Il neuromarketing produce packaging orientati al “clickbaiting” più che al coinvolgimento?

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Premessa: questo post si preannuncia un po’ confuso e astratto perché nasce più da sensazioni che da fatti conclamati (quelli bravi avrebbero detto “segnali deboli”), sensazioni che mi hanno stimolato ragionamenti ancora in divenire ed anche piuttosto astratti.

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La forza dell’astrazione ed i rischi dell’assurdo (nel marketing).

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Mercato Markthal di Rotterdam, progettato dallo studio MVRDV a cui appartiene l’architetto Winy Maas.

Recentemente mi sono dedicato in modo particolare a ragionare sull’impostazione della marca, visto che dovevo tenere due giorni di lezione su questo argomento alla Scuola di Specializzazione in marketing del vino.

Di conseguenza mi sono trovato a ragionare specificatamente sulla comunicazione ed in particolar modo a quella grafica, poiché nel vino (italiano) per la maggior parte delle aziende il principale elemento di comunicazione rimane l’etichetta, che ne siano coscienti o meno.

In sostanza di tutte le componenti della proposta di un’azienda / marca che ne formano la percezione, concetto che nella mia visione del marketing totale (link non ne metto, se non siete lettori assidui del blog cercate “Marketing Totale” nella finestra in alto a destra) sostituisce quello di promotion.

Ho quindi passato in rassegna decine e decine di etichette diverse, dalle più didascaliche alle più astratte ed ho visto la perplessità dei partecipanti al corso nei confronti di queste ultime (tenete presente che il vino in Italia è uno dei settori più tradizionalisti o, come dico io, uno dei più noiosi).

Eppure io so per esperienza che un messaggio astratto, quando riesce a “passare”, è un messaggio più forte che colpisce di più l’audience. Sia in termini di rilevanza (ampiezza e profondità) che per memorabilità (lunghezza).

Non essendo un teorico, e meno che meno un filosofo, della comunicazione ho avuto la sensazione di non essere riuscito a spiegare con la sufficiente chiarezza i vantaggi dell’astrazione.

Per questo mi ha colpito la risposta che l’architetto olandese Winy Maas ad una domanda dell’intervista pubblicata su El Pais dello scorso 7 gennaio, che riporto di seguito nella mia libera traduzione:

 

Come si può misurare la qualità di umorismo/divertimento nell’architettura?

A partire da una certa astrazione. Se uno è troppo letterale e perde la sottigliezza non coinvolge lo spettatore. L’astrazione è una chiave riduzionista, un utensile / strumento per la convivenza perché permette di dialogare con altre idee e formalizzazioni.

 

Vedrò di segnarmela per i prossimi corsi. Con l’avvertenza di ricordare che un messaggio quanto più è astratto e tanto meno è immediato, quindi richiede maggiori risorse (denaro e/o tempo) per “passare”. Se non “passa” l’astratto diventa assurdo, che probabilmente è anche peggio del banale.

A cosa serve il marketing (?)

L’altro giorno mi sono incontrato con il Direttore Commerciale di un’azienda per conoscerci e vedere se ci possono essere degli ambiti di collaborazione. Specifico che non si tratta di una cantina; specifico anche che sono bravi perchè hanno il fatturato in crescita ed i conti in ordine.

Io, come sempre, mi propongo innanzitutto come consulente di marketing, le aziende invece (non solo questa) sono interessate prevalentemente alle mie esperienze ed ai miei contatti di vendita.

La cosa può sembrare ovvia, ma per me è sorprendente perchè buona parte dei miei risultati di vendita sono conseguenza anche di una focalizzazione della proposta che partica da un’analisi ed un approccio di marketing.

Detto in altre parole dal rispondere alla domanda che ogni cliente attuale o potenziale di pone rispetto ad un fornitore “perchè devo acquistare i prodotti di questa azienda?” Che è poi la domanda che ha sempre creato più imbarazzo quando l’ho posta all’interno delle aziende, indifferentemente che agissi da dipendente, formatore o consulente.

E nuovamente è sorprendente perchè so è difficile rispondere alla domanda “Perchè un cliente dovrebbe comprare i nostri prodotti”, ma mi sembra ben più evidente che se nemmeno noi stessi non siamo in grado di articolare il nostro vantaggio competitivo, difficilmente potremmo trasmetterlo con successo al mercato. Evitare di porsi le domande chiave solo per paura di non trovare la risposta è un approccio un po’ suicida.

Ma torniamo all’azienda di cui sopra. Il Direttore Commerciale mi mostra i folders con l’assortimento e propone di aggiornarci ad inizio 2015 per valutare una collaborazione commerciale su alcuni mercati.

Io dico “Va benissimo, però se vuole nel frattempo potrei proporle un progetto per rinfrescare alcune etichette che sono un po’ datate, come ad esempio questa.”

Lui “No guardi non serve. So benissimo che questa etichetta è vecchia e che l’immagine dovrebbe essere come questa qui (indica un’altra etichetta, n.d.a.) però ho dei vincoli tecnici nella linea di produzione per cui questo supporto sull’altro prodotto non lo posso utilizzare.”

Io “Il mio lavoro come consulente di marketing è proprio gestire il designer in modo da fare un’etichetta che, con tutti i vincoli tecnici possibili e immaginabili, trasmetta la stessa immagine.”

Morale: le aziende continuano ad avere bisogno delle competenze di marketing, ma è talmente tanto tempo che il marketing si è / è stato ridotto a mera attività tattica a supporto delle strategie di vendita che non sanno più quello che il marketing può (dovrebbe saper) fare.

P.S.: anche se gli ho citato l’esempio del cambio di packaging della Keglevich, quando siamo passati dalla bottiglia in vetro sabbiato alla bottiglia con lo sleeve cambiando totalmente la grafica per mantenere (anzi rafforzare) l’immagine della marca, non credo che mi abbia creduto.

keg vecchia  keg nuova

 

Non c’è 2 senza 3!

In settimana sono stati resi noti i risultati del concorso internazionale del packaging del Vinitaly 2012.

La nuova etichetta dei vini bianchi fermi “Bosco dei Cirmioli” ha vinto la medaglia di bronzo nella sua categoria.

Dopo la medaglia d’oro del 2009 e quella d’argento del 2010, la terza medaglia su tre partecipazioni. (nel 2011 in Santa Margherita non c’erano novità da presentare). Son soddisfazioni.

In realtà però oggi quello di cui sono più orgoglioso è che ho fatto la mia prima gara di salto ostacoli (ovviamente era la gara sociale del circolo dove faccio lezione): netto nella categoria 60 cm (con un tempo un po’ lungo perchè ad un certo punto sono andato a sinistra invece di andare a destra) ed un rifiuto nella categoria 80 cm.

Ecco spiegato perchè anche oggi molto bisco e pochissimo marketing.

Non c’è più Limoncè.

Quando faccio la spesa dedico una particolare attenzione al reparto dei vini e liquori per ovvie ragioni professionali. Ieri ho notato con sconcerto la nuova bottiglia di limoncè, che vedete nella foto qui sotto (non a caso di fianco a Limoncetta di Sorrento).
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Conoscendo bene la storia strategica e di risultati di mercato di Limoncè per averlo “frequentato” 7 anni e gestito circa 4, ho mentalmente ripercorso l’evoluzione dei pack: da qui lo sconcerto.
In ordine cronologico, questo era la versione precedente (in realtà questa è l’immagine del prodotto al momento del lancio nel 1997, poi negli anni il tappo di sughero è stato sostituito da un tappo a vite, la scritta Stock sulla capsula sul collo della bottiglia è stata sostituita da una ripetizione del logo che è evoluto graficamente ammorbidendosi come lo si vede oggi) e sotto si vede il Limoncè ’83 inserito nel contesto competitivo dei limoncelli nel 1997, prima del lancio di Limoncè come lo conoscono tutti.

Ora non entrerò nei dettagli perchè rischio di scrivere non un post ma un blog intero.
In sintesi nel 1997 Stock con Limoncè 83 era già il leader di mercato dei limoncelli grazie alla sua forza distributiva, ma,notando un forte potenziale di mercato inespresso, decide di uccidere quel prodotto (leader di mercato sottolineo una volta di più) per lanciarne uno in grado di dare contemporaneità alla categoria di prodotto.
Limoncè diventa così uno dei più grandi successi nel mercato dei liquori e distillati degli ultimi quindici anni grazie ad una strategia pensata e realizzata con chiarezza e precisione (la fortuna, chissà come mai, accompagna sempre queto tipo di operazioni, mentre scarseggia in quelle strategicamente deboli).
Uno dei principali elementi di differenziazione che hanno costruito l’immagine della marca è stato il packaging sia in termini di forma della bottiglia ovale e allungata, che in termini di logo, in cui l’elemente del limonè diventa parte integrante di una grafica che va in direzione opposta a quelle utilizzate fino a quel momento (anche da Stock).
In poche parole Stock crea il nuovo stile del limoncello, oggi si sarebbe detto un esempio di blue ocean strategy (però il libro non era ancora stato pubblicato).
Con questa modifica di packaging l’attuale management della Stock, dopo l’insulsa campagna TV di due anni fa e l’inutile lancio del liquore Limoncè, fa abdicare la marca al proprio ruolo di leader una volta di più e quindi le dà un ulteriore spinta verso il declino.
I ghirigori su bottiglia e capsula vogliono rimandare ad una generica tradizione (e ricordano stranamente l’immagine liberty del Limoncè 83) ed indeboliscono il logo. Il limone del logo ripetuto sulla capsula è diventato una (confusa) spirale di bucce e su capsula e bottiglia si trovano due frasi diverse ma simili che reclamano la genuinità del prodotto: “Solo Limoni italiani” e “Liquore naturale di limoni”. Excusatio non petita,accusatio manifesta.

Nel frattempo il pack di Limoncetta, da anni il principale concorrente, si è raffinato unendo simpatia ed eleganza nel comunicare il suo plus intrinseco: essere prodotto con limoni di Sorrento IGP.

In sintesi Limoncè ha perso la sua leadership innazitutto concettuale e di stile e si propone con un immagine che va nella direzione di Limoncetta di Sorrento, puntando, goffamente ed inutilmente (visto che è già contenuto nel logo), sul limone quale ingrediente principale della ricetta. Carta che risulterà sempre perdente nei confronti di Limoncetta che in etichetta dichiara nell’ordine “Liquore di limoni di Sorrento”, “l’Originale”, “Ricetta tradizionale per infusione”. Ho solo un appunto da fare ad Averna, proprietari del marchio “Limoncetta” (cosa credavate? Che lo facessero le suore cieche di qualche monastero della costiera amalfitana?): sul sito c’è ancora la foto del pack vecchio.

Se penso che nella proposta che avevo raccomandato per l’aggiornamento del marchio Limoncè nel 2006 il marchio diventatava l’immagine del limone+c’è, forse capite un po’ meglio il mio sconcerto.

Stravecchio Branca: confezione da brividi

Un paio di settimane fa (non un paio di decadi) sullo scaffale del supermercato dove faccio la spesa ho visto questa esposizioni dei nuovi (nel senso di ultimi) astucci realizzati da Branca per il suo Brandy Stravecchio. Magariè un’anticipazione del Natale.

Ad ogni modo la domanda che mi è sorta spontanea è molto semplice: quale gruppo di consumatori (leggi target) in Italia nel 2011 dovrebbe essere stimolato all’acquisto del prodotto da una grafica come questa?

Poi magari è stato un successo di vendita. Io però, che sono malizioso, ho l’impressione che nelle intenzioni dell’operazione ci fosse anche l’idea di spingere ad un collezionamento.

Sinceramente spero per loro che questa operazione sia stata imposta al marketing dall’Alta Direzione (capita a tutti).