E’ vero che il brainstorming non funziona (più)? Secondo me no.

Brainstorming rules

Oggi mi prendo una pausa dagli argomenti viti-vinicoli per non far diventare questo blog troppo monocorde.

Lo faccio riflettendo su un articolo di Kevin Ashton (quello che ha inventato il termine “internet delle cose” mica pizza e fichi, che poi la pizza bianca con i fichi è buonissima) apparso lo scorso giugno su L’internazionle con il titolo “Il brainstorming è solo uno spreco di tempo”. L’articolo in italiano NON è disponibile on-line sul sito de L’Internazionale, però è disponibile l’originale inglese pubblicato dall’Observer.

L’uscita dell’articolo ha generato alcuni interventi tra i quali segnalo quelli di Annamaria Testa (pubblicitaria), Jacopo Fo (autore, attore e scrittore) e Ciro Esposito (professionista di comunicazione digitale, ho detto bene?). consiglio di leggerli tutti e tre, perchè portano punti di vista e contenuti diversi, che aiutano ad avere un’idea più chiara e completa della questione (come fosse unng  brainstorming).

Questi tre interventi sono più o meno d’accordo con Ashton con riserva. Nel senso che dipende da cosa si intende con il termine “brainstorming”.

“Brainstorming” è uno dei termini di marketing / gestione aziendale più abusati. Praticamente in ogni contesto aziendale (e non solo) ogni volta che si fanno delle chiacchere più o meno in libertà su un argomento qualcuno alla fine dice “abbiamo fatto un brainstorming”.

Non è così.

In estrema sintesi un brainstorming è una sessione di lavoro di gruppo, durante la quale un gruppo di persone si riunisce in un posto e sputa fuori tutte le idee che gli vengono in mente rispetto ad un determinato argomento.

Detto così, ci sta dentro di tutto. Ed infatti il mio sospetto è che l’inefficacia venga proprio dalla mancanza di regole, che non significa maggiore libertà (intelletuale), e di omogeneità nell’applicazione formale di questa tecnica.

La mia esperienza personale è che i brainstorming funzionano. Forse dipende da come ne ho fissato gli obiettivo e le modalità di realizzazione.

Lo scopo di un brainstorming è quello di generare idee (spunti), non di svilupparle o definirle, ed in questo è estramemente più efficace del lavoro individuale (sia in termini di tempo in assoluto che di rapporto idee/tempo).

Per ottenere questa efficenza bisogna adottare delle tecniche / pratiche / regole che lo differenziano dal cazzeggio. Queste sono le mie:

  • Il posto dove si svolge il brainstorming deve essere diverso dal solito ambiente di lavoro, possibilmente però evitare anche “la stanza del brainstorming”, perchè altrimenti si rischia di ricadere comunque in una routine.
  • No cellulari che squillano, nè che vibrano nè in silenzioso.
  • Tendenzialmente no a computer, sicuramente no a partecipanti che rispondono alle mail o fanno i fatti loro con il portatile.
  • Dimensione massima del gruppo:  10 persone (i sacri testi dicono 8, però, non si sa come, si aggiunge sempre qualcuno).
  • Composizione del gruppo: il più interdisciplinare / interfunzionale possibile (non sai mai da dove possono arrivare gli spunti).
  • Durata massima: 20′ (tanto poi sforerete a 30′).
  • Tra i componenti ci deve essere un facilitatore / moderatore che interviene, se necessario, per garantire il rispetto delle regole e la partecipazione di tutti.
  • Quantità e non qualità delle idee.
  • Tutte le idee contano.
  • La pazzia è positiva.
  • Quello che viene detto non si giudica, critica o discute, neanche da se stessi (quindi no autocritica nè autocensura).
  • Non sottovalutare, e quindi non esprimere, quello che appare ovvio (ad essere rigorosi questo rientrava nel punto precedente, ma il rischio è così forte da richiedere una sottolineatura).
  • (Se si vuole) usare figure / disegni / grafica per visualizzare le idee.
  • Rendere tutte le idee visibili a tutti in ogni momento utilizzando lavagne a fogli mobili, muri, etc. (non valgono presentazione powerpoint).
  • Le idee dei componenti del gruppo stimolano altre idee (effetto “valanga”).
  • Numerare le idee.
  • Riscaldare il cervello (sono quei 5′ / 10′ che vi fanno arrivare alla mezz’ora).
  • Fatene una sessione di lavoro divertente.

Alcune considerazioni per realizzare meglio queste regole e migliorare l’efficacia del brainstorming:

- Riscaldamento mentale: ci possono essere varie tecniche. Quella che seguo io praticamente sempre è chiedere ai partecipanti del gruppo di pensare da soli almeno mezz’ora alla questione che verrà trattata nel brainstorming. Meglio se lo fanno il giorno prima e non giusto prima dell’inizio della sessione. Si tratta di far lavorare la mente per “associazioni libere”, in una specie di “”brainstorming individuale”.

- Problemi di “prevaricazione” da parte delle persone più estroverse: questo è probabilmente il problema più spinoso perchè è quelloc he crea le maggiori distorsioni e limiti alla capacità da parte di tutto il gruppo di “aprire la scatola” come fosse una mente unica. Io l’ho risolto da diversi anni adottando una tecnica di brainstorming che mi hanno insegnato come brainstomp e funziona così: ogni partecipante scrive le proprie idee con un pennarella su un cartoncino man mano che gli vengono e le lasciano sul tavolo che si colloca al centro della stanza in cui si svolge il brainstorming. I partecipanti camminano lentamente intorno al tavolo, perchè il movimento aiuta. Nella stanza si mette un sottofondo musicale, possibilmente vivace / energetico. Al centro del tavolo si accende una candela, che aiuta i partecipanti a riprendere la concentrazione quando la perdono. Dopo dieci minuti si cambia il senso di rotazione intorno al tavolo.

Potete sorridere, o anche ridere (io ho visto di quelle facce ….), di questi accorgimenti che però hanno lo scopo di creare una distonia fisica dalla normale routine e quindi stimolare la distonia mentale alla base della creatività.

Questa tecnica presenta anche importanti vantaggi operativi:

- evita l’interazione diretta tra le persone e quindi il crearsi di “blocchi di comunicazione”, malumori, ecc…

- permette una eccellente partecipazione di persone che non hanno dimestichezza con il brainstorming perchè le regole sono facili da capire, seguire e controllare.

- permette al “facilitatore” della sessione di gestirla senza interventi distorsivi. In pratica deve solo ricordare la regola del silenzio per evitare il dibattito/giudizio delle idee e regolare il ritmo del lavoro con la velocità della sua camminata.

- tutti i partecipanti possono sempre vedere tutte le idee generate dagli altri e quindi si favorisce l’effetto “valanga”.

 

Clusterizzazione delle idee: conclusa la sessione di braistorming / brainstomp fate una breve pausa. Non più di 10 minuti e nessuno deve dedicarsi ad attività “esterne” alla sessione. Poi il gruppo lavora per raggruppare le idee in diversi clusters / categorie. Non esiste un numero predefinito di clusters nè categorie predefinite a priori. I diversi clusters verranno identificati sulla base della similitudine / sovrapposizione delle idee generate.

A questo punto ringraziate e rimandate tutti a loro lavoro normale …. dando appuntamento per domani o dopodomani.

 

Selezione (darwiniana) delle idee/spunti generati: il giorno dopo la sessione di brainstorming (o al massimo due), a mente fredda e fresca il gruppo di lavoro si riunisce di nuovo e seleziona le idee suddivise in clusters. A me tendenzialmente piace metterle in ordine dalla prima all’ultima, per non buttare via niente (il mio quarto di sangue furlano), voi se volete sulle idee pessime (che saranno la maggior parte) potete anche metterci una pietra sopra. La logica è quella della tecnica di braintrust utilizzata dalla Pixar e descritta dal post di Ciro Esposito.

Se avete bisogno di fare un brainstorming e non vi fidate di me come consulente (reprobi ingrati!), vi segnalo che le regole riportate nell’immagine che apre questo post (che sono solo ALCUNE delle regole che io utilizzo) le ho imparata in un seminario organizzato dall’Istituto per la Creatività Applicata.

Se invece volete fare un’analisi Delphi come quella citata da Annamaria Testa…., beh la prima che ho fatto era nel 1993 sulle prospettive della pastorizia, ossia i miei opinion leaders erano pastori; uno dei progetti di ricerca più divertenti che ricordi.

Com’è e come sarà il consumatore americano di vino.

Continuo ad occuparmi di vino con una sintesi ragionata del profilo del consumatore U.S.A. di vino, basata sull’articolo di Larry Walker apparso sul numero di giugno di Meininger’s Wine Business International (rivista a cui consiglio vivamente di abbonarsi).

 

1. Quanti sono i consumatori di vino americani?

Secondo l’indagine del Wine Market Council nel 2014 in USA il 40% dei 230 milioni di americani adulti consumava vino, il che significa 92 milioni di consumatori di vino. 30,4 milioni di americani bevevano vino più di una volta a settimana (consumatori abituali), mentre 61,6 milioni bevevano meno di una volta a settimana (consumatori occasionali).

 

2. Quanto pesano i consumatori abituali sul totale dei consumi?

I consumatori abituali sono quindi il 33% del totale dei consumatori di vino, però bevono l’81% di tutto il vino consumato negli USA.

 

3. Come si suddividono in termini di gruppi demografici (e quindi, in parte, anche per atteggiamenti di consumo) i 30,4 milioni di consumatori abituali?

Sono per il 38% Baby Boomers (nati tra il 1946 ed il 1964),

per il 30% sono Millennials (nati tra il 1982 ed il 2004),

per il 19% sono Generation X (nati tra il 1964 ed il 1982)

e per il 13% sono consumatori oltre i 69 anni di età.

Nota bene: nell’analizzare i mercati io consiglio sempre di guardare (più) ai numeri assoluti oltre che alle %. Lascio a voi l’incombenza di fare i calcoli.

 

4. Cosa stanno bevendo i consumatori americani?

Secondo i dati Nielsen, che rileva sia le vendite dai dati scanner dei supermercati che quelle da alimentari (convenience) e liquor store, la tendenza più rilevante è la crescita degli uvaggi a scapito dei vini varietali. Questa tendenza coinvolge principalmente i vini rossi rispetto ai vini bianchi. Negli ultimi due anni il 41% dei nuovi vini apparsi sul mercato USA erano uvaggi, 31% erano uvaggi di vino rosso ed il 10% erano uvaggi di vini bianchi. Il varietale che più di tutti ha subito la sostituzione con gli vaggi è stato il Merlot.

 

5. Chi saranno consumatori di vino americani nel prossimo futuro?

5.1. Presumibilmente (il perchè del presumibilmente lo spiego dopo) soprattutto da quelli che oggi sono consumatori occasionali. I consumatori abituali sono vicini al massimo del consumo pro-capite (se non l’hanno già raggiunto). Il consumo di vino negli USA è ancora un fenomeno abbastanza recente da permettere l’acquisizione di nuovi consumatori che attualmente bevono altri tipi di bevande alcoliche. Per i Generation X ad esempio si è assistito ad un fenomeno di spostamento dalla birra al vino. Soprattutto per i Millenials (di cui non tutti hanno ancora raggiunto i 21 anni dell’età legale per bere alcolici) c’è ancora spazio nella crescita dei consumi pro-capite. Ricordiamoci che si tratta della prima generazione cresciuta in una società dove il consumo di vino era una cosa normale (nei media, nei film ed in TV, nelle recensioni sui giornali, ecc…). Ricordiamoci anche che si tratta di una generazione che è ancora agli inizi dello sviluppo del proprio livello economico e quindi è molto probabile che al crescere di questo cresca anche la disponibilità a spendere di più per bere vini migliori. Queste considerazioni, unite al fatto che la il totale della popolazione adulta negli USA continuerà a crescere, porta a prevedere che il consumo di vino negli USa continuerà a crescere nel medio periodo (il perchè ho scritto potenziale lo spiego più avanti).

5.2. Pronti per la iGeneration? L’altro grande aggregato dei futuri consumatori americani di vino del futuro è (sempre presumibilmente) la iGeneration, ovvero i “giovani Millennials” nati tra la metà ed il finire degli anni ’90. Sono la generazione in assoluto più “connessa”, quelli per cui il web e l’utilizzo multischermo in contemporanea (TV, tablet, smartphone) è la regola, analogico e digitiale sono aspetti di una unica realtà personale e si fondono per cercare di ottener il massimo in termini esperienziali (massimo di semplicità, profondità, rapidità, ecc…).

E’ una generazione da cui aspettaresi il costante uso di internet nel decidere le proprie scelte, quindi massima trasparenza e condivisione delle informazioni, massima capacità e voglia di sperimentare le marche (che implica potenzialmente la minima fedeltà alla marca), massima ricerca/richiesta di autenticità.

Stiamo parlando di 60 milioni di consumatori, che raggiungeranno l’età legale per bere alcolici nel 2016. Secondo i vari esperti, se questo gruppo demografico “abbraccerà” il consumo di vino, i consumi di vino negli USA decolleranno (ulteriormente aggiungo io).

Alcune mie note a margine su punti precedenti:

Punto 4:

nel 2012 la cantina dove lavoravo ha presentato una nuova linea pensata anche per il mercato USA composta da tre vini DOC: 1 bianco, 1 rosso ed 1 rosè spumante. Per il rosso invece di utilizzare un varietale abbiamo scelto di fare un uvaggio è di chiamare il vino solamente “Rosso”, seguito dalla denominazione. Fortuna o giudizio?

 

 

Punto 5:

la ragione per cui ho utilizzato il termine “presumibilmente” è perchè i settori delle altre bevande non stanno fermi a guardare la perdita di volumi e/o fatturati e/o quote di mercato. Rispetto alle generazioni precedenti, i consumatori più giovani (quelli appena più vecchi della i-Generation) si sono spostati verso vino e spirits a scapito della birra. La risposta del settore della birra è stata una intensificazione delle attività di marketing, anche relativamente allo sviluppo di nuovi prodotti, soprattutto da parte dei produttori di birre artigianli e da parte delle marche importate.  Suona famigliare? In aggiunta metteteci anche il sidro, che ha un buon legame culturale con il target anglosassone. La partita, o la battaglia se preferite, per conquistare i consumi della iGeneration si giocherà sull’intrattenimento, in tutti i significati e le modalità che volete dare alla parola. Da “divertimento” ad “approfondimento”, tanto per citarne un paio.

Quello che è sicuro è che per vincerla, la partita (o la battaglia) bisognerà giocarla. Ovvero la comunicazione al consumatore è un processo continuo che costantemente rinnova e rafforza le basi sui cui i consumatori scelgono noi rispetto agli altri. Dove “noi” e gli “altri” rappresentano sia le diverse categorie merceologiche che le diverse marche, a seconda del contesto settoriale oppure aziendale in cui si opera.

 

Punto 5.1:

Nel 2011 durante una riunione un mio illuminato collega non di marketing ha detto più o meno così “Io vedo mio figlio utilizzare la tecnologia digitale e mi convinco che per interagire con questa generazione dovremmo riuscire a digitalizzare il gusto“. E’ da quattro anni che ho in mente questa bellissima riflessione (grazie Josef) e forse sono sulla strada per arrivarci, almeno in parte.

Michele Serra, la satira sul vino e l’individuazione delle tendenze.

Ciao come state? Riprendo le pubblicazioni di biscomarketing con il rientro dalle ferie (mio ed immagino di molti).

Per ricominciare in modo morbido parto da un argomento di stretta attualità (rarità per biscomarketing), tendente al cazzeggio e di tema vinicolo (d’altra parte il periodo vendemmiale invita).

Sull’ultimo numero del L’Espresso, Michele Serra (di cui non ho mai avuto molta stima come si può vedere ad esempio qui e qui) ha scritto un pezzo di satira sul vino che ha portato operatori ed opinion leaders del settore a chiedersi se questo non sia un segnale che la deriva elitista / settaria / intimorente causata dal (monotematico) atteggiamento verso l’eccellenza qualitativa sempre comunque è andata troppo oltre.

Il pezzo di Michele Serra, ed alcuni interessanti commenti che consiglio di leggere, lo trovate, tra gli altri, sul blog di Luciano Pignataro, mentre la mia risposta alla domanda di cui sopra è: no, l’articolo di Michele Serra non è il segnale che il mondo del vino si prende troppo sul serio, minando la normalità e quotidianità del rapporto tra le persone (consumatori) e la categoria di prodotto. Non lo è perchè questo segnale è apparso nel 2007 (2007!!!!) con la parodia del sommelier che faceva Antonio Albanese.

Un esempio di come individuare una tendenza che credo sia utile ed interessante allargare dal particolare al generale. Dal punto di vista di marketing la differenza tra una tendenza ed una moda è che la prima si colloca ad un livello più profondo della psiche collettiva del mercato (società). Di conseguenza ha una durata più lunga, è trasversale sui diversi settori (perchè riguarda tutta, o ampie fette, della società) ed è più difficile da cogliere con le classiche tecniche attive di ricerca di mercato (questionari, interviste, focus groups).

Il bello però è che possono essere colte con quelle che io chiamo tecniche passive: osservazione ed ascolto. Da anni dico, ovviamente non sono il solo, che per un’azienda il principale vantaggio di essere presente sui social networks è la possibilità di ascoltare.

Ma ancora prima che nei social media, le tendenze si manifestano sui media (nella misura in cui i social media diventano un media ovviamente questa differenza si riduce).

Sempre restando in ambito vinicolo, nel 2008 io prevedevo che il mercato USA continuasse a crescere in modo rilevante (anche) per la crescente presenza del vino nei film e telefilm americani. Una presenza rappresentava una tendenza presente nella società ed allo stesso tempo ne favoriva la diffusione, legandola sempre a situaizoni positive e qiondi ne promuoveva l’accettabilità sociale.

Qualcosa di simile è successo all’inizio degli anni 2000 con il concetto di multisensorialità, diffusosi negli ambiti più diversi.

Secondo me i segnali della nascita e della diffusione di una tendenza si ritrovano nell’arte. Quanto più “elevato”/astratto il livello dell’arte, tanto più precoci i segnali. Per fare un esempio fin troppo banale, l’alta moda si confronta con le arti figurative ed influenza il pret a porter, giù giù fino a Zara.

I lavori di Jeff Koons sono un segnale dell’ “adolescentizzazione” della società, sta poi alle aziende capire quali effetti ha (avuto) quest tendenza sul loro settore.

Io ho sempre bene presente, con un po’ di sgomento, che Dino Buzzati, genio travestito conformista, nel 1966 aveva descritto i “teletini”, nonchè il malcostume legato al loro utilizzo indiscriminato in ogni luogo e momento.

Per questo io consiglio sempre a chi si occupa di marketing di buttare ogni tanto un occhio ai diversi campi dell’arte, o all’arte nei diversi campi se preferite.

Per questo io vedo l’articolo di Michele Serra come un segnale positivo per il vino che (forse) è tornato ad essere almeno un argomento su cui vale la pena scherzare.

C’è confusione nella strategia di comunicazione 2015 della Coca Cola?

emma coca cola_small.jpg.ashxUn post estivo che parla di bibite ci sta. Guardare poi cosa fa la Coca Cola per chi si occupa di marketing è doveroso prima ancora che interessante (o viceversa) come ho già detto più volte in questo  blog. I numerosi link non li metto, se siete curiosi basta che digitiate “coca cola” nell’apposita casella “search” e scoprirete che gli ultimi 2 post erano, se non negativi, critici.

Potrei quindi dire che non c’è due senza tre, perchè anche oggi mi trovo perplesso davanti alla strategia della comunicazione messa in atto da Coca Cola.

Comincio dalla fine, perchè i dubbi sono cresciuti quando l’altro giorno ho sentito il nuovo spot radio, che cito a memoria perchè non trovo sul web da nessuna parte.

Un ragazzo entra in un bar e si rivolge al “suo” barista, che si autodefinisce immediatamente come suo “confessore”, con il quale si confronta sulle sue (dis)avventure sentimentali: “E’ quella giusta?”, “Sì anche questa è quella giusta”. Nello spot viene spiegato come servire una Coca Cola “tre cubetti di ghiaccio, una fetta di limone” e si invita cercarla “nei migliori bar”, nel “nuovo formato in vetro”. Tutta l’atmosfera è da american bar d’antan, con il bar di fiducia a rappresentare un centro di gravità permanente in cui i (ri)trovarsi, sicuri di poter contare sul proprio fratello maggiore-barman (termine fintamente inglese che si usa solo in Italia) e dell’uso di mondo che ha acquisito in tanti anni dietro al bancone nel (ri)affrontare con fiducia le piacevoli sfide della vita.

Detto in sintesi è una spot che (forse) potrebbe andare bene per la vodka Grey Goose. Vederlo utilizzato per la Coca Cola è per me stupefacente.

Ho capito che la Coca Cola sta vivendo una crisi di consumi, soprattutto sul mercato USA, ma davvero si è così indebolita che serve spiegare nello spot radio come servire una Coca Cola? Che poi risulta ovviamente banale: ghiaccio e limone.

Per lo stesso motivo suona strano l’invito a cercarla “nei migliori bar”: la forza della Coca Cola è che è OVUNQUE ed è sempre lei INDIPENDENTEMENTE dal livello del locale in cui è servita.

Anche il “nuovo formato in vetro” è un’affermazione che stride perchè per la grandissima maggioranza dei consumatori al bar la Coca Cola è sempre stata in vetro e, piuttosto avevano sopportato il cambiamento alla bottiglia di plastica come inevitabile cambiamento dei tempi (comunque dalla mia esperienza personale il vetro da 20 cl non è mai completamente sparito dal mercato).

Queste le cose più macroscopiche. Con un’analisi più sottile/approfondita vale la pena notare che lo spot appare segmentante sia in termini di tipologia di punto vendita che di consumatore, in contrapposizione (o quanto meno con inversione di tendenza) rispetto all’universalità che caratterizza la Coca Cola almeno da 30 anni, se non di più.

Il “bar di fiducia” infatti è solo una delle tipologie di punto vendita in cui si acquista/consuma la Coca Cola. Lo spot quindi esclude, chioschi, pizzerie, distributori automatici, ecc..

Peggio ancora la connotazione fortemente maschile del target, quasi sessista, data dallo spot.

Per principio non credo che siano scelte casuali, ma per onestà intellettuale fatico a vederci dei vantaggi nel posizionamento a medio-lungo termine.

La mia perplessità sulle strategie di comunicazione della Coca Cola sono aumentato quando, per cercare lo spot radio, sono andato sul sito e sfogliando la home ho trovato nella sezione “Da non perdere” lo spot “mangiamo insieme” dello scorso gennaio (che personalmente non avevo mai visto prima), ma non quello “Bacia la felicità”, in onda dallo scorso aprile per lanciare la promozione estiva 2015 con i nomi da baciare sulle etichette delle bottiglie e sulle lattine.

In realtà le due strategie “Mangiamo insieme” e “Bacia la felicità” godono ognuna di una sezione specifica nel sito di Coca Cola Italia, ma lo spot della prima è anche in home page, mentre quello della seconda più recente, no.

E volendo dirla tutta anche la campagna “Bacia la felicità” non mi è sembrato il massimo della strategia. Criticità del lancio con le PR digitali a parte (qui il mio post a riguardo) è comunque una versione più debole della BELLISSIMA campagna “Condividi una Coca Cola” del 2013.

Perchè più debole? Perchè il concetto “Dai un bacio a …” di quest’anno è comunque più “stretto” rispetto al “condividere”. Tutti vogliono/possono sempre condividere, non tutti possono/vogliono sempre baciare.

Secondo me valeva più la pena ripetere pari pari la campagna “Condividi una Coca Cola” facendolo diventare un appuntamento estivo.

Tutti questi ragionamenti pongono una domanda, per me, da brividi: la Coca Cola sta seguendo una rotta strategica o segue tatticamente il vento? E se ha una strategia, quale mai sarà?

Domande sufficienti per un’intera estate, ci vediamo (probabilmente) dopo ferragosto.

Comma 22, ovvero perchè non riesco a comprare un libro sul sito IBS.

Bonvi_Comma22Il “Comma 22” per me è e sarà sempre quello delle Sturmtruppen di Bonvi “Chiunque è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di guerra, però chi chiede di essere esentato dalle missioni di guerra non è pazzo”.

Mi è tornato in mente l’altro giorno quando volevo comprare un libro on line dal sito IBS.

Si da il caso che io abbia già comprato nel corso degli anni alcuni libri dal sito IBS e quindi, necessariamente, abbia già un mio “profilo IBS”.

Si dà anche il caso che nel frattempo abbia cambiato la mia situazione professionale aprendo la partita IVA ed il libro che volevo comprare in questa occasione era un libro professionale.

Tra i dati obbligatori richiesti per la fatturazione e concludere l’acquisto il sito richiede obbligatoriamente il codice fiscale, quando poi ho inserito la partita IVA è venuto fuori un messaggio che non si poteva concludere l’ordine perchè il codice fiscale è già in uso da un altro profilo.

Sono quindi entrato nella sezione apposita per modificare il profilo da persona fisica a ditta individuale. Però anche come ditta individuale è obbligatorio indicare il codice fiscale e quindi ricevevo lo stesso messaggio. Per creare, o per modificare, il mio profilo da persona fisica a persona giuridica devo obbligatoriamente mettere il mio codice fiscale, ma se inserisco il mio codice fiscale non posso creare/modificare il profilo perchè quel codice fiscale è già associato ad un profilo (il mio).

La conclusione è che ho comprato il libro da un altro sito.

Le riflessioni che ne sono nate invece sono le seguenti:

- nel definire delle procedure organizzative, non importa che siano un algoritmo che fa funzionare un sito oppure una procedura interna, il principio di PARSIMONIA è quello che porta alla massima efficienza ed efficacia. Perchè se creo un profilo come ditta individuale mi chiedi anche il codice fiscale, in aggiunta alla partita IVA? Anche se non mi avessero messo in un circolo vizioso, mi fanno comunque fare della fatica inutile.

-   il marketing, inteso come approccio di gestione che punta a raggiungere gli obiettivi dell’organizzazione attraverso una soddisfazione dei bisogni e desideri dei propri clienti attuali o potenziali migliore dei concorrenti, è un approccio che va seguito continuamente in ogni punto di contatto che si crea con il pubblico. Questa necessità di disciplina operativa non si presenta, o si presenta ad intensità molto più bassa, negli altri ambiti aziendali.

L’installazione di un nuovo macchinario o l’adozione di una determinata tecnica contabile è una scelta interna dell’azienda che implica cambiamenti organizzativi ed operativi noti e quindi, dal momento del loro inserimento, vengono seguiti “automaticamente”. Dove “automaticamente” è tra virgolette per significare la consapevolezza che le cose non succedono da sole, che è necessaria formazione nell’adozione del nuovo impianto o della nuova procedura. Però non c’è il rischio che si torni indietro (inconsciamente) e, per esempio, dall’attribuzione dei salari ai costi variabili di produzione si passi invece a considerarli nei costi fissi.

Per realizzare l’approccio di marketing invece i comportamenti operativi che deve adottare l’azienda sono numerosissimi e solo in parte prevedibili, perchè nascono dalla miriade dei comportamenti delle persone. Da qui il rischio che prevalgano le (presunte) esigenze oprganizzative ed operative di chi lavora nell’azienda e non quelle dei clienti.

Forse ho già parafrasato Forrest Gump: marketing è chi marketing fa. E per fare marketing bisogna essere inflessibili riguardo alla propria flessibilità.

“Chiedi all’esperto”: Arexons inventa l’acquisto selfsevice …. assistito

Una decina di giorni fa ero nel mio supermercato di fiducia (non è uno slogan, c’è davvero) e cercavo una cosa da comprare. Non mi ricordo cosa fosse, forse l’additivo anticalcare per il ferro da stiro, comunque un prodotto che non acquisto di frequente.

Anche così, considerate che stiamo parlando di un supermercato piccolo con 6 casse (e non ne funzionano mai più di 4), dove faccio la spesa tutte le settimane. Eppure non riuscivo a trovarlo. Giravo tra le poche corsie cercando di immaginare i ragionamenti di category management (parola grossa) che potevano aver fatto nel disporre i prodotti, ma niente.

Allora mi sono ricordato della distribuzione pre-supermercati di quando ero piccolo, diciamo un po’ più di 40 anni fa: sarei entrato in un negozio specifico (ai tempi nessuno si sarebbe sognato di chiamarlo “specializzato”) ed avrei chiesto a chi stava dietro il banco (c’era sempre un banco) di darmi “il” prodotto per la quello che mi serviva. Raramente avrei chiesto una marca, normalmente avrei espresso un’esigenza.

Quella che oggi si chiama “vendita assistita” era la norma e, perso tra 4 corsie di un supermercato (grazie Clash!), mi sono reso conto di quanto l’esperienza di acquisto fosse più semplice.

Più limitata in termini di scelta? Sicuramente. Più costosa? Certo. Più dispersiva in termini di tempo? Forse si forse no. Ma sicuramente più facile per il consumatore (oltre che probabilmente più ecologica, se non altro per la riduzione del packaging).

Poi dopo un paio di giorni ho sentito per radio la nuova campagna Arexons “Chiedi all’esperto”. In sostanza la Arexons ha messo a disposizione dei consumatori un numero verde ed una chat sul sito, attraverso cui le persone potranno chiedere consiglio su quale prodotto Arexons comprare a seconda del problema che devono risolvere.

In pratica l’Arexons punta a fare una vendita assistita attraverso i canali distributivi self service.

L’idea mi sembra bella ed interessante e mi ha stimolato una serie di riflessioni che riporto sostanzialmente a ruota libera.

I prodotti Arexons sono tipicamente prodotti a bassa frequenza di acquisto e quindi prodotti con cui mediamente i potenziali consumatori hanno una bassa familiarità.

D’altra parte l’assortimento è piuttosto vasto, proprio perchè copre tutti gli aspetti della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc….

D’altra parte questa iniziativa di Arexons, soprattutto se avrà successo, evidenzia un grande limite dell’attuale struttura distributiva. 10 anni sarebbe stato impensabile che un consumatore di fronte allo scaffale chiamasse la Arexons per farsi consigliare su che prodotto acquistare, non tanto per limiti tecnologici, ma perchè avrebbe chiesto al personale del negozio.

La campagna “Chiedi all’esperto” sottolinea come oggi riuscire a trovare un addetto con cui parlare nei negozi della grande distribuzione, anche specializzata, sia difficile e come, quando finalmente lo si trova, spesso non sia particolarmente esperto sulle caratteristiche dei prodotti che ci sono in negozio.

Da un certo punto di vista la campagna “Chiedi all’esperto” segnala alle azienda della distribuzione la possibilità di acquisire un grande vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, rispondendo alla richiesta di servizio che i loro clienti, oggi abbandonati, non trovano.

A meno che altre marce non seguano l’esempio Arexons e scavalchino la distribuzione nel servizio al consumatore. Mi chiedo come mai Arexons non abbia messo la chat in un app (magari tecnicamente non si può, scusate l’ignoranza).

Questa visione apre la strada verso il negozio a marchio, strada già consolidata nell’abbigliamento. Nel momento in cui io Arexons mi sono consolidato come “l’esperto” della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc…., cosa mi impedisce di valorizzare al massimo questo posizionamento del marchio utilizzandolo per aprire dei punti vendita, oltre che per i prodotti?

Secondo me per fare questo passo il limite è più mentale che non di competenze. Mentre la distribuzione è diventata anche produttore decenni fa con i prodotti a marchio proprio, i produttori faticano a fare il salto concettuale per diventare anche distributori.

Soprattutto nei mercati, come probabilmente quello di Arexons, dove non funzionerebbe un negozio monomarca, ma un negozio con un assoertimento adeguato potrebbe comunque sfruttare la forza del marchio Arexons.

Nella mia esperienza professionale ho provato almeno un paio di volte a portare l’azienda a fare esperienze nella distribuzione con modelli non monomarca, per la necessità di offrire un assortimento completo e rilevante al consumatore. I miei colleghi / superiori mi hanno sempre guardato perplessi e mi hanno chiesto se avevo considerato che in questo modo avremmo rischiato di sviluppare le vendite dei concorrenti.

Io ho sempre risposto che comunque la gestione del punto vendita e dell’assortimento rimaneva sotto il nostro controllo e che la distribuzione sarebbe stata una grandissima e preziosissima fonte di informazioni sul comportamento del consumatore.

Soprattutto aggiungevo che non vedevo nessun rischio, anzi se i prodotti di aziende concorrenti si sarebbero venduti meglio significava che il consumatore trovava la loro proposta migliore. Quindi comunque avrebbe finito per “batterci” sul mercato, però se noi ne eravamo i distributori avremmo imparato direttamente dalle loro strategie ed avremmo guadagnato sulle loro vendite. In sintesi più i miei concorrenti vendevano e più io avrei guadagnato: meglio di così, impossibile.

E’ a questo punto che lo sguardo da perplesso diventava allibito.

Sarà per questo che oggi io tifo Arexons.

Loacker: dai maestri del wafer, l’innovazione di prodotto …… monoprodotto.

Saranno quasi quarant’anni da quando ho mangiato i miei primi wafer Loacker.

Da quella volta non ne ho mai mangiati altri, semplicemente perchè i wafer Loacker sono (o mi sono sempre sembrati) nettamente i più buoni sul mercato.

Con l’età ho smesso di mangiare wafer, ma non di mangiare snack dolci (una volta dicevo che uno degli elementi caratterizzanti le società occidentali è la pornografia; credo si possa aggiungere il perdurare dei comportamenti adolescenziali, vedi facebook, anche se probabilmente la prima è conseguenza dei secondi).

Ho quindi ripreso a mangiare prodotti Loacker quando l’azienda ha lanciato sul mercato le tortine. Da qualche mese sugli scaffali del mio supermercato di fiducia sono apparse le barrette choco& milk cereals, che ho subito provato.

Essendo anche queste molto buone, sono diventate una presenza costante nel mio frigo (lo so che la cioccolata in frigo è una barbarie sensoriale, però non è che stiamo parlando di napoliten da degustazione).

Ecco la prova.

Loacker

Poi l’altro giorno mangiando una barretta mi sono reso conto che non è altro che una base di wafer Loacker “vestita”. Lo stesso vale per le tortine. Ed è per questo che sono così buone.

Ossia che il dominio della maestria nella produzione del miglior wafer permette alla Loacker di fare innovazione di prodotto, nel senso di proporre qualcosa che attira e soddisfa diversi segmenti di persone e diverse occasioni/momenti di consumo, rimanendo sostanzialmmente un’azienda “monoprodotto” (alla fine sempre wafer sono).

O per dirla in altro modo: the excellence pursuer succeeds for ever. I miei più sinceri complimenti.

Nota 1: lo stimolo a provare “automaticamente” i nuovi prodotti da parte dei consumatori è uno dei principali valori della reputazione di una marca. E quando dico valori intendo la parola nel suo significato monetario, perchè la prova generata dalla fiducia nella marca implica un considerevole risparmio in attività promo-pubblicitarie, noncè una accellerazione delle rotazioni. Doppio effetto: meno costi e più ricavi. Dubito però che questo valore sia monetizzabile da tutte le analisi che si realizzano attualmente per misurare il ROI di marketing (o ROMI: return on marketing investment) ed a cui vengono subordinate le decisioni sugli investimenti di marketing.

Nota 2: ovviamente questo post NON è un post sponsorizzato. Se l’avete pensato, lavatevi la bocca con l’aceto come quando si dicevano le parolacce.

 

A fronte della previsione di calo dei consumi di vino in Italia, che fare?

“Le solite cose che ripeto (non solo io) da qualche anno a questa parte” è la risposta che ho dato la settimana scorsa a chi me l’ha chiesto.

Ci sono gli articoli che pubblicati nel 2012 su “Il Mio Vino” ed i miei pezzi che ho avuto l’onore di vedere ospitati sul blog “Vino al Vino” di Franco Ziliani.

Poi guardando nell’archivio di biscomarketing mi sono accorto che i 3 post dal titolo “Il calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia” (1,2 e 3) risalgono già al 2011 (li trovate qui, quo e qua).

Siccome so che non riuscirò più ad articolare i miei ragionamenti con tanta precisione e chiarezza questo sarà un post assertivo, quasi per assiomi, basato sulla mia competenza (risultato della combinazione di scienza, coscienza ed esperienza) nel settore del vino. Anche perchè ricerche affidabili sulle motivazioni relative alla quantità ed alla frequenza di consumo e non consumo del vino da parte degli italiani io non ne ho trovate.

Premetto quindi un grande “SECONDO ME” che vale per tutto quanto segue. Se vi sembra ci sia qualcosa di sensato ed utile, prendetelo. Altrimenti andatevi a leggere i post vecchi, che saranno sicuramente migliori.

Volendo sintetizzare il vino in in quanto categoria merceologica in Italia sta diventando come il latino: una cosa da esperti appassionati, difficile, complicata, noiosa, intimorente ed un po’ snob.

(Quasi) tutto il vino viene proposto con una di significati etici, estetici, culturali, sensoriali, sociali, territoriali, economici, ecc…. che nè tutti i vini nè tutti i consumatori sono (sempre) in grado di sostenere. Anzi è una sovrastuttura che si giustifica ed è necessaria per una minoranza dei vini, dei consumatori e delle (potenziali) occasioni di consumo. Le eccezioni di Prosecco e Franciacorta sono lì a confermare la regola con i loro successi.

Questa sovrastuttura è connaturata con il vino? (quasi) Mai. E’ necessaria/utile? Raramente.

Il vino deve tornare ad essere (anche) un prodotto semplice. Quando ero in Santa Margherita usavo il concetto “semplice, ma non banale”, adesso forse a livello di categoria di prodotto mi accontenterei che ogni tanto fosse anche banale, se questo servisse a riportarlo alla semplicità.

Una delle tante indicazioni interessanti che abbiamo raccolto quando l’anno scorso con Squadrati abbiamo presentato il quadrato semiotico dei wine lovers, è che tutti quelli che l’hanno visto si sono resi conto come la comunicazione del vino si rivolga esclusivamente alla parte superiore del quadrato (sacro) mentre il grosso dei consumi avviene nella parte inferiore (Profano).

Che poi non è nemmeno vero, perchè i grandi comunicatori del vino, intesi come quelli che raggiungono i maggiori numeri di persone (consumatori e non) sono Tavernello e San Crispino. L’ennesima distorsione del mondo del vino che si appiattisce sulla (presunta) eccellenza.

Bisogna ri-fuggire dall’impegno/fatica/sfida della degustazione per ri-tornare al piacere di bere.

Non è solo la comunicazione che va cambiata, ma l’intero approccio di cui la comunicazione è conseguenza.

Il vino con l’acqua non è il demonio, è lo spritz.

In Francia sta crescendo il consumo di vini aromatizzati con aggiunta di succo di frutta, il gusto più popolare è il pompelmo, che nascono da un’abitudine di consumo tradizionale del Midì.

Perchè il prosecchino o lo champagnino devono sempre essere visti come un diminutivo offensivo e non come un vezzeggiativo? Un segnale di vicinanza ed empatia nei confronti del prodotto?

Perchè non si può giocare con il vino? Di cosa abbiamo paura? Non lo so e non lo capisco, però so che questa paura la trasmettiamo alle persone che con il vino hanno paura di sbagliare economicamente (il prezzo non è un indicatore della qualità), sensorialmente (ho preso un vino che non si sposa con il piatto, con i gusti delle altre persone), socialmente (ho preso un vino da ignorante).

Una ricerca spagnola (altro paese storico di consumo e produzione con consumi in forte calo) di un paio di anni fa rilevava come una buona percentuale di persone (mi pare di ricordare tra il 15% ed il 20%) se invitata a cena sceglieva di portare della birra proprio per togliersi da qualsiasi problema o imbarazzo.

Togliere la paura di sbagliare significa non sbagliare più, perchè fa ripartire la curiosità di provare e quindi ogni errore diventa in realtà una scoperta.

Perchè nella comunicazione del vino non si parla più del resveratrolo e dei benefici che il consumo moderato di vino ha sulla salute? Eppure è stato uno degli elementi chiave da cui è partito il trend di consumo di vino negli USA vent’anni fa.

Il consumatore italiano che percezione ha veramente della salubrità e della qualità del vino in generale? Le persone hanno in testa più i pericoli dei solfiti, influenzate anche dal gran parlare che se ne fa all’interno del mondo vinicolo oppure gli effetti positivi sulla salute?

Nelle ultime due settimana sono stato a due diversi convegni e ad un certo punto in tutti e due è stata sottolineate la necessità di colmare la distanza che si è creata tra citta e campagna per la diffidenza dei consumatori nei confronti delle produzioni agricole.

Tutte le volte che sul giornale c’è la notizia di un sequestro, non importa se dovuto ad un errore nei registri di cantina, si crea nelle persone un dubbio sull’affidabilità del prodotto. Attenzione: non è ignoranza è normale.

Il Vinitaly di quest’anno per me è stato anche un Vinitaly di fallimenti, perchè avevo 3 bellissimi (secondo me ovviamente) progetti per delle ricerche / convegni e non sono riuscito a realizzarne nemmeno uno (avevo anche un progetto per un bellissimo stand, ma questa è un’altra storia). Uno dei tre era una ricerca per capire qual’è la percezione del consumatore riguardo alla qualità/salubrità/affidabilità del vino come categoria merceologica. Per estensione una ricerca per capire le motivazioni di non consumo. Non costa molto, spero che prima o poi (più prima che poi) qualcuno la faccia, perchè da qui vanno ricavate le basi per impostare le strategie (se a qualcuno interessa anche le altre due idee sono ancora attuali e la mia voglia di realizzarle è immutata).

Strategie per puntare a recuperare quel consumo quotidiano di 2/3 bicchieri, strategie che richiederanno anni prima di sortire effetti visibili (come è stato per la comunicazione collettiva dell birra, cominciata nei primi anni ’80), strategie che dovranno riguardare il vino come categoria merceologica, perchè oramai la comunicazione delle marche e dei marchi rischia di non bastare più.

Viceversa si può rassegnarsi ed accettare che, come ha scritto Sandro Sangiorgi in un suo libro, “Il vino, per la gran parte delle persone, è legato ad un momento speciale, raramente è quotidianità” (L’invenzione della gioia, Porthos edizioni, pag. 18).

In questo caso però prepariamoci a chiudere un bel po’ di baracche ed a buttar via parecchi burattini.

Lead through ideas (therefore innovation).

Faccio un’ eccezione alla mia regola di limitare l’uso dell’inglese ai casi strettamente indispensabili con un titolo totalmente in inglese.

Il motivo è che nessuna traduzione del concetto di “lead” in questo contesto mi piaceva, perchè qui lead è un po’ guidare, un po’ condurre, un po’ dirigire, un po’ “indurre a”, un po’ coinvolgere.

Ormai per tutti (sembra) chiara la differenza tra autoritarietà ed autorevolezza, ma “lead” ha un significato più ampio e meno duro, nel senso di soft e hard skills (ancora l’inglese).

Ad ogni modo, qualunque sia il significato che volete dargli, credo che nelle organizzazioni (economiche e non) sia sottovalutata l’importanza che hanno le idee per raggiungere il risultato.

Le idee sono quello che fanno una grande azienda, anche se non è un’azienda grande, parafrasando la vecchia pubblicità dei pennelli Cinghiale secondo cui per un lavoro bene fatto non ci voleva un pennello grande, ma un ungrande pennello.

Credo sia tanto più vero, quanto più si allarga il numero e l’eterogeneità dei portatori di interessi / fornitori / partners (stakeholders) con cui l’azienda deve interegire e con i quali i rapporti sono gerarchicamente sempre più deboli e labili.

E’ vero che le cose si fanno con i soldi (risorse), ma si fanno anche con le idee. Anzi le cose (strategie) si fanno PIU’ con i soldi che con le idee.

Oramai da un po’ di tempo tendo sempre a fare esempi tratti dalla mia esperienza diretta. Forse è vanità, a me piace pensare che sia per (di)mostrare che non si tratta di concetti puramente teorici, malgrado possano sembrarlo.

Le (buone) idee creano risorse (umane e finanziarie) perchè motivano le organizzazioni e le persone. Nota: le persone si motivano sempre da sè, l’attività di chi ha la responsabilità di gestire delle persone può solo affievolire o incrementare la loro motivazione intrinseca.

Un’agenzia (di pubblicità, di PR, di gestione di social media, ecc…) lavorerà con più voglia (dedicando attenzione, tempo, cura) ad una grande idea rispetto ad un grande budget.

Una buona idea può diventare un catalizzatore per realizzare co-marketing che moltiplicano la disponibilità di risorse ed arricchiscono il concetto iniziale, moltiplicandone quindi la rilevanza.

A tutti piace essere all’avanguardia, sia per soddisfazione personale che per i risultati che porta in termini di affari. Essere portatori di idee, genera rispetto e credibilità da parte di consumatori, clienti, intermediari commerciali e reti di vendita.

Esempi vissuti in prima persona potrei farne a decine, ma non voglio dilugarmi ed annoiarvi.

Lead through ideas, in italiano potrei tradurlo diventare generatori di idee, è conseguenza di un approccio culturale, quindi è facile e difficile allo stesso.

E’ facile perchè è una questione principalmente di atteggiamento, apertura mentale, curiosità intellettuale e competenze.

E’ difficile perchè pensare in grande richiede spesso un salto culturale è sempre il coraggio di andare oltre lo status quo (su questo rimando al post “Eterodossia ed innovazione”)

Il problema si risolve quando l’innovazione permanente, ma non frenetica, diventa lo status quo.

Per chiarire quello che voglio dire, o per confondervi ancora di più, concludo con tre citazioni:

“L’impresa di successo non è nè in anticipo nè in ritardo sui tempi: è giusta”; Giorgio Brunetti, professore di Economia Aziendale dell’Università Cà Foscari di Venezia durante una lezione al mio corso della Smea di Cremona. Io negli anni l’ho leggermente modificata dicendo che l’azienda di successo deve essere leggermente in anticipo sui tempi (consumatori, clienti, concorrenti).

“Excellence Pursuer, Prevail Forever”; slogan China Contruction Bank.

” A creative man is motivated by the desire to achieve, not by the desire to beat others. ”; Ayn Rand.

Being an achiever, not beater, brings you to your goals!

#bacialafelicità: l’ultima campagna di Coca Cola diventerà l’esempio del declino delle PR digitali?

Chi segue questo blog sa che segue con naturale attenzione quello che fa la Coca Cola.

“Naturale” perchè sono un vecchio affezionato consumatore prima ancora che per ovvie ragioni personal-professionali di marketing nei riguardi di uno dei principali, e più innovativi, marchi mondiali.

Queasi sempre ne ho parlato inntermini positivi, quando non entusiastici. Nei rari casi in cui le strategie non mi convincevano, c’era sempre una sospensione di giudizione che dava il benefecio del dubbio che avessero ragione loro, che, non a caso, sono la Coca Cola.

Oggi è uno di quei rari casi.

Lo scorso 12 aprile è partita in Italia (negli USA era partita il 25 febbraio) la nuova campagna Coca Cola che celebra i 100 anni dalla creazione della bottiglia “contour”.

Ovviamente la campagna ha il suo bel hastag #bacialafelicità e si sviluppa anche sui social networks oltre che (o forse più che) sui media classici.

A quasi un mese dal lancio però io non ho notato granchè attraverso i miei profili social e quindi per curiosità ho digitato #bacialafelicità su twitter ed ho guardato cosa usciva.

L’impressione è che la grandissima maggioranza dei tweet siano stati fatti da opinion leaders digitali più o meno professionisti (bloggers, ecc…) in seguito alla campagna di PR realizzata da Coca Cola (vedi foto del kit di PR) e siano molto pochi quelli spontanei. Guardo instagram (circa 200 immagini) e la situazione è più o meno la stessa.

La mia impressione è che le PR digitali siano arrivate ai meccanismi delle “classiche”PR analogiche, nel senso che puntano a raggiungere quanti più opinion leaders possibili, che di conseguenza genereranno un numero elevato di contatti/impressions potenziali.

Tutti questi tweets / post servono a qualcosa. Qual’è lo scopo dell campagna? Rafforzare / modificare il posizionamento della marca per aumentaerne il valore? Creare passaparola? Veicolare determinati contenuti? Aumentare i consumi?.

Niente di tutto questo si verifica se non si ottiene l’attenzione e non si crea il coinvolgimento di chi riceve il messaggio.

Una volta attenzione e coinvolgimento nelle PR digitali erano assicurati automaticamente dalla relazione tra l’opinion leader “attivato” dalla campagna aziendale e le persone che lo seguono, ma dubito che questo automatismo esista ancora.

Non dimentichiamo che alla base della “forza” di un opinion leader (analogico o digitale non importa) c’è sempre la credibilità. E nei compartamenti digitali le bugie hanno le gambe cortissime.

Negli ultimi 5 anni le aziende hanno sviluppato le competenze per gestire e reclutare gli opinion leader (digitali), che più si prestano a queste operazioni e meno sono credibili, quindi rilevanti.

Inoltre, o magari come conseguenza dell’intensificarsi delle PR digitali, nel comportamento delle persone nelle reti sociali si nota uno spostamento dalle interazioni basate sulle relazioni alle interazioni basate sugli interessi condivisi (basta utilizzare un po’ instagram per accorgersene in prima persona). Quest’ultima frase rileggetela, perchè esprime un concetto importante.

Un altro segnale dell’importanza crescente e cruciale che ha oggi il contenuto per sviluppare una comunicazione (dialogo) tra marche e persone (consumatori).

La campagna #bacialafelicità è stata ottimamente pensata ed eseguita, come ci si aspetta da un’azienda con la forza e la professionalità di Coca Cola.

Proprio per questo (l’assenza di errori di impostazione e di esecuzione§), la scarsa viralità organica sviluppata  dalla campagna #bacialafelicità a me sembra il paradigma del declino delle PR digitali di massa, così come si sono evolute da qualche anno a questa parte.

Concludo con una nota a margine: in termini di autenticità e ricchezza dei contenuti non mi sembra una bella cosa che il testo del comunicato di presentazione della campagna non ricordi il nome di Earl R. Dean, che 100 anni fa disegnò la bottiglia della Coca Cola.

 

Dopo i giornali, i prossimi suicidi saranno quelli di (alcune) catene di super e ipermercati?

Che i giornali si stavano suicidando l’ho scritto in un post del lontano 30 agosto del 2008. Evito di aggiungere e/o riprendere cose già scritte a suo tempo. Se volete capire l’introduzione di questo post, ecco qui il link a “Perchè i giornali si stanno suicidando”

Sottolineo solamente che la scelta del termine “suicidarsi” era per sottolineare come la morte dei giornali non fosse conseguenza inevitabile per il cambiamento della domanda del mercato, bensì conseguenza delle scelte (coscienti o meno) dei giornali stessi.

Mi chiedo se la stessa cosa non stia avvenendo per alcune catene della grande distribuzione italiana, dopo aver passato una settimana ad analizzarne i dati di andamento ed aver frequentato un po’ di punti vendita.

In estrema sintesi lo sviluppo della grande distribuzione commerciale in Italia è avvenuto principalmente a scapito dei negozi tradizionali fino ad almento metà degli anni ’90, con una redditività basata in buona parte sui contributi richiesti, ed ottenuti, dai fornitori e dalla rendita finanziaria creata dall’incassare immediatamente per la vendita di prodotti pagati a 90/120 giorni.

Questo scenario è andato annullandosi nel corso degli ultimi anni con le nuove aperture di super ed ipermercati, la riduzione delle risorse che i fornitori possono destinare a finanziarie la propria presenza sugli scaffali e l’annullamento della redditività finanziaria.

Tutto questo significa che oggi le catene della grande distribuzione devono costruire il successo di vendita e di reddività grazie a quello che avrebbe dovuto essere stato sempre il loro business principale: soddisfare in modo più efficace ed efficiente i desideri/bisogni dei loro clienti attuali e potenziali.

Lo stanno facendo?

La settimana scorsa ero a Milano accompagnando una missione commerciale di produttori alimentari tedeschi che cercavano importatori distributori in Italia. Ho quindi approfittato per andare a vedere un punto vendita Esselunga, come faccio sempre ogni volta che sono a Milano. Esselunga infatti è la catena distributiva più innovativa nei diversi aspetti della proposta e quindi, quando me ne capita l’occasione vado a vedere la “frontiera” della distribuzione in Italia. (i punti vendita Esselunga si trovano sostanzialmente solo in Lombardia, Toscana e Lazio).

Sarà forse perchè venivo da aver visitato du supermercati biologici dove regnava un’atmosfera rilassata, ma è stata una delusione.

Confusione, musica alta, questi scaffali lunghi ed alti che davano una sensazione industriale e leggermente claustrofobica e rendevano difficile orientarsi tra l’assortimento ed individuare i prodotti/marche. I prodotti biologici erano collocati insieme a quelli non biologici della stessa categoria merceologica (meglio così o meglio creare il reparto biologico all’interno del punto vendita?), ma in modo così confusi che si faceva fatica trovarli.

Per la cronaca sono sto parlando dell’Esselunga di Via Losanna a Milano

Ieri invece sono dovuto andare in un supermercato PAM a Trieste, perchè le Coop Essepiù dove vado di solito erano chiuse in occasione del 25 aprile (non esprimo opinioni sulla scelta). Credo sia il supermercato più scomodo del mondo, uno dei più user UNfriendly che abbi mai visto in termini di disposizione, assortimento, prezzi, organizzazione. Direi che rispecchia la cultura di business aziendale, che nelle mia esperienza di fornitore della catena si basa sul massimo sfruttamento della propria posizione.

Già scrivendo di marketing totale ho modificato la P di “Place” (distribuzione) in “Presenza”.

La domanda quindi è: cosa vogliono, e cosa vorranno in futuro, le persone riguardo all’approvvigionamento dei prodotti che usano per vivere (ossia riguardo a quello che oggi è rappresentato dal “fare la spesa”)? Sarà qualcosa di profondamente diverso da oggi nella sua essenza o solo nella forma? Come fare a soddisfarli?

Butto lì una dritta agli amici e colleghi della GDO: è almeno dal 2008 (ma ho ricordi di ricerche che risalivano al 2004 e riportavano gli stessi dati) che la quota di mercato dei negozi con licenza ambulante (i mercati rionali) si mantiene costante intorno all’11% del totale delle vendite di prodotti alimentari. Mentre i piccoli negozi tradizionali continuano a chiudere, gli ambulanti si mantengono costanti.

Forse per capire come soddisfare i consumatori nel futuro conviene analizzare in profondità cosa gli spinge a continuare a fare la spesa presso la forma di commercio più arcaica che c’è.

I sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor: #illydreamers.

Giusto l’altro giorno riflettevo che è da un po’ che non facevo un post dedicato all’attività di una marca e mi chiedevo se fosse dovuto al fatto al essere malato di troppa esperienza (né ho già viste troppo?), alla stanchezza creativa delle marche oppure perché non so più cosa succede, visto che non leggo i giornali, non guardo la TV né ascolto più la radio (grazie alla drastica riduzione delle ore passate in auto).

Poi un mio amico (e lettore di biscomarketing) mi ha chiesto cosa ne pensavo della nuova campagna illy, lanciata in grande stile su stampa, radio e web e che io non avevo visto per i motivi di cui sopra.

Allora per curiosità sono andato a cercarla su web. Ho trovato alcuni degli annunci stampa, alcuni degli spot su youtube (certi si caricavano e certi no), nessuno spot radio.

Non pensavo però di dedicarci un post, per diversi motivi. Innanzitutto mi straniava un po’ partire da uno stimolo esterno, poi perché ho già trattato di illy in numerosi post di questo blog, il più delle volte con toni (costruttivamente) critici. Volevo, e vorrei, evitare l’impressione di un accanimento specifico, magari con lo scopo di sfruttare la notorietà del marchio, tanto più nei confronti di un’azienda dove lavorano alcuni amici e di cui ho ammirato l’approccio strategico dagli anni ’90 in poi.

Per di più non mi dispiacerebbe avere anche un cliente un po’ più vicino a casa, visto che al momento sono tutti sparsi per il nord Italia, e non sono convinto che la critica, seppur costruttiva, sia il modo migliore per stimolare una eventuale collaborazione.

Poi però ho cambiato idea e quindi spero mi credano quando dico che è perché gli voglio bene.

Ho cambiato idea perché nel frattempo ho letto un paio di articoli di Marketing Insight dell’anno scorso ed ho trovato nella campagna #illydreamers una serie di spunti per riflessioni di marketing più generali.

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “Storytelling and Marketing: The Perfect Pairing?”:

“L’arte della narrazione è vecchia come il Mondo e rappresenta forse una delle più antiche forme di comunicazione tra le persone: trasmettere dei messaggi e condividere la conoscenza e la saggezza accumulate per aiutare a gestire e spiegare il mondo intorno a noi”.

“Secondo i risultati di uno studio del 2010 realizzato da ricercatori di Harvard e presentati nell’articolo “What Sex, Food And Selfies Have To Do With Effective Social Marketing”, condividere i nostri pensieri e le nostre esperienze attiva i sistemi di gratificazione del cervello, causando la medesima scarica di dopamina che si genera in conseguenza al sesso, al cibo o all’attività fisica.”

“Secondo un articolo della società di ricerca Nielsen sulla diffusione dell’interazione degli spettatori televisivi con il programma che stanno guardando attraverso i commenti sui social, l’audience su twitter è pari a 50 volte il numero degli autori dei tweets. Ad esempio se 2.000 persone fanno un tweet su un certo programma televisivo, questi tweet saranno visti da 100.000 persone”

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “With a purpose”:

“Quello che definisce il successo di lungo periodo di una marca, più dei semplici risultati finanziari attuali, è l’abilità di creare connessioni significative (nel senso che per essere rilevanti devono essere portatrici di un significato specifico, n.d.a.) con i consumatori (i direi meglio con le persone, n.d.a.)”

“… la nostra strategia dovrebbe essere di un coinvolgimento di scopo in tutte le nostre interazioni con i consumatori.”

“Per essere presa in considerazione una marca deve fornire al consumatore qualcosa di utile, per essere credibile ed ottenerne la fiducia deve essere autentica e coerente ai propri obiettivi ed ai propri ideali.”

“Il comportamento di una marca diventa il suo messaggio tanto quanto quello che dice (io direi DI PIU’ di quello che dice o, parafrasando Forrest Gum: marca è quello che la marca fa, n.d.a.).”

“….. è necessario definire e tenere a mente qual è il vantaggio (payoff) emotivo che il consumatore riceve dall’acquisto della marca.”

“Nell’universo digitale e sociale, la comunicazione unidirezionale della marca è rimpiazzata dalle conversazioni.”

Aggiungo a quanto letto su marketing management una considerazione mia, che ho sottolineato anche venerdì durante la mia lezione-seminario all’Università di Cà Foscari a Treviso: il rischio di cambiamenti eccessivamente frequenti nel posizionamento delle marche rispetto alla necessità di reiterazione.

E’ rischio connaturato nell’attività di marketing, che richiede di essere sempre un passo avanti al mercato, ai concorrenti e magari anche alle aspettative dei consumatori. E’ un rischio acuito dal fatto che chi si occupa del marketing e della comunicazione della marca, lo fa tutti i giorni, 365 giorni all’anno e quindi percepisce come “vecchio” un posizionamento che ha appena iniziato a sedimentare nel consumatore.

Permettetemi una considerazione grossolana: se durante l’anno la marca comunica per 1 mese, due anni del Brand Manager equivalgono a 24 anni per il consumatore.

La mission va definita come se fosse eterna e per servire allo scopo di indirizzare e far crescere la marca in una determinata direzione dovrebbe essere mantenuta almeno 5 anni. Il positioning statement (sempre che sia una cosa diversa) dovrebbe derivare dalla mission e quindi avere (almeno) la stessa durata.

Medesimo discorso per il payoff che, secondo me, deve essere l’essenza del positioning statement/mission/scopo della marca.

Modificare con troppo frequenza il payoff impedisce che questo si sedimenti nel percepito del consumatore, diventando un punto di forza e di ancoraggio della marca, anche in grado di accompagnare il consumatore nell’evoluzione del posizionamento della marca.

Queste considerazioni le ho sperimentate in prima persona sul campo con Keglevich che ha mantenuto il payoff “Keglevich la vodka ke volevich” per almeno un decennio, dalla fine degli anni ’90 alla fine degli anni 2000, con crescente successo ed attraverso 3 riposizionamenti della marca. Non credo sia stato un caso che l’unico anno in cui è stato cambiato sia stato quello con le peggiori performances.

Se questo era vero 15 anni fa, secondo me lo è ancora di più oggi, quando la frammentazione e la moltiplicazione di media, messaggi e targets rende ancora più importante il rafforzamento dell’identità della marca.

Torno a bomba, ossia alla campagna #illydreamers riportando qui sotto due annunci stampa e linkando la sezione #illydreamers nel sito dell’azienda.

HenriqueChristophe

Mi/vi pongo quindi alcune domande sulla campagna

-          Stimola la condivisione/il commento?

-          Coinvolge l’audience (consumatori/persone)?

-          Stimola la conversazione della marca con l’audience (consumatore/le persone)?

-          Qual è il payoff emotivo che si aspetta o propone all’audience (consumatore/consumatore)?

-          L’utilizzo dell’hashtag #illydreamers in contemporanea con quello #livehappilly (che è anche il payoff della campagna) rafforza la personalità della marca allargandola oppure la indebolisce confondendo? Considerando poi che da settembre 2014 a gennaio 2015 è stato utilizzato l’hashtag #buongiornoilly per il concorso relativo alla miglior colazione in casa?

-          L’utilizzo della marca negli hashtag favorisce le considivsioni oppure le frena? Ha ragione illy oppure la maggior parte delle altre marche, in tutti i settori, che utilizzano hashtag emozionali dove la marca non compare?

Concludo con due note tecniche, una positiva e una negativa (nella migliore tradizione cerchiobottista).

Della campagna stampa #illydreamers mi è piaciuto che i soggetti siano sospesi. E’ una soluzione che crea una leggera scansione rispetto alla realtà che attira l’attenzione e, soprattutto, suggerisce / sottolinea / rafforza l’aspirazione verso l’alto e verso il cielo implicita nei (grandi) sogni.

A me ha ricordato un po’ le foto che Philippe Halsam faceva alle persone famose mentre saltavano perché secondo lui “l’atto del saltare rivela la vera natura dei soggetti”. Forse sarebbe stato troppo sofisticato fare le foto delle persone veramente nell’atto di saltare, però secondo me sarebbe stato assolutamente coerente con l’autenticità e la qualità del posizionamento di illy, (e l’avrebbe quindi rafforzato) nonché con il suo legame con l’arte.

La nota negativa è che nella pagina web del sito aziendale con la storia di Christophe Locatelli c’è un errore di ortografia. Per un testo che comincia con “Amo le sfumature, ho sempre sognato di distinguermi per i dettagli” non è che sia il massimo.

Come sta scritto nell’intestazione della mia carta intestata ed in calce alla mia firma sulle e-mail:

Il marketing di successo è fatto di strategie nate dall’immaginazione più sfrenata, realizzate con disciplina maniacale.

L’Italia negli USA è talmente di moda che sono trendy persino le bocce; figuriamoci il Prosecco.

Nelle ultime tre settimane sono stato in Russia (Mosca) e USA (Chicago e Philadelphia).

L’impressione che ho avuto è stata molto diversa, ma evito considerazioni sulla Russia sia perchè mi sono mosso poco, sia perchè ragionando di vino italiano la mia visione rischia di essere distorta dal trend disastroso del cambio rublo/euro (devestante abbinato anche al calo generale del PIL russo).

Tutto altro ambiente negli USA dove è palpabile non solo la ripresa economica, ma anche il ritorno della ricerca ed esibizione, se non ostentazione, del lusso. Nei vini questo si sta significando una ripresa dei rossi californiani “bordolesi” di alta gamma e dei Bordeaux di gamma media ed alta.

L’altra cosa che mi ha colpito è quanto l’Italia e l’italianità siano sempre più di moda. La pubblicità di questo locale di Chicago mi ha lasciato a bocca aperta, perchè se diventano di moda persino le bocce ….. tutto diventa possibile.

Pinstripes chicago

Mi immagino questi hipsters millennials (ossia persone tra i 21 e 35 anni) che discutono “sboccio o vado al pallino?” sorseggiando Prosecco.

Già perchè l’altra notizia sorprendente riguardo agli USa è che il consumo di Prosecco nel 2014 è cresciuto di un 30%, superando le di champagne non solo in litri ma anche in dollari.

Notizia che in realtà non è poi così sorprendente per i lettori attenti di biscomarketing visto che nel 2012 ho pubblicato il post “Quale futuro per il prosecco negli USA” che sintetizzava i risultati di una ricerca commissionata da Bosco Viticultori e resa pubblica in occasione del Vinitaly. Nel post trovate il link alla ricerca su slideshare, consiglio di leggerla perchè è ancora attuale e fornisce indicazioni interessanti su quello che potrà essere l’ulteriore sviluppo del Prosecco negli USA e come sostenerlo / realizzarlo.

Riguardo al Prosecco, alcune persone mi hanno chiesto di commentare la notizia che in Veneto mancherebbero 1.500 / 2.000 ettari di vigneto rispetto a quanto previsto.

Non lo farò perchè io sono un analista rigoroso, a volte feroce, ma non sono un polemista ed in questo caso mancano dati ufficiali e certi.

I dati di vendemmia pubblicati da Valoritalia si fermano al 2012 (???!!!) e comunque la produzione di uva non batte con quella rilevata dalla Regione Veneto.

D’altra parte la Regione Veneto nei dati che comunica annualmente in occasione della chiusura della campagna vendemmiale identifica la produzione di uve atte a Prosecco DOC, ma rileva la superficie coltivata a glera tutta insieme (DOC e non DOC). Questo impedisce stime affidabili sulla produzione di uva per ettaro dei vigneti di Prosecco DOC.

Attendo quindi dei dati certi per fare dei ragionamenti che abbiano basi solide. Per il momento mi limito a constatare che la produzione di uva rilevata dalla Regione Veneto applicata alla nuova stima di 15.000 ha di vigneto di Prosecco porta a rese/ettaro nel 2013 e 2014 di 173 q.li. Si tratta di un valore inferiore al massimo di 180 q.li/ha previsti dal disciplinare e quindi compatibile e credibile. Per fare una prova provata nel senso galileiano del termine (provare e ri-provare), sarebbe da verificare il peso dei vigneti di secondo e terzo anno e di quelli a biologico (che hanno produzioni inferiori), piuttosto che cercare giustificazioni nella stagione piovosa.

Ricordo che nel mio (eterno) post “Per soddisfare la domanda mancano almeno altri 100.000 hl di Prosecco DOC vendemmia 2013″ dello scorso 29 giugno già segnalavo che nei numeri della produzione per ha c’era qualcosa che non tornava e che la disponibilità di Prosecco DOC 2014 sarebbe stata insufficiente a soddisfare un aumento della domanda. Anche qui consiglio di andare a rileggerlo, magari saltando le parti relative ai conteggi, perchè credo che contenga indicazioni ancora oggi utili.

Concludo chiedendo(mi) se alla luce delle difficoltà di operare con dati solidi ed affidabili che ha evidenziato il “caso Prosecco” si creda davvero di poter “governare” la istituenda DOC del Pinot Grigio delle Venezie, con copertura su tre regioni. Quanto meno credo sia doveroso un approfondimento di analisi e magari di allargamento della discussione.

 

Nutella B-ready, ovvero il marketing è la scienza dell’ovvio.

La storia del marketing è piena di strategie apparentemente ovvie. Dico apparentemente perchè l’ovvietà diventa chiara a posteriori, solo dopo che qualcuno ha avuto la capacità di vedere (e dare) dare un senso (logico) in una serie di elementi che erano già sotto gli occhi di tutti.

Questo per dire che le cose che sembrano ovvie a posteriori non lo erano in precedenza. Tra l’altro ci vuole una buona dose di coraggio e di umiltà “manageriale” per fidarsi dell’efficacia delle cose semplici e scontate.

Una caratteristica che spesso contraddistingue i bravi ed i forti, quindi non soprende che questa capacità si ritrovi spesso nelle strategie di Ferrero.

Direi che tra le cose apparentemente ovvie rientra anche il nuovo prodotto “Nutella B-ready” visto ieri nel mio supermercato di fiducia.

espositore Nutella B-ready 1

Espositore Nutella B-ready 2

Dopo aver comunicato per anni la bontà della semplicità di “pane e Nutella”, adesso Ferrero lo fornisce già fatto, pronto per essere portato e mangiato dove si vuole.

E’ una merenda o è uno snack? C’è differenza? La cialda sarà buona come il pane “vero”? Punta a coprire un target ampio dai bambini ai giovani adulti oppure rafforzare la penetrazione ed il consumo di Nutella in un target più limitato?

Immagino siano tutte domande a cui in Ferrero si sono risposti con le dovute ricerche.

Quello che noto io guardando da fuori è che sposta ulteriormente in avanti il livello di contenuto di servizio richiesto o desiderato dal consumatore. In teoria farsi un “pane e Nutella” è una delle cose più semplici che ci siano, se però penso alla struttura delle giornate delle persone mi rendo conto della quantità di situazioni in cui un “pane e Nutella” ci può star bene, ma mettere insieme una fetta di pane, un coltello e la Nutella non è così semplice.

L’altra cosa che noto è la “monetizzazione” della brand equity, ovvero del valore della marca. La costruzione e l’accrescimento della brand equity è uno dei principali risultati delle strategie di marketing, ma è anche un concetto che rimane in buona misura intangibile nell’azienda in funzionamento (diverso in caso dell’azienda in vendita). Di conseguenza una delle principali voci positive del ROMI (return on marketing investment) è raramente o parzialmente misurata.

In questo caso Ferrero utilizza, giustamente, l’equity del marchio Nutella per lanciare un nuovo prodotto senza il bisogno di un sostegno di comunicazione.

Ferrero non è nuova a questo approccio nel lancio dei nuovi prodotti, basta pensare a quanto fatto a suo tempo con Gran Soleil.

Il vantaggio di questi lanci “soft” è che permettono di decidere di allocare un budget di comunicazione anche parecchio tempo dopo l’introduzione del prodotto sul mercato, in base al successo o meno di vendita. Immagine che dal punto di vista produttivo questo permetta anche di gestire con più gradualità l’utilizzo delle linee di produzione destinate al nuovo prodotto.

La pre-condizione per il successo di un lancio “lento” è l’elevato grado di innovatività del prodotto dal punto di vista produttivo-tecnologico, che evita il rischio di essere copiati e sorpassati dai concorrenti.

In questo caso il livello di innovatività è dato sia dal prodotto in sè che dalla brand equity, nel senso che anche se il “Mulino Bianco” facesse i “Flauti” al cioccolato, non sarebbero comunque i “Flauti” alla Nutella.

Unica nota che non mi convince del tutto è il nome, che mi sembra allo stesso tempo ovvio e farraginoso, con quel B-ready che vuole dire sia “pane” che “pronto”, e foneticamente poco invogliante.

Magari la prossima settimana oltre a fotografarlo lo compro pure, così faccio l’assaggio, che rimane la prova più importante per ogni prodotto alimentare.

 

La fidelizzazione del cliente (persone), impegno quotidiano …..

…. oppure, volendo parafrasare Forrst Gump, fedele è chi fedele fa.

Sto leggendo un bel po’ di numeri arretrati delle riviste dell’American Marketing Association (“Marketing News” e “Marketing Insight”) con il risultato che ho una marea di concetti chiave ed esempi illuminanti che mi vagano per la testa. Se me ne ricordassi il 10%, aumenterei il mio sapere di marketing del 50%.

L’unico modo che conosco per gestire questa massa di informazioni è lasciarla frullare ed aspettare di vedere cosa sedimenta, sperando che siano le cose effettivamente più rilevanti e non quelle più curiose (la cultura è quello che resta dopo che uno si è dimenticato tutte le nozioni).

Uno dei concetti che è “precipitato” è quello che che nell’era digitale le marche devono cambiare approccio e focalizzarsi più sull’acquisizione di nuovi clienti che sulla fidelizzazione e mantenimento degli attuali. NON LO CONDIVIDO, come NON CONDIVIDO il principio che la rivoluzione digitale ha cambiato i presupposti di base del comportamente delle persone (clienti) rispetto all’era analogica.

Comincio l’analisi da questo ultimo punto. C’è stata una rivoluzione digitale della società? Assolutamente si. come forse ho già raccontato su questo blog, nel 1987 avevo già pensato che il titolo del mio primo libro di racconti si sarebbe intitolato “MODEM: Modulatore – Rimodulatore” a significare che l’utilizzo delle tecnologie digitale implica per l’uomo l’adattamento a nuovi e diversi schemi mentali, così come l’utilizzo dei macchinari alla base della rivoluzione industriale avevano implicano che l’uomo si adattasse a nuovi e diversi schemi fisico-gestuali (poi non sono andato oltre al terzo racconto e quindi il libro non ha neanche potuto mai essere nemmeno rifiutato da un editore, ma questa è tutta un’altra storia).

Quello che però l’avvento del MODEM sostanzialmente non modifica sono gli schemi emotivi delle persone, schemi che risiedono nel sistema limbico, la parte pù primitiva del cervello  .

Questo significa che i consumatori di ieri erano tanto infedeli quanto quelli di oggi, solo che nella società digitale i movimenti delle scelte delle persone sono più evidenti.

Non che prima non si sapesse, ma, sembra, che buona parte del marketing strategico (U.S.A.), fosse basato sul principio “occhio non vede, cuore non duole”.

Già alla fine degli anni ’80 le ricerche avevano dimostrato che un consumatore insoddisfatto condivideva la sua esperienza negativa mediamente con altre 8 persone, mentro quello soddisfatto condivideva la sua esperienza positiva mediamente con altre 3 (o erano 2?).

Con un approccio ancora più empirico, è evidente che lo spostamento di quote di mercato, l’affermarsi di nuove marche e la scomparsa di altre è conseguenza di cambiamenti nei comportamenti d’acquisto delle persone (in altre parole della loro fedeltà alle marche che acquistavano prima).

Questo si rifletteva anche sulla visione accademico/teorica che definiva le attività di comunicazione come strumenti che hanno principalmente la funzione di costruire e rafforzare la fidelizzazione dei propri consumatori e le attività promozionali come strumenti che hanno principalmente la funzione di rompere ed indebolire la fedeltà dei consumatori alle marche (concorrenti). Poi lo so che ci sono le campagne di comunicazione che hanno l’obiettivo di reclutare nuovi consumatori e quelle promozionali (raccolte punti, carte fedeltà, ecc…) che hanno l’obiettivo di trattenere i clienti, ma qui sto parlando di strategie e non di tattiche e poi se approfondisco ogni punto, non finiamo mai (se volete andate a vedervi la presentazione sul “Marketing Totale” del post della settimana scorsa, dove esprimo il concetto che oggi le strategie devono essere (anche) tattiche e la tattiche devono essere (anche) strategiche).

Quindi se in passato il marketing aziendale basava le proprie strategie sul presupposto che i consumatori erano automaticamente fedeli, sulla semplice scorta dell’esperienza di consumo della marca, sbagliava sapendo di sbagliare.

L’approccio “customer exclusive” non ha senso oggi come non l’aveva ieri, e se non ce ne eravamo accorti è solo perchè ci cullavamo nell’ignoranza, beandoci di Net Promoter Score resi inutili dalla mancanza di approfondimenti motivazionali (al di là della distorsione culturale nella lettura delle scala dovuta ai diversi sitemi di valutazione scolastica, dove nel del sistema educativo nordamericano i punteggi vicino al 100 esistono, mentre da noi sono un’eccezione).

Come sempre nel marketing l’unico approccio corretto è quello che parte dal consumatore, ed il consumatore è sempre stato “brand inclusive”, quindi le strategie delle marche di successo erano, sono e saranno quelle “customer inclusive”.

Nessun consumatore (persona) ha deciso di dedicare la propria fedeltà ad una marca, a priori, per tutta la vita. La fedeltà viene decisa ogni volta che si presenta la situazione di consumo per quella marca/prodotto sulla base della valutazione netta delle proprie esperienze dirette ed indirette con la marca.

Il moltiplicarsi delle possibili esperienze, soprattutto quelle indirette legate al passaparola che sfuggono al controllo del proprietario della marca, e l’aumento dei prodotti / marche alternative aumentano l’intensità competitiva, ma non cambiano il principio.

Non cambia nemmeno il fatto che sarà sempre più economico in termini di risorse organizzative e finanziarie lavorare per  confermare nella scelta chi ci conosce già (e che anche noi azienda dovremmo conoscere), rispetto ad un “estraneo”.

Il che non significa che aziendalmente possiamo mettere le corna ai nostri consumatori impunemente, come spiegavo qui.