La fine del dettaglio, come lo conosciamo.

“It’s the End of the World as We Know it (and I Feel Fine)” cantavano i R.E.M. nel 1987 (la cover di Ligabue è del 1994).
Trentanni dopo “Marketign News” pubblica un articolo intitolato “The End of Retail (as we knew it)” e dal contenuto doesn’t seem they feel very fine.

Siccome quello che succede oltreoceano in larghissima misura poi si verifica da noi con un po’ di ritardo (mesi o anni, a seconda) credo sia interessante ragionare sui concetti principali dell’articolo.

Innanzitutto lo scenario: nei primi tre mesi del 2017 alcune tra le principali 5 catene americane di grandi magazzini, quindi non stiamo parlando della distribuzione alimentare, hanno perso vendite per 4,6 miliardi di dollari.
Stiamo parlando di Macy’s, Kohl’s, Dillard’s, J.C. Penney e Nordstrom. Le vendite di quest’ultima sono state le più basse dal 1972.
Sears, forse la più famosa catena di grandi magazzini americana, ha chiuso centinaia di punti vendita e nove aziende hanno dichiarato bancarotta, eguagliando in 3 mesi il totale di tutto il 2016.

Colpa di Amazon? Sicuramente sì, ma solo in parte.
Una ricerca rileva che:
- il 30% dei consumatori preferisce vedere dal vivo, toccare con mano (le cose) e provare le cose (l’abbigliamento) prima di comprare.
- al 49% piace portarsi a casa immediatamente quello che hanno comprato.
- Il 18% dice che gli piace ancora andare in negozio per la specifica esperienza d’acquisto.
- “Solo” il 7% dichiara di acquistare esclusivamente on-line.
Il fatto che con lo smartphone le persone abbiano il mondo in tasca ha certamente cambiato la società e quindi anche i comportamenti d’acquisto, non necessariamente cancellando i negozi fisici, ma sicuramente cambiando quello che le persone si aspettano quando ci entrano.
Un’altra ricerca rileva che i commessi non riescono a dare una risposta soddisfacente ai clienti nel 50% dei casi. Se la percentuale vi sembra incredibile significa che non siete mai andati a comprare nei negozi dei grandi mall americani. La prima volta che mi è successo, era il 1990 e cercavo con un amico un cronografo Hamilton, sono rimasto stupito e demoralizzato di come i commessi delle orologerie conoscessero a malapena quello che avevano in negozio in quel momento e non avessero idea del resto.

La mia impressione è che oggi questa de-specializzazione del personale si sia diffusa anche da noi.
Magari una volta il problema era minore perché anche il consumatore ne sapeva poco, ma oggi non è più così.
Un’altra ricerca ancora stima che il valore delle vendite off-line “generate” da dispositivi mobili nel 2016 siano state pari a 1.700 MILIARDI di dollari. Ossia poco più della metà di tutte le vendite al dettaglio negli USA.
Significa che le persone cercano quello che vogliono acquistare sui dispositivi mobili e poi vanno in negozio a comprarlo. Significa quindi che arrivano in negozio molto ben informati.
Non si fa menzione del trend inverso, apparso qualche anno fa, di andare a vedere il prodotto fisicamente in negozio e poi acquistarlo a prezzo inferiore on-line. Che sia dovuto a politiche di prezzo più accurate? Oppure all’abitudine oramai acquista negli acquisti on-line che ha reso superflua la necessità di toccare con mano il prodotto prima di comprarlo?
In contemporanea si prevede che gli acquisti realizzati da smartphone cresceranno ad un tasso di oltre il 20% all’anno da qui al 2021, raggiungendo un totale di 152 miliardi di dollari, pari al 24% di tutti gli acquisti on-line.

In questo scenario le catene di grandi agazzini americane hanno risposto cercando di rifugiarsi nei vecchi modelli, perseguendo maggior efficienza attraverso la riduzione dei costi, ma lo scenario riportato sopra dimostra una volta di più che l’efficienza senza l’efficacia non serve a niente.
La prima cosa da fare quindi è recuperare il gap digitale. Se la metà delle vendite off-line comincia dai dispositivi mobili, l’esperienza digitale (app, sito, ecc…) offerta alle persone da un negozio fisico deve essere almeno pari a quella offerta da un negozio on-line.
Come non mi stancherò mai di ripetere on-line ed off-line non sono due cose separate, ma fanno parte integrante ed integrale dello stesso mondo: il nostro.

E quindi, sempre nell’ottica del Marketing Totale, la P di Presenza che sostituisce quella di Place va vista sia coe presenza fisica che digitale.
Attenzione che la parità digitale per i negozi fisici non è un vantaggio competitivo, ma è un must competitivo. La condizione minima per la sopravvivenza su cui costruire il successo attraverso il coinvolgimento del cliente.
Quando e come agganciare i (potenziali) clienti, specialmente i nativi digitali?
Qui è utile il concetto di micro-momenti sviluppato da Google. Un micro-momento sono quei pochi secondi in cui le persone scelgono nel momento in cui decidono di guardare il proprio smartphone per fare, comprare o imparare qualcosa.
Dalle analisi di Google il 90% delle persone non aveva alcuna specifica marca in mente nei loro micro-momenti ed il 73% ha fatto la propria decisione d’acquisto in base a quale azienda fosse la più utile/accessibile durante i loro micro-momenti di ricerca di acquisto.
Gli affezionati lettori di questo blog forse ricorderanno che una delle implicazioni del mio concetto di marketing totale, nato dalle riflessioni sulle caratteristiche della società digitale, è che non sono più le aziende/marche a cercare i consumatori, bensì i consumatori a trovare le aziende/marche. E’ quindi necessario essere facili da trovare nel momento giusto. Da qui l’importanza di un’identità, chiara forte ed autentica.

A questo punto è il caso di fare qualche esempio.
Bonobos’ Guideshop, catena di negozi di abbigliamento recentemente acquistata da Walmart per 310 ilioni di dollari.
I negozi sono organizzati con un concetto di showroom, ossia nel negozio non ci sono gli stessi capi nelle diverse varianti di taglie e colori ripetuti, ma c’è un solo “campione” per tipo e taglia.
I clienti prendono appuntamento con il negozio tramite il web, così quando arrivano sono subito accolti da un commesso che li seguirà nell’acquisto, provano i vestiti per scegliere taglio e tessuto. Per quanto riguarda i colori che non sono presenti in negozio, il commesso fa delle foto ai clienti con il capo scelto e poi gli mostra le diverse varianti di colore applicando dei filtri all’immagine.
Il profilo del cliente viene registrato per aiutarlo a trovare la stessa taglia e lo stesso taglio alla prossima occasione.
Il cliente fa l’acquisto nel punto vendita e dopo due giorni riceve il capo a casa (evidente il risparmio di spazio nel negozio, quindi di costo di affitto del punto vendita).

Nordstrom si sta rilanciando inserendo zone pop-up nei negozi in modo da creare negozi temporanei all’interno dei negozi e così rinnovare continuamente l’assortimento, in modo rendere più divertente/interessante l’esperienza d’acquisto perché c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.
Strategia in essenza non molto diversa da quella di Zara, che con il suo rinnovo rapido e continuo dell’assortimento ha superato il concetto di “collezione”.

Best Buy, catena di elettronica, sta aumentando le proprie vendite puntando sul divertimento nel processo d’acquisto permettendo ai clienti di provare gli articoli, quindi sostanzialmente di giocare, prima di acquistarli, ultimi arrivi compresi. Anche qui il modello si avvicina ad una showroom.
Per evitare di diventare una webroom e vedere i propri potenziali clienti andare a casa a comprare on-line l’articolo che avevano provato in negozio, Best Buy offre come garanzia di miglior prezzo, oppure rimborsa, rispetto a tutti i negozi fisici ed alcuni siti di e-commerce, Amazon compreso.
Il cliente quindi può giocare nel punto vendita, se gli piace lo compra al miglior prezzo del mercato e se lo porta a casa subito, senza dover aspettare che gli arrivi per corriere.

In sintesi bisogna sperimentare perché i vecchi modelli non reggono più ricordando che:
- C’è una quota di consumatori mobile only, una maggioranza mobile first, ed una quota (piccola e calante?) di mobile never.
- L’esperienza di consumo COMPLESSIVA è UNA SOLA ed è il risultato della somma (meglio se diventa una moltiplicazione) delle esperienze digitali e di quelle fisiche.
No, il commercio non è un paese per vecchi.

Il marketing delle mestruazioni.

Bloody hour

Gli affezionati lettori di questo blog probabilmente hanno già intuito che intuito / sanno il fascino che esercitano su di me le coincidenze. O meglio, che non credo (troppo) alle coincidenze e quindi credo (abbastanza) nel destino, ovvero il futuro non è incerto, è solo sconosciuto.
Non potevo quindi fare a meno di scrivere questo post dopo che giovedì scorso mi sono trovato prima a leggere un articolo sull’iniziativa Bloody Hour del locale Anna Loulou bar di Jaffa-Tel Aviv sul quotidiano di Valencia e poi un altro sulla strategia di marketing della marca “U by Kotex” sul numero di settembre di “Marketing News”.
Cominciamo con la Bloody Hour. Concetto e meccanica sono abbastanza semplici.
Partendo dalla considerazione che la propria clientela femminile si trova a sanguinare (traduco letteralmente dall’annuncio dell’evento su fb) il 25% dei giorni del mese, il locale ha deciso di offrire il 25% di sconto alle clienti che vanno al locale nel periodo in cui hanno le mestruazioni.
Il party di lancio dell’iniziativa si è tenuto lo scorso 28 ottobre con lo slogan, semplice ma efficace: “Bloody hour is the new happy hour”.
Per quelli di voi più pruriginosi o sospettosi va detto che per godere dello sconto non serve dimostrare niente, basta la parola e ci si basa sulla fiducia.
Dana & Moran dell’ Anna Loulou bar si aspettano e sperano che l’iniziativa si espanda in giro per il mondo.
Per il momento sicuramente quello che si è diffuso è la notizia, che è stata ripresa un po’ in tutto il mondo.
I malfidenti sono liberi di pensare che si tratti di una (bieca) operazione mediatica. Le due titolari del locale dichiarano che il loro obiettivo era duplice: da una parte far sentire riconosciute e comprese le clienti che si trovano in una situazione speciale riservandogli un trattamento di favore e dall’altra far sì che l’argomento “mestruazioni” sia affrontato più apertamente da tutti, uomini compresi.
A quanto raccontano le due titolari del locale, pare che l’idea sia venuta Moran Barir una sera che al bar il bartender non si ricordava se lei avesse ordinato vino bianco o vino rosso, al che lei rispose: “ecco come te ne ricorderai: ho le mestruazioni quindi portami un vino rosso”. Che può anche essere uno spunto interessante per tutti i wine bar, enoteche, ristoranti nonché per i produttori di vino.
Folklore di marketing a parte, complimenti per l’iniziativa.
Parte in buona parte dalle stesse premesse, ma è molto più articolata la strategia di marketing che alcuni anni fa ha portato la Kimberly-Clark a lanciare la marca di assorbenti, salvaslip, ecc… “U by Kotex”. Per i meno anglofoni e non appassionati di Prince ricordo che la pronuncia della lettera “U” suona come quella di “you”.
Anche qui l’origine del lancio della marca è la considerazione che nel posizionamento e nella pubblicità degli assorbenti si è sempre “perpetuato lo stigma culturale secondo cui il miglior periodo mestruale è quello che viene ignorato”. E giù a fare paracadutismo, mettersi pantaloni bianchi aderenti, ecc..
Il posizionamento con cui la marca è stata lanciata sette anni fa quindi è stato “Breack the Cycle”, ossia “Rompere il Ciclo”, manifestando l’obiettivo di superare gli stereotipi relativamente agli assorbenti e quindi alle mestruazioni.
Questo posizionamento ha portato allo sviluppo di un packaging con immagine originale e diversa rispetto ai classici codici della categoria. Invece delle ennesime confezioni dai toni pastello smorzati “U by Kotex” buca lo scaffale con confezioni nere con colori acidi.

 

u by kotex

I codici grafici si avvicinano quindi al mondo dell’ “athleisure” (abbigliamento tecnico per attività sportive utilizzato anche normalmente nel tempo libero), comunicando quindi modernità/contemporaneità, e dei prodotti di lusso/alta qualità.
“U by Kotex” ha intercettato, e probabilmente almeno in parte stimolato, il cambiamento dell’atteggiamento di parte della società, donne i primis ovviamente, ma non solo, per cui diversi aspetti della femminilità non sono più tabù e vendono affrontati apertamente e con franchezza nella vita di tutti i giorni.
I paternalismi e gli imbarazzi non corrispondevano più a come un’ampia parte delle donne percepisce l’argomento mestruazioni.
La comunicazione quindi è andata di conseguenza. Sul sito sezioni con descrizione dei prodotti e valutazione da parte delle consumatrici, informazioni e consigli non solo sui prodotti ma anche sulle mestruazioni in generale, un calcolatore del ciclo mestruale, ricette, esercizi di fitness ed una sezione di intrattenimento con la web serie “Carmilla” su un gruppo di studentesse, di cui una è un vampiro!!! (questo è il link ed avviso che crea dipendenza, io mi sono guardato le prime 20 puntate una dopo l’altra).
“U by Kotex” ha strutturato l’ascolto della propria audience con il ”Period Project” (che si potrebbe tradurre come “Progetto Mestruazioni”) e la prima iniziativa è stata il “Period Shop” (che si potrebbe tradurre come il “Negozio delle Mestruazioni).
Si è trattato di un negozio temporaneo aperto per tre giorni nel maggio 2016, nato dall’idea espressa in un post di una studentessa universitaria che si lamentava del fatto che non esistessero negozi dedicati ai prodotti per le mestruazioni e descriveva il suo negozio ideale, sfidando qualcuno a farlo.
Detto fatto, U by Kotex ha realizzato un negozio con abbigliamento, accessori, articoli per la casa, articoli di bellezza, cibo legati/adatti al periodo mestruale, oltre, ovviamente, ai propri prodotti.
La logica espressa dall’agenzia creativa che ha realizzato il negozio temporaneo era che “nel comprare tamponi ed assorbenti le consumatrici dovrebbero avere lo stesso divertimento (“excitement” nell’originale) che hanno quando vanno a comprare un nuovo rossetto”.
Il “Period Shop” è stato seguito dalla campagna “Power to Period” (che si potrebbe tradurre come “Potere alle Mestruazioni”),nata anche questa da un tweet e realizzata in collaborazione con DoSomething.org.
La campagna incoraggiava le persone a donare una confezione di assorbenti ad organizzazioni di accoglienza di senzatetto distribuite in tutti gli Stati Uniti.
Quali saranno prossimi passi: “U by Kotex” sta osservando le innovazioni di prodotto che si stanno affacciando sul mercato coppe mestruali, biancheria intima per il periodo mestruale ed assorbenti di materiale totalmente ecocompatibile.
C’è però un aspetto di “processo” più che di prodotto per migliorare la “consumer experience” relativa alle mestruazioni ed è suggerito da Nancy Kramer, Chief Evangelist della IBM iX (qualunque cosa ciò voglia dire) e fondatrice di “Free the Tampon”, un’organizzazione che supporta aziende ed istituzioni pubbliche per rendere disponibili gli assorbenti nei bagni pubblici.
Anche qui si parte dalla semplice constatazione che nella vita reale capita di trovarsi ad aver bisogno di un assorbente e di non averlo con sé. Allo stesso modo che ci aspettiamo di trovare la carta igienica e/o le coperture usa e getta per il wc nel bagno di un bar, azienda, scuola, ecc… “Free the Tampon” ritiene che si dovrebbero trovare anche gli assorbenti.
Per i Signori Uomini a cui sembra un’americanata cito il fatto che, dopo un test pilota in alcune scuole, oggi la citta di New York provvede a rendere disponibili gli assorbenti nei bagni di tutte le scuole pubbliche, prigioni e strutture di accoglienza di senzatetto.
“Free the Tampon” non ritiene che debbano essere i produttori di assorbenti a fornirli gratuitamente e “U by Kotex” evita di spingere per l’adozione di questa politica, per evitare il conflitto di interessi in quanto produttore.
Ciò non toglie che il problema resta, e quindi anche l’opportunità. Se io gestissi una marca di prodotti (qualsiasi tipo) rivolti al pubblico femminile un pensierino di sostenere un’iniziativa del genere lo farei.
Per sintetizzare a me è sembrato un caso estremamente interessante di individuazione di nuovi spazi di mercato in un settore sostanzialmente statico grazie all’osservazione delle tendenze sociali, il coraggio di seguirle/interpretarle (sempre difficile quando uno è tra i leader della categoria), la capacità di utilizzarle per innovare e l’apertura di ascoltare in modo organizzato, sistematico e continuativo per mantenersi attuali rispetto alle proprie audiencies.
E che mi ha fatto ricordare che la pria volta che ho assistito al superamento, con ironia, gli stereotipi relativi al ciclo mestruale è stato nel 1980 o 1981 in uno spettacolo della compagnia del Teatro dell’Elfo di Milano (chissà se esiste ancora). Altro che big data: l’arte è sempre il primo posto in cui si osservano i segnali di cambiamento della società.

Gestire i corporate brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca Cola. 2° e ultima puntata.

Domenica scorsa vi avevo lasciati con la domanda: la campagna #cocacolarenew sarà in grado di riposizionare l’immagine di “Coca Cola” (bevanda) in senso più salutistico per ridurre l’effetto negativo dei nuovi comportamenti di consumo nei confronti delle bibite gassate zuccherate?
La risposta è: dubito fortemente, almeno per due ragioni:
• La campagna è Coca Cola centrica: vero che la voce fuori campo parla di “Coca Cola Company” però l’ashtag è #cocacolarenew.
• Gli altri prodotti sani (thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc…) appartengono a categorie profondamente diverse dalle “cole” per ingredienti, caratteristiche organolettiche e motivazioni di consumo. Il trasferimento di percezione, immagine e competenze è quindi limitato, se non nullo. Mi spiego meglio: se mi piace il Pandoro Bauli e lo considero migliore rispetto ai concorrenti, è probabile che ritenga di poter trovare la stessa qualità anche nei croissants. Si tratta sempre di prodotti dolciari da forno, la cui produzione richiede le stesse competenze e, festività a parte, soddisfano motivazioni e momenti di consumo simili (alzi la mano chi non ha mai fatto colazione con un pezzo di pandoro avanzato dal giorno prima).
Detto in sintesi la campagna #cocacolarenew rimane soprattutto una campagna di Coca Cola (bevanda).
Per questo io vedo più probabile un trasferimento del percepito di Coca Cola sugli altri marchi “sani” che appartengono a Coca Cola Company, che non viceversa.
Nella misura in cui questo si dovesse realizzare, la campagna diventerebbe un boomerang nei confronti delle, più deboli, marche del gruppo. Soprattutto per quei consumatori che ad oggi non erano coscienti del fatto che thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc… appartenessero alla multinazionale di Atlanta.
Spesso si tende a sottovalutare la forza del marchio originario riflettuto nel corporate brand e della deriva/influenza che ha sugli altri marchi.
Ma c’era qualcosa che Coca Cola Company poteva fare niente per riflettere nella propria immagine la propria evoluzione?
Sì e l’avevano sotto gli occhi, ma era un salto troppo grosso e (probabilmente) non hanno avuto il coraggio di farlo.
E’ lo stesso sito di Coca Cola Italia a riportare le parole dell’Amministratore Delegato di Coca Cola Company, James Quincey:
“The Coca-Cola Company è diventata più grande del marchio Coca-Cola. Il brand Coca-Cola costituirà sempre il cuore e l’anima di The Coca-Cola Company, ma l’azienda oggi è molto di più rispetto al suo brand principale.”.
Lo dice ancora più chiaro il testo dello spot, quando in apertura la voce fuori campo recita: We may be one of the world’s most familiar company, but we make more than our name suggest. (Probabilmente siamo una delle aziende più conosciute al mondo, ma facciamo di più di quello che suggerisce/indica il nostro nome).
Ergo, cambiate il nome.
E’ evidente lo strabismo di marketing per cui la notorietà della marca Coca Cola bevanda viene, scorrettamente, attribuita a Coca Cola Company azienda.
E’ probabile che un rinnovamento della percezione di Coca Cola Company in grado di rispecchiare l’evoluzione che ha portato l’azienda ad essere quello che è oggi fosse necessario, sia per guidare le strategie e l’operatività interna che nei confronti dei clienti del trade e degli investitori.
Il problema è che secondo me è possibile farlo solamente con un cambio radicale del marchio/nome aziendale che abbandoni il marchio Coca Cola. O, se volete fare le cose per gradi, che lo mantenga marginalmente durante un primo periodo, per poi eliminarlo successivamente (attenzione però che, come diceva mia mamma, “il medico pietoso fa la piaga pustolosa”).
E’difficile? Certo, nessuno si dovrebbe aspettare che gestire uno dei più grandi marchi mondiali sia una cosa facile.
E’ rischioso? Secondo me meno della strategia #cocacolarenew in corso, per le ragioni spiegate sopra.
E’ inutile? Forse si, per le ragioni spiegate domenica scorsa. Ma, evidentemente, non sono nelle condizioni di poter valutare la necessità di un allargamento dello scopo aziendale di Coca Cola Company per mantenere la massima efficacia ed efficienza nello sviluppo del gruppo (cosa che può valutare solo chi è all’interno dell’azienda).
Deciso però che questo allargamento dello scopo aziendale fosse necessario, andava fatto fino in fondo, staccandosi dal marchio Coca Cola, che intrinsecamente lo restringe.
Come definire questo nuovo scopo? Non dovrebbe essere difficile per un’azienda che rappresenta uno degli emblemi della cultura americana in tutto il mondo.
E anche qui devo ammettere che la nuova visione sviluppata da Quincey di Coca Cola Company come una “Total Beverage Company” è deludente.
Possibile che Coca Cola Company non trovi di meglio per definire se stessa del semplice atto di consumo e che il massimo comun denominatore che ispira il suo modus operandi sia la purezza dell’acqua utilizzata per tutti i suoi prodotti? Forse qualcuno aveva il dubbio che i prodotti di Coca Cola Company fossero realizzati con acqua inquinata?
Se è una Total Beverage Company significa che nel proprio scopo aziendale rientrano anche superalcolici, vino e birra?
Nel definire dei valori comuni che collegano tutti i prodotti, e quindi così avvantaggiarsi sia dell’equity costruita nel tempo dal marchio Coca Cola bevanda che dalla percezione più sana dei nuovi prodotti, Coca Cola Company potrebbe essere una:
• “happiness company”: dove “wellness” è una componente dell’”happiness”.
• “togheterness company”: sia come filosofia di condivisione sia come comunità mondiale grazie alla globalizzazione dell’azienda.
• “opportunity company”: per la moltiplicità delle scelte, per la creazione di opportunità alle persone all’interno dell’azienda, nelle comunità in cui opera, ecc…
Questi sono solo i primi esempi che mi vengono in mente senza alcuna conoscenza dell’azienda, le sue caratteristiche, la sua cultura, oltre a quelle che mi vengono dall’essere un affezionato consumatore.
Concludo sottolineando come questi due post non siano stati sostenuti dalla voglia/soddisfazione di far vedere che sono più furbo di Coca Cola.
E’ invece un profondo dispiacere, da consumatore dei prodotti dell’azienda e da professionista di marketing, vedere come anche Coca Cola Company abbia difficoltà ad operare con una visione complessiva di marketing strategico e temo non sia slegato al fatto che il suo attuale Amministratore Delegato è un inglese, laureato in ingegneria informatica.

Gestire i Corporate Brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca-Cola. 1a puntata.

L’altro giorno ho letto su Data Media Hub un interessante post dal titolo “Il riposizionamento di The Coca Cola Company”, relativo al nuovo corso strategico di Coca Cola per enfatizzare l’ampiezza e la maggiore salubrità dell’assortimento aziendale, al di là della Coca Cola intesa come specifica bevanda, nelle sue diverse versioni. Per chiarezza da qui in avanti userò “The Coca Cola Company” per riferirmi all’azienda e “Coca Cola” per riferirmi alla bevanda specifica (o all’Area Strategica di Affari rappresentata dal marchio specifico se preferite).

In sintesi quello che sta succedendo è che il cambiamento dell’atteggiamento dei consumatori e delle istituzioni nei confronti delle bevande gassate ricche di zucchero, molti comuni statunitensi applicano tasse basate sul contenuto di zuccherino, ha causato un forte calo dei consumi.
I dati del 2016 relativi al consumo delle bibite gassate negli USA registrano i valori più bassi degli ultimi trent’anni, sostituite da acqua minerale gassata, caffè freddo in bottiglia ed energy o sport drinks.

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Questa tendenza di consumo quindi viene da lontano, ed infatti da anni la Coca Cola Company ha allargato il proprio assortimento ai diversi tipi di bevande e lavorato sulla riduzione del contenuto di zucchero delle bevande esistenti (o l’aggiunta nell’assortimento di versioni di versioni meno zuccherine) per cercare di continuare a sviluppare fatturato e profitti.
Malgrado questa strategia però tanto l’uno come gli altri sono in costante calo dal 2012 (Fonte: Forbes).

Coca Cola Company revenue - Forbes
A marzo di quest’anno il Presidente ed Amministratore Delegato della Coca Cola Company James Quincey ha annunciato il rafforzamento di questa strategie con la “messa al centro del consumatore” (sigh)  e la conseguente evoluzione di Coca Cola Company verso una “Total Beverage Company” (doppio sigh)
Coerentemente con questa strategia/visione sintetizzata dall’ashtag #cocacolarenew, a settembre The Coca Cola Company ha trasmesso un nuovo spot negli orari di maggior ascolto televisivo, e quindi più costosi, degli U.S.A..
Qui di seguito trovato le tre versioni: 30”, 60” e 90”. Le ho riportate tutte perché spesso nel realizzare e pianificare una campagna pubblicitaria capita di sottostimare l’effetto della diversa durata nel messaggio che viene effettivamente trasmesso e quindi presumibilmente percepito. Voglio dire che l’articolazione e la completezza del messaggio che c’è nello spot di 90” si perde in quello di 30”. Poiché entrambi nascono dalla stessa idea creativa e sono realizzati dalle stesse persone, si rischia che lo spot da 30” vengo considerato semplicemente una versione più breve di quello da 90”, mentre in realtà ne è una versione in buona parte diversa.
Per questo ho riportato per ogni spot anche il numero di visualizzazioni che aveva su youtube alle 12:30 del 22-10-17.

30″ – 438.346 visualizzazioni.

60″ – 3.920.816 visualizzazioni.

90″ – 21.124 visualizzazioni.

Servirà tutto questo a migliorare le performances dei marchi di Coca Cola Company?

Dubito fortemente, perché secondo me si è adottato un approccio semplicistico ad una situazione aziendale complessa, come spesso accade quando si tratta della gestione dei corporate brands (o marchio aziendale) e/o di marchi ombrello.
La situazione in cui il marchio aziendale corrisponde anche ad una delle marche-prodotto dell’assortimento è sempre una situazione delicata. Quando poi la marca a cui corrisponde il marchio aziendale è una grande marca per personalità, volumi, reddività, ecc… la delicatezza della situazione cresce in proporzione.
Ovviamente non c’è alcun problema nel caso in cui il marchio aziendale corrisponde all’unica marca-prodotto dell’assortimento. E’ però una situazione molto più rara di quanto si pensi e, soprattutto, è una situazione che tende a cambiare con la crescita dell’azienda. Quindi la corrispondenza tra marchio aziendale e marca-prodotto è sempre potenzialmente complicata.
Alla complicazione ed ai rischi corrispondono però dei benefici: se io costruisco una reputazione per il marchio Ferrero, tutte le volte che sviluppo strategie riguardanti una delle singole marche-prodotto ottengono degli effetti sinergici su tutte le altre. Per fare un esempio semplice, nel momento in cui lancio l’Estathè Ferrero la buona reputazione del marchio aumenta l’attenzione ed il ricordo della campagna pubblicitaria e facilita la prova e l’adozione del prodotto.
Il tutto però funziona solo nel caso in cui il marchio aziendale venga associato a quello Estathè, Nutella, Fiesta, Kinder, ecc…, come effettivamente è stato fatto dalla Ferrero. Da notare anche che non esiste un prodotto / linea della Ferrero che non abbia una marca propria. In altre parole l’architettura della marca è sempre “marca-prodotto” di Ferrero (marchio aziendale).
Viceversa nel caso di Coca Cola Company il marchio aziendale si sovrappone interamente a quello della marca-prodotto “Coca Cola”, mentre l’associazione è debole, o nulla, con gli altri marchi aziendali come Bon Acqua, Aquarius, Fuze Teq, ecc …
Il punto è che il consumatore dei prodotti più “sani” dell’assortimento di Coca Cola Company il marchio aziendale non lo vede, né lo percepisce perché l’azienda non glielo mostra.

Coca Cola assortment
Nella campagna #cocacolarenew c’è quindi innanzitutto un sostanziale strabismo di marketing nell’identificazione del target di “Coca Cola Company. Sono principalmente gli investitori finanziari e non i consumatori quelli ai quali è importante comunicare che Coca Cola Company negli anni ha allargato il proprio assortimento è un’azienda.
Si potrebbe pensare però che l’obiettivo della campagna #cocacolarenew sia riposizionare in termini salutistici le marche dell’azienda. La domanda quindi sarebbe: è in grado di raggiungerlo?
Le mie risposte a domenica prossima …

Per la frutta secca Ventura la best selling proposition siamo noi.

Dal testo della nuova campagna “BBMIX” della frutta secca Ventura:“E’ il mix delle cose più buone che ci rende quello che siamo: unici come la bontà e il benessere BBMIX Ventura, solo la frutta più buona”

Dal mio post “Unique Selling Proposition vs. Best Selling Proposition” del 2 marzo 2008 (quasi dieci anni fa, aiuto!):
“Propongo quindi il concetto di BEST SELLING PROPOSITION, inteso come quello che la marca sa fare meglio (degli altri), in alternativa a quello di USP.
Ho messo degli altri tra parentesi perchè la forza e l’utilità del concetto di BSP nel definire la promessa della marca sta proprio nella multidimensionalità del suo rapporto diretto con le competenze dell’azienda, rispetto alsilver bullet che sottostà alla USP (ed in buona misura anche all’esempio del Chillit Bang).
Voglio dire che nel definire la base per un posizionamento può essere più efficace ricercare quali sono le cose che sappiamo fare meglio perchè questo permette comunque di definire un mix di eccellenza, mentre se non trovo quell’unica USP rimango a mani vuote.”

Non voglio assolutamente dire che i signori dell’agenzia di pubblicità The Optimist leggano biscomarketing, meno che meno che lo “copino” (anche perché i post sono pubblici).
A me quello che ha fa piacere è vedere il mio concetto di best selling proposition declinato pari pari come concetto della campagna TV Ventura.

Perché non è vero che la teoria manca di concretezza.

Il ruolo del positioning nel fondamentale equilibrio tra awareness e reputazione.

equilibrio balla

Nel mio posto del giugno 2016 “Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca” , ho pubblicato questa matrice, che sviluppai nel lontano 1993 quando mi dedicavo all’inquadramento teorico del marketing dei prodotti tipici a denominazione d’origine, senza spiegarla.

Credo però che meriti un approfondimento per l’utilità che ha il suo utilizzo nell’analisi della situazione della marca e nella definizione delle relative strategie.

Come esempio concreto prendo la recente campagna pubblicitaria del Buondì Motta, approfittando del fatto che la grande attenzione ricevuta rende i ragionamenti che seguono più facilmente comprensibili.

La campagna Buondì aveva l’obiettivo dichiarato di rilanciare una marca/prodotto un po’ appannata ed ha generato grande aumento della sua awareness (sicuramente a breve termine, sul medio è da vedere).

Però era proprio l’awareness il punto debole su cui bisognava intervenire? Dipende.

Se la marca si trovava nel quadrante buono, e quindi l’appannamento dipendeva dalla bassa awareness in presenza di una buona reputazione, evidentemente la strategia della campagna era quella giusta.

Se però l’appannamento della marca dipendeva da un basso livello sia di awareness che di reputazione, quadrante potenziale, investire sull’aumento di awareness sposta la marca nel quadrante pessimo (affossandola definitivamente).

Ovviamente la rappresentazione di confini netti tra i vari quadranti della matrice è una semplificazione per esprimere il concetto con maggior chiarezza. Nella realtà operativa lo spostamento delle marche sugli assi è un continuum.

Altrettanto è evidentemente che l’aumento di reputazione implica sempre un certo aumento di awareness, se non altro per il passaparola.

Attenzione però che non è vero il contrario, ossia ci può essere aumento di awareness senza aumento di reputazione. Oppure, ed è il caso peggiore, ci può essere un aumento di awareness innescato da un calo di reputazione, come nel caso di Carpisa di questi giorni.

Dal punto di vista delle strategie aziendali, quello che lega awareness e reputazione è il positioning, inteso come la definizione da parte dell’azienda di cosa la marca vuole rappresentare per la sua audience e le successive azioni messe in atto per realizzare questa rappresentazione sul mercato.

In altre parole dal punto di vista aziendale il positioning è l’insieme della definizione della reputazione che dovrebbe avere la marca della marca e le strategie realizzate per trasferirla sul mercato. Attenzione che il trasferimento del positioning non riguarda solamente la politiche di comunicazione (che non a caso io definisco di “percezione” nella mia visione del Marketing Totale), ma anche quelle di prodotto, prezzo e distribuzione (che io definisco “presenza” nella mia visione del Marketing Totale)

Nella matrice invece l’asse della reputazione rappresenta la reputazione effettiva della marca sul mercato.

Le due reputazioni, quella pianificata dall’azienda e quella percepita dal mercato, non corrispondono quasi mai per le distorsioni che il messaggio subisce nel processo di comunicazione tra l’emittente ed il ricevente. Anche se non siete degli esperti di teoria della comunicazione, semiotica, ecc.., basta che da bambini abbiate giocato una volta al telefono senza fili per sapere cosa intendo.

Più il positioning aziendale è chiaro, forte, preciso e dettagliato e meno distorsioni subirà nel trasferimento al mercato.

Qual’era la posizione della marca Buondì sulla matrice awareness-comunicazione prima della campagna pubblicitaria? Qual’ è il positioning che vuole comunicare? E’ definito chiaramente? E’ quello che viene trasmesso/recepito dalla campagna?

Vista tutta la discussione che ha generato nei media analogici, digitali e social credo che sarebbe una bella azione di content marketing se Buondì rendesse pubblici i risultati della campagna pubblicitaria in termini di variazione dell’awarness, reputazione e vendite.

Il marketing della controversia.

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Tipicamente e storicamente le marche evitano le controversie. Anche quando prendono posizioni su temi sociali lo fanno in termini positivi, PER qualcosa e non CONTRO qualcosa.

Più che pusillanimità è una questione di rispetto: chi sono io marca per giudicare i comportamenti delle persone?

Anche portando avanti i miei valori di marca, credo sia giusto lasciare a chiunque il diritto di scegliermi, ossia comprarmi (escluso ovviamente l’utilizzo illegale dei prodotti).

In sintesi è il concetto de “il cliente ha sempre ragione”, in parte anche quando non ce l’ha perché un po’ se la compra pagando il prezzo del prodotto/servizio.

Nell’era digitale però il rapporto tra marche e persone passa da essere un rapporto asimmetrico ad uno rapporto tra pari (personificazione delle marche e brandizzazione delle persone), creando uno spazio per l’utilizzo della controversia come strumento di marketing.

Un esempio eclatante è quello della campagna “Are you beach body ready” realizzata nel 2015 dall’azienda inglese Protein World.

La campagna ha scatenato a suo tempo una reazione di sdegno sia nel Regno unito che negli Stati Uniti, accusata di promuovere un’immagine falsa della bellezza femminile, un’immagine che colpevolizzava la normalità del fisico delle donne.

Praticamente l’opposto della campagna “Real buty” di Dove (mi tolgo il cappello davanti al copy che ha scritto il claim “Every body is beautiful”).

A fronte di questa polemica, che ha data alla campagna una visibilità amplissima, Protein World invece di ridimensionare la polemica, l’ha rilanciata definendo i critici come “pigri e deboli”, affermando che “(il Regno Unito) è una nazione che simpatizza per i grassi” e lanciando due ashtag: “#fitshaming” in contrapposizione a quello “#bodyshaming” lanciato dai suoi critici e “#GrowUpHarriet” in risposta ad una donna che aveva chiesto pubblicamente se poteva essere ammessa in spiaggia.

La cosa interessante è che la presa di posizione dell’azienda ha attivato la discussione tra chi si sentiva discriminato dal messaggio e chi invece condivideva l’esortazione ad avere un fisico più in forma (e quindi più sano?).

Attraverso la publicity generata dalla campagna, la marca ha quindi aumentato la sua conoscenza e guadagnato simpatizzanti, migliorando il proprio posizionamento nel target fitness/salutista.

La contrapposizione dei due concetti “fitshaming” vs. “bodyshaming”, al di là dei toni, era una discussione focalizzata, strutturata e costruttiva.

Giocare con il fuoco però è pericoloso per definizione e Protein World ha cominciato a bruciarsi quando tra i propri supporter nella discussione sono entrati il Daily Mail e Breitbart ed altri opinion leaders conservatori (per usare un eufemismo), che hanno spostato il focus dal “fitness” al “politicamente corretto” e coinvolto i propri seguaci nella discussione.

Dopo una settimana nella discussione si è arrivati alle minacce di violenza sessuale e Protein World ha lasciato cadere l’ashtag “#GrowUpHarriet”.

A completamento della storia va ricordato che al termine delle 3 settimane di affissione nella metropolitana di Londra, la campagna è stata proibita dall’autodisciplina della pubblicità inglese perché potenzialmente ingannevole rispetto al messaggio di perdita di peso grazie all’utilizzo dei prodotti Protein World.

Se adesso andate sul sito della Protein World o sui suoi profili twitter ed Instagram, non trovate nessun riferimento a “Are you beach body ready”, ma su twitter ci sono ancora oggi post relativi alla campagna ed è un riferimento, negativo quando si discute degli stereotipi di genere nella pubblicità, ma anche positivo in ambito fitness.

Un esempio ancor più interessante, perché ruspante, di gestione attiva delle critiche viene dalla responsabile della pensione “La Ferroviaria” di Saragozza (Spagna), che offre stanze a 15-20 euro a persona a notte.

Milagros Aguirre, la signora responsabile della pensione, risponde a tutti i commenti relativi alla pensione su booking perché ritiene che tutti i clienti meritino una risposta.

Di seguito quelle che si è meritato qualcuno:

Commento: “positivo il parking gratuito; negativo: dormire da solo”

Risposta: “Ok, la prossima volta invitiamo a quelli di “Apriti Sesamo” così non ti senti solo o meglio ancora andiamo allo stadio ed annunciamo per il megafono che ti senti solo, sicuro che ti cantano qualche coro degli ultras. Bye.”

Commento: “positivo: il personale; negativo: le pareti sono troppo sottili”.

Risposta: “Caro Tizio, lamentarsi per lamentarsi non ha senso, per il resto una pensione non ha l’obbligo di insonorizzare niente, la prossima volta il convento delle Carmelitane Scalze ti darà la pace necessaria, amen. Grazie”

Commento: “positivo: ottima posizione; negativo: il personale è sgradevole e maleducato. Non hanno voluto darmi un altro asciugamano per il viso malgrado la doccia sia separata dal bagno.”

Risposta: “Mi aspettavo questo commento. Se per 25 eurini vuoi portarti il tuo amichetto, meglio che lo lasci a casa tua e lo tieni nascosto. Se per non poter fare quello che vuoi siamo maleducati e sgradevoli. In più enti ed esageri, ma noi continuiamo ad essere affabili”

Qui mi fermo, ma nell’articolo de “El Pais” ne trovate molti altri

Da notare che la signora Aguirre risponde anche a molti commenti su tripadvisor, ma non a tutti perché qui può mettere i commenti anche chi non è stato alla pensione e la cosa le sembra veramente orribile (concordo).

Sicuramente con questi commenti La Ferroviaria ha perso alcuni clienti (immagino con piacere) ma probabilmente ne ha guadagnati altri (ha molti fan su twitter pur non avendo un account). Soprattutto ha trattato tutti i clienti con coerenza e soprattutto ha comunicato/chiarito/difeso quella che è la sua proposta/promessa.

Come sempre nell’era digitale sono l’autenticità e l’onestà che fanno la differenza.

Dalla raccolta alla cura dei contenuti, ovvero come le marche dovrebbero parlare meno e pensare di più.

Knowledge speaks wisdom listens

Per stimolarmi ed indirizzarmi nella realizzazione di questo blog un amico mi regalò il libro “blog” di D. Kline e D. Burstein (prefazione di Beppe Grillo!). Adesso sembra parecchio strano leggere un libro per imparare a scrivere un blog, ma era il 2006.

Che le abbia lette lì oppure da qualche altra parte, sinceramente non ricordo, ci sono due regole auree che ho cercato di seguire in questi oltre 10 anni di blogging:

1)      scrivi solo quando senti di aver qualcosa da dire.

2)      Scrivi regolarmente (e possibilmente con una cadenza precisa).

L’implicazione di queste due regole è di sentire regolarmente di aver qualcosa da dire. Non succede sempre e questa è la ragione principale per cui ogni tanto salto la mia scadenza di pubblicazione domenicale (che poi in teoria non è considerato un giorno particolarmente buono per pubblicare posts).

Sono regole che credo valgano per tutti, persone fisiche, fittizie e marche, e idealmente per tutte qualsiasi testata (poi è ovvio che se avete un quotidiano da far uscire tutti i giorni entrano in gioco anche altri fattori, ma non sono qui oggi per parlare di editoria).

Ecco perché sono convinto che le marche sui social tendenzialmente parlino troppo.

La necessità della frequenza nella comunicazione sui facebook, twitter, instagram, ecc… che sottolineerà, giustamente, ogni esperto/consulente/agenzia porta spesso a pubblicare “qualcosa”, malgrado non ci sia davvero niente da dire.

Un’altra regola rispetto al web/social che ho sempre cercato di seguire in azienda è quella di considerarli principalmente un canale di ascolto e solo secondariamente un mezzo per far parlare la marca/azienda.

Probabilmente per questo sono sempre stato convinto dell’opportunità che la content curation rappresenta per la comunicazione social delle aziende/marche: selezionando i contenuti che ho “ascoltato”, cosa che farei comunque per mantenermi informato su quello che succede, riesco sempre ad avere regolarmente qualcosa di rilevante da dire.

Dove “rilevante” nasce dal punto di vista definito dal mio posizionamento/identità/personalità dell’azienda/marca prima ancora che dagli interessi dei segmenti-obiettivo. Ergo, se non avete definito il vostro posizionamento/identità/personalità, o l’avete definito male, avete un problema.

Sarà per tutto quanto ho esposto sopra che ho trovato particolarmente interessante l’articolo di David Krejicek “From Data Collection to Curation” pubblicato sul numero di aprile/maggio della rivista “Marketing News” dell’American Marketing Association”?

Oppure è perché oggi ero a corto di idee e quindi mi dedico al data curation?

Comunque sia, ecco cosa ha scritto Krajicek, sintetizzato e mescolato alle mie considerazioni.

 

Definisci l’obiettivo dall’inizio.

Sembra ovvio, però è dal 1989 che lo sento ripetere nei vari corsi/articoli/seminari di marketing (strategico) e nella pratica aziendale vedo realizzare progetti e attività partendo da obiettivi vaghi, quando non assenti.

Come sempre parlando di obiettivi, quanto più specifici e dettagliati, tanto meglio.

In questo modo sarà più facile separare le informazioni veramente utili da quelle semplicemente disponibili. L’opportunismo va bene, a non deve essere il principio guida altrimenti le informazioni estranee agli obiettivi, ma disponibili, creeranno un rumore di fondo che rende meno fruibile ed interessante il contenuto.

 

Adottate un punto di vista ampio partendo dal vostro posizionamento (in moda da mantenere la coerenza).

Non selezionate i contenuti basandovi sul settore in cui operate, ma piuttosto in base al posizionamento ossia a quello che l’azienda/marca vuole rappresentare nella mente delle persone.

Se penso ad esempio al #realbeauty di Dove, nella selezione di contenuti non mi limiterei semplicemente alla vera bellezza di persone vere opposte alla bellezza “irreale” proposta dal sistema della moda, ma coinvolgerei la bellezza reale in tutti i suoi ambiti ed espressioni (graffiti di strada, gesti e chi più ne ha più ne metta, creativamente parlando c’è solo l’imbarazzo della scelta).

Questo indipendentemente dal fatto che la creazione di contenuti realizzata da Dove focalizzata sulla bellezza vera di donne vere sia abbondantemente efficace, perché quanto più una marca è capace di trascendere dal suo nocciolo senza perdere la propria essenza e tanto più diventerà forte.

Per inciso, ahimè, non ho nessun rapporto professionale con Dove.

 

Siate direttivi, non dogmatici.

La selezione di contenuti è sempre legata a degli obiettivi e ad una visione che creano il valore aggiunto grazie ai quali il totale della cura dei contenuti è più della somma delle parti. Se però vogliamo che la cura dei contenuti sia uno strumento di dialogo dobbiamo essere onestamente aperti e quindi eliminare il più possibile i preconcetti. Detto in altre parole non evitare di selezionare contenuti rilevanti solo perché non sono allineati con la nostra visione.

 

Siate aggiuntivi non duplicativi.

Aggiungete considerazioni ai contenuti selezionati, collegateli tra di loro secondo i vostri obiettivi e la vostra visione. E’ questo che vi fa passare dalla raccolta di contenuti alla selezione, con il relativo auemnto di valore aggiunto.

 

Siate di una trasparenza cristallina.

Nei principi e negli scopi che vi guidano, nel perché delle scelte, nelle fonti da cui attingete (e magari fate un po’ più di fact checking di quello che fanno normalmente i giornali italiani), nel citare e dare credito dei contenuti a chi li ha prodotti.

 

Siate agnostici.

I contenuti coerenti/rilevanti/interessanti rispetto ai vostri obiettivi ed alla vostra visione possono trovarsi ovunque. Tenete occhi e orecchie aperte senza avere (troppe) idee predeterminate sull’origine dei contenuti; state ai fatti.

 

L’atto di selezione implica sempre un atto di comunicazione.

Questo mi sembra talmente ovvio che se provo a spiegarlo sicuro che mi ingarbuglio. Quindi lo lascio così.

 

N.d.A.: rileggendo l’articolo di Krajicek per scrivere questo post mi sono reso conto che trattava la cura dei dati e non dei contenuti (non a caso è Chief Commercial Officer di GfK Consumer Experience. Quindi il contenuto del post è principalmente farina del mio sacco e poco citazione/traduzione di quanto ha scritto lui. Quello che ho mantenuto integralmente uguale all’articolo originale sono i titoli dei paragrafi, a dimostrazione che i principi della curation vs. collection sono simili, che si tratti di dati o di contenuti.  

Quanto vale un fan su Facebook?

Syncapse-Value_of_a_Fan_Report_2013-Average-SpendPoco, secondo un articolo pubblicato sul numero aprile/maggio 2017 di Marketing News.

La ricerca ha analizzato (qui trovate l’articolo originale, e qui la ricerca da cui è tratto) i cambiamenti del comportamento dei consumatori sia diretti (chi diventa fan di una pagina) che indiretti (gli “amici” di chi diventa fan di una pagina).

Il risultato è che non ci sono cambiamenti nel comportamento d’acquisto di chi diventa fan, mette like, ecc… Queste azioni sono semplicemente il sintomo di un preesistente rapporto/attaccamento/propensione (fondness nell’originale inglese) verso la marca.

L’idea affascinante, e se vogliamo logica, per cui avere nuovi seguaci sui social media si traduca in risultati di marketing quali aumento delle vendite e/o dei clienti e/o dell’atteggiamento nei confronti della marca della marca non trova alcun supporto concreto. Né nella ricerca in questione, né in un’altra che ha coinvolto i Direttori Marketing (CMO) delle 500 maggiori aziende USA secondo la rivista Fortune (le cosiddette Fortune 500): l’87% degli intervistati non aveva evidenza documentabile che la loro attività sui social media portasse a nuovi consumatori.

La conseguenza, secondo l’autrice dell’articolo di Marketing News (nonchè co-autrice della ricerca originaria), è che vanno riletti gli studi che collegano positivamente i comportamenti digitali con quelli di acquisto dei marchi (come ad esempio il grafico in apertura di questo post).

L’articolo cita l’esempio di uno studio di Starbucks che rilevava come i fan della pagina facebook della marca fossero dei clienti più frequenti e con una spesa media più alta rispetto ai non-fan.

Tesi sostenuta sostanzialmente anche da Martina Masullo su Ninjamarketing in base ad una ricerca condotta dalla piattaforma Sprout Social (mi permetto di segnalare che 1.000 casi NON è un campione “non molto ampio” dal punto di vista dell’errore campionario).

In queste interpretazioni dei comportamenti delle persone c’è un problema di confusione tra causa ed effetto poichè seguire una marca sui social ed esserne un consumatore fedele sono due fenomeni autocorrelati: entrambi indicano una predisposizione positiva nei confronti della marca.

La correlazione che sitrova nei dati quindi NON è espressione di un legame di dipendenza dei comportamenti di acquisto delle persone dall’essere o meno seguaci di un marca sui social.

Personalmente non saprei se il concetto è intuitivo o controintuitivo, ma direi che il grafico riportante  le ragioni per cui le persone seguono una marca sui social media riportato dal post su Ninjamarketing sembra confermare che le persone seguono marchi con cui hanno già un rapporto di familiarità/interesse.

Considerato l’ammontare degli investimenti che le marche destinando alla gestione della propria presenza sui social media (advertising, content marketing, ecc…)  la domanda cruciale è quanta CAUSALITA’ (leggete bene, mi raccomando) c’è tra seguire una marca sui social ed i comportamenti off-line delle persone?

Se questa causalità non esiste, oppure è limitata, dovrebbero essere limitate le risorse destinate ad acquisire nuovi seguaci (follower per parlare come quelli veri) perché sarebbe irrealistico pensare di migliorare le vendite attraverso questa strategia.

I social media sarebbero quindi principalmente un mezzo da utilizzare per permettere ai nostri migliori consumatori/clienti di trovarci.

Fin qui il riassunto dell’articolo.

Concordo molto con la conclusione perché sostanzialmente conferma uno dei presupposti su cui si fonda il mio concetto di marketing totale: nell’era digitale non sono più le marche che cercano le persone/clienti/consumatori, ma sono loro che trovano le marche.

Mi sorgono però alcune riflessioni.

  1. Asimmetria: guadagnare seguaci sui social non fa guadagnare (molti) clienti, però i comportamenti sui social me li fanno perdere. E’ lo stesso principio per cui uno cerca di andare a lavorare in una determinata posto per (come la percepisce) l’azienda mentre si licenzia sempre per (come lo gestisce) il suo responsabile (capo, se preferite).
  2. Il mix di comunicazione è fondamentale per la conoscenza e la percezione delle marche; difficilmente un marchio diventerà un grande marchio se si concentra su un solo mezzo ed una sola strategie (pubblicità, PR, content marketing, influencer, ecc…).
  3. Sharing is caring. Personalmente resto convinto che i marchi si preoccupano troppo poco di incentivare la condivisione dei propri contenuti, sia preoccupandosi della loro rilevanza e condivisibilità, sia offrendo incentivi diretti.
  4. Rilevanza intrinseca delle marche sui social media. Anni fa credo di aver letto che di tutto il tempo che le persone passano sui social solamente una minima parte (5%?) è dedicato ai marchi. Nello scrivere questo post ho fatto un po’ di ricerche sul web per verificare o aggiornare questo dato, ma non ho trovato niente. Parecchie informazioni su quanto tempo le persone passano sui diversi social, che tipo di contenuti producono guardano e condividono, che strumenti/servizi utilizzano di più ecc…(qui un esempio). Proprio considerata la quantità ed il dettaglio delle informazioni non credo che sia difficile misurare anche “quantità e qualità” di interazione con le marche. Quindi mi chiedo: non è che il re sia nudo, ma nessuno vuole dirlo?

InspiringPR 2017: cosa ho visto, cosa mi è piaciuto, cosa no e cosa mi ha lasciato perplesso.

InspiringPR 2017

Lo scorso sabato 20 maggio si è svolta a Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, la IV edizione di inspiringPr, “Un momento di incontro e d’ispirazione aperto ai comunicatori e a tutti coloro che operano nelle e per le organizzazioni, pubbliche o private, ma anche a chi, seppur non del settore, influenza sensibilmente la professione.”

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La forza dell’astrazione ed i rischi dell’assurdo (nel marketing).

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Mercato Markthal di Rotterdam, progettato dallo studio MVRDV a cui appartiene l’architetto Winy Maas.

Recentemente mi sono dedicato in modo particolare a ragionare sull’impostazione della marca, visto che dovevo tenere due giorni di lezione su questo argomento alla Scuola di Specializzazione in marketing del vino.

Di conseguenza mi sono trovato a ragionare specificatamente sulla comunicazione ed in particolar modo a quella grafica, poiché nel vino (italiano) per la maggior parte delle aziende il principale elemento di comunicazione rimane l’etichetta, che ne siano coscienti o meno.

In sostanza di tutte le componenti della proposta di un’azienda / marca che ne formano la percezione, concetto che nella mia visione del marketing totale (link non ne metto, se non siete lettori assidui del blog cercate “Marketing Totale” nella finestra in alto a destra) sostituisce quello di promotion.

Ho quindi passato in rassegna decine e decine di etichette diverse, dalle più didascaliche alle più astratte ed ho visto la perplessità dei partecipanti al corso nei confronti di queste ultime (tenete presente che il vino in Italia è uno dei settori più tradizionalisti o, come dico io, uno dei più noiosi).

Eppure io so per esperienza che un messaggio astratto, quando riesce a “passare”, è un messaggio più forte che colpisce di più l’audience. Sia in termini di rilevanza (ampiezza e profondità) che per memorabilità (lunghezza).

Non essendo un teorico, e meno che meno un filosofo, della comunicazione ho avuto la sensazione di non essere riuscito a spiegare con la sufficiente chiarezza i vantaggi dell’astrazione.

Per questo mi ha colpito la risposta che l’architetto olandese Winy Maas ad una domanda dell’intervista pubblicata su El Pais dello scorso 7 gennaio, che riporto di seguito nella mia libera traduzione:

 

Come si può misurare la qualità di umorismo/divertimento nell’architettura?

A partire da una certa astrazione. Se uno è troppo letterale e perde la sottigliezza non coinvolge lo spettatore. L’astrazione è una chiave riduzionista, un utensile / strumento per la convivenza perché permette di dialogare con altre idee e formalizzazioni.

 

Vedrò di segnarmela per i prossimi corsi. Con l’avvertenza di ricordare che un messaggio quanto più è astratto e tanto meno è immediato, quindi richiede maggiori risorse (denaro e/o tempo) per “passare”. Se non “passa” l’astratto diventa assurdo, che probabilmente è anche peggio del banale.

Il (buon) marketing è sempre relazionale.

La scorsa settimana mi hanno contattato dalla Fondazione Edmund Mach per tenere una lezione sul marketing al prossimo corso in Wine Export Management il prossimo gennaio (grazie della rinnovata fiducia, mi piace pensare che sia dovuta al fatto che le lezioni tenute ai corsi passati sono piaciute).

Il programma di massima richiesto per la lezione è:

Principi di Marketing generale – Marketing strategico e operativo – Il Marketing relazionale. Specificità del mondo del vino.

Marketing Relazionale? Cos’è?

Dopo 25 anni che studio marketing e oltre 20 che lo pratico professionalmente in azienda, vengo sempre colto da un moto di stupore e curiosità quando mi imbatto in un termine/aspetto del marketing che non conosco.

In realtà del marketing relazionale avevo sentito parlare circa tre anni fa quando una mia ex collaboratrice dei tempi di Stock aveva assistito ad una interessante ed utile testimonianza aziendale di una grande cantina italiana sul marketing relazionale, tenutasi proprio alla Fondazione Mach.

Cosa si intende quindi per marketing relazionale?

Secondo wikipedia (mi raccomando fate anche voi la vostra donazione, visto quanto è utile):

Il marketing relazionale è quella branca del marketing che permette di accrescere il valore della relazione con il cliente attraverso la sua fidelizzazione.

Il marketing relazionale potrebbe essere descritto come la creazione, lo sviluppo, il mantenimento e l’ottimizzazione delle relazioni tra clienti ed azienda, basato sulla centralità del cliente. Rappresenta l’insieme dei processi di gestione della relazione con i clienti attraverso l’analisi delle sue informazioni. La relazione che viene stabilita tra i consumatori e l’azienda è una relazione one-to-one, un rapporto diretto tra il brand e il suo target.

A differenza del marketing tradizionale, infatti, il marketing relazionale non analizza ampi segmenti di consumatori, ma tende a interessarsi a target molto precisi, cercando di creare un filo diretto tra l’azienda e ogni singolo consumatore attraverso molteplici canali: dalla comunicazione web a quella telefonica (call center), la relazione tende ad essere bilaterale e permette alle aziende di conoscere in maniera approfondita i propri interlocutori.

Gli esperti in marketing relazionale studiano tutte le possibilità per generare una relazione continuativa tra consumatore e marca e, tendenzialmente, coinvolgono il target in programmi a lunga scadenza che offrono benefici immediati e senso di appartenenza ed esclusività che lega al brand. Ciò avviene attraverso la creazione di “Club”, programmi di caring, raccolte punti, concorsi a premio, member gets members, oppure attraverso benefit mirati o programmi di collection, intesi come accumulo di sconti restituiti al titolare in via posticipata o tradotti in buoni sconto o altro.

Il Marketing Relazionale nasce dall’evoluzione moderna del Marketing aziendale.

Per ottimizzare il Marketing Relazionale è necessario creare con la clientela una relazione di tipo personalizzato attraverso:

  • la conoscenza delle caratteristiche dei clienti, dei loro bisogni e delle loro preferenze;
  • creazione di fasce di utenza, in funzione delle loro caratteristiche
  • creazione di una comunicazione bilaterale
  • creazione di azioni mirate alle fasce di utenza
  • creazione di proposte mirate a seconda dei bisogni

Ora se questo è il marketing relazionale (si lo è) a me più che l’evoluzione del marketing aziendale sembra una tecnica di marketing e, senza sapere come si chiamava, è stata una delle prime che ho visto quando ho iniziato a lavorare in azienda.

Dico che è una tecnica perché non trovo differenze di approccio con la definizione del concetto di marketing formulata nel 1967 (!!!) dal Philip Kotler:

L’organizzazione che opera secondo il concetto di marketing persegue il raggiungimento dei propri obiettivi determinando i bisogni e desideri palesi o latenti dei propri mercati obiettivo e soddisfacendoli in modo più efficace ed efficiente rispetto ai concorrenti.

Qui dentro c’è in nuce il targeting (e quindi la segmentazione), il branding e, ovviamente, tutte le politiche del marketing mix che mi permetto di declinare secondo la mia definizione di marketing totale in prodotto, prezzo, presenza (alias distribuzione) e percezione (alias promo-pubblicità).

Portando il ragionamento teorico un passo indietro, utile (necessario?) per poi operare con successo, è bene ricordare che il marketing è sempre relazionale, indipendentemente che si operi a livello di segmenti di massa o di individui e di tutti i gradienti intermedi.

L’obiettivo generale del marketing infatti è sempre quello di ridurre la sostituibilità della propria marca rispetto a quelle concorrenti fornendo un servizio (nel senso ampio del termine) percepito come migliore dalle persone, nel senso di più rispondente alle proprie esigenze / aspirazioni.

Nel momento in cui la marca presenta una proposta alle persone si crea automaticamente una relazione tra questa e le persone che ne sono esposte.

E’ più forte la relazione creata dal positioning statement “Only the braves” della Diesel oppure la mail automatica di “Buon Compleanno” ricevuta dalla banca?

Se devo credere alla terminologia di cui sopra la campagna pubblicitaria Diesel è mass advertising mentre la mail della banca è marketing relazionale, però io sono straconvinto che il legame creato con le persone (clienti attuali o potenziali della marca) è più forte nel primo caso.

Il punto, come per la distinzione tra comunicazione above the line/below the line, è che il termine “marketing relazionale” come descritto da wikipedia è fuorviante perché non parte dal punto di vista del mercato, ma da quello dell’azienda. Delle modalità che adotta per operare.

Ricordare che il marketing è sempre relazionale invece è utile per guidare lo sviluppo di TUTTE le strategie e le tattiche realizzate dall’azienda. Aiuta a prendere coscienza che quello tutto quello che facciamo genererà un effetto sulla relazione tra le persone e la nostra marca (che potrà essere positivo o negativo).

Che poi la realizzazione operativa non è banale.

Dicevo all’inizio che una delle prime cose che ho visto quando ho cominciato a lavorare in azienda è stata un’iniziativa di marketing relazione.

La Levoni (spero di non svelare un segreto aziendale, son passati più di vent’anni) inviava a tutte le salumerie nuovi clienti un scatolina con dentro alcune biro, blocchetti da taschino, una vetrofania brandizzata per esporre l’orario di apertura del negozio, alcuni adesivi e vetrofanie con il marchio, ecc..

La scatola era accompagnata da una lettera firmata dall’Amministratore Delegato (firma autentica) che diceva in sintesi:

“La ringraziamo per la preferenza accordataci. Sarà nostro compito dimostrarLe ogni giorno che ci meritiamo la Sua fiducia. Per qualsiasi esigenza può contattare l’agente di zona o direttamente l’azienda al numero verde 800 …….. Ci permettiamo di inviarLe dei materiali che crediamo potranno esserLe utili nel Suo lavoro ed alcuni adesivi con il nostro marchio che, se vorrà, potrà esporre nel Suo negozio.

Le auguriamo buon lavoro e porgiamo cordiali saluti.”

Un’azione di grande efficacia nella creazione di un legame tra l’azienda ed il cliente ed apparentemente semplice da realizzare.

Ci crederete che non sono riuscito a replicarla in nessuna delle quattro aziende per cui ho lavorato nei vent’anni successivi?