Viva Felipe Gonzalez

L’altro giorno leggevo sul supplemento domenicale di “El Pais” un intervista a Felipe Gonzalez. Al di là dell’evidente ed ovvio tono amichevole (un po’ stile vite dei Santi), l’articolo conteneva una serie di fatti e considerazioni estremamente interessanti, anche perchè lo spessore della persona è tanto, molto di più di quanto non si percepisca dal profilo su wikipedia (lo sottolineo solo per chi magari non conoscesse più di tanto quello che ha realizzato Felipe Gonzalez, non sono certo io che posso dare patenti di competenza/importanza a personaggi di questo calibro).
Comunque quello che voglio riportare qui oggi sono le sue considerazioni sulla leadership e prima che si pensi che la cosa riguardi solo chi ricopre posizioni gerarchicamente rilevanti, ricordo che chiunque si trovi nella situazione di dover gestire l’attività di altre persone (anche una sola) è in una posizione di leadership. Non importa se sia stato messo dall’alto (dall’ dall’organizzazione), dal basso (dalle persone che deve gestire) o se ci si è voluto mettere da solo. Una volta che ci trova ad avere la responsabilità di altre persone ci si trova in una posizione di leadership, che piaccia o meno, che la si voglia esercitare o meno (creando in questo caso difficoltà per tutti). Se non si vuole questa responsabilità l’unica alternativa è quella di chiamarsi fuori in modo chiaro e palese, sempre che si possa. In sintesi si tratta di considerazioni che, in misura maggiore o minore, prima o poi, riguardano tutti.
Ecco quello che ha detto Don Felipe Gonzalez (tra parentesi la mie note del traduttore, quando ho aggiunto qualcosa per rendere meglio il concetto):
Nell’ (esercizio) della leadership ci sono alcune regole fondamentali:
Uno: non può essere un leader chi non ha la capacità e/o la sensibilità per farsi carico dello stato d’animo degli altri. Se non ci si fa carico dello stato d’animo dell’altro, l’altro non ti sente vicino, sente che non lo capisci e non ti accetta come leader.
Due: non c’è leadership se non cambi lo stato d’animo degli altri, da negativo a positivo oppure da positivo a più positivo, il che implica credere veramente nel progetto che proponi (come leader), credere nel modo meno mercenario possibile, perchè (questo) ti dà più forza.
(Tre): la capacità di trasmettere quel progetto come un progetto che (attragga e) leghi gli altri, che implichi (impegni) gli altri, cambiandogli quello stato d’animo di cui prima ti sei fatto carico. Però deve essere un progetto che permetta alla gente di pensare che, malgrado tu gli richieda degli sforzi, questi sforzi hanno un senso e li convinci perchè vedono che ci credi (tu per primo). E che ci credi davvero, non in modo mercenario. Uno deve credere in quello che sta facendo.
(Quattro): un’ (altra) delle caratteristiche fondamentali della leadership, alla quale per di più ci si può allenare, è la forza/saldezza emotiva. Non l’intelligenza emotiva di cui parlano i nord americani, quanto la capacità di mantenere la centralità tanto quando le cose vanno molte bene come quando vanno molto male.

Nell’ultima frase mi sarebbe sembrato di dare più correttamente il senso traducendo “centralidad” con “serenità” e non letteralmente, però siccome è anni che dico che la principale qualità di un leader è quella di trasmettere serenità, non vorrei far dire a Felipe Gonzalez quello che ho in testa io. Traduttore – traditore.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 4 (ed ultimo)

Riguardando l’ultimo post mi sono accorto che sono andato un po’ per le spicce, lasciando una indeterminatezza probabilmente eccessiva.
La scelta di cosa e come misurare i diversi fenomeni aziendali e di mercato per migliorare efficenza ed efficacia delle attività di marketing rappresenta infatti la formalizzazione e quantificazione della visione strategica teorica.
Dal percorso teorico che disegno/immagino per arrivare agli obiettivi stabiliti e quindi dai meccanismi con cui ipotizzo che le attività che andrò a realizzare si ripercuoteranno sull’equazione del profitto, deriva la definizione di cosa misurare e come misurarlo.
Quanto più il percorso teorico sarà preciso, tanto più conseguente sarà la definizione delle diverse metriche necessarie.
Tanti anni fa, prima di entrare in azienda (era il 1994) ho scritto un articolo in cui sostenevo che la forza di un marchio più essere descritta riconducendo tutte le sue caratteristiche a due soli descrittori: conoscenza e reputazione. Dopo quindici anni di marketing aziendale continuo ad essere della stessa opinione.
La differenza sta nella direzione del processo:
- in una logica analitica si lavora di sintesi partendo dalla complessità della realtà per ridurla alle due dimensioni di cui sopra, – - in una logica di sviluppo strategico si lavora di espansione, partendo dalle due dimensioni della conoscenza e della reputazione ed esplode in tutte le loro componenti per definire dove e come agire.
Credo sia abbastanza evidente che si tratta di situazioni piuttosto complesse, quindi mi permetto di consigliare di non spaventarsi se le metriche da utilizzare dovranno/potranno essere diverse da quelle usuali e se i metodi sono un po’ più complessi della media aritmetica (potete spaziare dall’analisi statistica multivariata alla neurofisiologia cognitiva).
Chiudo con questo blog la serie sulle terapie contro la marginalizzazione del marketing, sperando, sia per me che per chi legge, di alleggerire un po’ i contenuti dei prossimi post.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 3

Oggi quello schifo di programma che risponde al nome di power point mi si è piantato di punto in bianco (presentazione fatta apporta senza NESSUN elemento grafico per evitare problemi) e così ho perso due ore di pensiero sulle strategie di marketing per il 2011. D’altra parte c’è poco da aspettarsi da un software che non è ancora in grado di fare alcune cose come le faceva harvard graphics vent’anni fa. Lo stesso si può dire comunque anche di word nei confronti di word perfect.
Grazie a Bill Gates quindi non sono proprio nello spirito giusto per scrivere questo post, però una promessa è una promessa e quindi sono andato a rileggermi i due precedenti per recuperare un po’ il filo di questo discorso, che si sta un po’ stiracchiando settimana dopo settimana.
SOLUZIONE N.2: L’EFFETTO DELLE STRATEGIE E TATTICHE DI MARKETING DEVE ESSERE MISURATO.
La misurazione delle attività di marketing, il che implica renderle misurabili, è necessaria principalmente per due motivi:
1. guadagnare maggiore credibilità all’interno dell’organizzazione aziendale.
2. migliorare la propria efficacia ed efficienza attraverso l’applicazione del metodo sperimentale del provare e riprovare ossia l’attivazione del ciclo PIANIFICAZIONE-ESECUZIONE-VALUTAZIONE-RIPIANIFICAZIONE.
Va sottolineato che il primo è un motivo esterno mentre il secondo è un motivo interno. Questo implica che per raggiungere il primo obiettivo non è indispensabile che la misurazione sia effettivamente efficace, è sufficente che l’organizzazione abbia la PERCEZIONE che le attività di marketing non sono arbitrarie, bensì sottoposte ad un qualche tipo di valutazione oggettiva. Può sembrare strano, ma si è visto nel post n.2 come la misurabilità dei risultati delle azioni di altre funzioni aziendali sia più presunta che effettiva.
Il raggiungimento del secondo obiettivo, su cui si fonda nel lungo termine l’effettiva crescita e consolidamento della credibilità richiede invece che il sistema di controllo sia realmente funzionante.
Il primo passo in questo senso è definire COSA dobbiamo misurare e la risposta, in ambito aziendale è abbastanza automatica: dobbiamo misurare gli effetti delle attività di marketing sull’equazione del profitto:
Profitto= Ricavi-Costi; volendo dettagliare ulteriormente
Profitto= ((Ricavo netto unitario-Costi Variabili)* Quantità vendute)-Costi fissi).
Non credo sia il necessario dettagliare ulteriormente l’equazione, ma forse val la pena di ricordare che il ricavo netto unitario è determinato dalla combinazione dei prezzi di listino, degli sconti in fattura e fuori fattura, nonchè dalla quantità di prodotto contenuto nell’unità di vendita.
Più importante è forse ricordare che le unità vendute dipendono dalla diffusione del prodotto nel mercato (distribuzione numerica e ponderata), dalla frequenza di acquisto (occasioni di acquisto) e dalla quantità acquistata in ogni occasione.
Per amor di precisione, ricordo che in realtà non c’è perfetta corrispondenza tra costi variabili/fissi e costi diretti/indiretti.
Infine sottolineo che basta sostituire le quantità vendute con quelle consumate per ottenere l’equazione del consumo invece di quella di vendita.
Potreste anche dire che non serviva che arrivassi io per darvi una lezione di economia elementare, ma, a parte dire che il marketing è la scienza dell’ovvio a posteriori, vi chiedo: quante voltre avete visto definire gli obiettivi aziendali (di qualsiasi funzioni, marketing a parte) legandoli a questi parametri?
Eccoci quindi al COME dobbiamo misurare.
Per il marketing infatti le cose sono un po’ più complicate perchè deve trovare il modo di misurare l’effetto mediato delle proprie attività su quei parametri che determinano l’equazione del profitto. La campagna pubblicitaria che modifica awareness e reputazione della marca che effetto avrà sulle vendite di baseline (fatte in assenza di promozioni) e quindi sui volumi sul ricavo medio unitario?
D’altra parte il grande vantaggio di definire gli obiettivi in base a parametri misurabili legati all’equazione del profitto è la possibilità di seguire lo sviluppo delle strategie mana mano che si realizzano e quindi di poter prendere eventuali azioni correttive. Le quantità vendute sono inferiori al previsto perchè è un problema di distribuzione, di occasioni d’acquisto/consumo o di quantità acquistate/consumate per occasione? Evidentemente le strategie da intraprendere cambiano a seconda dei casi.
Mi spiace dire che non ho (ancora) la risposta deterministica su come misurare. Il marketing agisce in ambiti complessi è cambianti, su fattori interconnessi, spesso in relatione additiva tra loro (esempio banale: la promozione sul punto vendita il cui effetto è moltiplicato dalla contemporanea campagna pubblicitaria e ridotto della riduzione della cpacità di spesa del consumatore). E’ quindi necessario che ogni azienda determini i contorni delle proprie situazioni e definisca le proprie metriche di conseguenza.
Non nascondo che magari ci si troverà a misurare le distanze con i chili oppure i pesi con i metri, me questo è l’unico percorso per arrivare ad individuare le metriche corrette e raggiungere il secondo degli obiettivi esplicitati all’inizio. Il primo nel frattempo l’avremmo raggiunto, ed è già qualcosa.
Per non chiudere lasciando troppo amaro in bocca, ricordo che c’è una misura abbastanza generale, pur senza essere la pietra filosofale della metrica di marketing, ed è il breack-even. Da quanto tempo non lo calcolate quando intraprendete un investimento di marketing? E’ vero che non può essere l’unico parametro di giudizio, ma almeno pianta un paletto da cui partire.
Chiedo venia se i concetti sono un po’ disconnessi, ma la stanchezza è tanta. Magari tornerò in forma quando tornerò ad Apple.

Terapie contro la marginalizzazione del marketing 2

L’altro giorno, dopo aver letto il mio (ennesimo), cahier de dolances, una persona mi ha chiesto: “Ma allora se il marketing è marginalizzato, quali sono le funzioni aziendali che contano?”.
La domanda è più che legittima e trovare una risposta risulta sicuramente importante per individuare le terapie del titolo. Per pfarlo però credo sia indispendabile prima definire cosa si deve intendere per centralità di una funzione (un po’ come per fare strategie di marketing di successo va capito cosa si intende per potere di mercato).
La centralità o marginalizzazione di una funzione e/o di una persona all’interno di una organizzazione dipende dall’importanza/peso che hanno le sue necessità e la sua visione delle cose rispetto alle altre funzioni (persone) nell’allocazione delle risorse economiche, di tempo (quantità e qualità dello staff) e di strumenti per svolgere il compito assegnato.
In questa ottica le funzioni attualmente centrali nella generalità delle aziende (ci sono sempre le eccezioni) sono l’amministrazione-finanza-controllo di gestione e le vendite.
L’altra domanda chiave è come sempre: perchè (queste due funzioni sono centrali)?
Io, ma non solo io, credo che debbano molto della propria centralità alla (presunta) misurabilità delle attività che svolgono.
La misurabilità dell’amministrazione-finanza-controllo di gestione non è messa in discussione per definizione in quanto è la funzione che misura le performances aziendali mentre le vendite sono misurabili grazie alla relazione diretta che si può stabilire tra le azioni (tattiche) di vendita ed il fatturato.
Però io ho scritto tra parentesi che la misurabilità di queste funzioni è presunta. Perchè? (sembro un bambino di due anni).
I dubbi nel caso dell’amministrazione-finanza-controllo di gestione mi nascono dalla semplice constatazione della quantità di analisi et similia, sia ad hoc che routinarie, gestite su foglio elettronico in tutti gli uffici di tutte le aziende. Credo siano una dimostrazione del gap di efficacia ed efficenza che la funzione amministrazione-finanza-controllo di gestione ha nel fornire al resto dell’azienda le informazioni di cui le diverse funzioni hanno bisogno, nel formato necessario. Nella prima azienda in cui ho lavorato, la Levoni S.p.A., il direttore amministrativo ogni anno passava a tutti gli uffici un’analisi dell’andamento delle vendite in volume, valore e prezzo medio dei principali prodotti e dei principali mercati negli ultimi cinque anni. Non l’ho visto fare in nessun’altra azienda, dove normalmente ci si limita al confronto anno precedente e budget. Mi viene quindi da dire che la situazione generale non è di soddisfacimento da parte della funzione amministrazione-finanza-controllo di gestione delle esigenze del resto dell’azienda, bensì che la centralità di questa fa sì che le sue esigenze/punto di vista siano prevalenti su quelle delle altre, che quindi si arrangiano come possono (dedicando tempo prezioso allo sviluppo e gestione di fragili files excel). Ulteriore indizio al riguardo è la tranquillità con cui nelle aziende si accetta che l’implementazione di un nuovo programma gestionale che costa svariati milioni di euro, richieda svariate centinaia di migliaia di euro in consulenze e lasci l’azienda con una disponibilità limitata di dati (quando non nel buoi totale) per un periodo che va dai 6 mesi ad un anno. Avendo sempre lavorato nei beni di largo consumo dove un ritardo di un giorno nella consegna rischia, giustamente, di farmi perdere il cliente, devo dire che questa cosa mi affascina.
La presunzione della misurabilità delle vendite è ancora più evidente, basta considerare l’effetto moltiplicatore delle vendite (volumi e prezzi) di una campagna pubblicitaria/comunicazione o solo di un forte posizionamento della marca. Probabilmente solo le promozioni basate sullo sconto sono l’unico strumento di vendita dove l’influenza delle politiche di marca e poca o nulla. Però sempre più rapidamente promozioni di questo tipo portano ad un riposizionamento del proezo di vendita, in un circolo vizioso che spesso si rivela insostenibile.
La conclusione più importante che ho tratto da queste riflessioni è però il rafforzamento della mia convinzione della necessità di individuare e sviluppare reali parametri di misura per le attività di marketing. Viceversa continueremo ad essere marginali rispetto a quelle, presuntamente, misurabili e non riusciremo a dare il nostro apporto in azienda.
Aspettative quindi, non prometto quando, una terza (e forse anche quarta) puntata.

Marketing e democrazia

Questo non è un’altro dei miei post politici, anche perchè ogni giorno in politica succede o si dice qualcosa che lascia (se possibile) ancora più senza parole del giorno prima.

E’ invece un post che mi è stato ispirato da un commento di un collega di un’altra azienda, facendomi tornare in mente tante situazioni simili vissute durante questi anni di azienda, e di cui ho trovato concettualmente conferma nelle letture estive.

Ci siano un capo azienda (Proprietario / Presidente / Amministratore Delegato / Direttore Generale / Direttore di Divisione, fate voi), un direttore marketing, un direttore vendite, un direttore amministrativo ed un direttore tecnico riuniti nel comitato di direzione per decidere una strategia/tattica di marketing (una campagna pubblicitaria, un’etichetta, un’attività promozionale, fate voi) . Il direttore marketing presenta le diverse ipotesi sviluppate sulla base delle esigenze espresse dalle diverse funzioni e dal mercato, della situazione e degli obiettivi generali aziendali e delle capacità tecniche interne e dei fornitori, magari indicando quella che valuta la soluzione migliore.
Poi come viene presa la decisione? Oramai è la norma che la scelta di quale ipotesi perseguire avvenga secondo l’opinione del capo azienda oppure a maggioranza.
Il primo caso può anche una logica in quanto il capo azienda è il responsabile ultimo dei risultati, ma la decisione a maggioranza non sta nè in cielo nè in terra. Le competenze, e quindi la capacità di analizzare determinate situazioni aziendali e sviluppare attività che rispondano a queste situazioni valutandone la fattibilità e gli effetti nel breve-medio-lungo termine, non hanno niente a che vedere con la maggioranza.
Dite che vedo le cose con la permalosità del direttore marketing inconcludente che dalla sua torre d’avorio si occupa di attività i cui risultati sono difficilmente misurabili e che vuole sfuggire a qualsiasi controllo?
Può essere, pero a me sembra che sia come se per decidere la terapia di un paziente con problemi polmanare si decidesse a maggioranza in un comitato di medici composto da un pneumolgo, un gastroenterologo, un chirurgo e un oculista.
Pensiamo alla stessa riunione del comitato di direzione in cui si discuta di qualcosa che riguarda aspetti amministrativi, gestionali o produttivi. La norma è che il titolare della funzione preposta indichi la soluzione migliore sulla base delle analisi fatte e che questa venga adottata con i necessari adattamenti operativi.
Il sospetto che non sia solo mania di persecuzione è confermato anche da una ricerca fatta nel 2005 da Booz Allen Hamilton per conto della Association of National Advertisers americana, la quale ha rilevato che più del 50% delle decisioni prese dall’alta direzione in area marketing sono second-guesses.
La crescente debolezza del marketing come funzione strategica all’interno delle organizzazioni che è stata la considerazione alla base della nascita di questo blog, sembra ben lungi dal migliorare.

Semel in anno licet insanire

Se devo credere al proverbio del titolo, oggi sarebbe il giorno giusto per scrivere il post sui diritti di negoziazione dei centri media (alzi la mano chi tra i professionisti del marketing sa cosa sono) che ho in testa da qualche giorno.
Però un paio di amici che stimo mi hanno sconsigliato di farlo, a dimostrazione di quanto il “sistema gelatinoso” permei il nostro stare al mondo. Cosa che a sua volta dimostra l’impossibilità di risolverlo per via giudiziaria e quindi la sostanziale disonestà intelletuale di chi in politica propugna questa strada (perchè se pure non l’avevano capito già ai tempi di Mani Pulite con il semplice ragionamento, dovrebbero capirlo adesso con l’evidenza dell’esperienza).
Ma non voglio divagare oltre (anche perchè prima o poi il post sui diritti di negoziazione lo scrivo lo stesso, tanto so che non morirò Provolino).
Oggi continuo a parlare di pubblicità mostrandovi due pubblicità straniere.
pubblicità estere
La prima è una pubblicità Toyota pubblicata su “El Pais” spagnolo e mi ha colpito la frase conclusiva “solo te preocuparas por tu vida” alla luce del ritiro di oltre 10 milioni di Toyota in tutto il mondo per problemi all’acceletore e ai freni che hanno causato incidenti mortali. Sarebbe evidente che parlando di un auto si tratta di una frase quanto meno controversa (hei lì fuori? La gente con le macchine muore!!), però se tu sei il miglior produttore di auto del mondo che ha fatto della sicurezza e della qualità totale l’arma per diventare il leader mondiale è altrettanto facile non accorgersene.
La seconda mostra una serie di proposte (quindi non si tratta di pubblicità vere e proprie) che alcune tra le migliori agenzie della Svizzera romanda (i soliti nomi: Saatchi, Y&R, Grey) hanno fatto per la rivista “Bilan” che gli aveva chiesto di rilanciare l’immagine della Svizzera, appannata a livello internazionale dalle varie questioni Libia, Polanski, referendum minareti, segreto bancario ecc.. Qui quella che mi ha colpito è la proposta in basso a destra che dice “Roger Federer è il miglior tennista del mondo. Peccato per gli spagnoli. Uno non può piacere a tutti”. Ripeto non si tratta di una campagna realizzata e quindi ci sta benissimo in un brain storming creativo, però è sorprendente che la rivista l’abbia scelta tra le5 migliori idee delle oltre trenta presentate per rendere più simpatica l’immagine della Svizzera. O forse ad uno svizzero non sembra così strano.
Questi esempi mi hanno confermato una volta di più una convinzione cho ho praticamente da quando ho iniziato a lavorare in azienda: i segreti aziendali non esistono o sono al massimo un paio e sono sempre legati alla produzione.
Quello che un’azienda riesce o non riesce a fare è conseguenza della sua cultura e delle sue competenze come organizzazione e non dell’ignoranza vs. la conoscenza. La conseguenza è che non c’è nessun motivo di rendersi la vita complicata con eccessiva riservatezza ed opacità (che poi si ripercuote fatalmente anche nella comunicazione interna, con tutte le inefficenze che ne conseguono).
Quindi divertitevi che è carnevale.