Native advertising: gli esempi di “One” sul sito di “El Pais” e di “Ulisse” di Alitalia.

“Native advertising” è uno dei recenti termini di moda nell’ambito della comunicazione e quindi di (parte) del marketing.

Cos’è il native advertising? Copio e incollo da Wikipedia.

Native advertising è una forma di advertising online che assume l’aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata, cercando di generare interesse negli utenti. L’obiettivo è riprodurre l’esperienza utente del contesto in cui è posizionata, sia nell’aspetto che nel contenuto. Al contrario della pubblicità tradizionale che distrae il lettore dal contenuto per comunicare un messaggio di marketing, il native advertising cala completamente la pubblicità all’interno di un contesto senza interrompere l’attività degli utenti, poiché assume le medesime sembianze del contenuto, diventandone parte, amplificandone il significato e catturando l’attenzione del consumatore.

Nello specifico, il Native Advertising è un metodo pubblicitario contestuale che ibrida contenuti e annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove essi vengono posizionati (sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista della linea editoriale), indicando chiaramente chi è l’inserzionista che ‘sponsorizza’ tale contenuto. È distante dal Pubbliredazionale, che invece cerca di mascherare contenuti pubblicitari come articoli editoriali su prodotti o servizi.

In un articolo sulla prestigiosa Harvard Business Review, l’esperto di marketing Mitch Joelha definito la Native Advertising come “un formato pubblicitario creato specificatamente per un determinato media sia dal punto di vista del formato tecnico sia dal punto di vista del contenuto (la creatività)”. L’obiettivo finale è quello di rendere l’annuncio pubblicitario meno intrusivo in modo che non interrompa la fruizione del contenuto che l’utente sta guardando, così da aumentare la percentuale di click e interazioni sull’annuncio

I formati più noti di Native Advertising sono probabilmente i cosiddetti In-Feed Units quali i promoted tweets di Twitter o i promoted posts di Facebook.

Ora io non so se è la definizione di Wikipedia ad essere imprecisa oppure è solo un termine più smart (espressione che non sopporto per come è normalmente adottata nei discorsi in italiano) per indicare qualcosa che concettualmente è sostanzialmente identico ad un pubbliredazionale (le eventuali differenze pratiche sono solo tecnicismi di poca o nulla importanza strategica).

Pubbliredazionali che strutturalmente hanno la stessa scarsa efficacia dei promoted tweets di Twitter o dei promoted post di Facebook.

Qui la differenza tecnica permette di generare sui mezzi social un maggiore bombardamento di messaggi a costi più bassi rispetto ai vecchi pubbliredazionli, però secondo me impostare la propria strategia di comunicazione sull apressione dei messaggi i sembra una strategia sorpassata e che le persone (consumatori) stanno già eludendo attraverso i propri comportamenti cognitivi e/o strumenti informatici (un approfondimento di come vedo la questione lo trovate sul post dello scorso 31 gennaio “L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers”).

Ci sono invece delle attività che (alcune) aziende  stanno realizzando partendo dalla consapevolezza che qualsiasi attività economica oggi si muove nel campo dell’editoria e che l’interesse per un messaggio risiede dalla rilevanza dei contenuti e dalla credibilità della fonte rispetto all’audience a cui si rivolge.

Rilevanza e credibilità dei contenuti non sono mai stati appannaggio esclusivo dei mezzi di comunicazine istituzionali, ma oggi lo sono ancora meno (analizzare i motivi di questa tendenza sarebbe interessante, ma troppo lungo ed esula dall’obiettivo di questo post).

In un continuum che va dalle Pubbliche Relazioni alla marca che si fa editore tout-court si trovano quelle attività che io, sbagliando, chiamerei native advertising e che mi piacerebbe avessero un nome.

L’altro giorno ho trovato due esempi interessanti sul numero di maggio di “Ulisse”, la rivista di bordo dell’Alitalia.

Ulisse maggio 2016

Nelle interviste a Roberto Bolle e Jude Law si dava uno spazio rilevante alla loro attività di testimonial per due marche, rispettivamente Acqua di Parma per Bolle e Lexus per Law. Le domande relativa ai due marchi erano 2 o 3 e lo spazio era circa 1/5 di tutta l’intervista. Quindi non così lungo da trasformare l’intervista in un pubbliredazionale, ma nemmeno così piccolo da passare inosservato o poter essere saltato durante la lettura.

Anche perchè non era la marca a parlare direttamente per bocca del giornalista, ma la voce arrivava dal testimonial attraverso le domande del giornalista. Secondo me in questo modo le dichiarazioni del testimonial, che al di là del compenso ha scelto di collaborare con una marca piuttosto di un’altra per i valori che condivide, acquistavano più credibilità proprio perchè mediate.

Ai professionisti di comunicazione più smaliziati non sorprenderà che Acqua di Parma e Lexus fossero presenti sul quel numero di Ulisse anche con una pagina pubblicitaria (e presumo lo saranno anche nei prossimi).

Ancora più vicino al concetto di marca come editore che non parla direttamente di sè ma si fa creatore e/o curatore di contenuti affini alla propria immagine è la sezione di “One” sul sito della versione on line del quotidiano spagnolo “El Pais” (non non c’è la colonna di destra con gattini e freaks vari).

Screenshot 2016-05-22 16.03.02

Sbaglierò, ma nel futuro della comunicazione io vedo ancora la pubblicità classica come generatore della conoscenza della marca abbinata alla creazione (editoriale) dei contenuti per rafforzarne la reputazione.

Del native advertising come è inteso adesso, non saprei cosa farmene.

Le persone (consumatori) totopotenti.

Tra gite malattie e Pasque, senza neanche accorgermi ho lasciato silente biscomarketing per quasi un mese.

Una di queste gite è stata a Madrid, dove ho fatto una cosa piuttosto banale oggigiorno: arrivato in aeroporto ho preso la macchina a noleggio che avevo prenotato, ho inserito su goggle maps l’indirizzo di casa di mia nipote e dopo circa 20 minuti di guida lineare parcheggiavo in una strada laterale a 200 m da casa sua.

Solo per avere uno smartphone ed un collegamento ad internet, due cose economicaente piuttosto accessibili, adesso posso arrivare in un posto (sostanzialmente) sconosciuto ed avere la capacità di fare quello (sostanzialmente) quello che voglio.

La cosa è talmente troppo facile che ci fa dimenticare l’enormità del cambiamento rispetto a 5 anni fa, per non parlare di 25.

Sarà per questo che continuo ancora ad imbattermi in dichiarazioni di guru (oggi va più di moda dire influencer) del marketing e comunicazione che sottolineano come l’approccio “hard sell” debba essere sostituito dall’enfasi ed attenzione sui contenuti. L’ultima volta è stata una serie di interviste sul futuro della pubblicità nel 2016 che ho letto sul numero di gennaio di Marketing News, rivista dell’american Marketing Association.

Ma è così difficile accettare che, nelle economie sviluppate, le persone sono oramai sostanzialmente in grado di fare quello che vogliono, quando vogliono? Probabilmente sì, perchè per molti professionisti con ruoli di rilievo nelle loro organizzazioni significa rendersi conto della sostanziale irrelevanza delle proprie competenze ed esperienza rispetto all’attuale contesto sociale.

Un’altra “gita” di questo mese è stata al Prowein di Dusseldorf, dove una mia ex collega mi ha chiesto consiglio su come auentare l’efficacia della comunicazione della sua marca sui social network. Al di là di inserire nel gruppo di lavoro un professionista del tema (che normalmente aiuta non poco), le ho ricordato che, ovviaente, le persone sui social network parlano di loro stessi, dei loro amici e parenti ed interagiscono principalmente con le altre persone (amici, parenti, conoscenti). Delle marche gli ne frega poco. A parte alcune che per rilevanza, messaggio, atteggiamento diventano parte della vita loro, dei loro amici, dei loro parenti.

Come succedeva prima dei social network, e succede ancora, nei rapporti analogici.

E’ dal 1990 che ho imparato che la pubblicità ha la funzione di fornire RAGIONI per l’acquisto, mentre le promozioni hanno la funzione di fornire incentivi all’acquisto e l’ho imparato come altre centinaia di migliaia di persone studiando “Marketing Management” del Kotler.

Forse sarà il caso di mettersi al passo con i tempi, che hanno appena cominciato a cambiare (continuamente) come dimostra anche l’articolo “Citta Intelligenti” di Jessica Braun pubblicato sul n. 1144 dell’ 11/17 marzo 2016 de “l’internazionale” (qui il link all’articolo originale in tedesco, che la traduzione italiana sul web non c’è).

Magari saranno questi i tempi nuovi chiesti da “El Roto” nella sua vignetta pubblicata sul “El Pais” dello scorso 30 marzo.

El Roto 30-03-16

 

 

 

Segmentare, targhettizzare, posizionare ai tempi del marketing totale.

Giovedì e venerdì ho tenuto due lezioni su “L’impostazione del brand” al Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino organizzato a Firenze da Wine Job.

Siccome in questo ultimo paio d’anni mi sono reso conto che ho la tendenza ad affrontare le tematiche di marketing sempre da un punto di partenza piuttosto avanzato, nel preparare le lezioni sono andato a riprendere gli appunti del primo corso di gestione del marketing che ho insegnato nel lontanissimo 1992 (24 anni fa! Brividi!).

La cosa è stata utile ed anche interessante: mi sono reso conto che in questi anni ho acquistato in esperienza, e forse, in profondità, ma ho perso in chiarezza e rigore.

Ad ogni modo le lezioni mi sembra siano andate bene (poi diranno gli allievi con la loro valutazione). Quindi ho fatto un salto sulla sedia quando oggi leggendo Marketing News ho trovato l’articolo dove l’emerito professor Schultz dichiarava sorpassato il modello STP, ovvero Segmenting, Targeting e Positioning.

Roba vecchia secondo lui, innanzitutto perché si tratta di concetti definiti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso (maledetti rottamatori, continuano a venir fuori dove meno te li aspetti).

Ohibò, mi sono detto, vuoi vedere che ho insegnato delle cose che valgono più? Proprio io, che mi sono inventato il concetto del Marketing Totale proprio per avere un quadro teorico per guidare la gestione di marketing nell’era digitale?

Poi ho continuato a leggere e mi sono reso conto che io ed il Prof. Schultz diciamo cose molto simili, solo che io continuo ad usare i vecchi termini (reintepretati) mentre lui ne usa di nuovi.

Poco importante in questo caso, mentre importa quello che diciamo. Ecco quindi quello che dico io (se volete leggere quello che dice lui iscrivetevi all’American Marketing Association, o almeno registratevi nel sito).

 

Il positioning oggi viene cronologicamente prima del segmenting e del targeting.

Il posizionamento di una marca era, è e rimarrà quello che la marca rappresenta nella testa delle persone.

Quello che è cambiato rispetto agli anni ’70 è che si è passati da un mercato in cui le marche andavano alla ricerca dei consumatori ad un mercato, oggi, in cui sono i consumatori a trovare le marche.

Allora la definizione del posizionamento da parte dell’azienda (operativamente la definizione del positioning statement) non si fa dopo positioning e targeting sulla base delle aspettative (presunte) dei mercati obiettivo, ma si fa PRIMA sulla base dell’identità aziendale.

L’autenticità infatti è cruciale per farsi trovare dalle persone nei posti e nei momenti giusti” ed ancor di più per soddisfare in modo credibile e quindi durevole.

Però, come mi ha chiesto uno studente, se il posizionamento reale è quello che dà il consumatore, perché parlo della necessità da parte dell’azienda di definire il proprio posizionamento come DEL pilastro su cui poggia tutta l’attività di marketing?

Perché l’obiettivo ideale, e quindi mai realizzato al 100%, è quello che la percezione della marca che abbiamo noi azienda che la marca la “facciamo” e quella che hanno le persone che la usano, corrispondano.

 

La segmentazione per essere efficace DEVE partire sempre dal comportamento delle persone, idealmente dai benefits (servizi) che cercano nell’uso dei prodotti.

Le persone consumano sempre servizi, più o meno incorporati in prodotti fisici.

Sono i desideri/bisogni che vogliono soddisfare a determinare i servizi che ricercano in un prodotto e quindi quali sono i prodotti concorrenti.

Dai benefici attesi deriveranno in larga misura le occasioni, le modalità, i livelli d’uso e l’atteggiamento nei confronti della marca/prodotto.

Sarà quindi il grado di omogeneità nei confronti di uno o più di questi parametri a costituire la base su cui definire un segmento.

Bisognerà poi vedere se oltre alla volontà di acquistare/consumare, i segmenti individuati posseggono anche la capacità, innanzitutto economica, di consumare. In altri termini se hanno una rilevanza economica sufficiente rispetto alla struttura ed agli obiettivi aziendali.

Se c’è questa rilevanza economica, per rendere operativo il segmento passando al targeting è necessario trovare i modi per accedervi in termini di comunicazione e/o vendita. E l’accessibilità di un segmento viene ancora determinata in buona parte dalle caratteristiche geografiche, demografiche e psicografiche delle persone che lo compongono.

 

Il targeting oggi riguarda principalmente i modi con cui ci si rivolge ai segmenti, mentre i contenuti (di fondo) sono legati all’identità della marca (e quindi al positioning a priori).

Il targeting è la globalità delle azioni con cui la marca si rivolge ai segmenti individuati. Per questo da un po’ di tempo io preferisco utilizzare il termine audiences invece di target markets

Il complesso di azioni riguarda tutto le attività del marketing mix: prodotto, prezzo, presenza (accezione che prende la P di Place nell’approccio del Marketing Totale) e percezione (accezione che prende la P di Promotion nell’approccio del Marketing Totale).

Non commettiamo ancora il classico errore di considerare marketing=comunicazione (o peggio ancora pubblicità).

Perché il targeting sia efficace, le strategie devono riuscire a far comprendere l’identità della marca alle audiences alle quali si vuole rivolgere.

La realizzazione delle strategie riguarderà quindi soprattutto le modalità verbali, visuali o reali con cui la marca si rivolge (o si fa trovare, è quasi la stessa cosa) alle audiences.

Viceversa riguarderà solo limitatamente i contenuti fondanti del concetto della marca. Al massimo potrà selezionare tra i diversi contenuti che la definiscono quali sono più interessanti / comprensibili per le diverse audiences.

Sempre avendo ben presente il rischio di incoerenza oppure di banalizzazione, che porta alla perdita di credibilità.

E’ per questo che le marche sono tanto più solide quanto più larga è la loro personalità.

 

Qui mi fermo perché il post è già abbastanza lungo e, soprattutto, è già abbastanza tardi. Se qualche concetto non vi è chiaro perché non è stato sviscerato abbastanza, cercate nel blog e troverete almeno un post specifico dedicato alla maggior parte degli argomenti di oggi.

Wind, XFactor, le sponsorizzazioni e l’importanza della coerenza strategica.

Wind all inclusive music

“Queste regole sono semplicissime, le capirebbe un bambino di quattro anni, Chico, vammi a trovare un bambino di 4 anni, perché io non ci capisco niente!” (Rufus T. Firefly) alias Groucho Marx.

Mia nipote teen ager l’altro giorno mi chiede cosa ne penso della sponsorizzazione di X factor da parte di Wind. Io rispondo che non ne penso niente perchè nè sono cliente wind nè guardo X-Factor.

Mi spiega quindi rapidamente la questione.

Wind è (uno) dei main sponsor di X-Factor ed ha lanciato delle tariffe “music” collegate a questa sponsorizzazione (quindi al programma, quindi al mondo della musica, quindi al target dei teen-ager) che permettono di scaricare ed ascoltare musica tramite l’applicazione di Napster.

Essendo totalmente in target, lei se la scarica, ma poi scopre che negli oltre 30 milioni di brani che ci sono su Napster, non ci sono tutti quelli cantati dai partecipanti ad X-Factor. O meglio, se ho capito bene, su Napster ci sono tutte le cover cantate durante il programma, ma non tutte le versioni originali.

Ergo, dopo aver sentito una canzone cantata da un partecipante di X-Factor ha voluto andare a sentire com’era la versione originale (sarà stata meglio o peggio di come l’hanno cantata ad X-Factor?) e non l’ha trovata perchè non è tra quelle di cui Napster ha i diritti.

Siccome lei non è così naif come la dipingo io, è assolutamente cosciente che è una questione di diritti e quindi la domanda vera che voleva farmi, come professionista di marketing (lo so ho una brutta vita) era “Ti sembra possibile che questi della Wind diano un pacco di soldi di sponsorizzazione ad X-Factor e non riescano neanche a fare in modo che le canzoni utilizzate nel programma rientrino nei 30 milioni di brani (mi rifiuto di usare la parola “traccia”) di cui Napster ha i diritti, per evitare che i loro clienti si sentano ingannati?”.

Forse alla wind non hanno bisogno di un bambino di 4 anni, ma un’adolescente di 17 potrebbe dargli una mano.

Questo aneddoto tocca alcuni punti interessanti del concetto di marketing totale:

1. Apparire coerenti è più facile che essere coerenti: una volta le interazioni tra la marca e le proprire audiencies erano meno frequenti nel tempo e nello spazio. Soprattutto erano in larghissima misura unidirezionali e sotto il controllo della marca.

La marca preparava con cura la realizzazione e l’esecuzione delle proprie campagne di comunicazione, quindi era molto più semplice che queste mantenessero una loro coerenza interna e con le altre strategie di prodotto, distribuzione e prezzo.

Adesso le interazioni tra la marca e le proprie audiencies sono diffuse e continue nel tempo e nello spazio. Di conseguenza la coerenza si può ottenere solamente con la definizione di una chiara identità/personalità della marca e la sua condivisione ed (intima) adozione all’interno dell’organizzazione (nell’organizzazione io comprendo tutte le funzioni aziendali+più i suoi fornitori di prodotti e servizi).

Per dirlo in un altro modo, una volta le marche incontravano i propri consumatori (quasi) esclusivamente dandogli appuntamento, quindi si ppotevano preparare con cura, scegliere il vestito adatto, truccarsi, aggiustarsi i capelli, comportarsi secondo l’immagina che volevano dare, ecc…. Oggi le marche incrociano le proprie audiencies sempre, anche appena sveglie oppure alla fine della giornata quando sono stanche e vorrebbero solo mettersi in pantofole e pigiama. L’unico modo per non far prendere paura ai consumatori è ESSERE se stessi in ogni occasione.

Se la marca mostra qualche lacuna nel suo approccio (rispetto) verso (le aspettative) dei propri consumatori non basta cambiare spot, bisogna intervenire sulla propria essenza (carattere). E questo è molto più difficile.

2. (voler) Creare dei legami emotivi con le proprie audiencies è un arma a doppio taglio. Le marche si sono spostate dall’apparire all’essere un po’ perchè forzate dalla società dell’era digitale ed un po’ perchè si sono convinte che creare legami emotivi con i consumatori sia un fattore di successo.

Io non sono del tutto d’accordo con questa visione (vedi il mio post Lovemarks vs. users: i rischi dell’amore platonico (per le marche)), ma per il momento prendiamo per buona la validità dell’obiettivo delle marche di creare legami emotivi con i propri consumatori.

Detto in parole semplici l’obiettivo è che i miei consumatori mi amino.

Il problema di maneggiare sentimenti forti è che se poi sentono traditi, mi odieranno. E l’unico modo per evitare (ridurre) il rischio che si sentano traditi è che io, marca, a mia volta ami i consumatori.

Non è un impegno da poco e le parole hanno tutto il peso che possiedono nei rapporti tra le persone. In realtà non sarebbe nemmeno troppo difficile se nelle aziende l’approccio di marketing fosse prevalente e la funzione marketing svolgesse il ruolo strategico che le è proprio. Purtroppo però la situazione più diffusa attualmente è quella di un marketing marginale nella definizione e realizzazione delle strategie e di una predominanza dell’approccio finanziario, che tipicamente ama più il denaro che le persone.

Alla fine di questo pistolotto pseudo filosofico qualcuno potrebbe dire che dò troppa importanza alla coerenza.

Vi, e mi, chiedo voi stabilireste una relazione stabile con una persona incoerente? Avreste fiducia in lei? Soprattutto fareste affari con una persona incoerente?

Cambiate “persona” con “marca” e capirete perchè io continuo a considerare la coerenza delle attività della marca come precondizione per il suo successo.

Ferrero “Bontà E’ Bellezza”: può il marketing basarsi sull’etica dell’estetica?

Capita abbastanza spesso che su questo blog parli di cosa fa Ferrero, quasi sempre con una punta di invidia, non tanto perchè sono grandi, ma perchè sono svegli e riescono a realizzare cose che io avevo solo immaginato.

Questo è uno di quei casi perchè è partita da un po’ la campagna premio certo con il claim “Bontà è Bellezza”.

E’ una campagna con almeno deu elementi interessanti. Il primo è la spinta promozionale data dalla certezza della vincita, fatta però attraverso premi di valore aggiunto. Quindi non c’è un appiattimento della marca sul prezzo / sconto e si riesce a dare al consumatore qualcosa che per lui vale più di quanto costi all’azienda.

Volendo parlare tecnicamente, la Ferrero crea un surplus di valore che trasferisce al consumatore.

In più collegandosi a degustazioni di specialità alimentari italiane, la promozione si inserisce nel filone ancora molto attivo dell’enogastronomia (leggi foodporn) e permette di trasferire sui prodotti Ferrero promozionati l’alone di qualità dei prodotti tipici italiani.

Potrà sembrare un’idea banale, ma realizzare una promozione di tipo così aperto nella scelta e fruizione del premio richiede un’organizzazione non da poco.

Questa promozione utilizza e realizza in pieno due concetti che ho espresso tempo addietro: il crescente interesse dei consuatori alle promozioni in seguito alla crisi economica (il post del marzo 2013 lo trovate qui) e la necessità che nell’era del marketing totale le strategie siano tattiche e le tattiche strategiche.

Ma quello che mi intriga di più della campagna è il claim che collega direttamente la bonà alla bellezza. Questo perchè nella mia carriera ho tentato varie volte di posizionare esplicitamente una marca / prodotto sulla base della bellezza come proxy della qualità e non ci sono mai riuscito (leggi non me l’hanno mai lasciato fare).

Gli esempi si specano, basta pensare al ri-lancio della Fiat 500, però la domanda rimane: c’è un’etica nell’estetica? il fatto che un prodotto sia bello lo fa anche automaticamente buono, in senso esteso?

Questa enfasi sulla bellezza, non rischia di diventare un posizionamento classista? Vale più il meccanismo per cui acquisto i cioccolatini Ferrero per appropriarmi della loro bellezza (indipendentemente dalla loro bontà) oppure di rifiuto di ridurre tutto all’estetica. Mi ricordo che quando ero a piccolo a Venezia i panifici avevano i biscotti “brutti, ma boni”, che si posizionavano in modo totalmente contrario.

Ma soprattutto la domanda definitiva è Ferrero Rocher, Mon Cheri e Pocket Coffee sono belli o sono brutti? E se sono brutti, automaticamente diventano anche cattivi?

Voi che ne dite?

Generali trasferisce l’ufficio comunicazione a Milano ed io mi chiedo: ha senso delocalizzare il lavoro intellettuale? E che ne è del genius loci?

genius loci

Qualche giorno fa Assicurazioni Generali ha deciso di spostare da Trieste a Milano parte dell’ufficio che si occupa della comunicazione interna ed esterna della holding.

La cosa a Trieste ha giustamente destato una certa preoccupazione perchè segna un ulteriore depauperamento di una città che ha avuto l’occasione di essere al centro dell’Europa e non è riuscita a sfruttarla per limiti (o vincoli) storico-culturali. Perchè, come cantava Fossati, i muri più difficili da abbattere sono quelli che abbiamo in testa.

Io invece mi sono chiesto che senso abbia oggi spostare fisicamente delle persone perchè siano fisicamente più vicine alle strutture con cui devono collobarare. E’ evidente che il grosso dei media si trovano a Milano, ma nell’utilità della vicinanza geografica tra questi e l’ufficio comunicazione delle Generali io vedo un’impostazione del lavoro un po’novecentesca.

Soprattutto mi chiedo se nel prendere questa decisione si è valutata solamente l’efficienza oppure anche l’influenza che avrà a lungo termine sulla comunicazione dell’identità della marca. Il genius loci non è indifferente nella definizione e percezione della propria personalità.

In altre parole il “sentire” dei dipendenti Generali che si occupano della comunicazione aziendale sarà diverso quando guardando fuori dalla finestra vedranno Piazzale Cordusio (Milano) rispetto ad oggi che vedono il golfo di Trieste.

Nell’era del marketing totale l’identità è uno dei principali fattori competitivi, anche perchè è quello meno replicabile dai concorrenti. Chissà se quella delle Generali di diventare/apparire meno triestine e più milanesi è una scelta oppure sarà una “semplice” conseguenza della ricerca di efficenza (con soluzioni superate dai tempi)?

Dopo i giornali, i prossimi suicidi saranno quelli di (alcune) catene di super e ipermercati?

Che i giornali si stavano suicidando l’ho scritto in un post del lontano 30 agosto del 2008. Evito di aggiungere e/o riprendere cose già scritte a suo tempo. Se volete capire l’introduzione di questo post, ecco qui il link a “Perchè i giornali si stanno suicidando”

Sottolineo solamente che la scelta del termine “suicidarsi” era per sottolineare come la morte dei giornali non fosse conseguenza inevitabile per il cambiamento della domanda del mercato, bensì conseguenza delle scelte (coscienti o meno) dei giornali stessi.

Mi chiedo se la stessa cosa non stia avvenendo per alcune catene della grande distribuzione italiana, dopo aver passato una settimana ad analizzarne i dati di andamento ed aver frequentato un po’ di punti vendita.

In estrema sintesi lo sviluppo della grande distribuzione commerciale in Italia è avvenuto principalmente a scapito dei negozi tradizionali fino ad almento metà degli anni ’90, con una redditività basata in buona parte sui contributi richiesti, ed ottenuti, dai fornitori e dalla rendita finanziaria creata dall’incassare immediatamente per la vendita di prodotti pagati a 90/120 giorni.

Questo scenario è andato annullandosi nel corso degli ultimi anni con le nuove aperture di super ed ipermercati, la riduzione delle risorse che i fornitori possono destinare a finanziarie la propria presenza sugli scaffali e l’annullamento della redditività finanziaria.

Tutto questo significa che oggi le catene della grande distribuzione devono costruire il successo di vendita e di reddività grazie a quello che avrebbe dovuto essere stato sempre il loro business principale: soddisfare in modo più efficace ed efficiente i desideri/bisogni dei loro clienti attuali e potenziali.

Lo stanno facendo?

La settimana scorsa ero a Milano accompagnando una missione commerciale di produttori alimentari tedeschi che cercavano importatori distributori in Italia. Ho quindi approfittato per andare a vedere un punto vendita Esselunga, come faccio sempre ogni volta che sono a Milano. Esselunga infatti è la catena distributiva più innovativa nei diversi aspetti della proposta e quindi, quando me ne capita l’occasione vado a vedere la “frontiera” della distribuzione in Italia. (i punti vendita Esselunga si trovano sostanzialmente solo in Lombardia, Toscana e Lazio).

Sarà forse perchè venivo da aver visitato du supermercati biologici dove regnava un’atmosfera rilassata, ma è stata una delusione.

Confusione, musica alta, questi scaffali lunghi ed alti che davano una sensazione industriale e leggermente claustrofobica e rendevano difficile orientarsi tra l’assortimento ed individuare i prodotti/marche. I prodotti biologici erano collocati insieme a quelli non biologici della stessa categoria merceologica (meglio così o meglio creare il reparto biologico all’interno del punto vendita?), ma in modo così confusi che si faceva fatica trovarli.

Per la cronaca sono sto parlando dell’Esselunga di Via Losanna a Milano

Ieri invece sono dovuto andare in un supermercato PAM a Trieste, perchè le Coop Essepiù dove vado di solito erano chiuse in occasione del 25 aprile (non esprimo opinioni sulla scelta). Credo sia il supermercato più scomodo del mondo, uno dei più user UNfriendly che abbi mai visto in termini di disposizione, assortimento, prezzi, organizzazione. Direi che rispecchia la cultura di business aziendale, che nelle mia esperienza di fornitore della catena si basa sul massimo sfruttamento della propria posizione.

Già scrivendo di marketing totale ho modificato la P di “Place” (distribuzione) in “Presenza”.

La domanda quindi è: cosa vogliono, e cosa vorranno in futuro, le persone riguardo all’approvvigionamento dei prodotti che usano per vivere (ossia riguardo a quello che oggi è rappresentato dal “fare la spesa”)? Sarà qualcosa di profondamente diverso da oggi nella sua essenza o solo nella forma? Come fare a soddisfarli?

Butto lì una dritta agli amici e colleghi della GDO: è almeno dal 2008 (ma ho ricordi di ricerche che risalivano al 2004 e riportavano gli stessi dati) che la quota di mercato dei negozi con licenza ambulante (i mercati rionali) si mantiene costante intorno all’11% del totale delle vendite di prodotti alimentari. Mentre i piccoli negozi tradizionali continuano a chiudere, gli ambulanti si mantengono costanti.

Forse per capire come soddisfare i consumatori nel futuro conviene analizzare in profondità cosa gli spinge a continuare a fare la spesa presso la forma di commercio più arcaica che c’è.

OK, il prezzo è giusto per ciascheduno (e quindi la vita diventa più cara)!

Lo scorso 7 settembre nel mio post “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 4: le politiche di prezzo”, teorizzavo un futuro in cui il prezzo comme lo conosciamo oggi non esisterà più, sostituito da transazioni individuali per ogni specifica trattativa.

Come spesso succede alle previsioni nell’era digitale, il futuro arriva molto più velocemente del previsto: nel numero 1096 dell’Internazionale trovo un articolo dal titolo “Prezzi su misura” che spiega come l’utilizzo della profilazione degli acquisti dei clienti attraverso le carte fedeltà o l’identificazione tramite login stia portando alla diffusione di offerte personalizzate.

Secondo l’articolo negli USA il 5% dei prezzi è già personalizzato ed oltre metà delle catene distributive stanno lavorando su progetti di price intelligence.

L’esempio europeo è quello di una start up tedesca la So1 (Segment of 1) secondo la quale 3 spese in 4 settimane sono sufficienti a fare una stima sul singolo consumatore. La sperimentazione in atto nella catena di supermercati tedeschi Kaiser’s prevede la presenza di totem all’ingresso dei punti vendita che stampano le offerte personalizzate “strisciando” la carta fedeltà, sviluppate da un algoritmo sulla base degli acquisti passati. Nella definizione dell’Amministratore Delegato della So1, la carta fedeltà non è altro che un cookie materiale (terminologia che la dice lunga sulla rilevanza che sta acquistando l’universo virtuale su quello materiale nell’era digitale).

Concepire la carta fedeltà come un cookie, forse ha facilitato il concetto di collegarla ad un numero cliente anonimo (come fosse un indirizzo IP) che, a sua volta, ha probabilmente influenzato l’accettazione della nuova carta da parte dei clienti della catena.

L’articolo poi cita altri esempi come quello del software Xtify dell’IBM, la quantità di informazioni sui comportamenti dei propri clienti raccolte dalle catene di supermercati svizzeri Migros e Coop oppure che circa la metà dei clienti della catena di supermercati Safeways utilizza già un’applicazione che propone sconti specifici basati sugli acquisti precedenti del consumatore. E’ evidente che stampare un buono con gli sconti specifici da un totem sul punto vendita oppure riceverlo sullo smartphone è un puro tecnicismo che non cambia nè il concetto nè la sua applicabilità.

In realtà l’utilizzo dei comportamenti di acquisto passati per disegnare le offerte future è una cosa piuttosto vecchia.

Credo che fosse il 2005 o il 2006 quando, tra i primi in Italia, abbiamo utilizzato il circuito che Catalina Marketing aveva da poco realizzato in diverse catene della GDO (ricordo che l’ufficio erano 3 stanze a pianoterra di un anonimo palazzo di appartamenti milanese)

Il sistema funzionava, e forse funziona ancora, così: se al passaggio allo scanner delle casse sullo scontrino si trovava un determinato prodotto, un’apposita stampante posizionata di fianco alla cassa stampava uno sconto specifico per un determinato prodotto definito al mommento della campagna promozionale.

Lo strumento poteva essere utilizzato per romperè la fedeltà ai prodotti concorrenti, aumentare la fedeltà al proprio, per effettuare delle vendite incrociate oppure per il reclutamento di nuovi consumatori.

Esempio 1, rottura della fedeltà alla marca: il consumatore ha acquistato una bottiglia di brandy Vecchia Romagna? Riceve un buono sconto per l’acquisto di Stock 84.

Esempio 2, aumento della fedeltà alla marca: il consumatore ha acquistato una bottiglia di Limoncè? Riceve uno sconto per l’acquisto di un’altra bottiglia.

Esempio 3, vendita incrociata: il consumatore ha acquistato una bottiglia di Limoncè? Riceve un buono sconto per l’acquisto di una bottiglia di Keglevich Vodka.

Esempio 4, reclutamento consumatori: il consumatore ha acquistato una vaschetta di gelato (al limone)? Riceve un buono sconto per l’acquisto di una bottiglia di Limoncè (in base all’analisi dei panieri di consumo che aveva individuato una associazione tra i due prodotti).

Il vantaggio di questo sistema era l’assoluta libertà nella scelta dei prodotti da utilizzare nelle promozioni (l’unico vincolo pratico era la loro effettiva presenza sugli scaffali del punto vendita).

Lo svantaggio era che la stampa del buono (o dei buoni) successiva all’acquisto riduceva il loro tasso di utilizzo, soprattutto per i prodotti a bassa frequenza di acquisto.

Qualche mese dopo l’inizio dell’attività di Catalina Marketing in Italia, ricordo che una catena (Bennet? Auchan? Carrefour? Chissà) aveva realizzato un test in alcuni dei propri supermercati con un sistema di totem, sostanzialmente equivalente a quello utilizzato oggi da Kaiser’s. Perchè la cosa non si sia consolidata, non lo so. Forse il concetto era troppo avanzato per la tecnologia del tempo.

Ma torniamo ai giorni nostri. Per l’Amministratore Delegato della So1 l’adozione di una politica di prezzi personalizzati (di fatto è questo che fanno le promozioni personalizzate) porta ad una situazione di Pareto efficenza in cui tutti traggono dei vantaggi: il produttore aumenta i fatturati, il cliente ottiene sconti per prodotti che gli interessano ed il negozio aumenta la propria marginalità.

Io dubito che ci possa essere un cambiamento nel funzionamento dei mercati che porta, anche in misura diversa, vantaggi a tre categorie di soggetti economici che hanno tra loro interessi contrapposti.

Dal punto di vista del produttore, vedo difficile che le offerte personalizzate portino ad una espasione complessiva dei consumi. E’ invece ipotizzabile una situazione vicina alla somma zero, per cui se aumentano le vendite della Coca Cola, diminuiranno quelle dalle Pepsi Cola e viceversa. Mi andrà bene una volta, ma magari quella dopo sarò “vittima” della reazione del concorrente.

In termini competitivi infatti la capacità di mirare la scontistica per singolo prodotto/consumatore è un formidabile distruttore di fedeltà alla marca. E quindi può essere utilizzato solo come strumento di breve periodo mentre nel medio lungo per difendersi dalla reazione dei concorrenti (che hanno accesso ai mmedesimi strumenti) si rafforza la necessità per le marche di mantenere un posizionamento differenziante attraverso l’innovazione ed evitare così la “commoditizzazione”. Non importa se l’innovazione è di prodotto, di servizio, di comunicazione o di qualsiasi altra cosa: l’importante è mantenersi sempre un passo (anche piccolo) più avanti (a destra, sinistra, sopra, sotto) rispetto ai concorrenti. Soprattutto nei confronti dei produttori di prodotti “genereci” e/o marche dell’insegna che competono principalmente sul vantaggio di costo e quindi di prezzo.

L’evoluzione logica del prezzo/promozioni personalizzati è la scomparsa/riduzione del prezzo/promozioni generalizzate. Per il consumatore questo si traduce per forza in un’aumento complessivo del suo paniere di acquisto. Personalizzando i prezzi il negozio riesce ad avvicinarsi al prezzo massimo che ogni persona è disposto a pagare per un determinato prodotto in un determinato momento, mentre oggi i prezzi sono fissati in base ad una stima della cifra media che un determinato segmento di consumatori è disposto a pagare per un determinato prodotto, in qualsiasi momento (o comunque in intervalli temporali molto ampi).

Ora, poichè per definizione, nessuno acquista prodotti che hanno un prezzo superiore a quello massimo che è disposto a pagare, oggi la maggior parte dei nostri acquisti avviene ad un prezzo inferiore rispetto al valore massimo che attribuiamo al quel prodotto (in termini scientifici la nostra utilità marginale nel consumo del prodotto e superiore al suo prezzo).

L’esempio diventa più chiaro se pensiamo a tutte le volte in cui compriamo in offerta un prodotto che avremmo acquistato ugualmente a prezzo pieno. Oppure se consideriamo il comportamento tipico della massima comoditizzazione per cui il consumatore che all’interno di una categoria merceologica (pesce, carne, frutta, succhi di frutta, pasta, ecc…) compra sempre il prodotto in offerta (ce ne sono sempre almeno un paio), tanto qualitativamente sono tutti uguali.

Nel sistema delle promozioni personalizzate questo possibilità di scegliere i prodotti più convenienti, intesi come quelli con la massima differenza tra il valore soggettivo attribuito dalla singola persona ed il prezzo, non c’è più. Quindi, ripeto, la conseguenza è l’aumento del costo complessivo del paniere dei beni acquistati.

Concludo con una problematica di natura macroeconomica che mi sembra nascere dalla personalizzazione dei prezzi (che comunque è già un pezzo di presente e sarà il futuro): la stima dell’indice dei prezzi.

Già oggi, secondo me, nel calcolo del PIL c’è il problema della sostanziale gratuità di moltissimi prodotti/servizi digitali e/o della loro riduzione di prezzo dovuta al progresso tecnologico (legge di Moore) senza che diminuisca l’utilità che ne ricavano le persone (motivo per cui non condivido tutta questa preoccupazione per l’eventuale deflazione, indicatore sostanzialmente monetario).

E’ possibile ottenere un indice dei prezzi che rispecchi effettivamente i prezzi pagati dalla persone in una situazione di generalizzazione della personalizzazione di prezzo?

Considerando l’importanza che ha questo indicatore nelle decisioni di politica economica, quali saranno gli effetti di decisioni basati su un indice distorto rispetto alla realtà?

Il mondo basato sull’individuo sta correndo, il mondo come società saprà raggiungerlo o è destinato a sparire?

Jesus Christ Superstar do you think you’re what they say you are? Ovvero l’importanza dell’identità.

Credete alle coincidenze?

4 giorni fa l’annuncio della messa in onda a breve (in Spagna) della serie televisiva “Sin Identidad” dove recita mia nipote Andrea del Rio.

2 giorni fa leggo su Marketing Insight l’intervista a Kim Larson, Responsabile del Google Brandlab, che alla domanda “Quali sono gli errori più comuni nel digital marketing e come fate in modo che i vostri clienti li evitino?” risponde che è necessario tornare ai fondamentali, assicurarsi che la propria essenza sia chiara e che proposta e comportamenti di marca siano autentici.

ieri, zappingando finisco su TeleMurcia (se non si è capito per Pasqua sono venuto in Spagna) e mi trovo gli ultimi minuti di Jesus Christ Superstar, con Giuda che canta “Superstar”: “Gesù Cristo chi sei? Cos’hai sacrificato. Gesù Cristo Superstar pensi di essere quello che loro dicono tu sia?”

La verità vi renderà, se non liberi, più competitivi.

Buona Pasqua e buona pasquetta.

Lovemarks vs. users: i rischi dell’amore platonico (per le marche).

Lo scorso 3 marzo il Guardian ha pubblicato l’intervista a Kevin Roberts,  Presidente Esecutivo di Saatchi & Saatchi U.K. (una delle più famose agenzie pubblicitarie al mondo).

Il titolo e la prima riga dell’articolo erano: “Il marketing è morto, la strategie è morta, la gestione (aziendale) è morta.”. Stranamente la stringa che identifica il pezzo su internet è invece “advertising is dead”, a dimostrazione che non ci libereremo mai dell’equivico tra marketing e pubblicità.

L’articolo è stato poi rilanciato da molti sui social networks.

Qualche giorno prima la rivista on line della Mc Kinsey & Company, una delle più grandi aziende mondiali di consulenza aziendale, aveva pubblicato un articolo dal titolo “L’alba della nuova età dell’oro del marketing”.

A dimostrazione che le notizie negative ricevono più visibilità di quello positive, il pezzo della Mc Kinsey ha avuto molta meno visibilità (io l’ho visto segnalato da Pier Luca Santoro).

Io però sono molto più d’accordo con McKinsey piuttosto che con Kevin Roberts. Basta capirsi sui termini.

Che il marketing tattico, quello che ha dominato l’operatività aziendale negli ultimi vent’anni è le agenzie negli ultimi 10, stesse morendo era abbastanza noto. il 28 febbraio 2010 avevo pubblicato un post dal titolo “(Quando) imploderà il marketing”

Quello che non vedo proprio all’orizzonte è la mort della strategie e della gestione.

Anzi il motivo per cui concordo con il sorgere della (potenziale) nuova età dell’oro del marketing (se ci saranno professionisti capaci di coglierla) è proprio perchè tutti i fattori che stanno uccidendo il marketing tattico sono alla base della resurrezione del marketing strategico.

In sintesi nel momento in cui, come adesso, non sono più le marche a trovare le persone (consumatori), ma viceversa, il posizionamento strategico e l’identità diventano fondamentali per competere sul mercato. In un certo senso è uno dei (se non IL) ragionamenti alla base del concetto di marketing totale.

C’è poi un’altro motivo per cui sono scettico nei confronti delle tesi di Roberts ed è che non condivido il concetto di “lovemarks”, sul quale d’altra parte Saatchi & Saatchi ha costruito parte del suo successo mondiale. Non lo convido nella sua applicabbilità su larga scala perchè le persone non possono avere forti coinvolgimenti emotivi con un numero elevato di marchi. D’altra parte possono benissimo essere fedeli a marchi che conoscono e rispettano.

Nello scontrino della mia spesa di sabato sono presenti 26 referenze: alla maggior parte sono fedele, ma se le amassi tutte morirei di batticuore ogni volta che vado al supermercato.

E’ un concetto che ho già spiegato con più chiarezza e basandomi su dati più scientifici nel post del 30 settembre 2012, intitolato “Amici, nemici e semplici conoscenti”.

Non avevo però considerato il rischio dell’amore platonico, tanto più reale quanto più i legami tra le persone e le marche si rafforzano e si basano sulle emozioni intangibili.

Me l’ha fatto scoprire Don E. Shultz, professore emerito di Integrated Marketing Communication alla Northwestern University di Evanston, Illinois, che in un suo articolo pubblicato su una rivista dell’American Marketing Association raccontava che durante una lezione in Austria aveva trovato un studentessa che era una vera lover del marchio Red Bull. E come lei la maggior parte dei suoi amici: seguivano la marca sui social, partecipavano agli eventi organizzati dalla marca, ecc…. Però nessuno beveva Red Bull, semplicemente perchè non erano interessati agli energy drinks. E trovavano la cosa assolutamente normale.

Marketing Totale: origini, ragioni, implicazioni in 50 diapositive.

In settimana ho pubblicato su slideshare le diapositive del mio seminario sul MARKETING TOTALE.

Poichè è una presentazione, è stata fatta con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione dei partecipanti e quindi le diapositive NON sono autoesplicative (ricordo ancora la mia professoressa di comunicazione in Canada che giudicava le presentazioni dei casi di marketing: “Massimo 4 righe di testo con dimensione del carattere minimo 20).

C’è quindi la certezza che alcune diapositive appaiano criptiche ed il rischio che siano persino interpretate al contrario. D’altra parte basta pensare che per ogni diapositiva sono previsti in media 5 minuti di commenti per capire che i contenuti del seminario sono molto di più della semplice presentazione.

Cionondimeno credo che possa essere di aiuto per megliorare il concetto di marketing totale, in aggiunta ai post che ho già pubblicato sull’argomento in questo blog.

Quanto meno colloca il marketing totale in un contesto più organico rispetto al passato ed al futuro del marketing.

Mettetevi comodi e … buona lettura. Qui trovate il link alla presentazione.

Implicazioni del marketing totale: persone e marche si confrontano ad armi pari, lo spot (anti)Doritos.

Questo post comincia con lo spot Dorito, guardatelo cliccando qui (anche se l’avete già visto, dura solo 1,16 minuti) e poi leggete.

L’avete visto? Fino al secondo 43, secondo me il più bello spot Dorito mai realizzato (qui una compilation dei migliori 11 della storia).

Ha l’autoironia che solo le grandi marche possono permettersi, la passione dei protagonisti per il prodotto è talmente caricaturale da diventare coinvolgente, la produzione è ottima (scenografia, regia, fotografia, recitazione). La forza della sceneggiatura è dimostrata dal fatto che lo spot non ha bisogno di dialoghi per far passare il messaggio, cosa che lo rende un spot perfetto per il mercato globale che richiede di andare all’essenza superando la barriera della lingua.

Talmente bello e forte che persino quando appare la prima scritta “Dorito può contenere tracce di foresta pluviale” ho pensato che Dorito avesse lanciato un’iniziativa per la salvaguardia di x ettari di foresta. Giuro. A voi non è successo?

Poi se volete vi guardate i vari commenti dei fan di Doritos, di chi dice che era ovvio, di chi vorrebbe del contradditorio (che per definizione non può esserci nella comunicazione pubblicitaria), ecc…

Per me il punto è che questo spot dimostra con una chiarezza raramente vista prima che le persone e le marche oramai si confrontano ad armi pari perchè:

- la diffusione della “pubblicità” dipende oggi principalmente dal contenuto (messaggio) e dalla qualità della forma piuttosto che dalla forza (leggi budget) della pianificazione.

- le tecnologie audiovisive digitali hanno ridotto fortemente i costi di produzione, riducendo la differenza nella qualità degli spot dovuta lìalle disponibilità finanziarie.

- la creatività fatta per passione è mediamente di quella fatta per lavoro (e se sono un giovane regista che deve lavorare semigratis per Doritos, forse non mi cambia molto lavorare gratis contro Doritos).

- le (persone) nelle ONG sembrano aver preso coscienza che il marketing serio è “Truth well told” (come recita il motto dell’agenzia di pubblicità McCann & Erickson) e non manipolazione per irretire e dominare le persone. In altre parole il marketing è una tecnica, uno strumento, che non ha in sè un’etica ma prende quella di chi lo usa. D’altra parte è (anche) grazie al marketing ed alla pubblicità che a suo tempo cadde il governo Pinochet in Cile.

Consumers (people) never sleep, per parafrasare Neil Young. Gestire delle marche ai tempi del marketing totale significa ricordarsi di essere sotto scrutinio costantemente, ovunque e per sempre. E cercare di ricordarsi che le persone (i consumatori) sono bravi almeno quanto te, se non di più.

Da professionista di marketing (forse) è questa la causa del mio bruxismo, ma da cittadino non posso che esserne contento.

Il marketing totale ed il villaggio globale (più gli auguri di Natale).

Il concetto di marketing totale è figlio, inconsapevole, di quello di villaggio globale.

Ricordo che “marketing totale” è il termine che ho coniato qualche mese fa per indicare il nuovo ambiente competitivo in cui le marche sono sotto lo scrutinio del mercato sempre, ovunque e continuamente. E’ un concetto nato da riflessioni diverse (qui il primo post di febbraio a cui ne sono seguiti altri), però a posteriori mi sono reso conto della sua riconducibilità al concetto di “villaggio globale”.

Ma cos’è il concetto di “villaggio globale”? E’ un concetto esposto per la prima volta da Marshall McLuhan nel 1962, divenuto di grandissima popolarità anche grazie alla sua comprensibilità intuitiva.

Copio e incollo da Wikipedia (si, l’ho fatta la donazione):

Per villaggio globale si intende un mondo piccolo, delle dimensioni di un villaggio, all’interno del quale si annullano le distanze fisiche e culturali e dove stili di vita, tradizioni, lingue, etnie sono rese sempre più internazionali.

Il mondo nuovo apertosi nel Novecento è per McLuhan caratterizzato da una decentralizzazione, che sposta il punto primario di interesse e di osservazione (e di finalizzazione) dalla soggettiva visione nella dimensione di villaggio, alla spersonalizzata visione globale, concetto che ampliò in “War and Peace in the Global Village” (1968), segnalando come la globalizzazione del villaggio “elettrico” apportasse e stimolasse più “discontinuità, e diversità, e divisione” di quanto non accadesse nel precedente mondo meccanico.

Non è quindi un caso che quando si parla di “villaggio globale”, quasi tutti mettono l’attenzione sul “globale” e tralasciano il “villaggio”.

Dai tempi di MaLuhan però si è verificato un cambiamento importante: si è realizzata la rivoluzione digitale (per sintetizzare).

Se i mezzi di comunicazione di massa (di McLuhan) hanno creato la globalizzazione geografica, la rivoluzione digitale ha creato la “villaggizzazione” sociale. In altre parole la rivoluzione digitale permette alle persone di agire attivamente da abitanti (villici) di quel villaggio globale che prima potevano solo vedere.

Considerando che secondo il rapporto Unicef del 2012 il 50% della popolazione mondiale vive in città e che le popolazioni dell’Europa Occidentale e delle Americhe sono quasi completamente urbane, è facile dimenticare (o non aver mai saputo, nel caso dei più giovani) quali sono i meccanismi della vita di paese con il rischio di focalizzarsi sempre di più sul “globale” e dimenticarsi del “villaggio”.

Senza voler fare qui dell’antropologia d’accatto il villaggio/paese è un posto dove tutti sanno tutto di tutti, non solo riguardo al presente, ma anche al passato, che gioca un ruolo più rilevante nel definire le persone di quanto non succeda in città (“Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città” cantava Giorgio Gaber).

“Tu di chi sei?” chiedevano ad uno scrittore spagnolo di Madrid quando tornava al paese natale dei genitori in Estremadura. Più o meno quello che mi chiedevano i vecchi quando entravo in osteria a Budoia  a chiamare il nonno.

“E tu chi sei?”

“Biscontin”

“Biscontin quale?”

“Mio nonno è Cristiano”

“Ah, Biscontin Mastela”.

Uscendo dall’anedottica, in un paese quello che abbiamo fatto in passato, continuerà in una certa misura a definirci per sempre (Aroldo per tutta la vita è rimasto quello che da bambino è salito sul motocarro dello zio, ha tolto la marcia e l’ahho tyrovato ribaltato in fondo alla discesa).

E quello che facciamo nel presente sarà sotto gli occhi e nei commenti di tutti. “Il paese è piccolo e la gente mormora” diceva Giorgio Faletti. Una battuta, ma anche un’espressione che esprime sinteticamente l’ineluttabilità del chiacchericcio dei social networks.

In sintesi nel villaggio si è sotto scrutinio (chiaccherati) da sempre, sempre e continuamente. E dal villaggio globale non si può nemmeno andare via per rifarsi una vita da un’altra parte.

Sono questi i presupposti concettuali per capire come sviluppare strategie efficaci (di successo) nell’era digitale, riscoprendo alcuni fondamentali ed abbandonandone altri.

Auguri a tutti un Natele di serenità e di speranza: chiudete gli occhi ed aprite i cuori.

Ci ritroviamo dopo l’Epifania.

Ready for the GET-UP-AND-GO generation? Il marketing totale di easyJet.

Oggi ultimo post prima della pausa estiva. Lo so che sembra un po’ presto, ma ho l’impressione che parecchia gente sia già in vacanza o sia sul punto di partire.

Quindi un post in qualche modo legato ai viaggi.

Credo non ci siano dubbi che i voli low cost sono una delle cose che ha plasmato (sta plasmando) la società nel terzo millennio ed è evidente fin dal nome della categoria di prodotto che il principale criterio di scelta di una compagnia piuttosto di un’altra da parte del consumatore è il costo del biglietto.

Però è altrettanto evidente che con il proliferare delle compagnie low cost che servono le medesime tratte si viene a creare una competizione dove il prezzo riduce di molto, o perde del tutto, la sua forza di vantaggio competitivo differenziante. Dato il basso costo del biglietto come MUST, serve quindi una proposta di marca più articolata come PLUS.

Visto nell’arco di poco di un anno mi sono trovato due volte a fotografare pagine della loro rivista di bordo, direi che easyJet lo sta facendo ed anche piuttosto bene.

Questa è la copertina del numero di giungo di “Traveller” fotografata da me in volo, qui se volete trovate l’edizione on-line sfogliabile.
Traveller June 2014
Permettetemi di sottolineare alcune cose:
- La qualità della grafica non dice “rivista di bordo”, dice “rivista pubblicata da easyJet”. Intendo dire che l’impressione è di una rivista che ha una scopo “per sè”, indipendentemente dal fatto di essere distribuita su un aereo. Non siamo tutti nel business dei contenuti (ossia dell’editoria)? . In sintesi quando prendete in mano la vostra copia di “Traveller” il messaggio che ne ricevete è di un livello superiore rispetto alle altre compagnie aeree (non solo low cost, direi).
- La rivista (e quindi per estensione la compagnia aerea) ha un posizionamento riportato chiaro e forte sopra la testata: “A MAGAZINE FOR THE GET-UP-AND-GO GENERATION”. Le due passeggere anglo-mitteleuropee che avevo di fianco hanno sorriso sarcastiche nel leggerlo, forse perchè è una dichiarazione troppo esplicita, troppo autocelebrativa, perchè alle persone non piace la sensazione di essere oggetto di marketing (la miglior traduzione che mi è venuta dell’espressione inglese “to be marketd to” o semplicemente perchè non appartengono alla get-up-and-go generation.
Però , indipendentemente dall’esplicitarlo o meno, la definizione del posizionamento è la precondizione per dare una linea editoriale chiara e coerente alla rivista in termini di contenuti e di art direction. In sintesi è la guida che permette di dare personalità propria alla rivista. Personalità che dà significato e valore alla dichiarazione, più che un invito, “free to take home”. Nuovamente valore superiore.

Per avere successo però le promesse (di copertina) vanno almeno mantenute. Sfogliando Traveller, secondo i migliori principi del buon marketing, le aspettative del consumatore vengono superate.

Questo è l’indice:
Traveller indice.

Ora mi domando: quanti editori che piangono sulla perdita di lettori sono stati capaci di rinnovare il modo di presentare il contenuto delle loro riviste interpretando i nuovi/attuali meccanismi di fruizione delle informazioni?

La faccio breve: “Traveller” è un prodotto editoriale di avanguardia e di elevata qualità in termini di grafica e di contenuti.

Che sia un caso o il risultato di una precisa scelta strategica, easyJet ha colto l’importanza della rivista di bordo come elemento della complessiva esperienza di volo del cliente e ne sta sfruttando al massimo il potenziale per il proprio posizionamento competitivo.

Scoperta dell’acqua calda direte voi, considerando che è evidente che (quasi) tutti i passeggeri durante il volo sfogliano la rivista di bordo.

Vero, rispondo io. Però è anche vero che le riviste di bordo delle compagnie aeree sono tutte uguali come impostazione grafica e contenuti, indistinguibili se non dal logo di copertina. E tutte con articoli tendenzialmente banali. E tutte che dedicano troppo spazio alla compagnia aerea che le pubblica, per essere davvero un valore aggiunto (lo so che è un concetto contro-intuitivo, ma lo lascio così).

Dal positioning deriva il targeting. Ecco a pagina 11 la rubrica dell’Amministratore Delegato di easyJet Carolyn McCall (mentre l’editoriale del direttore di Traveller è in apertura di giornale a pagina 3, coerentemente l’autonomia della rivista)
Carolyn MacCall.

Il target dichiarato è …. tutti, grazie ad una promessa inclusiva: rendere viaggiare più facile. Mi ricorda l’intervento di Farinetti al nostro convegno sul quadrato semiotico dei wine lovers al Vinitaly 2014 .
Nel concreto lo scorso giugno questa promessa si realizzava con il lancio delle applicazioni che permettono ai passeggeri easyJet di ricevere le informazioni rilevanti relative al loro viaggio (nuovamente la visione complessiva dell’esperienza del prodotto, ossia il volo) e del programma “Family Promise” con servizi dedicati a facilitare chi viaggia con bambini. Questo mi ha colpito particolarmente perchè noto come i bambini vengano di fatto considerati un disturbo in un numero sempre più ampio di situazioni. Si è perso, o fortemente affievolito, il (ovvio?) sentimento di attenzione che portava comunque a naturalmente a trattare benevolmente i bambini e non si sono diffuse procedure/strutture che tengano conto delle loro esigenze.
Il risultato è che, anche con l’attuale invecchiamento della popolazione, l’offerta di servizi specifici per i bambini ed i loro genitori diventa un vantaggio competitivo fortissimo.

Prima di concludere il mio escursus sul numero di giugno 2014 di “Traveller” con la foto di questa pubblicità di servizi finanziari preentati quasi come un’agenzia di incontri. Non so se significa qualcosa, ma mi è sembrato curioso.
Puck3r up

Per finire, se proprio non sapete cosa leggere nel prossimo mese, questi sono gli ultimi libri che ho letto/sto leggendo:
- Acemoglu e Robinson: Perchè le nazioni falliscono, il Saggiatore.
- Alberta Basaglia: Le nuvole di Picasso, Feltrinelli.
- I.J. Singer: Yoshe Kalb, Adelphi.
- Paul Dirac: La bellezza come metodo, Indiana.

Passate una buona estate.

Concettualmente la distinzione tra comunicazione above the line e below the line è inutile e dannosa.

Benchè biscomarketing sia notoriamente un blog di argomenti freddi, quello di oggi rischia di essere addirittura gelido perchè la distinzione tra attività di comunicazione di above e below the line (un attimo e la spiego), viene data per morta.

Un paio di mesi fa però mi è capitato di parlare con due amici pubblicitari e sentire di nuovo questi termini con cui ho da sempre un rapporto particolare: mi provocano un’allergia cutanea all’epidermide del cervello.

La prima volto che li ho sentiti credo fosse nel 1995 in Levoni quando stavamo pianificando la prima campagna pubblicitaria televisiva, per bocca di un pubblicitario. Il mio stupore fu grande perchè lui li usava come fossero la cosa più ovvia del mondo ed io invece non sapevo nemmeno che esistessero (meno che meno cosa volessero dire). Eppure dopo la laurea avevo studiato in Italia, Canada e Spagna prendendo un diploma di specializzazione di economia del sistema agro-alimentare, uno di specializzazione in marketing dei prodotti agro-alimentari ed uno di dottorato in Zooeconomia. Conoscevo il Kotler quasi a memoria (ma l’avevo anche capito però) e lì questi termini non c’erano.

Andando ad indagare scoprii che la distinzione tra above the line e below the line era nata nel 1954 alla Proctor & Gamble per distinguere le diverse modalità di calcolo dei compensi e di pagamento applicate alle agenzie di pubblicità (above the line) rispetto alle agenzie promozionali (below the line).

Nella pratica promo pubblicitaria quindi si è affermata questa distinzione tra le strategie realizzate attraverso i mezzi di comunicazione di massa che giravano direttamente alle agenzie di pubblicità il compenso calcolato sul valore dell’investimento (tipicamente il 15%), e quelle realizzate con altre modalità per cui l’azienda pagava tipicamente un compenso fisso sulla base del lavoro previsto, indipendentemente dall’ammontare dell’investimento.

Nell’above the line (o ATL) rientra(vano) quindi TV, radio, giornali, cinema, affissione esterna.

Nel below the line (o BTL) rientra(vano) le sposnsorizzazioni, la stampa e distribuzione di pieghevoli/depliant, le promozioni nei punti vendita, le pubbliche relazioni/passaparola.

Recentemente nell’ATL è stata aggiunta la pubblicità su internet e nel BTL le attività realizzate sui social media, ma non serviva l’avvento del web per evidenziare che si trattava di una distinzione insensata dal punto di vista strategico. Basta vedere l’origine tecnico-contabile dei due termini per capire che non hanno alcun legame con il rapporto tra l’azienda ed il mercato. Un po’ di riferimenti bibliografici qui, qui e qui.

Quindi io personalmente sono passato oltre ed ho continuato ad impostare i miei piani dividendo, ed integrando, tra strategie che fornivano ragioni d’acquisto e strategie che fornivano incentivi all’acquisto.

Poi però sono passato ad aziende, ed agenzie pubblicitarie, più grandi ed la suddivsione tra ATL e BTL continuava ad inseguirmi. Le grandi aziende multinazionali che distribuivo in Italia mi mandavano schemi di pianificazione dove ATL e BTL erano in due colonne, quando non in due pagine, separate e le agenzie che realizzavano le campagne pubblicitarie TV, radio, giornali non facevano cataloghi, depliant, materiali punto vendita ecc..

Il risultato era che risultava molto difficile impostare, prima, e realizzare, poi, una strategia di marketing cesa nei messaggi e nei codici. E questo malgrado io abbia sempre evitato di dividere organizzativamente il consumer marketing dal trade marketing, come invece è prassi comune nelle aziende più grandi.

La cosa che mi ha sorpreso di più parlando con i due pubblicitari di cui sopra è che loro vedono la suddivisione dell attività in ATL e BTL come qualcosa di meramente operativo, per cui ci sono agenzie specializzate nell’ATL ed altre nel BTL, senza immaginare l’impatto che questa suddivisione tecnica ha sul pensiero strategico.

Spero che l’avvento del Marketing Totale, faccia sparire per sempre questo modo di dire, diventato col tempo un modo di pensare (le strategie) così da non dovermi più grattare il prurito che mi viene quando lo sento.