 anni prima che fosse creato il World Wide Web e quando il fax era una novità che avevano solo qualli più all’avanguardia): una buona pubblicità deve
- essere rivolta direttamente al consumatore;
- espressa nel linguaggio che il consumatore utilizza normalmente;
- concentrata su una sola idea;
- concentrata sull’idea chiave identificata dalla ricerca di mercato;
- avere un trattamento unico e competitivo;
- essere credibile, non ingannatoria;
- essere semplice, chiara e completa;
- avere un messaggio combinato strettamente con il prodotto (servizio) che promuove;
- sfruttare pienamente il mezzo utilizzato;
- spingere all’acquisto.

Cambiate pubblicità con comunicazione ed avrete delle ottime linee guida per le vostre strategie di comunicazione (anche digitali) nel 2013.

In realtà la differenziazione digitale/analogico è solamente tecnica, non concettuale perchè tutto avviene nella testa delle persone e la testa è una.

In un’intervista David Meerman Scott dice giustamente che se qualcuno cerca informazioni riguardo ad un prodotto sul web non gli interesse se le trova attraverso google o i propri contatti, se le trova su un blog, un articolo, un video su youtube oppure il sito di un’azienda. La migliore informazione (in termini di completezza e credibilità n.d.a.) sarà quella che vince.
Io aggiungo che mi sembra sbagliato limitarsi solamente al web, lo stesso ragionamento vale se l’informazione arriva da uno spot TV/radio, da un giornale stampato, dal commento di un amico/conoscente. Il mondo delle persone è uno solo e dentro c’è sia l’off che l’on line.

Lo stesso autore identifica 4 modalità che le organizzazioni hanno per generare attenzione nei loro confronti, le prime tre legate all’analogico e la quarta legata al Web.
1. BUY Le organizzazioni comprano attenzione (si chiama pubblicità).
2. BEG Le organizzazioni elemosinano attenzione (si chiamano pubbliche relazioni).
3. BUG Le organizzazioni scocciano le persone una alla volta per avere la loro attenzione (si chiama vendita diretta).
4. EARNLe organizzazioni ottengono attenzione on line creando contenuti interessanti e pubblicandoli gratuitamente sul web.

A parte che sarebbe stato più elegante trovare un termine che iniziasse con la “B” anche per l’ultima modalità (bring in non ha esattamente lo stesso significato, però è un buon sinonimo ed avrebbe permesso di parlare delle “4B”), non sono d’accordo con questa visione concettualmente web centrica.

La rilevanza del messaggio (sintesi di interesse del contenuto, credibilità dell’emittente e visibilità del mezzo) è comunque la precondizione per avere l’attenzione dell’audience (che altro non è se non un sinonimo di “segmento di mercato”).
Viceversa la pubblicità resta un mero acquisto di spazi media, le PR uno spreco di carta che finiscono nel cestino dei giornalisti/bloggers/lettori (a seconda del livello a cui bengono cestinate e scocciare le persone rimane esattamente scocciare le persone, quindi un boomerang comunicativo.

Le differenze tecniche nell’attuale ambiente socio-mediatico riguardano la facilità, basso costo e rapidità con cui è possibile diffondere i messaggi sul web, messaggi che possono poi riverberarsi sui media off-line se sufficientemente rilevanti.

L’implicazione, sottolineata da Scott è che si riduce il vantaggio competitivo della dimensione e del potere d’acquisto dei media da parte delle organizzazioni a favore della velocità e dell’agilità (io ci aggiungerei anche capacità ed accuratezza, elementi costitutivi della credibilità). In altre parole un concetto che ho imparato nel 1994 e mi è capitato di utilizzare spesso in azienda: non sempre il più grande batte il più piccolo, ma (quasi) sempre il più veloce batte il più lento.

Ma veloci in cosa? Già in passato in un vecchio post ho detto che nessuno compra prodotti, tutti comprano i servizi che ottengono dall’uso dei prodotti.
John Deighton in un’altro articolo da un’interessante definizione di quello che è il modello di business del nuovo secolo dicendo che siamo tutti nell’editoria nel senso che il modello di business in tutti i settori si basa(baserà) sulle capacità di creare contenuti, cercarli, selezionarli e disseminarli verso un audience, mappare il percorso dell’audience rispetto ai contenuti disseminati e, alla fine, monetizzare. Ogni azienda dovrà definire il proprio posto nello scenario competitivo attraverso i contenuti che è in creado di creare o aggregare. Cambiano le tecniche, ma il concetto di positioning come quello che rappresenta l’azienda/marca nella testa dei consumatori rimane sostanziale immutato.

Adesso che ho ribadito il mio diritto di cittadinanza nel territorio del marketing, posso dedicare il prossimo post alla seconda puntata degli effetti della crisi su occupazione e disoccupazione (lasciare il primo in sospeso non sarebbe serio e pure antizodiacale