Perché le aziende / marche vanno in crisi.

Giovedì scorso ho scritto in anticipo il post per questa settimana. Si intitola(va) “Gli shopping bots stanno rivoluzionando i processi e l’esperienza d’acquisto e dimostrano l’importanza del concetto di Marketing Totale e delle sue implicazioni.”

E’ un bel post ed era già pianificato per la pubblicazione automatica questa domenica alle 19:21.

Poi sabato mattina sono andato a fare la spesa.

Ed all’ingresso del (piccolo) supermercato Coop che frequento mi sono trovato davanti questo espositore natalizio del caffè Illy in offerta.

Espositore Illy natale 2017

Mi sono venuti in mente anche Benetton e Melegatti e quindi non sono riuscito a sfuggire al mio destino che mi vede dedicare, oramai da 10 anni, parte della domenica pomeriggio a scrivere il post di biscomarketing.

Comincio completando l’affermazione del titolo: le aziende vanno in crisi perché smettono di rispettare la propria identità, la propria cultura, i propri valori, in pratica quello grazie al quale hanno creato i vantaggi competitivi che le hanno portate al successo.

Questo è il principale fattore interno che determina i problemi di un’azienda / marca ed è anche il fattore che indebolisce la capacità dell’azienda / marca di anticipare/reagire con successo ai fattori di crisi esterni quali cambiamenti tecnologici e/o nel comportamento delle persone (consumatori), ecc…

Una marca capace di rimanere fedele al proprio spirito, senza per questo essere immobile, ha buone probabilità di convertirsi in una “Supermarca” che trascenderà le tendenze del proprio settore merceologico (per l’approfondimento del concetto di Supermarca potete leggere questo mio post del febbraio 2016).

Per me non è una novità. Sono sempre stato convinto dell’importanza cruciale della definizione chiara ed onesta del posizionamento delle marche come pilastro e come guida di ogni strategia di successo.

Si tratta di una cosa a cui ho sempre dato massima importanza nel mio lavoro in azienda ed è l’aspetto principale in cui opero nella mia attività di consulente.

Eppure le aziende continuano a sottovalutarlo, forse perché sembra una cosa talmente semplice da non meritare importanza. Certo che è semplice, ma (proprio per questo) difficile.

Le dichiarazioni di Luciano Benetton nella recente intervista rilasciata a Repubblica sulla crisi della sua azienda e sulle strategie di rilancio sono illuminanti:

«Mentre gli altri ci imitavano, la United Colors spegneva i suoi colori. Ci siamo sconfitti da soli(N.d.A.: il grassetto è mio). I negozi, che erano pozzi di luce, sono diventati bui e tristi come quelli della Polonia comunista. E parlo di Milano, Roma, Parigi… Abbiamo chiuso in Sudamerica e negli Usa»

«hanno (N.d.A.: riferito ai manager che gestivano l’azienda dopo la sua uscita dai ruoli operativi) smesso di fabbricare i maglioni. È come se avessero tolto l’acqua a un acquedotto. Ho visto cappotti alla russa, con il doppiopetto, il bavero largo, le spalle grosse… di colore grigio sporco. Pensi che hanno chiuso le tin-to-rie!».

Con il senno di poi sembra evidente l’assurdità per un’azienda che si chiama “United Colors” di chiudere le tintorie, però dei dirigenti (che si presume) qualificati ed esperti l’hanno fatto.

E’ giusto ricordare che i problemi di Benetton non nascono dal fatto che il concetto di instant-fashion di cui sono stati gli inventori / pionieri sia entrato in crisi. Tutt’altro: si tratta dell’approccio tutt’ora vincente nella produzione e distribuzione di abbigliamento.

Solo che mentre Zara ed H&M, per fare due nomi, si ispiravano al successo di Benetton, trovando soluzioni di maggior successo, Benetton smetteva di farsi ispirare da se stesso (o di essere fonte di ispirazione, se preferite).

Credo che sia evidente l’enorme vantaggio competitivo in termini di competenze, dimensioni, curve di esperienza, capillare presenza sul mercato, (potenziale) capacità di ascoltare i consumatori, esperienza, ecc… che Benetton aveva sui concorrenti che oggi lo hanno superato quando questi concorrenti sono partiti.

Patrimonio completamente dilapidato nel giro di 10 anni (se la “nuova” strategia di rilancio sia effettivamente nuova oppure una minestra riscaldata è un tema in cui qui oggi non entro).

Attenzione che non è sufficiente il mantenimento della gestione famigliare per assicurare la coerenza tra visione e gestione. Il figlio di Luciano Benetton è stato presidente dell’azienda dal 2012 al 2014. E’ necessario formalizzare l’identità attraverso un lavoro di (psico)analisi dell’azienda / marca, per poterla poi trasferire nel tempo e nello spazio

Forse ancora maggiore era il vantaggio competitivo di Melegatti indipendentemente dal brevetto del pandoro nel 1894 chiunque ha almeno 45 anni sa che fino agli anni ’80 il pandoro era solo Melegatti. E non si trattava di uno slogan, era un dato di fatto. Ve lo dice un vecchio bambino degli anni ’70 che, minoritariamente ai tempi, non mangiava il panettone.

Le cose sono cominciate a cambiare a partire dagli anni ’80 (grazie?) all’arrivo di Bauli sul mercato nazionale (sull’invenzione del pandoro Ruggero Bauli diceva “Chi l’ha inventado non se sa, ma el pandoro Bauli lo gò inventado mi”), seguito poi da Paluani.

Quindi anche qui ci troviamo in un settore in crescita, in cui il pioniere si è perso in strategie che rincorrevano il mercato invece di lavorare sulla propria proposta per aggiornarla ed affermarla. Qui trovate il mio post di 2 anni fa (tempi non sospetti) E se il problema principale di Melegatti fosse la qualità del prodotto e non comunicazione e posizionamento?”

E arriviamo, brevemente, ad Illy. A partire dagli anni ’90 e per almeno vent’anni Illy è stato il riferimento nel settore del caffè per tutti: consumatori, baristi, produttori concorrenti.

Ha costruito il proprio successo diffondendo la cultura del caffè basandosi sull’eccellenza in ogni aspetto. Massima qualità intrinseca del prodotto, conoscenza assoluta e trasferimento delle conoscenze per utilizzarlo al meglio (ossia su come fare il caffè, vedi “Università dell’Espresso”) e stile che (s)confina con l’arte.

La qualità intrinseca è stata messa in discussione con le capsule (area di affari in cui tra l’altro ha tradito/abbandonato i principi con cui aveva dato vita al progetto delle cialde E.S.E.) ed in quanto a stile, la foto all’inizio di questo post parla da sola.

La pressione del mercato, una certa uggia che subentra al fare sempre le stesse cose, la voglia di novità portata dalle nuove persone che entrano in azienda, sia per un naturale modo diverso di vedere le cose sia per provare a se stessi ed agli altri di cosa si è capaci. Sono tutti fattori che tendono a minare la coerenza intrinseca della gestione e, soprattutto, la coerenza con l’identità / spirito / personalità della marca.

Ma sono tutte scorciatoie faticose ed in cui è facile perdersi.

Siate onesti con voi stessi, così la vostra proposta sarà autentica ed i consumatori vi troveranno. Siate confusi o, peggio, falsi ed i consumatori scapperanno per quanto li cerchiate e li blandiate.

Onestà, autenticità, coerenza non significano fissità ed immobilismo.

Come sa chiunque sia stato al timone di una barca a vela con il brutto tempo (ad esempio navigando di bolina per tornare da Melilla, enclave spagnola sulla costa mediterranea del Marocco, a Motril, porto vicino a Granada, con mare forza 5) per mantenere la rotta bisogna continuamente aggiustare il timone e regolare le vele.

Si impara più rapidamente in barca, dove l’effetto degli errori ed i relativi rischi si vedono subito, che non in azienda. Però, se non si impara, si naufraga uguale (oppure si chiama un consulente, che sia bravo mi raccomando).

Segmentare, targhettizzare, posizionare ai tempi del marketing totale.

Giovedì e venerdì ho tenuto due lezioni su “L’impostazione del brand” al Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino organizzato a Firenze da Wine Job.

Siccome in questo ultimo paio d’anni mi sono reso conto che ho la tendenza ad affrontare le tematiche di marketing sempre da un punto di partenza piuttosto avanzato, nel preparare le lezioni sono andato a riprendere gli appunti del primo corso di gestione del marketing che ho insegnato nel lontanissimo 1992 (24 anni fa! Brividi!).

La cosa è stata utile ed anche interessante: mi sono reso conto che in questi anni ho acquistato in esperienza, e forse, in profondità, ma ho perso in chiarezza e rigore.

Ad ogni modo le lezioni mi sembra siano andate bene (poi diranno gli allievi con la loro valutazione). Quindi ho fatto un salto sulla sedia quando oggi leggendo Marketing News ho trovato l’articolo dove l’emerito professor Schultz dichiarava sorpassato il modello STP, ovvero Segmenting, Targeting e Positioning.

Roba vecchia secondo lui, innanzitutto perché si tratta di concetti definiti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso (maledetti rottamatori, continuano a venir fuori dove meno te li aspetti).

Ohibò, mi sono detto, vuoi vedere che ho insegnato delle cose che valgono più? Proprio io, che mi sono inventato il concetto del Marketing Totale proprio per avere un quadro teorico per guidare la gestione di marketing nell’era digitale?

Poi ho continuato a leggere e mi sono reso conto che io ed il Prof. Schultz diciamo cose molto simili, solo che io continuo ad usare i vecchi termini (reintepretati) mentre lui ne usa di nuovi.

Poco importante in questo caso, mentre importa quello che diciamo. Ecco quindi quello che dico io (se volete leggere quello che dice lui iscrivetevi all’American Marketing Association, o almeno registratevi nel sito).

 

Il positioning oggi viene cronologicamente prima del segmenting e del targeting.

Il posizionamento di una marca era, è e rimarrà quello che la marca rappresenta nella testa delle persone.

Quello che è cambiato rispetto agli anni ’70 è che si è passati da un mercato in cui le marche andavano alla ricerca dei consumatori ad un mercato, oggi, in cui sono i consumatori a trovare le marche.

Allora la definizione del posizionamento da parte dell’azienda (operativamente la definizione del positioning statement) non si fa dopo positioning e targeting sulla base delle aspettative (presunte) dei mercati obiettivo, ma si fa PRIMA sulla base dell’identità aziendale.

L’autenticità infatti è cruciale per farsi trovare dalle persone nei posti e nei momenti giusti” ed ancor di più per soddisfare in modo credibile e quindi durevole.

Però, come mi ha chiesto uno studente, se il posizionamento reale è quello che dà il consumatore, perché parlo della necessità da parte dell’azienda di definire il proprio posizionamento come DEL pilastro su cui poggia tutta l’attività di marketing?

Perché l’obiettivo ideale, e quindi mai realizzato al 100%, è quello che la percezione della marca che abbiamo noi azienda che la marca la “facciamo” e quella che hanno le persone che la usano, corrispondano.

 

La segmentazione per essere efficace DEVE partire sempre dal comportamento delle persone, idealmente dai benefits (servizi) che cercano nell’uso dei prodotti.

Le persone consumano sempre servizi, più o meno incorporati in prodotti fisici.

Sono i desideri/bisogni che vogliono soddisfare a determinare i servizi che ricercano in un prodotto e quindi quali sono i prodotti concorrenti.

Dai benefici attesi deriveranno in larga misura le occasioni, le modalità, i livelli d’uso e l’atteggiamento nei confronti della marca/prodotto.

Sarà quindi il grado di omogeneità nei confronti di uno o più di questi parametri a costituire la base su cui definire un segmento.

Bisognerà poi vedere se oltre alla volontà di acquistare/consumare, i segmenti individuati posseggono anche la capacità, innanzitutto economica, di consumare. In altri termini se hanno una rilevanza economica sufficiente rispetto alla struttura ed agli obiettivi aziendali.

Se c’è questa rilevanza economica, per rendere operativo il segmento passando al targeting è necessario trovare i modi per accedervi in termini di comunicazione e/o vendita. E l’accessibilità di un segmento viene ancora determinata in buona parte dalle caratteristiche geografiche, demografiche e psicografiche delle persone che lo compongono.

 

Il targeting oggi riguarda principalmente i modi con cui ci si rivolge ai segmenti, mentre i contenuti (di fondo) sono legati all’identità della marca (e quindi al positioning a priori).

Il targeting è la globalità delle azioni con cui la marca si rivolge ai segmenti individuati. Per questo da un po’ di tempo io preferisco utilizzare il termine audiences invece di target markets

Il complesso di azioni riguarda tutto le attività del marketing mix: prodotto, prezzo, presenza (accezione che prende la P di Place nell’approccio del Marketing Totale) e percezione (accezione che prende la P di Promotion nell’approccio del Marketing Totale).

Non commettiamo ancora il classico errore di considerare marketing=comunicazione (o peggio ancora pubblicità).

Perché il targeting sia efficace, le strategie devono riuscire a far comprendere l’identità della marca alle audiences alle quali si vuole rivolgere.

La realizzazione delle strategie riguarderà quindi soprattutto le modalità verbali, visuali o reali con cui la marca si rivolge (o si fa trovare, è quasi la stessa cosa) alle audiences.

Viceversa riguarderà solo limitatamente i contenuti fondanti del concetto della marca. Al massimo potrà selezionare tra i diversi contenuti che la definiscono quali sono più interessanti / comprensibili per le diverse audiences.

Sempre avendo ben presente il rischio di incoerenza oppure di banalizzazione, che porta alla perdita di credibilità.

E’ per questo che le marche sono tanto più solide quanto più larga è la loro personalità.

 

Qui mi fermo perché il post è già abbastanza lungo e, soprattutto, è già abbastanza tardi. Se qualche concetto non vi è chiaro perché non è stato sviscerato abbastanza, cercate nel blog e troverete almeno un post specifico dedicato alla maggior parte degli argomenti di oggi.

Il valore della parsimonia: Ravelli Zero philosophy.

 

Oggi biscomarketing è listato a lutto in omaggio alle vittime degli attentati di Parigi e di tutte le vittime del terrorismo.

 

Il 31 agosto del 2014 nel post “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 3: le politiche di prodotto” segnalavo la tendenza alla “parsimonia” e scrivevo “La competizione che spinge a contenere i costi e l’attenzione alla eco-compatibilità da parte delle persone, premierà le aziende che sapranno operare con parsimonia.”

Sono andato a riguardarmelo l’altro giorno dopo che ho sul giornale ho trovato questa pubblicità della ditta Ravelli incentrata sulla “Zero philosophy”.
ravelli o philisophy

Mi è sembrato un segnale ed una conferma interessante di un atendenza che sento tanto forte come nuova ed alquanto disruptiva rispetto al passato.

Anche se ovviamente declinata nei benefit positivi “Zero limiti, infinite possibilità”, “Zero manutenzione, infinito tempo libero”, “Zero rumore, infinito silenzio” (qui i creativi erano un po’ a fine turno), non deve sfuggire la peculiarità della valorizzazione della marca basta su un concetto per cui “meno è più”.

La storia dello sviluppo economico degli ultimi 100 anni, ma potrebbero bastare anche gli ultimi 50, è una storia di conquista dell’abbondanza in cui il “più è più.

il valore dello zero rappresenta una vera e propria inversione culturale: “km 0″, “0 emissioni”, “0 solfiti” (nel vino), “Coca Cola 0″ (nel trend c’entrerà anche Zerocalcare?).

Una tendenza più che una moda, visto che sta proseguendo anche dopo la crisi economica che ha riportato in auge il lusso da un parte ed i concorsi a premio più imeediati e semplici dall’altra.

Mi è già capitato in una cosnulenza di sottolineare la parsimonia e chiedere all’azienda quale assenza era in grado di fornire al mercato.

Mi viene in mente una vecchissima, sciocca battuta: “Siate parchi, come il Parco Nazionale dell’Abruzzo”

Amici, nemici e semplici conoscenti

Mi è scoppiato l’embolo politico e non si rimargina più.
Però siccome questo vuole rimanere un blog di marketing, non parlerò di Fioroni-Minetti-Polverini-Berlusconi-Fini-Squinzi per onestà intellettuale nei confronti miei e dei lettori.
Parlerò invece del numero di Dunbar, perchè la settimana scorsa ho letto un’intervista a Robin Dunbar su “Il Piccolo” di Trieste e mi stupisce sempre trovare conferme scientifiche e serie ad alcuni miei personali (nel senso che me li sono creati da solo) generici concetti antropologici e sociologici. Metafisica da portinai l’avrebbe chiamata Saint Exupery, affermazione che aasume tutta un’altra valenza da quando è stato pubblicato nel 2006 “L’eleganza del riccio” .
Robin Dunbar è un antropologo in glese che alcuni anni fa ha definito in circa 150 il numero massimo di amici, ovvero “relazioni umane significative”, che un individuo di specie umana può avere. Il cosiddetto numero di Dunbar.
Questo risultato è basato sia su ricerche paleo-antropologiche (tribù preistoriche di cacciatori, censimenti inglesi dell’alto medioevo) che su “conferme” (il virgolettato e mio, se c’è qualche scienzato in ascolto può dimostrare che vanno tolte) di neuro-fisiologia. Il numero di Dunbar infatti è legato allo spessore della corteccia orbitale frontale, dove vengono prese le decisioni di alto livello.
E’ quindi un numero specifico, nel senso che è legato alla specie umana, e non individuale.
Di conseguenza “… noi umani abbiamo una riserva limitata di emozioni da spendere. Possiamo consumarle in quantità minime, ma in molti rapporti. Oppure investirne in quantità cospicue, ma con pochi.”. Ed è qui che mi sono stupito perchè molti anni fa, tanti che oramai non ne parlo quasi mai, mi sono fatto l’idea delle emozioni di ognuno come di una superficie rettangolare data, in cui possono variare le lunghezze dei lati che rappresentano il numero e l’intensità delle relazioni. Quindi, geometria elementare, se aumenta la lunghezza del lato “intensità” deve per diminuire di conseguenza la lunghezza del lato “numerosità” e viceversa. Non mi ero posto la questione se questa superficie data e costante è individuale o specifica, adesso Dunbar mi ha dato la risposta.
Al di là che questo argomento sia, apparentemente, collegato ai social networks del web 2.0 (mentre in realtà lo è solo in parte), cosa c’entra con il marketing?
Secondo c’entra in base al tipo di rapporti che le marche vogliono stabilire con le persone. Secondo le parole di Dunbar, gli “amici” sono le persone con cui si stringe una relazione reciproca che include obblighi, fiducia e buonafede.
E’ indubbio che le marche di maggior successo nel lungo periodo sono sempre state quelle che sono riuscite a stabilire un rapporto di amicizia (volutamente senza vigolette, adesso che c’è una definizione a cui riferirsi) con i loro clienti. Ed è altrettanto indubbio che nella situazione di eccesso di offerta che contraddistingue moltissimi settori in moltissimi mercati, la capacità di costruire questo rapporto di amicizia diventi sempre di più un must piuttosto che un plus (per approfondimenti al concetto segnalo due miei vecchi post qui e soprattutto qui).
Allora (mi) consiglio di tenere sempre bene in mente che l’amicizia si basa sulla reciprocità di obblighi, fiducia e buonafede (repetita iuvant). Se l’avessero avuto chiaro anche i signori che si occupano della comunicazione di Parah non avrebbero organizzato la sfilata con la Minetti (ma qualcuno sa dirmi chi era l’agenzia, così evito di correre il rischio di lavorarci in futuro?).
C’è poi un’altra implicazione di marketing, legata al concetto del numero di Dunbar: se io come marca punto a costruire un rapporto di amicizia con i miei clienti, rientro anch’io nel numero massimo di rapporti che una persona può mantenere?
Secondo me sì, e questo implica un limite teorico al numero dei clienti. E’ vero che 150 amici è un numero tutt’altro che basso, però è anche vero che i social networks permettono di mantenere un numero maggiore di amicizie rispetto al passato.
Forse le marche potranno imparare da Bonvi e puntare a diventare, per i loro clienti, “semplici conoscenti”.