Peculiarità del marketing dei prodotti con denominazione d’origine.

Questo fine settimana ho passato un po’ di tempo ad analizzare i dati pubblici relativi al Prosecco DOC perchè nella realtà del mercato non mi pare di vedere quell’equilibrio di mercato, riscontrato invece da tutte le istituzioni coinvolte nella gestione del comparto dopo la richiesta di sblocco di 100.000 hl di vino che erano stati stoccati al momento della vendemmia 2013. Ricordo che la borsa merci di Treviso non ha quotato il prezzo del Prosecco DOC nelle 4 sedute dal 20/05 al 10/06 2014.

Ammetto che la mia analisi mi porta a risultati simili (mancherebbero per arrivare ad ottobre circa 1.600 hl di vino, una bazzecola pari allo 0,08% della produzione totale), però durante i miei anni da ricercatore ho sempre seguito il principio che se c’è una discrepanza tra la realtà e la teoria (analitica), è quest’ultima che probabilmente sarà sbagliata o parziale.

Voglio quindi prendermi dell’altro tempo per verificare se non c’è qualche buco nei miei ragionamenti e/o nei dati.

Lo voglio fare anche perchè non credo che l’appriccio migliore per tutelare ed incrementare il valore generato da quello che è un marchio di rilevanza mondiale sia trattarlo come una commodity ottocentesca focalizzandosi sul sostegno dei prezzi del vino sfuso attraverso la riduzione dell’offerta (misura che determina sempre una perdita oggettiva del valore complessivo).

Per questo facendo queste considerazioni ho sentito il bisogno di tornare alle basi e sono andato a rileggermi un articolo che pubblicai sulla rivista Medit nel lontanissimo 1996. Qui trovate il link a “Peculiarità del marketing dei prodotti con denominazione d’origine”. Lo so che è lungo, ma vi consiglio veramente di leggerlo perchè dimostra come il massimo delle capacità si raggiunga intorno ai trent’anni (nel 1996 io ne compivo 33). Tutto quello che ho fatto e scritto fino ad oggi non è che la brutta copia di quanto sono stato capace di sviluppare allora.

Il marketing nel 2024 secondo gli opinion leaders dell’AMA a me sembra già vecchio.

La lettura delle riviste dell’American Marketing Association è sempre stata per me fonte di ispirazione, talvolta con la soddisfazione di trovare conferme rispetto a cose che avevo già realizzato in azienda e/o teorizzato in questo blog.

Durante le mie recenti vacanze in Brasile ho approffittato del tempo libero per leggere “Marketing News” dello scorso gennaio, dove 11 opinion leaders mondiali erano stati intervistato su come vedevano il marketing nel 2024 (lo so, considerare “Marketing News” una lettura da omrellone spiega molte cose, nel bene e nel male).

Ora io non so se con l’età sono divantato un vecchio brontolone cinico, se mi sono bevuto completamente il cervello in un delirio di onniscenza dopo aver modificato 2 delle 4 P o se le moltissime ore passate in macchina a pensare mi hanno portato effettivamente a raggiungere livelli di marketing strategico estremamente avanzati.

Comunque sia i miei appunti a margine dell’articolo contengono quasi solo punti di domanda ed un solo punto esclamativo.

Jonathan Becher, CMO di SAP crede che una marca dovrà sembrare un editore ed un editore dovrà sembrare una marca, intendendo con questo che la gran parte delle marche dovrà comunicare attraverso contenuti di intrattenimento in modo da fornire informazioni senza annunci pubblicitari. Non sto a tediarvi linkando il mio post di inizio anno (credo) dove riprendevo un articolo apparso in un’altra rivista dell’AMA che diceva che siamo tutti nel business editoriale. Concetto che avevo espresso anche in (almeno) un post precedente citando come esempio la Volvo e la sua credibilità nell’ambito della sicurezza stradale, ancora prima dell’era digitale. Jonathan, se questa è la tua previsione del marketing del futuro, fidati, è già successo. Aggiungo che, citando Caparezza, sono fuori dal tunnel del divertimento e quindi non condivido la previsione che i contenuti delle marche si appiattirabbo sul divertimento (se qualcuno di voi ha mai usato SAP, saprà che SAP+divertimento è un ossimoro).

Rohit Bhargava, autore di Likeonomics prevede che i consumatori cederano l’accesso ai loro profili social in cambio di “micro-incentivi” (risparmi, migliori offerte, ecc…). Cito testualmente “Se possiamo avere il messaggio giusto, per la persona giusta, nel momento giusto e l’abilità di fornirlo cambieremmo completamente il nostro modo di commerciare. Non dovremmo più comprare impressions perchè saranno inutili. Ed avremmo tassi di conversione vicini al 100%.” Ora, nessuno ha mai sostenuto che il marketing attuale debba essere monodirezionale dall’azienda ai consumatori (se lo trovate sul Kotler, vi pago da bere). E’ una deriva che hanno preso le aziende e che sembrava sulla via di essere scardinata dal maggior potere che la rivoluzione digitale ha dato alle persone (consumatori). Invece qui torniamo all’azienda che continua a calare dall’alto le sue proposte, solo con maggior precisione grazie alla “perfetta” conoscenza dei consumatori acquisita attraverso i loro profili social. Domanda banale: se non si acquistano più “impressions” il 100% di concersioni a cosa si riferisce?

Su una linea simile la visione di Pete Blackshaw, capo del digitale e social media della Nestlè, secondo cui nei prossimi 10 anni si assisterà una convergenza tra un maggior controllo del consumatore (sigh!) ed una più accurata capacità del marketing di soddisfare bisogno non soddisfatti o inespressi. “Nuove forme di analisi dei dati, alimentate volontariamente dai consumatori, contribuiranno a nuovi livelli di precisione nelle attività di marketing”. Il dubbio che le persone sfuggano/rifiutino i prodotti disegnati appositamente per loro a loro insaputa, c’è a fine dell’intervento, ma non è tale da generare uno scenario diverso rispetto al perfezionamento del marketing monodirezionale di precisione.
Blackshaw ricorda anche come oggi i consumatori comincino (???? n.d.a.) ad utilizare i codici QR per andare oltre l’etichetta e questa trasparenza da qui a 10 anni si troverà ad ogni passo del processo di acquisto. Io il primo codice QR l’ho messo su un vino nel 2011, e non ero nemmeno un pioniere perchè alcuni concorrenti l’avevano adottato già l’anno prima. La trasparenza già oggi sta già passando da PLUS a MUST e prevedo che l’utilizzo dei codici QR diminuirà (se non è già successo) se il valore aggiunto delle informazioni non compensa la fatica richiesta.

Glen Hiemstra, autore di Turning the Future into Revenue: What Business and Individuals Need to Know to Shape Their Future, apre il suo intervento dicendo: “I confini tra il mondo analogico e quello che consideriamo oggi come mondo digitale spariranno. Saremo on line ed off line allo stesso tempo”. OK bene: è dal 2007 che sostengo e pratico che non c’è separazione tra on e off line in quanto tutto succede nella mente delle persone, che è una.

Sulla visione di Rita J. King, Direttore di business development della società di consulenza Science House, sono quasi d’accordo. Vede un superamento della divisione tra i creativi e la funzione marketing delle aziende (in seguito alla necessità delle aziende/marche di comunicare contenuti). Prevede però la responsabilità di creare i contenuti rimarrà a carico delle agenzie. io personalmente sono convinto che per assicurare autenticità, credibilità e coerenza la creazione dei contenuti e, soprattutto, la gestione delle relazioni debba essere eseguito dall’azienda. E’ (perchè anche questo è un cambiamento già in atto) quindi necessario che le funzioni marketing si dotino di competenza creative o che coordinino strettamente in modo strategico il lavoro delle agenzie.

L’intervento di Gerd Leonhard, Amministratore Delegato della società di consulenza Svizzera The Futures Agency è forse quello che mi ha lasciato più attonito. Comincia così: “il marketing come l’abbiamo conosciuto nel passato era un’attività diversa dalla produzione e dalla Ricerca & Sviluppo, il che sostanzialmente significa che ci sono persone che inventano cose e persone che le vendono”. E’ vero che ho iniziato questo blog tanti anni fa prorpio partendo dalla constatazione della crisi in cui era caduta la funzione marketing nelle azienda, ma mai avevo pensato che fossimo messi così male. Prosegunedo si trova questa perla “Stiamo finalmente arrivando al punto nel quale il marketing non è l’arte (??? n.d.a.) di vendere qualcosa a gente che non vuole niente (??? n.d.a). Sta diventando più la cura/organizzazione di un “ambiente”: io curo l’immagine (“picture” nel testo originale) che tu vedrai e che tu vuoi vedere”. Vertice di monodirezionalità, mi viene da scusarmi a me con Kotler da parte sua.

Andrew Markowitz, Direttore della Global Digital Strategy alla General Electric rientra nel filone della perfetta targettizzazione grazie all’uso del big data. “Tu quasi non saprai che ti stanno commercializzndo (“you’re being marketed to” nel testo originale) perchè ci saranno dati fantastici, versioni (“versionining” nell’originale) fantastiche, esperienze fantastiche che realmente cancelleranno alcune delle barriere che esistono oggi. …… vedo un’ incredibile personalizzazione. Se non hai qualcosa che sia su misura, perderai.” Pare proprio che il futuro sia basata sull’uso del Santo Graal digitale.

Il primo punto esclamativo l’ho messo di fianco all’intervento di Gwen Morrison, Amministratore Delegato della società di consulenza The Store, parte del gruppo multinazionale di comunicazione e marketing WPP. Partendo anche lei dal presupposto che le gente richiede personalizzazione sostiene che tutto è a richiesta (“on demand” nell’originale): i contenuti, il commercio, ecc… Conseguenza è che alla gente piace interagire con altre persone. Io mi spingo oltre dicendo che per soddisfare un mercato in cui tutto è a richiesta (spesso) non sono sufficienti attività di push, per quanto perfette grazie all’analisi del big data, ma (ad un certo punto) è necessaria la possibilità dell’intervento di una persona in grado di interagire efficacemente con i clienti attuali e/o potenziali.

Chris Nurko, Global Chairman della società di consulenza londinese FutureBrand, fa un ragionamento lineare: la popolazione mondiale cresce rapidamente – più persone significa più contenuto e più connettività – connettività e contenuto saranno regolate dalle norme relative alla privacy ed alla proprietà intellettuale in Europa e Nord America – la proprietà intellettuale e la privacy saranno assolutamente la questione n.1 nel 2024 (nel testo originale “the biggest zeitgeist change”). Lasciamo perdere il club di Roma e le sue previsioni sui rischi dell’eccessiva crescita di popolazione, lasciamo perdere anche i trend demografici che vedeno l’invecchiamento (ed il successivo calo) della popolazione europea al netto dell’immigrazione), che dire di quelli che nel 2024 avranno tra 20 e 30 anni cresciuti in un ambiente in cui è normale che tutti sappiano tutto di tutti. E’ stato Mark Zuckerberger a dire che la privacy non esiste, mica io. Vero che magari la sua non è l’opinione più indipendente del mondo, però come visione del futuro un po’ di credibilità di base ce l’ha. Riguardo poi alla centralità del mondo occidentale, direi che c’è un bel po’ di miopia di marketing rispetto al ruolo che nei prossimi 10 anni giocheranno, oltre ai BRICS, le nazioni del centrafrica.

Concludo con J. Walker Smith, executive chairman della società londinese The Future Company. I miei appunti sul suo intervento vedono un punto esclamativo ed un punto di domanda. il punto esclamativo sta di fianco alla frase “Gli algoritmi e la sperimentazione rimpiazzeranno la psicologia e la visione come cuore del marketing”. Il punto esclamativo è doppio per la rilevanza ed originalità dell’osservazione e perchè, finalmente, si tratta di qualcosa che effettivamente si realizzera da qui a 10 anni. Il punto di domanda (a matita) sta di fianco all’affermazione “Alla fine il mercato del futuro avrà la forma di sempre. All’informazione segue il controllo, quindi man mano che le tecnologie digitali passive mettono più informazione e conoscenza nelle mani degli operatori di marketing, questi riguadagneranno più controllo”.

Finita la parte facile delle critiche, verrebbe quella difficile delle proposte. Però è tardi ed il post è già abbastanza lungo e denso.

Rimando quindi le proposte su come immagino il marketing del futuro alla prossima settimana. Per non lascivi del tutto all’oscuro anticipo che in estrema sintesi credo che per il marketing del 2024 sarà necessario ESSERE piuttosto cher apparire. Detto così sembra una banalità, però le implicazioni sono numerose e profonde.

Alitalia: quando l’attenzione al cliente diventa persecuzione del cliente.

Premetto che quando devo prendre un aereo privilegio la comodità della tratta. Se c’è un volo diretto da Venezia o Lubiana prendo quello, viceversa la scelta spesso ricade su Air Dolomiti-Lufthansa visti i buoni collegamenti Trieste-Monaco di Baviera. Ho sia la tessera Millemiglia (Alitalia) che Miles & More (Lufthansa).

Non ce l’ho in modo particolare con Alitalia, anche se ero un sostenitore della vendita ad Air France prevista nel 2007 dal governo Prodi e l’ho utilizzata come esempio di azienda infedele nei confronti dei propri clienti in un post pubblicato nel febbraio 2012.

La dimostrazione di quanto sopra è che il mese scorso per andare in Brasile ho scelto nuovamente Alitalia per l’itinerario Trieste-Roma, Roma-Sao Paulo, Sao Paulo-Rio de Janiero, Rio de Janeiro-Roma, Roma-Trieste.

Visto che da Roma a Sao Paulo parliamo di più di 10 ore di volo ed io sono sempre alto 193 cm, al check in a Trieste ho chiesto se potevo avere l’uscita d’emergenza. mi hanno risposto che adesso le uscite d’emergenza le vendono (malvezzo cominciato, credo, con Air Canada, e diffusosi oramai a diverse compagnie aeree) al prezzo di 85€. Chiedo se posso fare l’upgrade utilizzando le mie miglia, mi mi dicono che a Trieste non è possibile, consigliandomi di farlo a Fiumicino.

Arrivo a Fiumicino, vado al banco assistenza clienti, chiedo di fare l’upgrade e la gentile signorina mi dice che non è possibile perchè nel mio conto ci sono solo le 1.000 miglia della tratta Trieste-Roma appena fatta. Io rimango un po’ stupito perchè la mia tessera “Ulisse” era scaduta a dicembre, ma le miglia non le avevo mai usate. “Le miglia scadevano al 31 marzo, Lei non è il primo a scoprirlo così”.

PRIMO CONSIGLIO AD ALITALIA”: attivate dei canali di comunicazione strutturati tra il personale a contatto con i clienti e chi sviluppa le strategie all’interno dell’azienda. Vi renderete conto di quante cose interessanti sapete (sapreste) già.

Me ne vado al gate con il trolley tra le gambe e scrivo questo tweet amareggiato, perchè non sono convinto che sia giusto vendere l’uscita d’emergenza, perchè potevano anche avvisarmi che le miglia scadevano, perchè anch’io potevo pensarci prima.

Tweet alitalia1

Poi il volo è stato migliore del previsto, lo spazio tra i sedili era un po’ di più del solito e la cena era mangiabile, che pensavo quasi quasi di fare un tweet positivo su Alitalia.

Atterro a Sao Paulo, accendo il cellulare e mi trovo con questi tre tweet da parte di Alitalia:
Tweet alitalia2

SECONDO CONSIGLIO AD ALITALIA:tutti i manuali insegnano che nel gestire le lamentele/reclami dei clienti si parte sempre dall’accogliere le loro ragioni. Confermo per esperienza personale che è vero e che funziona. Non si tratta di piaggeria o servilismo. E’ sincero dispiacere perchè la persona ha avuto un’esperienza deludente con il nostro prodotto/servizio/marca, indipendentemente dal fatto che la colpa sia stata nostra o meno. In realtà la colpa è sempre almeno un po’ nostra perchè potevamo spiegarci meglio per evitare si creassero aspettative sbagliate. E il dispiacere deriva dalla potenziale perdita di business, dall’accorgersi di aver fatto un errore e dall’aver creato un inconveniente a qualcuno.

Alitalia invece ha alzato il ditino e mi ha insegnato come si dovrebbe comportare un membro del Club Millemiglia. Come un qualsiasi impiegato a qualsiasi sportello che, dopo che abbiamo fatto mezz’ora di coda, ci spiega con condiscendenza che manca un timbro/una marca da bollo/un modulo/ecc…, che dobbiamo andare a procurarcelo e poi tornare (rifacendo la fila).

Con il mio tweet di risposta gli davo anche in parte ragione e consideravo chiusa la questione. Invece Alitalia non ci sta ad essere meno che perfetta e quindi mi ha replicato con 4 tweet dandomi educatamente dell’imbecille.
Tweet alitalia3

Perchè racconto questa mia piccola disavventura della serie “biscomarketing storie e gite”? Perchè credo sia emblematica delle difficoltà che hanno alcune (molte) aziende ad entrare nell’era digitale (intendendo con questo termine l’intera società risultante dalla “rivoluzione digitale” e non solo gli aspetti prettamente on-line).

Diversamente dall’opinione comune di accademici ed operatori, sono abbastanza convinto (ci sto ancora pensando) che la rivoluzione digitale non abbia cambiato gli strumenti, ma non i fondamenti del marketing. D’altra parte l’unione dell’effetto combinato dell’involuzione del marketing durante gli ultimi vent’anni da una parte e della portata degli strumenti digitali, con la loro capacità di amplificare nel bene o nel male le attività aziendali, costringono molte aziende ad un cambiamento culturale (se vogliono sopravvivere).

Distinguere se la rivoluzione digitale ha portato o meno ad una modifica dei principi del marketing diventa quindi un discorso di lana caprina per tutte quelle aziende che opera(va)no con una logica di vendita più che di marketing. Nell’era digitale le bugie hanno le gambe cortissime e gli errori vengono al pettine immediatamente.

La situazione peggiore è l’unione di una (sorpassata) cultura di superiorità nei confronti del cliente (visto più come “utente” o, peggio ancora, “consumatore”) con le tecniche nuove, perchè l’adozione meccanicistica degli strumenti digitali porta inevitabilmente a fare “brutte figure” su larga scala.

Al di là del contenuto, è ovvio che non ha senso rispondere ad un cliente con 4 tweet collegati (se non ti bastano 140 caratteri, significa che lo strumento da usare è un’altro), eppure sono convinto che secondo gli standard Alitalia la gestione del mio tweet è stata eccellente.

E’ stato rilevato rapidamente, ha avuto una risposta in tempi brevi, con tutte le informazioni del caso.

Dal punto di vista aziendale (in una cultura aziendale autoreferenziale) ognuno ha svolto il suo compito.

Dal mio punto di vista non mi ha risolto il problema, ha evidenziato che Alitalia fornisce un servizio peggiore rispetto ad altre compagnie aeree che mi avvisano quando le miglia stanno per scadere e mi ha spammato la timeline.

Prima di fare della facile ironia su Alitalia, guardatevi intorno: sarebbe troppo bello se questi problemi riguardassero solo le aziende pubbliche decotte.

Visto che sono alla ricerca di un lavoro / consulenze, forse farei meglio a misurare di più l’argomento e contenuti dei miei post. Incorreggibile.

P.S. Il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro a Roma è tornato sui soliti standard: servizio approssimativo, cena così-così, colazione fredda e cuffie che funzionavano solo tenendo lo spinotto con la mano nella posizione giusta.

P.P.S. Prima o poi imparerò come inserire le immagini nei post senza che ci sia testo intorno. Nel frattempo si accettano suggerimenti.

Cosa ho visto ad Expovinis 2014 San Paolo.

Rio de Janeiro, dopo una settimana di lavoro puntavo ad un giorno di spiaggia ma piove. Cosa di meglio da fare se non condividere quello che ho visto a San Paolo alla fiera Expovinis 2014?

Dai francesi ci sarebbe sempre da imparare (volendo) ……
Non è che sia una novità. A tutte le fiere i francesi si presentano belli compatti, occupano uno spazio unico con un’immagine paese forte chiara ed unitaria sotto il coordinamento di Ubifrance
Francia 1
Francia 3
Francia 4

Da notare le colonne bianche e rosse e blu; il vantaggio di fare marketing delle nazioni: uno non deve sforzarsi di identificare o definire i propri colori istituzionali. Sembra semplice ma tra un po’ vedremo che non è sempre facile.

Quali i vantaggi di una presenza unitaria?
- i visitatori trovano tutti i vini e le cantine francesi in un’unica zona, quindi è più facile che trovino quelli che gli interessano e magari qualcuno che non prevedevano.
- ergo i visitatori tendono prima ad “esaurire” l’area francese e poi a passare agli altri stands, compatibilmente con il tempo che gli rimane.
- si può ricavare un’area per le degustazioni/master class (la foto non l’ho fatta, ma c’era fidatevi).
- si possono dare informazioni sulla viticoltura a livello del paese: Francia 2
- si può distribuire una catalogo che descrive dettagliatamente le cantine francesi presenti e la loro distribuzione in Brasile
Francia 6
Non mi dilungo oltre perchè pochissimo è cambiato dal novembre 2012 quando il blog Vino al vino di Franco Ziliani ha gentilmente ospitato un mio intervento centrato su questo argomento.
Aggiungo solo che non ho visto bandiere europee e diciture che si trattava di un’attività finanziata con i fondi comunitari ai sensi del regolamento XY, però dubito fortemente che non abbiano attinto ai finanziamenti dell’OCM vino. Centralizzazione=semplificazione.

…… e qualcuno in effetti impara.
Gli spagnoli copiano, più o meno bene, dai francesi.
Quasi compatti (uno stand separato per i vini della Castilla-La Mancha, però vicino allo stand collettivo), programma di degustazioni guidate, catalogo degli espositori con informazioni sul settore vitivinicolo spagnolo.
Spagna 1
Spagna 3
Spagna 2
Spagna 4
Non è tanto del sorpasso in termini di quantità prodotta che dovremmo preoccupareci.

Italia: creatività o confusione?
Una volta ho sentito dire che i francesi sono degli italiani incazzati. Se è vero noi potremmo puntare ad essere dei francesi allegri.

Per il momento mi sembra che regni la confusione dell’individualità:
- stand del chianti (andate in giro per il mondo a spiegare che il chianti classico è una cosa ed il chianti “semplice” è un’altra: auguri) senza alcun riferimento nazionale.
Italia 2

- Area Italia dietro allo stand del Chianti con logo “bandiera” a forma di cuore e scritta Italia in rosso (non chiedetemi gestita da chi perchè non l’ho capito).
Italia 3

- Zona Italia a fianco dello stand del Chianti gestita dalla Camera di commercio Italo-brasialina di Rio de Janeiro con logo “Spazio Italia” in nero + tricolore “a nastro” e payoff “vino, tradizione e passione”.
Italia 5

- Area “Piemonte: land of perfection” all’altro lato dello stand del Chianti con logo con elegante scritta Italia tono su tono (la vera eleganza non si fa notare) sottolineata da tricolore “a coriandolo”
Italia 1

- Area “Emilia-Romagna Wine: what an experience”, davanti allo stand del Chianti con logo come quello dell’area Piemonte ma (almeno) la scritta Italia in bianco su fondo nero si legge bene
Italia 4

- Stand dell’ ATI (Associazione Temporanea di Imprese) Italian Concept Export Brasil con qualche bandiera italiana in vista
Italia 6

Non ho la foto del bel stand centrale della Cooperativa “La Spiga” di Montalcino, dove il riferimento all’Italia era la dichiarazione dell’utilizzo dei fondi comunitari con relativa bandiera italiana riprodotta sulle pareti dello stand (fidatevi).

Ecco dimostrato che il marketing delle nazioni puà sembrare semplice, ma non è facile.

Ora anche qui non mi dilungo. Come si diceva durante l’ultimo Vinitaly chiaccherando con Fabio Piccoli e Giacomo Acciai (dobbiamo riprendere il discorso) il marchio unitario del vino italiano esiste già ed è già ben conosciuto: è appunto “Vinitaly”. Facilmente comprensibile nelle principali lingue del mondo, unisce efficacemente vino e Italia.
il Vinitaly ha già in buona parte la struttura e parte delle competenze necessarie per essere l’equivalente di Ubifrance, senza diventare una copia dell’ICE (con tutto il rispetto per i funzionari che cercavano di darsi da fare). Invece di investire risorse umane e finanziarie per organizzare i Vinitaly tour all’estero, che restano sempre appuntamenti minori e parziali nei diversi paesi, prenda l’incarico di definire quali sono le fiere chiave a cui deve partecipare il vino italiano ed di organizzare la relativa “Casa Italia”. Conseguentemente obbligo per tutte le aziende, ATI e i consorzi di partecipare alle fiere all’interno di questo spazio.
Mi spingerei perfino a dire che i fondi OCM per partecipazione a fiere possono essere destinati solamente alla partecipazione attracerso il Vinitaly.
Per il resto vale quanto scritto nel mio post pubblicato su Vino al Vino di cui sopra.

Il Portogallo è messo peggio di noi in quanto ad immagine
Se può consolare c’è chi fa peggio. Il Portogallo con una dimensione ed eterogeneità del sistema vitivinicolo di gran lunga inferiore alla nostra riesce ad essere (almeno) altrettanto confuso.

Vari stand, sparsi per la fiera (che, per precisione, copriva un unico padiglione), con due loghi e due pay off diversi:
Portugal 1
Portugal 2
Portugal 3
Portugal 4
Portugal 5

Concludo parlando, stranamente, di due vini:

Reserva Casillero del Diablo Devil’s Collection di Concha y Toro:
Casillero devil collection
Con questo vino ha vinto il Top Ten di Expovinis 2014 come miglior rosso del Nuovo Mondo. Quando ho chiesto alla gentile signorina che lo faceva degustare quale fosse l’uvaggio, mi ha risposto che si tratta di un uvaggio di tre varietali ma l’enologo ha voluto mantenere il segreto sia su quali sono che sulle loro proporzioni.
Partendo dal fatto che Casillero del Diablo è una delle poche vere marche mondiali di vino (ricordo che è uno degli sponsor del Manchester United) l’iniziativa di marketing è curiosa, anche se non sono sicuro di come questo mistero potrà funzionare rispetto alla tendenza globale verso la trasparenza.
Personalmente dopo averlo degustato non ho avuto un grande interesse a scoprire il segreto.

Salton Geracoes Josè “Bepi” Salton :
Come avete già intuito dal cognome e dal nome siamo di fronte all’emigrazione veneta dei primi del 900 (precisamente da Cison di Valmarino). Questo spumante metodo classico 50% Chardonnay e 50% Pinot Noir fa un minimo di 4 anni sui lieviti e mi è proprio piaciuto.
Difficile, se non impossibile, che arrivi in Italia e non un concorrente per il Prosecco italiano (ci pensano già i prosecchi brasiliani), ma un concorrente serio per i metodi classici che volessero andare in Brasile.

Questo è tutto per oggi. Ha smesso di piovere e vada a farmi almeno due passi.

Alcune cose che ho imparato dal quadrato semiotico dei wine lovers.

Adesso che il tourbillon del Vinitaly è alle spalle e mi sono reso conto dell’ambaradam che ho messo in piedi con il quadrato semiotico dei wine lovers, pubblico convegno Vinitalyposso fermarmi un attimo e capire cosa ho imparato da questa esperienza?

Resistenza all’innovazione
Il quadrato semiotico dei wine lovers ha suscitato molto interesse nel settore ed è stato ripreso da parecchie testate, non solo riguardanti il vino (al convegno hanno assistito 70 giornalisti). Eppure ci sono stati diversi opinion leaders che lo hanno ritenuto una cosa di scarso interesse (in ambito vinicolo). Purtroppo per loro (e per noi) le centinaia di persone che hanno fotografato il quadrato allo standa di Bosco Viticultori, dimostrano che si sbagliavano.
quadrato wine lovers allo stand.

Malgrado Steve Jobs, le ricerche quantitative mantengono il loro fascino
Steve Jobs diceva di non appiattirsi sui risultati dei focus group (tecnica qualitativa) perchè le persone non sono in grado di descrivere/richiedere quello che non possono neanche immaginare (esempio i-pad). Più prosaicamente e restando nell’alimentare, le leggende del marketing narrano che tutte le ricerche quantitative dimostravano come non ci fosse mercato per il “Kinder Sorpresa” ne per il “Gatorade”. Feargal Quinn, fondatore dei supermercati irlandesi Superquinn, partecipava personalmente ai focus group organizzati con i suoi clienti prechè diceva che nessun questionario poteva raccogliere l’indicazione di quell’unica persona che aveva ragione (meno quantitativo di così, impossibile). E come faceva a sapere che quell’indicazione era quella giusta? Secondo me perchè conosceva la propria identità, quindi la propria missione, quindi i propri punti di forza e la propria strategia.
Eppure nel diffondere il quadrato semiotico dei wine lovers da più parti è arrivata la richiesta di dare un peso ai quadranti, cosa che secondo me è inutile ed impossibile.
Inutile perchè il quadrato semiotico fornisce una mappa per sviluppare percorsi strategici di medio-lungo periodo, tempo durante il quale gli eventuali pesi possono cambiare. Inutile soprattutto perchè il successo di questi percorsi strategici si basa principalmente nella coerenza tra l’identità della proposta di marca/prodotto e le decodifiche che ne le persone (i consumatori). Detta più semplice, anche ipotizzando che gli enosnob siano la maggioranza avrebbe poco senso rivolgersi a loro se la mia identità è incoerente con i loro codici. Inutile infine perchè la produzione vinicola è talmente frammentata che comunque un’azienda dovrebbe crescere almeno 10 volte prima di trovarsi (forse) con il problema di aver esaurito l’audience.
Impossibile perchè la ricchezza informativa dell’analisi semiotica in cui i comportamenti sono un continuum lungo gli assi e le diagonali, necessaria per guidare le strategie di medio lungo, viene giocoforza ridotta dall’aggregazione che richiede una ricerca quantitativa.
Secondo me, se proprio si vuole avere un riscontro quantitativo, sulla base degli insight qualitativi si definisce una proposta di vendita che viene testata in termini quantitativi. Comunque è un processo che rischia di essere datato, visto che Samsung adotta già un approccio di trial-and-error per cui non fa ricerche, ma lancia sul mercato i prodotti e poi decide se e come continuare in base ai risultati di vendita.

Il target tutti
Oscar Farinetti, stupor mundi, ha colpito l’attenzione, e suscitato qualche perplessità da parte di chi lo ritiene un vecchio volpone, dichiarando che il suo obiettivo è il “target tutti”.
Io sottoscrivo la sua visione per due motivi:
1) ha colto chiaramente che il quadrato semiotico dei wine lovers non individua vini ma atteggiamenti e codici che le diverse persone associano al consumo di vino. Per questo è possibile perseguire il suo obiettivo di vendere vini di vendere “vini naturali e liberi”, codice che appartiene al quadrante “Radical” ai consumatori “Pane al pane”. Basta rivolgeri a quelle persone con i codici di comunicazione corretti e, dettaglio non da poco, avere un’immagine di marca abbastanza ampia ed articolata da rendere credibile la proposta in modo trasversale.
Un aspetto del quadrato semiotico dei wine lovers che forse non è stato sufficentemente evidenziato nelle varie discussioni è che TUTTI i consumatori che sono rappresentati sono wine lovers e sono tutti interessati alla qualità del vino, però la valutano secondo aspetti diversi.
2) Mi ha ricordato il concetto di marketing democratico, concetto definito ed approfondito (anche se magari non così diffuso e consolidato) di cui ho trattato qui in un vecchio post.

Obiettivi poetici, strumenti matematici
Sempre Farinetti ha espresso questa bellissima sintesi. Io che sono prolisso continuo a parlare di mission/positioning statement come l’ho definito in questo post dello scorso novembre, da cui discende la gerarchizzazione degli obiettivi che diventa sempre meno poetici e sempre più matematici man mano che si scende verso l’operatività. Fino ad arrivare alla granularità degli obiettivi di vendita per singola referenza per singolo punto vendita.

Di nuovo complimenti a tutti quelli che mi hanno aiutato in questo lavoro e di nuovo grazie ad Oscar Farinetti (che è poetico e visionario, però parte sempre dai numeri: guardatevi il video del suo intervento al convegno, che merita).

L’esperienza del QUADRATO SEMIOTICO DEI WINE LOVERS fino ad oggi, ovvero il content marketing.

Vinitaly, 5 aprile 2014. Comincio questo blog come gli articoli veri con luogo e data (il Vinitaly è un luogo e comincia, almeno, il giorno prima dell’apertura della fiera), perchè anticipo di un giorno la pubblicazione del post, visto che domani sera sarò presumibilmente impegnato con fiera e dopo-fiera.

In settimana abbiamo diffuso il Quadrato Semiotico dei Wine Lovers, magari l’avete già visto in giro per la rete, comunque eccolo qui:
quadrato_semiotico_wine_lovers

L’iniziativa l’avevo annunciata con un post lo scorso 16 marzo. L’idea era di permettere/stimolare i lettori del blog a seguire lo sviluppo della strategia, come fosse una case history.

Non so cosa avete visto voi (se avete visto qualcosa), questo è il sunto da parte mia ad oggi:
- Le uscite sulle testate on-line si contano a decine.
- Le uscite sui giornali sono molte meno, ma è strutturale che si concentrino dal vinitaly in avanti (ci speriamo e ci stiamo lavorando).
- due interviste radiofoniche su emittenti nazionali (fare un’intervista radiofonica afono a causa del raffreddore e con la linea che va e viene è un esperienza che spero di non ripetere mai più).
- Le visualizzazioni lorde della pagina facebook si contano a decine di migliaia e così pure su twitter.
- Guardando alla qualità delle interazioni cito il caso che mi dato più soddisfazione: il post di Alice Feiring, anche perchè mi ha dato l’occasione di iniziare una conversazione su twitter in cui ho tirato dentro Jay McInerney, secondo me il maggior scrittore americano vivente (e se avessi tempo di pensarci bene forse potrei togliere “americano”). Devo ancora decidere se questo diventa il mio nuovo vertice professionale, che fino ad oggi era aver avuto la mia foto su “Gente” immerso a metà gamba in un tino pigiando l’uva, subito dopo la foto di Albano e prima di quella di Carol Bouquet.

L’ultimo segnale positivo c’è stato oggi mentre allestivamo lo stand, perchè ad un certo punto ho contato 6 persone ferme davanti alla luminosa 2×2 metri su cui è riprodotto il quadrato che lo fotografavano con lo smartphone. E due di loro si dicevano a vicenda “Questa è la novità più interessante del Vinitaly 2014″. E’ quello che dicevo io quando ho messo in piedi il progetto, ma loro non possono essere accusati di dirlo per megalomania.

Vediamo domani quando si aprirà la fiera.

Ora, oltre a ringraziare Squadrati, http://www.serenacomunicazione.com/, PR&PRess, lo staff aziendale e tutti quelli (sono tanti: perdonatemi, ma l’elenco diventava noioso) per il contributo eesenziale a quanto ottenuto fino ad oggi faccio una riflessione sul content marketing (mi scuso per il link a wikipedia in inglese, ma già questa descrizione non mi soddisfa del tutto, quelle che ho trovato in italiano non mi soddisfacevano per niente).

Il content marketing sembra essere la pietra filosofale della comunicazione moderna e quindi tutti a riempire il web di contenuti, dimenticando che il concetto riguarda i contenuti (basta la parola) e non il mezzo. Detto in altre parole, la (buona) pubblicità si è sempre basata sulla ricchezza di contenuti. L’attuale facilità di comunicazione ed intercomunicazione di contenuti cambia l’operatività ed il peso delle tecniche, non i concetti strategici. Come scrivevo quasi un anno fa, riprendendo un articolo del Prof. di Harvard John Deighton “siamo tutti nell’editoria nel senso che il modello di business in tutti i settori si basa(baserà) sulle capacità di creare contenuti, cercarli, selezionarli e disseminarli verso un audience, mappare il percorso dell’audience rispetto ai contenuti disseminati e, alla fine, monetizzare.” Alla definizione del Prof. Deighton però secondo me manca un aggettivo cruciale: … creare contenuti RILEVANTI …” per creare una storia di interesse.

Viceversa il cattivo content marketing, come la cattiva pubblicità (ed ogni forma di cattiva comunicazione in generale) diventa un boomerang.

E, per restare nel vino, come diceva Elisabetta Tosi nel commentare un post di facebook di Maria Grazia Melegari “Il premio, i 3 bicchieri o le 9 bottiglie, la starlette allo stand, lo chef che ti cucina la colazione… NON SONO UNA STORIA!!! E nemmeno il nuovo vino, la nuova etichetta, il nuovo stand, ecc. ecc..” O quantomeno sono una storia di interesse circoscritto.

Se volete vedere il quadrato semiotico dei wine lovers dal vivo lo trovate al nostro stand al Vinitaly: padiglione 3, stand E6.
Se volete sentire gli approfondimenti dalla viva voce dei protagonisti venite al convegno di lunedì 7 alle 11:00 all’auditorium del Palaxpo del Vinitaly.

Concettualmente la distinzione tra comunicazione above the line e below the line è inutile e dannosa.

Benchè biscomarketing sia notoriamente un blog di argomenti freddi, quello di oggi rischia di essere addirittura gelido perchè la distinzione tra attività di comunicazione di above e below the line (un attimo e la spiego), viene data per morta.

Un paio di mesi fa però mi è capitato di parlare con due amici pubblicitari e sentire di nuovo questi termini con cui ho da sempre un rapporto particolare: mi provocano un’allergia cutanea all’epidermide del cervello.

La prima volto che li ho sentiti credo fosse nel 1995 in Levoni quando stavamo pianificando la prima campagna pubblicitaria televisiva, per bocca di un pubblicitario. Il mio stupore fu grande perchè lui li usava come fossero la cosa più ovvia del mondo ed io invece non sapevo nemmeno che esistessero (meno che meno cosa volessero dire). Eppure dopo la laurea avevo studiato in Italia, Canada e Spagna prendendo un diploma di specializzazione di economia del sistema agro-alimentare, uno di specializzazione in marketing dei prodotti agro-alimentari ed uno di dottorato in Zooeconomia. Conoscevo il Kotler quasi a memoria (ma l’avevo anche capito però) e lì questi termini non c’erano.

Andando ad indagare scoprii che la distinzione tra above the line e below the line era nata nel 1954 alla Proctor & Gamble per distinguere le diverse modalità di calcolo dei compensi e di pagamento applicate alle agenzie di pubblicità (above the line) rispetto alle agenzie promozionali (below the line).

Nella pratica promo pubblicitaria quindi si è affermata questa distinzione tra le strategie realizzate attraverso i mezzi di comunicazione di massa che giravano direttamente alle agenzie di pubblicità il compenso calcolato sul valore dell’investimento (tipicamente il 15%), e quelle realizzate con altre modalità per cui l’azienda pagava tipicamente un compenso fisso sulla base del lavoro previsto, indipendentemente dall’ammontare dell’investimento.

Nell’above the line (o ATL) rientra(vano) quindi TV, radio, giornali, cinema, affissione esterna.

Nel below the line (o BTL) rientra(vano) le sposnsorizzazioni, la stampa e distribuzione di pieghevoli/depliant, le promozioni nei punti vendita, le pubbliche relazioni/passaparola.

Recentemente nell’ATL è stata aggiunta la pubblicità su internet e nel BTL le attività realizzate sui social media, ma non serviva l’avvento del web per evidenziare che si trattava di una distinzione insensata dal punto di vista strategico. Basta vedere l’origine tecnico-contabile dei due termini per capire che non hanno alcun legame con il rapporto tra l’azienda ed il mercato. Un po’ di riferimenti bibliografici qui, qui e qui.

Quindi io personalmente sono passato oltre ed ho continuato ad impostare i miei piani dividendo, ed integrando, tra strategie che fornivano ragioni d’acquisto e strategie che fornivano incentivi all’acquisto.

Poi però sono passato ad aziende, ed agenzie pubblicitarie, più grandi ed la suddivsione tra ATL e BTL continuava ad inseguirmi. Le grandi aziende multinazionali che distribuivo in Italia mi mandavano schemi di pianificazione dove ATL e BTL erano in due colonne, quando non in due pagine, separate e le agenzie che realizzavano le campagne pubblicitarie TV, radio, giornali non facevano cataloghi, depliant, materiali punto vendita ecc..

Il risultato era che risultava molto difficile impostare, prima, e realizzare, poi, una strategia di marketing cesa nei messaggi e nei codici. E questo malgrado io abbia sempre evitato di dividere organizzativamente il consumer marketing dal trade marketing, come invece è prassi comune nelle aziende più grandi.

La cosa che mi ha sorpreso di più parlando con i due pubblicitari di cui sopra è che loro vedono la suddivisione dell attività in ATL e BTL come qualcosa di meramente operativo, per cui ci sono agenzie specializzate nell’ATL ed altre nel BTL, senza immaginare l’impatto che questa suddivisione tecnica ha sul pensiero strategico.

Spero che l’avvento del Marketing Totale, faccia sparire per sempre questo modo di dire, diventato col tempo un modo di pensare (le strategie) così da non dovermi più grattare il prurito che mi viene quando lo sento.

L’importanza dell’analisi di scenario per la scelta della strategia migliore: il caso del governo Renzi.

Come avevo annunciato domenica scorsa, ecco le riflessioni sulle analisi di scenario basate sulla formazione del nuovo governo Renzi.

La mie intenzione era di dare centralità ai principi ed alle tecniche di analisi, da cui la scelta di parlarne oggi, a freddo rispetto alla formazione del governo. Questa in realtà non è stata nè così rapida nè così liscia come previsto, voglio sottolineare una volta di più che la scelta dell’argomento politico è solamente un personale divertissement.

Parto dall’analisi “Nella testa di Renzi” fatta da Francesco Costa su “Il Post”, che cerco di sintetizzare per stralci, in modo da definire la sua analisi dello scenario.

Renzi è segretario del PD da dicembre. Il suo grande consenso popolare, semplificando, si basa soprattutto sul suo essere diverso dalla grandissima parte di quelli che ha attorno. Diverso come toni, diverso come efficacia, diverso come curriculum e provenienza, diverso come passo.

Riformulo la domanda: Renzi è al governo o all’opposizione? Per quanto straordinario, il governo Letta è senza ombra di dubbio un governo del PD. Allo stesso modo però è un governo con cui Renzi non ha praticamente niente a che fare,

Renzi, per fare Renzi, doveva far correre il governo Letta e le sue riforme: non c’è riuscito. Mandare quattro dei suoi al governo avrebbe dato la sveglia al governo?

Le elezioni europee, storicamente, sono pesantissime per il governo in carica (….) Renzi ha detto più volte esplicitamente che il PD rischia una scoppola, se non si dà una mossa e quindi se non dà una sveglia al governo, “se non porta a casa qualcosa”. La legge elettorale e l’abolizione del Senato erano quel tentativo: arenato.

Scenario realistico, il più probabile: Renzi, per quanto tenti di fare il Renzi, non ci riesce. Il suo destino, la sua carriera politica, la possibilità di vincere un giorno le elezioni, si ritrovano legate a un Parlamento ingolfato, a un governo immobile e a un’elezione imminente che deve affrontare difendendo il governo immobile. Rischio concretissimo: il PD va male alle Europee. Migliora la sua percentuale di voti rispetto alle politiche, magari invece di prendere il 25 prende il 29 per cento. (…..) è così improbabile che il Movimento 5 Stelle prenda il 30? Pensate a questa ipotesi, piuttosto credibile: gli attacchi duri a un governo impopolare premiano l’opposizione e soffocano la maggioranza, quindi alle europee, magari per un pelo, il Movimento 5 Stelle diventa il primo partito. Il risultato è che Renzi è cotto. Una cosa doveva saper fare, prendere i voti, e non ci è riuscito.

…… soprattutto perché andare a votare con l’attuale legge elettorale, un proporzionale puro, garantisce matematicamente la necessità di dover ricorrere nuovamente a un governo di larghe intese.

Per cui, a un certo punto, Renzi pensa: sai che c’è? Se il mio destino dipende dal governo, tanto vale che il governo lo faccia io. Rischio? Certo che rischio. Ma rischio comunque. Almeno così dipende da me, mi gioco le mie carte, padrone del mio destino.

Immagino che Renzi si renda conto che questo passaggio è stato molto rozzo, per usare un eufemismo. Una manovra di palazzo, come dicono quelli: non ci piove. Ma Renzi sa anche che (…..) che in ultima istanza l’unica cosa che conterà per le sue sorti politiche sarà quello che farà quando sarà capo del governo: se farà cose buone e popolari tra sei mesi nessuno nemmeno si ricorderà come arrivò al governo.

Questo in sintesi lo scenario secondo Francesco Costa e da qui partiamo.

1° assunto teorico: il marketing è una scienza analitica e non deterministica (come tutte le scienze sociali suppongo). Questo significa che fornisce le tecniche per analizzare in modo completo ed efficace gli scenari.

2° assunto teorico: se nell’affrontare uno scenario avete una sola strategia siete morti (la vecchia storia degli oceani rossi ed oceani blu). In realtà ci sono sempre strategie alternative, quindi se nell’affrontare uno scenario avete una sola strategia, siete morti per perchè siete pigri (proverbio spagnolo: la pereza es la madre de la pobreza).

3° assunto teorico: confrontando diverse strategie bisognerà preferire quella minimizza le probabilità di rischio e/o massimizza le probabilità di risultato. Più gli scenari sono complessi e/o le strategie diverse e più è necessario scomporre i vari elementi per fare una valutazione completa.

Per questo è necessario un approfondimento dei punti di forza e debolezza della proposta politica di Renzi (attenzione che “proposta politica” va inteso come se fosse la “unique selling proposition” o “best selling proposition” di una marca/prodotto.

Questa è l’analisi che ho fatto io:
Renzi: punti di forza.
- È nuovo e diverso.
- E’ trasparente, chiaro, coerente.
- Rispetto per le regole vs. accordi di palazzo.
- E’ pragmatico e deciso (da sindaco ha dimostrato di saper fare, e bene). Non ha pregiudizi ideologici.
- Merito vs. casta.
- Ha un ideale di società più semplice e più giusta in termini di diritti, doveri e privilegi.

Renz: punti di debolezza.
- E’ come gli altri, mosso dall’ambizione (e dall’interesse) personale per il potere.
- La racconta bene, ma è solo facciata.
- Non ha né esperienza ne programma.
- Non è né di sinistra, né tanto meno progressista. La sua visione della società è allineata con quelle delle elites (caste) imprenditoriali e finanziarie.

Vanno poi definiti gli obiettivi strategici. Su questo riprendo l’analisi di Costa secondo cui l’obiettivo di Renzi era fare il Presidente del Consiglio per cambiare davvero l’Italia e non personale ambizione di potere. Questo perchè ci credo (credeveo?), ma soprattutto perchè è l’obiettivo dichiarato e quindi l’unico che è lecito prendere in considerazione. Evidente che l’ottenimento del potere è condizione necessaria, ma non sufficiente, per operare il cambiamento. Come sottolinea giustamente Costa … per cambiare l’Italia davvero, per trattare con alleati e sindacati e industriali da posizioni di forza, serve la spinta politica che può darti solo un netto successo elettorale.

Mettendo insieme lo scenario di Costa, la mia analisi dei punti di forza e debolezza e l’obiettivo di Renzi è possibile innanzitutto sviluppare strategie alternative e poi valutarle in modo rigoroso.

La strategia della “staffetta” seguita da Renzi la conosciamo tutti. La chiamerò “Strategia 1″. Per ragioni di brevità mi limiterò ad una sola alternativa (ripeto che lo scopo di questo post è principalmente quello di approfondire le riflessioni sulle tecniche di analisi) che chiamerò “Strategia 2″ (oggi fantasia al potere).

L’altra strategia per raggiungere l’obiettivo di diventare Primo Ministro e rinnovare il Paese poteva essere andare al voto con il sistema proporzionale, accorpando le politiche alle europee.

Di seguito trovate l’analisi delle due strategie, scomposte negli elementi che caratterizzano lo scenario tratteggiato da Costa, in base alla probabilità che si verifichi l’elemento, il suo effetto nel rafforzare la convinzione degli attuali simpatizzanti/elettori e nell’attirare nuovi simpatizzanti/elettori. Anche in questo caso la scelta di utilizzare solamente due parametri di analisi degli elementi risponde ad un principio di semplificazione dell’esposizione. Nulla vieterebbe, anzi nel caso reale sarebbe auspicabile, che la ponderazione della probabilità avvenisse sulla base delle intenzioni di voto (o della loro variazione) dei diversi segmenti dell’elettorato (intesi quelli che oggi voterebbero PD, M5S, NCD, FI, SEL, etc..) al verificarsi o meno dei diversi elementi.

Valutazione strategie Renzi

AVVERTENZA: l’uso dei numeri permette di scomporre e pesare con maggior rigore i diversi elementi del ragionamento, ma non li fanno diventare veri di per sè. Non bisogna quindi incorerre nell’errore di credere che l’analisi sia vera solo perchè formalizzata in termini quantitativi. I numeri aiutano ad analizzare i ragionamenti e capire se e quanto sono corretti. In questo caso le considerazioni sono state che nell’andare a breve alle elezioni con il sistema proporzionale Renzi comunque ci mette la faccia mantenendo iniziativa politica e dinamismo, non intraprende azioni incoerenti con il suo percorso e le sue dichiarazioni politiche e quindi non perde credibilità ed immagine di novità. Anzi la rafforza facendo una cosa di cui si è spesso parlato, ma non si è mai fatta malgrado permetta un risparmio di soldi pubblici (l’accorpamento di politiche ed europee). Riduce il rischio di un insuccesso alle europee del partito di governo, grazie all’effetto trascinamento delle politiche, che sarebbero diventate una sorta di plebiscito sul cambiamento/rinnovamento del paese (di cui è già l’emblema). Costringe gli avversari politici a prendere posizioni ed impegni chiari nei confronti dell’elettorato, mettendone in evidenza l’eventuale volontà di mantenere lo status quo (come aveva già fatto presentando tre proposte di riforma elettorale che evidenziavano l’effetiva volontà di non affrontare la questione, salvo poi virare sugli accordi ad personam con Berlusconi).
Anche nel caso, probabile, di dover fare un governo di coalizione, avrebbe avuto più libertà nella scelta della compagine di governo e del programma. Che la coalizione fosse più assurda dell’attuale sarebbe stato alquanto improbabile.
Oggi si gioca tutto sul miracolo di realizzare un programma di governo diverso senza cambiare nè la maggioranza, nè le persone.
La “Strategia 2″ risulta preferibile perchè permetteva di trovarsi, alla peggio, nella situazione attuale, senza perdita di credibilità, quindi di capitale politico/elettorale.

Vero che secondo Costa le elezioni erano un’opzione non prevista da Napolitano, ma alla base quali alternative poteva avere? Soprattutto non si può innovare senza eterodossia e per crescere bisogna “uccidere” il padre (in questo caso il nonno).

Concludo con due personali considerazioni politiche:
- In tempi non sospetti ho dichiarato che per il rinnovamento del Paese contavo su Renzi per convinzione, adesso spero su Renzi per necessità.
- Più ci penso è più mi convinco di quanto interessante sia l’opzione della sorteggiocrazia (scusate per il link all’articolo in inglese, ma quello all’Internazionale non c’è).

Pratica della comunicazione digitale: il lancio sul web di Bosco Viticultori.

Chi si aspettava un post politico (lo tengo per la settimana prossima utilizzando Renzi come caso di studio per ragionare dell’analisi di scenario, intanto se volete leggetevi l’eccellente pezzo “Nella testa di Renzi” di Francesco Costa su “Il Post”, di cui condivido l’analisi, ma la trovo incompleta, però non le conclusioni), chi un ulteriore sviluppo del concetto di marketing totale (arriverà).

Invece passo dalla teoria, più volte discussa nei miei post, alla pratica della comunicazione digitale scegliendomi come caso di studio (delirio di onnipotenza oppure onanismo intellettuale? Sempre che le due cose siamo diverse).

Questa settimana infatti ho deciso di portare la presenza della cantina che dirigo sui social networks. Forse parlare di “lancio” è improprio perchè al momento non è prevista alcuna campagna di promozione dei profili (da valutare magari in futuro, secondo l’evoluzione di contatti/likes/followers) e, men che meno, di acquisto di fakes contatti/likes/followers (mai nella vita).

La strategia si basa sul fatto di aver qualcosa da dire e sull’attuale assenza di una voce che esprima il punto di vista di un produttore di una cantina industriale in modo serio, onesto ed aperto.

Attenzione: l’”industriale” non è collegato alla qualità dei vini, che lascio giudicare a ciascuno, ma a dimensioni ed organizzazione rispetto alle cantine artigianali che sono già ben presenti in rete con le loro idee, i loro valori ed i loro vini (che sono poi, come per tutti, la summa in cui si concretizzano idee e valori).

Conoscendomi come persona abbastanza avezza al digitale, qualcuno mi ha chiesto, un po’ stupito, perchè Bosco Viticultori arriva in rete solo oggi, dopo oltre due anni e mezzo che me ne è stata affidata la direzione.

Rispondo riportando il secondo aggiornamento di stato con cui ci siamo presentati su facebook:
Nel 2009 una nuova proprietà, Vi.V.O. Cantine, la più grande cooperativa del Veneto Orientale. Nel 2011 una nuova direzione, Lorenzo Biscontin.
Siamo maturati e cresciuti abbastanza da avere qualcosa di utile da dire.
Per questo da oggi ci trovate qui su Facebook, su Pinterest http://www.pinterest.com/Boscoviticultor/ e su Twitter https://twitter.com/boscovit
Così ci sarà anche più facile ascoltare, come abbiamo fatto fino adesso.

In realtà doveva essere il primo, ma dateci un po’ di tempo per coordinarci.

Il primo aggiornamento di stato (che avrebbe dovuto essere il secondo) è stato questo:
Ha ragione Luciano Pignataro: comunque la si pensi, la latitanza di gran parte dei produttori di vino italiano nella questione Gily-Tessadri ha dell’incredibile. Noi, nel nostro piccolo, ci siamo. Speriamo che serva a smuovere qualche coscienza.
http://www.buonacausa.org/cause/velenitaly-ricorso-in-appello-per-maurizio-gily

(in realtà se andate a vedere l’elenco delle donazioni, le coscienze che speravamo di smuovere ad oggi risultano ancora immobili, facendo apparire il Gruppo Vi.V.O. Cantine al quale appartiene Bosco Viticultori il gigante che non è).

Se vi occupate od interessate di comunicazione digitale, seguirci potrà essere interessante per seguire in prima persona come sviluppiamo la strategia.

Se vi occupate od interessate di vino, seguirci potrà essere interessante anche per quello che diremo.

Invito tutti ad inviarmi osservazioni e critiche senza remore o imbarazzi qui e/o sui profili dell’azienda.

Non mi offenderò nè mi mortificherò, perchè servirà a fare di questa iniziativa un laboratorio aperto a tutti (prima che me lo diciate voi, so già che il sito www.boscoviticultori.it fa un po’ tristezza; è che in questi due anni e mezzo avevo cose più importanti da fare. Domani comincio a metterci le mani per portarlo il più rapidamente possibile ad un livello almeno presentabile).

Ho coniato il “Marketing Totale”. Adesso devo capire che cos’è!

La settimana scorsa alla fine del post sul futuro del marketing mi è uscito il “marketing totale”, più come termine che come concetto. E’ stata una cosa inaspettata, nel senso che io quando comincio a scrivere un post ho più o meno in testa i vari punti, però domenica scorsa il marketing totale è nato da solo come termine per significare la differenza tra i profili social di Katy Perry e Milla Jovovich, o se volete tra il marketing presente ed il marketing futuro.

Però mi è sembrato subito una verbalizzazione che rendeva bene l’idea e quindi l’ho messa già nel titolo. Ma quel’è l’idea?

Questa settimana ci ho riflettuto e le risposte stanno venendo dal basso, nel senso che il termine/concetto “marketing totale” riesce a creare una relazione logica, quindi un sistema, tra diversi concetti che fino ad oggi sembravano sparsi.

Mercoledì un amico e professionista della pubblicità mi ha chiesto la mia visione in quanto cliente di dove andrà/sarà il futuro delle agenzie pubblicitarie. Evidentemente non segue biscomarketing con la dovuta costanza e quindi gli ho fatto una sintesi dei post “Quale futuro per le agenzie pubblicitarie” e “Quale futuro per la pubblicità“. Per spiegarmi meglio gli ho sintetizzato anche il post “L’evoluzione del (bisco)marketing: la P di Place diventa PRESENZA e quella di Promotion diventa PERCEZIONE“.

Lui ha trovato molto valida e giusta la prima (modifica all’enunciato kotleriano), meno brillante la seconda. Gli ho detto che aveva ragione, anche perchè alla trasformazione da promotion a percezione avevo dedicato meno sforzo (leggete il post e capirete). Avevo torto.

Mi rendo conto oggi che alla base dell’evoluzione di entrambi i termini c’è lo stesso concetto e questo concetto è il marketing totale, inteso come l’approccio che guida le strategie aziendali (di marketing) nell’attuale contesto in cui le esperienze del mercato con la marca sono diffuse e perpetue.

Siccome non ha senso re-inventare la ruota, ho cercato dei riferimenti bibliografici e web-o-grafici che mi aiutassero nella definizione del concetto di marketing totale o che magari l’avessero già formulato.

A parte riferimenti al marketing globale in senso geografico ed agenzie che si chiamano total marketing, nell’archivio dell’American Marketing Association ho trovato un solo riferimento che conteneva il termine “Total Marketing” ed era riferito all’AMA 1980 Achievement Award consegnato alla Walt Disney Production.

Estraggo dall’articolo le parole di E. Cardon Walker, al tempo Presidente ed Amministratore Delegato di Walt Disney Production, per i più pigri:
Il total marketing system cominciò nel 1930, due anni dopo il primo cartone animato di Topolino “Steamboat Willie”……. “Con questo sistema sinergico i cartoni animati di Topolino aiutano a vendere il merchandise di Topolino ed attirano lettori alle strisce a fumetti di Topolino ed allo stesso tempo merchandise e strisce a fumetti supportano i cartoni animati.

Chi mi conosce può immaginare il sincero piacere che provo a ritrovarmi in un fumetto ed a ben pensarci era ovvio che sia stato Walt Disney a sviluppare il concetto del marketing totale perchè da sempre la marca Walt Disney cerca di avere un rapporto totalizzante con le persone (i consumatori).

La differenza oggi rispetto al 1980 (per non dire del 1930) è la perdita del controllo da parte dell’emittente (per esempio Walt Disney) dei tempi e dei modi di diffusione dei messaggi e fruizione delle esperienze che le persone avranno con la marca.

Quando dico che le esperienze che le persone hanno con una marca sono diffuse intendo sia in senso geografico che di modalità. Non è che il passaparola prima non esistesse, ma oggi ha un’estensione in termini di forza e rapidità di diffusione e di possibilità di modificare/distorcere il messaggio originario senza paragoni. Già nel 2007 a tre mesi dal lancio ci siamo trovati uno dei video virali di Keglevich in una trasmissione della televisione russa sui video più divertenti della rete (il fatto che i video fossero muti NON era casuale).

Attenzione però a ridurre tutto al solo digitale: anche uno che a carnevale si mette un “chiodo” con l’immagine del teschio sulla schiena e la maschera di Pippo in testa rende l’esperienza della marca più “diffusa”, esponendo un determinato numero di persone ad una diversa/distorta esperienza della marca. Se poi qualcuno con il telefonino lo fotografa e lo posta ecco che il tutto viene moltiplicato dalla forza del digitale.

Digitale che è invece l’elemento determinante della perpetuità dell’esperienza della marca visto che lo spot virale Keglevich è ancora su youtube e continua a ricevere nuove visite.

Ecco perchè l’evoluzione in contemporanea verso i concetti di Presenza e Percezione è stat inconscia, ma non credo sia stata casuale. Ed ecco come il concetto di marketing totale chiarisca l’importanza di un identità solida, sviluppata coerentemente nel tempo.

Il filone del marketing totale è appena iniziato. Aspettative altre puntate.

Alla prossima.

Il futuro del marketing spiegato da Katy Perry e Milla Jovovich, ovvero il marketing TOTALE.

A Natale mi chiama un’amica ed ex-collega per farmi gli auguri, chiaccheriamo del più e del meno e lei ad un certo punto mi fa “Lorenzo ti dò uno spunto per un post: esiste ancora il marketing?”

L’argomento è monumentale e quindi ho deciso di affrontarlo dal lato pop. Il bello è che avevo deciso titolo e taglio del post già da una settimana e questa mattina sul sito de “La Stampa” mi trovo la notizia che Katy Perry è la prima persona a superare i 50.000.000 di followers su twitter. Fortuna o segnale che sono ancora in grado di cogliere lo zeitgeist?

In realtà la questione di se e come esista ancora il marketing l’ho già affrontata in diversi post nel corso degli anni. Ho provato qui sotto a fare una bibliografia sintetica: mi sono venuti i brividi accorgendomi che alcuni risalgono al 2007 e che non trovo più quelli scritti nel 2006, tra cui il primo che era il fondamento del blog.
Teoria e tecnica della comunicazione digitale; 05/01/2013
Quale futuro per la pubblicità? 28/10/2012
Marketing marketing myopia; 3/06/2011
Terapie contro la marginalizzazione del marketing; 19/09/2010
La marginalizzazione del marketing non ha toccato il fondo; 14/09/2010
(Quando) imploderà il marketing? 28/02/2010
A che punto è la notte? 4/11/2009
Kotler marketing for results n.5 e ultimo; 16/12/2007
Il rinascimento del marketing? 24/07/2007.

Torniamo a Katy Perry che, secondo me, rappresenta (un ottimo) marketing presente.
Il posizionamento trasmesso dai video nel corso di questi 5 anni è stato attuale, originale, e differenziante. I video comunicano un’immagine di Katy Perry un po’ freak, meno omologata rispetto ai soliti artisti pop, ma sostanzialmente innuocua (si tratta pur sempre di un prodotto di consumo di massa). Guardate e ditemi se siete d’accordo “Hot N Cold”, “U r so gay” “California Gurls” “Roar – lyrics video”.
Soprattutto è un comportamento confermato da Katy Perry nelle sue apparizioni pubbliche. Qui poco importa che sia dovuto al fatto che Katy Perry abbia abbastanza controllo sullo show business per fare quello che vuole, oppure al fatto che lo show business abbia trovato condivisibile il modo di essere di Katy Perry o, infine, che Katy Perry sia una grandissima attrice che recita benissimo una parte (io comunque propendo per la prima ipotesi; riuscirò anch’io a tornare a vivere come se fossi un cartone animato!).
Fin qui tutte cose fatte bene, ma niente di nuovo.
La principale lezione da imparare è che il marketing oggi è digitale o non è. Affermazione quasi banale, ma, soprattutto in Italia, temo ancora necessaria. Nel 2006, praticamente preistoria, ai tempi del lancio del sito YourFun per Keglevich cercavo di spiegare al mio Amministratore Delegato che era sbagliato e fuorviante distinguere tra reale e virtuale perchè tutto poi succede nella testa della persona, che è unica. Molto meglio utilizzare i termini on e off line e solamente per distinguere le specificità operative dei diversi ambiti piuttosto che quelle strategiche (con la stessa logica per cui si fanno distinzioni su base geografica).
La ragione è presto detta: oggi Katy Perry può mandare un messaggio a 50.000.000 di persone a costo zero, disinteressandosi di pianificazione media e comunicati stampa. Per di più 50.000.000 di contatti tutti in target al 100% (come dite? Che tenendo conto dei fake il numero effettivo è più basso? Perchè credete che durante i breack pubblicitari tutte le persone rilevate dall’auditel siano sedute sul divano a guardare lo schermo?).
L’implicazione del mondo digitale, dove vivono persone digitali, è che il marketing oggi è personalizzato (dopo Nutella, si stanno diffondendo gli imitatori di Coca Cola nella personalizzazione di prodotti di largo consumo). Le tecnologie lo permettono ed i consumatori se lo aspettano.
E’ questo che permette di stabilire i famosi legami emotivi tra le marche e le persone.
Il limite del marketing di Katy Perry oggi, dico io, è nei contenuti sostanzialmente istituzionali della comunicazione. Se guardate il profilo facebook trovate quasi esclusivamente aggiornamenti di stato che comunicano concerti, uscita del disco e vari eventi legati alla cantante Katy Perry. Pochissimi riferimenti alla persona.
Su twitter si trova qualche notizia/opinione/impressione personale in più, ma la sostanza non cambia. Tra l’altro io NON sono d’accordo di tenere twitter separato da facebook (concordo invece sul tenere facebook separato da twitter), se non altro per la forte sovrapposizione dei contatti tra i due social.
Sembra quasi che la persona Katy Perry sia più evidente nelle sue apparazioni fisiche che nella presenza on-line. Potrà continuare così o dovrà evolvere verso il futuro del marketing?
Il futuro del marketing è Milla Jovovich!
- Perchè il futuro si basa tutto sui contenuti e quindi bisogna avere qualcosa di interessante da dire.
- Perchè il futuro si basa si basa sulla definizione chiara e completa della propria identità in modo che i consumatori (le persone) a cui interessa se ne accorgano quando li incrociamo.
- Perchè il futuro si basa su una perdita del controllo (del contesto) della marca, gestibile solo con un’identità che sia anche solida perchè autentica.
- Perchè il futuro si basa su legami paritetici tra marche e persone, ossia tra persone e persone.

Tutto questo lo trovate nel profilo facebook di Milla Jovovich.
quando l’ho visto sono rimasto stupefatto. Sembra il mio, nel senso che sembra quello di una persona qualunque con le foto dei bimbi, della settimana bianca, dei colleghi di lavoro.
Dà veramente l’impressione che come me e voi Milla Jovovich utilizzi facebook per condividere pezzi di vita con i suoi amici, non importa che poi li vedano anche gli oltre 3.000.000 di fans. Anzi li fa diventare davvero “amici” ad un diverso livello di amicizia.

Io davvero non mi spiego come sia riuscita a far accettare alle case di produzione ed i colleghi la pubblicazione di tutte le istantanee del “dietro le quinte”.

Non credo che oggi ci siano aziende in Italia (e forse anche nel mondo) in grado di accettare e praticare una simile trasparenza.

Il bello è che molto probabilmente vedere Milla Jovovich cadere in moto nelle prove del film non toglie mistero al film, ma anzi aggiunge curiosità nel vedere alla fine come è venuta la scena.

Il futuro del marketing quindi è il marketing totale, ossia quello in cui l’esperienza della marca mantiene sempre le promesse, in ogni luogo ed in ogni momento.

Per tornare alla domanda iniziale: il marketing totale è ancora marketing? Ognuno si risponda da sè, se ritiene che la risposta abbia importanza.

P.S. Prima di essere accusato di scrivere post sessisti, eccovi il profilo facebook di Justin Bieber. Direi da marketing presente più che futuro.

Cliente si, #coglioneNO. (Quasi) vent’anni di esperienze nei rapporti con creativi.

Questa settimana avevo bisogno di un post leggero, defaticante, dopo lo sforzo di confrontarsi con un tema come la visione per il futuro del Paese di Farinetti.
Prendo allora spunto dalla campagna #coglioneNO, su cui mi sono già espresso con un tweet “Com’è che le agenzia di pubblicità non mi hanno mai proposto una campagna a basso costo così efficace? Cliente sì #coglioneNo.”
La campagna è già stata ampiamente commentata da diversi punti di vista. Qui di seguito i link ai primi risultati che appaiono su twitter: Wired, minima&moralia, il post, blog del Corriere, osservatori esterni, le parole e le cose con un post del 2012 coerente con il tema della campagna.

Pare che i media abbiano già consumato l’argomento, sicuramente più di quanto immaginavo. Cosa posso aggiungere io? Il punto di vista, finora assente, di chi da quasi vent’anni paga per servizi di creatività.

Ho iniziato a fare il cliente di agenzie nel settembre del 1994 e, se mi sono ricordato di tutti, in questi anni ho lavorato con almeno 20 agenzie pubblicitarie (che hanno fatto anche grafica, Pubbliche Relazioni, attività promozionali), 10 agenzie di Pubbliche Relazioni e 7 studi di design. A questi vanno poi aggiunte le agenzie che ho analizzato durante le selezioni per decidere a chi affidare i lavori, e altre strutture a minor intensità di creatività come le agenzie di oggettistica promozionale, i centri media, le case di produzione cinematografica e gli istituti di ricerca di mercato.

Si è trattato di strutture di tutti i tipi: multinazionali, nazionali, locali; agenzie affermate ed agenzie che iniziavano.

Diciamo in sintesi che ho visto un po’ di situazioni e sono stato testimone di un po’ di cambiamenti.

Nel 1994 c’erano ancora aziende che nel selezionare l’agenzia a cui affidare una campagna faceva una gara retribuita, a cui però le agenzie si presentavano con la campagna fatta e finita e declinata su tutti i mezzi (TV, radio, stampa).

Il compenso dell’agenzia era una commissione del 15% sull’importo dei costi della pubblicità, sia i costi di produzione che quelli di acquisto degli spazi pubblicitari. Questa % era uguale per tutti e nessuno nemmeno pensava che potesse essere oggetto di contrattazione. Se non ricordo male, era normale che l’editore fatturasse al cliente e poi versasse direttamente il 15% all’agenzia.
Se l’anno dopo si utilizzava la stessa campagna,la provvigione rimaneva sempre del 15%, anche se non c’era stato alcun lavoro creativo.
Le campagne rimanevano sempre di proprietà delle agenzie, i clienti in un certo senso le “affittavano”.
Erano i tempi descritti da Silvio Saffirio nel suo libro “Gli anni ruggenti della pubblicità”.

Poi si è iniziato a prevedere una scala sconti legata all’ammontare del progetto. Ricordo un contratto fatto ancora in lire per cui si arrivava all’11% di commissione nel caso di un investimento di 1.000.000.000 di lire (che bei numeroni maneggiavamo una volta). Le commissioni sui costi di produzione hanno cominciato ad abbassarsi fino ad attestarsi intorno all’8%.
Ovviamente con questa nuova situazione gli editori hanno cominciato a fatturare ai clienti i costi degli spazi al netto del 15% di agenzia (che è rimasto come retaggio del passato, tipo la campana che apre le contrattazioni a Wall Street) e le agenzie hanno iniziato a fatturare direttamente ai clienti, sulla base delle % definite nei contratti.

Circa nello stesso periodo si è iniziato a fare contratti che prevedevano un compenso fisso in base alle attività previste, come è sempre stato nel caso di agenzie di PR e studi di design.

I ricavi pubblicitari hanno continuato a crescere fino al 2008, secondo le rilevazioni dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ma l’aumento dell’offerta di servizi di comunicazione era probabilmente cresciuto di più perchè intorno al 2005 le commissioni di agenzia oscillavano tra l’8% ed il 4% a seconda del budget pubblicitario e del fatto che la campagna fosse nuova oppure venisse ripetuta.

Basta l’eccesso di offerta attuale, complice anche una domanda calante, a spiegare la commoditizzazione dei lavori creativi che porta (tante) aziende a scegliere solo in base al prezzo fino al limite di puntare a non retribuire i servizi di cui hanno bisogno? Secondo me da solo non basta perchè un lavoro fatto male costa comunque. Un folder fatto male significa meno vendite, un evento mal organizzato implica comunque dei costi vivi, un’etichetta sbagliata abbassa il posizionamento del prodotto.

La percezione di assoluta fungibilità tra le diverse opzioni di servizi creativi (ma se volete parlate con un avvocato, la stragrande maggioranza ha lo stesso problema) che porta a scegliere solo in base costo, portandolo possibilmente a 0, è un atteggiamento predatorio (estremizzo) simmetrico a tanti anni del medesimo comportamento da parte delle agenzie (ho detto che sto estremizzando). Un po’ non ho la garanzia che pagando (di più) ottengo risultati migliori, un po’ sfrutto la posizione di (maggior) forza adesso che posso.

La situazione (forse) non sarebbe, e non è, così estrema in presenza di un rapporto di effettiva fiducia e collaborazione tra agenzie e clienti. Se i fornitori non ti chiamassero per proporti lo stesso gadget dell’anno prima al 15% in meno (sa, se lavoriamo direttamente possiamo risparmiare), se i designer non proponessero a due anni di distanza le stesse soluzioni scartate per un’altro prodotto facendo finta di niente (Davvero? Scusa ma abbiamo cambiato l’account. Ossia il responsabile clienti, n.d.a.), se non facessero seguire le campagne stampa nazionali agli stagisti (con io che vedendo l’errore nella bozza di stampa gli spiegavo dove si erano sbagliati i creativi rispetto alle proposte e lei che insisteva che no, che assolutamente, che avevano controllato tutto).

Poi c’è un punto che credo sfugga a buona parte dei giovani creativi, un po’ per inesperienza un po’ per scarsa/cattiva formazione: la creatività in sè non è quasi mai l’elemento discriminante nella scelta dell’agenzia con cui lavorare. La discriminante è la capacità/volontà della struttura di dare risposte creative coerenti alle esigenze di comunicazione del cliente in modo continuo e costante nel tempo e nello spazio.

Un reparto creativo qualche buona idea la produrrà sempre, se non altro per statistica, ma è l’impostazione complessiva del lavoro che garantisce che l’agenzia sarà in grado di fornire soluzioni efficaci per me come ha fatto in passato per altri. E quando ho cambiato agenzie (e ne ho cambiate un po’) è stato perchè si era persa la capacità e/o la volontà di sforzarsi per trovare soluzioni originali alle nostre necessità. Gli stessi creativi che mi avevano fatto campagne eccellenti, che vincevano i premi a Cannes con campagne fatte per altri clienti, non erano più in grado di dare a noi risposte altrettanto buone.

E non è vero che non si possano pianificare e misurare efficacia e valore del lavoro creativo nel fornire soluzioni di comunicazione. Però bisogna esserne capaci e non ha niente a che vedere con l’arte.

Concludo con alcune precisazioni:
- non è vero che nessuna agenzia non mi abbia mai proposto campagne a basso costo efficaci. Devo rendere merito a Marco Durazzi di aver sviluppato nel 2005 per Keglevich la campagna virale Your Fun quando dirigeva EuroRSCG 4D (costola di EuroRSCG che si occupava di promozioni e avd digitale).
- non ho mai pagato gli stagisti (a parte il rimborso dei pasti). Ho sempre avuto solo stagisti veri, ossia persone che all’interno del loro percorso di formazione dovevano passare un periodo in azienda. Li ho sempre coinvolti nel lavoro come un qualsiasi componente del gruppo così potevano imparare cosa succede davvero in azienda (si hanno anche fatto le fotocopie quando serviva). Spesso hanno chiesto di prolungare lo stage oltre il tempo previsto.
- non ho mai fatto lavorare gratis nessuno. A volte è stato difficile, perchè con persone veramente alle prime armi, quando ho chiesto un preventivo mi sono sentito chiedere quale era il budget. Ora se tu sei un professionista DEVI sapere quanto vale il tuo lavoro e se io sono un professionista a questa domanda devo rispondere “non c’è budget” e aspettare la tua controproposta. Dopodichè so’ ragazzi e vanno aiutati.
- non discuto (quasi) mai nel merito le richieste economiche delle agenzie perchè ognuno è libero di dare al proprio lavoro il valore che ritiene opportuno, soprattutto quando i costi vivi sono bassi. Le confronto sempre con le risorse disponibili per quel progetto e con il costo di soluzioni che valuto equivalenti.
- per certi lavori per cui le risorse erano limitate, inferiori alla media di mercato, ho segnalato quelle che potevano essere le ricadute di visibilità, addirittura di divertimento date dall’originalità dei progetti. In trasparenza, senza millantare del credito. Questo per permettere all’agenzia di fare una valutazione complessiva, considerando, se volevano, anche questi elementi. Non mi ricordo che mi abbiano detto no, nè che si siano pentiti dal non averlo fatto.
- ogni tanto l’agenzia va “frustata”. Lo dico con rammarico perchè implica fatica e perdita di tempo, ma dopo tanti anni non posso fare altro che ammetterlo. E’ necessario per farla uscire dagli impasse in cui si avviluppa perchè per pigrizia o testardaggine si blocca su punti di vista autoreferenziali. Ovvio che se vi trovate a farlo una volta sì e una volta no è il momento di cambiare agenzia.

Concludo davvero con quello che mi ha detto un giovane e bravo creativo di provincia (e di successo) l’altro giorno quando parlavamo della campagna #coglioneNO “Comunque se quando l’azienda XY mi propose un lavoro a 0 budget (detto in anticipo perchè la chiarezza è un indicatore di serietà ed affidabilità) avessi detto no, oggi non sarebbe uno dei miei principali clienti (paganti)”.

In realtà investire nel proprio tempo è più semplice che investire soldi (che magari, soprattutto agli inizi, sono pochi). Però in tutti i casi bisogna saper investire nel modo giusto.

P.S. mi scuso per il turpiloquio, ma di questo magari parlo un’altra volta.

Ha ragione Farinetti (?): ho visto il futuro (e non sono sicuro sia sostenibile).

Dunque riparto da dove ho finito la settimana scorsa.

L’opinione, qualificatissima, di Oscar Farinetti è che l’attuale ciclo economico durerà fino a all’affermazione di un nuovo modello socio-economico che sostituirà la società dei consumi. Nel frattempo la risposta più efficace sta nello sviluppo delle esportazioni e quindi suggerisce di puntare sui punti di forza del paese e quindi perseguire l’obiettivo di raddoppiare esportazioni e turisti per far uscire l’Italia dalla crisi (definendo le esportazioni come fornitura di beni e servizi a persone non residenti nel paese, il turismo diventa un’attività di esportazione all’interno dei confini nazionali).

Io questo futuro l’ho visto, anzi ci sono cresciuto dentro, e si chiama Venezia (ecco perchè dicevo che l’hanno visto anche molti di voi).

Non c’è dubbio che Venezia rappresenta uno dei maggiori giacimenti artistico-culturali italiani e mondiali (vorrei richiamare la derivazione della parola “giacimento” da “giacere” e quindi la sua intrinseca staticità).

Venezia quindi rappresenta un ottimo caso di studio degli effetti della concentrazione economica sull’esportazione (in questo caso il turismo). Malgrado sia evidente che rappresenta una punta estrema della visione farinettiana (e magari Farinetti, a buon diritto, non sarà da’accordo) è bene ricordare come lo sfruttamento “industriale” del giacimento artistico-culturale veneziano sia relativamente recente e presenti quindi ulteriori spazi di crescita.

Per una volta non cito dati oggettivi ma mi affido ai ricordi personali: trent’anni fa in Rio Terà San Leonardo (tragitto turistico dalla stazione a Rialto) c’erano le bancarelle come oggi, ma erano di frutta e verdura e non di souvenir, sulla Riva degli Schiavoni erano ormeggiati i rimorchiatori della Panfido (malgrado in bacino non passassero le grandi navi), in Punta della Dogana al posto del museo di Pineault c’erano le sedi delle società sportive ed io a Parigi mi stupivo dei bateaux-mouches pensando che a Venezia, con molte più vie d’acqua e molto più da vedere, non c’era niente di simile.

Non si tratta della solita nostalgia dei cinquantenni che appestano fb con i loro ricordi, sono esempi di come sia cambiata la struttura economica verso le attività dedicate al turismo (d’altra parte se trentanni fa arrivando al Colosseo avessimo visto delle persone vestite da antichi romani avremmo chiesto che film stavano girando).

La dimostrazione che lo sfruttamento intensivo del turismo è relativamente recente lo dimostrano gli spazi ancora inesplorati in questo senso, ad esempio il progetto Veniceland.

Il punto oggi non è chiedersi (lamentarsi) se Venezia avesse potuto seguire altri percorsi, troppo difficile ed oramai troppo inutile. La cosa interessante è guardare il caso veneziano e chiedersi se un’economia basata in larghissima misura sull’esportazione è economicamente e socialmente sostenibile.

La popolazione residente del centro storico veneziano, passata dai 95.222 abitanti del 1980 ai 58.991 del 2011 (-38%).
Questi trend demografici sembrano suggerire che lo sviluppo del turismo non è stato in grado di compensare il declino delle altre attività economiche per la società veneziana nel suo complesso.

Io personalmente dubito che riuscirà a farlo in futuro perchè il limite all’ulteriore crescita del turismo è dato dal senso senso di estraneità che crea. Quanto si può sfruttare un giacimento turistico prima che si esaurisca, se non viene rinnovato dalla società a cui appartiene (e qui società potete intenderlo sia in senso di commerciale di azienda che di società umana).

Oramai non sono solo i (pochi rimasti) veneziani a lamentarsi che Venezia è diventata talmente artificiale da sembrare (essere!) un parco di divertimenti: lo dicono anche i turisti. Continueranno a venire o ad un certo punto alla Dineyland di Venezia preferiranno la Venezia della Dineyland (sicuramente meglio organizzata, fruibile, divertente ed economica).

Se avessi i soldi per costruire Veniceland non lo farei a a Venezia (più scomodo, più costoso ed in diretta concorrenza con le pietre originale per un mercato che ha fretta), la costruirei da qualche parte sulla costa meridionale della Cina.

Solito gustafeste? Forse, però la questione Grandi Navi può essere un segnale. E’(ra) una delle ultime frontiere dell’intensificazione dello sfruttamento del giacimento veneziano, rappresenta una fonte importante di presenze ed ha rilanciato l’economia del porto. Ma ha creato il corto circuito per cui io crocerista che godo della vista di piazza San Marco dal ponte della nave che entra in porto, quando poi mi trovo in piazza San Marco sono infastidito dal passaggio della nave successiva.

Alternative? Più che in come produrre più valore aggiunto si entra nell’ambito della sua definizione, misurazione e distribuzione. Si torna al primo punto della sintesi che ho fatto la settimana scorsa del pensiero di Farinetti. Per riprendere la parole di Balasso nel suo discorso di Capodanno (minuto 2:20, se volete risparmiavi il turpiloquio) “… il problema non è l’assenza di lavoro, ma l’assenza di stipendio …”.

Sto leggendo “Perchè le Nazioni Falliscono”. I due autori riportano che l’unico caso in cui l’introduzione di una tecnologia migliore non ha portato ad un aumento della produttività delle persone è stata l’introduzione dell’ascia di acciaio nelle comunità degli aborigeni australiani (una delle civiltà più antiche del pianeta). L’effetto è stato invece un aumento delle ore di sonno grazie al tempo risparmiato con la nuova ascia per procurarsi la stessa quantità di legna necessaria.

Per il 2014 vi auguro di dormire, e quindi sognare, di più.

Ha ragione Farinetti (?)

Finalmente scrivo questo post che mi frulla in testa dallo scorso 6 ottobre, giorno dell’intervista di Oscar Farinetti alla trasmissione “Che Tempo Che Fa”, è che ho più volte annunciato in alcuni post scritti nel frattempo.
Le ragioni di questo ritardo, che confermano la caratteristica/tradizione di biscomarketing come blog “freddo”, sono diverse: la vastità del tema ed il rispetto dovuto ad una persona come Oscar Farinetti mi hanno consigliato di riflettere bene prima di esprimermi, ma, soprattutto, più riflettevo e più continuavo a cambiare idea sul fatto se lui abbia o meno ragione (e chissà che non mi capiti di cambiarla ancora mentre scrivo).
In sintesi alla fine credo che Farinetti abbia ragione sulla sua visione del futuro, d’altra parte possiede una storia personale che consiglia, nel dubbio, a credergli, e che la mia impressione che questo futuro non mi piaccia è dovuta più al fatto che tratteggia un mondo diverso da quello che conosco, piuttosto che da un peggioramento effettivo (la solita nostalgia canaglia per cui i tempi quando eravamo giovani e felici ce li ricordiamo comunque migliori).

Quindi se avete poca voglia o tempo potete anche smettere di leggere qui. Però ci sono una serie di ma (… se preferite “ma ci sono una serie di però”) che non riesco a scacciare. Se siete curiosi mettetivi comodi perchè la loro esposizione sarà piuttosto articolata, tanto che questa volta ho organizzato il post a capitoli per facilitare la lettura (volendo potete anche leggerlo anche a puntate).

Cosa ha detto Farinetti (in sintesi)
Il 6 ottobre 2013 Oscar Farinetti è stato intervistato da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che Tempo Che Fa” in occasione dell’uscita del suo libro “Storie di coraggio – 12 incontri con i grandi italiani del vino”.
Oltre a parlare di vino, ha dato la sua visione sul futuro dell’Italia. Questa è la sintesi che ne ho ricavato io (basata sull’intervista TV, il libro, chiedo venia, non l’ho comprato).
1) Il sud del mondo è destinato ad entrare in crisi (è entrato in crisi) perchè la società dei consumi che si basa sul lavoro e sul salario è diventata dicotomica rispetto all’idea di progresso che si basa sull’invenzione di macchine e robot che annullano posti di lavoro. Su questo sono d’accordo almeno dal 30-06-2013, ma magari torno sull’argomento un’altra volta.

2) Finchè non ci inventeremo un modello sociale nuovo, ce la faranno le nazioni che esporteranno molto. Noi italiani abbiamo 5 vocazioni straordinarie, enormi, che sfruttiamo molto poco, ma abbiamo tutto il mondo che ci cerca. Siamo lo 0,83% dei cittadini del mondo, fuori c’è un 99,17% che ci guarda ed in questo momento tutti vorrebbero mangiare come gli italiani, vestirsi come gli italiani, vedere le nostre opere d’arte, poter venire in Italia.

3) L’export agroalimentare italiano vale 31 miliardi di euro, di cui 4,7 di vino (voce principale) in forte crescita sui mercati esteri. La Francia ha esportazioni di vino pari a quelle italiane in quantità che in euro valgono 11 miliardi. I nostri numeri sono talmente bassi che ci aiutano a crescere.

4) La Francia riceve ogni anno 80 milioni di turisti, l’Italia 45,7.

5) I vantaggi competitivi dei francesi sono la storia, saper fare accoglienza, la migliore organizzazione della Pubblica Amministrazione. A livello di patrimonio artistico ed enogastronomico l’Italia non è inferiore, anzi. Con 3 anni di buon lavoro si può salvare il Paese raddoppiando le esportazioni agro-alimentari e raddoppiando il numero di turisti che visitano l’Italia. Questo implica un aumento di volume d’affari pari a 150 miliardi di euro, quindi 42 miliardi di tasse nette che entrano nelle casse delle istituzioni.

I miei “ma” competitivi, ovvero il mondo è uno e siccome vogliono starci tutti le dinamiche concorrenziali raramente sono a somma positiva
Inizio con i dubbi legati allo scenario competitivo e non con quelli operativi perchè ho abbastanza esperienza di azienda per aver visto con i miei occhi come la forza di volontà di un imprenditore competente (il “coraggio” secondo la definizione di Farinetti) riesca da sola a costruire proposte in precedenza apparentemente inesistenti o finanche impossibili (Le scoperte consistono nel vedere ciò che tutti hanno visto e pensare ciò che nessuno ha pensato. – Albert Szent Gyorgyi via Pier Luca Santoro), in grado di rispondere alle richieste/desideri del mercato meglio di quelle disponibili fino a quel momento. il successo delle nuove idee rende evidente come quelle precedenti siano (fossero) obsolete e destinate quindi a ridimensionarsi in minore o maggior misura (Video killed the radio stars cantavano i Buggles nel 1979).
Eataly è un perfetto esempio in questo senso.
Le logiche competitive che valgono a livello di singola azienda non funzionano allo stesso modo a livello di sistema dove si ha crescita solamente se è positiva la somma dei risultati di tutti gli operatori dello scenario.
In altre parole l’indubbio successo dell’apertura di Eatily a Torino diventa una crescita del sistema agro-alimentare solamente se il suo volume d’affari (per definizione incrementale) supera il calo degli altri negozi in cui facevano la spesa i clienti di Eataly.
Nell’agroalimentare la somma degli effetti competitivi è positiva più raramente che in altri settori perchè, per definizione, tutti mangiano da quando nascono. Una crescita complessiva del mercato è quindi possibile solamente se ci sono più bocche che mangiano oppure se le stesse bocche mangiano di più. Viceversa, ed i trend demografici del nord del mondo vanno in questo senso, lo sviluppo competitivo avviene per sostituzione (lo stesso numero di bocche, o meno, mangiano la stessa quantità, o meno, di cose diverse). Concedetemi, per semplictà di esposizione, di tralasciare per il momento l’effetto prezzo.
L’innovatività del concetto di Eataly è talmente fenomenle da innescare tendenze che superano i confini dei suoi punti vendita: la crescita delle gelaterie Grom, l’inserimento delle bibite Lurisia anche nel mio supermercato Coop, la diffusione della birra Menabrea sono i primi esempi che mi vengono in mente. Però io non è che mangio più gelato perchè vado da Grom invece che da Zampolli.
Però Farinetti parla di raddopiare le ESPORTAZIONI dell’agroalimentare italiano. Al di là del vago senso di colonialismo culturale, le domande sono due: 1) su che mercati? 2) Come reagiranno i Paesi/produttori a cui porteremo via vendite?
Attualmente le esportazioni agro-alimentari italiane sono concentrate nei mercati occidentali, in cui la penetrazione è stata favorita anche dalla presenza delle comunità italiane create dall’emigrazione. Malgrado siano mercati maturi dal punto di vista economico e, nel caso dell’Europa, anche dal punto di vista demografico, sono ancora quelli che mostrano la maggior crescita assulta. Difficile però pensare di raddoppiare i livelli attuali di esportazione. Quindi tutti guardano all’estremo oriente, Cina in primis, per i tassi di sviluppo sia economico che demografico. Rispetto ai paesi occidentali si tratta però di nazioni con culture alimentari molto più ricche e sofisticate, come dimostra il fatto che sono già diffuse in tutto il mondo (senza tener conto che i cinesi in assoluto non mangiano formaggi). In realtà si tratta di paesi in cui è molto più semplice introdurre il vino rispetto agli alimenti italiani.
Su quella che può essere la risposta dei nostri concorrenti ad un RADDOPPIO delle nostre esportazioni, ricordo gli accordi bilaterali che la Cina ha stipulato con Australia e (credo) Cile per una sostanziale riduzione dei dazi di importazione. Segnalo anche che tra le 100 things to watch in 2014 secondo JWT intelligence c’è il vino cinese (la Cina è già il quinto produttore mondiale di vino).
Visto che si parla di vino permettetemi una parentesi. Il vino italiano in maggior crescita in Italia ed all’estero è il prosecco spumante. Le ragioni del suo successo sono sostanzialmente l’immediatezza e la piacevolezza sensoriale (del gusto) e la relativa omogeneità qualitativa tra le diverse cantine. Gli stessi fattori che lo rendono poco interessante per gli esperti e quindi avulso alle classiche (trite) ritualità del mondo del vino. Sarà un caso che tra i grandi del vino intervistatida Farinetti non c’è nessun produttore di prosecco?
Bastano come dubbi? In realtà no, perchè la possibilità di “salvare” il Paese puntando sulle esportazioni è tale solamente se la loro crescita superi il calo di consumi nazionale (nuovamente, il sistema azienda è diverso e più semplice del sistema Paese).
Nel caso del vino questo non si è verificato. Negli ultimi anni si è ridotto il numero di aziende viticole, la superfice dei vigneti e la produzione complessiva di vino (per approfondimenti qui trovate un mio post ospitato sul blog “Vino al Vino” di Franco Ziliani ed altri li potete trovare su biscomarketing) a causa del calo dei consumi interni. In altre parole, negli ultimi anni il settore del vino italiano nel suo complesso si è ridotto. Malgrado la crescita delle esportazioni oppure (anche) a causa dello strabismo del settore nei confronti dei mercati esteri? Io la mia l’ho già detta e la trovate qui.

Le stesse considerazioni valgono in linea di massima anche per quanto riguarda il turismo. 40 milioni di turisti in più in Italia, o sono 40 milioni di persone che prima non facevano turismo, oppure smettono di andare dove andavano prima. Considerando la dimensione dei numeri, e quindi del business, in entrambi i casi i nostri concorrenti nel mercato turistico si impegneranno a fondo per attirare, o mantenere, queste persone. Immaginate cosa significherebbe per l’economia francese perdere non 40, ma anche solo 4 milioni di turisti.

I miei “ma” operativi, ovvero tra il dire e il fare va risolta la questione strutturale
Qui la questione è molto più semplice.
Per raddoppiare le esportazioni bisogna avere la capacità produttiva per farlo.
Rimango nel caso del vino: le esportazioni coprono circa il 50% della produzione vinicola italiana quindi raddoppiare le esportazioni significa aumentare la produzione del 50% (assumendo costante la quantità destinata al mercato interno, altrimenti la crescita complessiva è inferiore e non si raggiunge l’obiettivo). Anche ipotizzando un aumento del prezzo medio unitario del 15% (un’enormità in termini di rapporti competitivi) è necessario una crescita dei volumi prodotti pari al 35%.
Una crescita di questa entità è semplicemente tecnicamente impossibile.
Lo stesso vale per tutti i prodotti a Denominazione d’Origine o Indicazione Geografica (per capirsi Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutto di Parma e San Daniele, ecc..).
Ma anche per gli altri prodotti alimentari appare estremamente difficile, tanto più considerando la continua riduzione di suolo agricolo causata dallo scempio dell’inutile consumo di suolo.
Per il turismo la situazione è meno drastica, ma credo sia comunque necessario chiedersi dove mettiamo e come muoviamo 40 milioni di turisti in più.

Questi i “ma” (i “ma” istituzionali, l’esempio citato da Farinetti che in Francia il vino è controllato da 2 enti mentre in Italia da 10, che forse diventeranno 11, non li considero, perchè la visione/proposta di Farinetti implica il superamento di questi limiti), però, come ho detto all’inizio, alla fin fine Farinetti ha ragione nella sua visione del futuro.

Io ci sono stato (anche molti voi, fidatevi) e la settimana prossima ve lo racconto.

Franciacorta: non è uno spumante, non sono bollicine, è un vino!

Poco fa ho sentito per radio lo spot della Franciacorta (inteso come DOCG, non è così chiaro all’inizio), dove viene definito come “un vino”.

Purtroppo non riesco ad essere più preciso perchè lo spot in rete non lo trovo, nemmeno tra le news del sito del Consorzio (lo so che gli speacker radiofonici sono rognosi con la cessione dei diritti, ma almeno la news che partiva la campagna!).

Ora chiedo al Consorzio (ciao Maurizio), non è che la definizione “un vino” sia un po’ scialba, al di là della genericità già evidente nella semantica?

Oggi come oggi dire “Un vino” non mi pare un concetto particolarmente positivo ed attraente per il consumatore, bene che vada è ininfluente, con il forte rischio che sia deleterio rispetto al percepito di “spumante/bollicine” in generale.

Sicuramente mi sento di dire che è sminuente per la percezione che ha raggiunto il Franciacorta sul mercato in termini di qualità, reputazione ed appeal. In sintesi per il posizionamento che ha nella testa del consumatore e dei portatori di interesse sul mercato(stakeholders come dicono quelli seri). Non mi dilungo su cosa significa “posionamento”, se volete approfondire potete leggere qui.

Detto in altre parole, e volendo parlare per slogan, per me “il Franciacorta è più di un vino” (dopo avere regalato il claim “Conegliano e Valdobbiadene: dove il Prosecco è Superiore” continuo nella tradizione. Si vede che gli spumanti mi ispirano in modo particolare).

Da parte mia per le prossime festività vi auguro di bere vino spumante all’aperitivo, a tutti pasto e con il dessert, perchè le bollicine mettono sempre allegria e vi faranno sentire più felici (l’altro post di oggi sulla felicità lo trovate qui).