Dal design empatico al marketing empatico il passo è brevissimo.

Oxo angles measuring cup

Continuo con la lettura degli arretrati di Marketing News e trovo un articolo sul design empatico. Man mano che leggevo mi veniva sempre più spontaneo sostituire “design” con “marketing”.

Nella stesura di questo post continuerò ad utilizzare il termine “design”, anche perchè gli esempi sono riferiti specificatamente a questo aspetto del marketing (sarebbe più giusto dire “product design”), voi però sapete che potete leggere “marketing” perché sono concetti che valgono (accipicchia se valgono) per la gestione strategica di marketing nel senso più esteso che siete capaci di immaginare.

L’articolo parte dall’esperienza dell’azienda americana di utensili ed accessori per la casa Oxo

Oxo nasce 30 anni fa con l’obiettivo di creare prodotti che possono essere utilizzati da tutti, indipendentemente dall’età, forza o abilità delle persone. Questo perché il fondatore dell’azienda aveva notato la difficoltà di sua moglie, affetta da artrite alle mani, nell’utilizzare un pela-patate.

Per rendere visibile e ricordare a tutti questo concetto negli uffici di Oxo a New York c’è una parete coperta di guanti persi: guanti da lavoro, guanti senza dita per ciclisti, manopole invernali, guanti di pelle, scamosciati, imbottiti di pelliccia, fatti a maglia, ecc…

Un promemoria che i prodotti realizzati da Oxo devono poter essere utilizzati da tutte quelle mani diverse che usano quei guanti.

Per farlo si parte da una semplice domanda nello sviluppare un concetto di prodotto: “Questo prodotto come farà sentire il consumatore?”.

Lo scrivo anche nell’originale inglese perché già solo applicare questo concetto nello sviluppo delle strategie di marketing è rivoluzionario: “How would  this make the consumer feel?

Che se vogliamo è uno stressare la base di partenza della, sempre troppo spesso dimentica, base del marketing: raggiungere i risultati aziendali soddisfacendo le esigenze/desideri dei clienti meglio dei concorrenti.

Siccome però nel corso dei decenni le esigenze aziendali, non solo di risultati, ma anche di processi funzionali ed organizzativi, hanno preso il sopravvento su desideri/esigenze dei consumatori (vecchia storia che è la ragione da cui è nato questo blog più di 10 anni fa) ben venga un concetto semplice ed efficace che aiuta a rimettere le cose a posto.

L’altra cosa che aiuta è in questo senso è ricordarsi che i consumatori sono persone e non semplicemente utilizzatori finali dei vostri prodotti (ecco perché io da anni tendo a non usare più il termine consumatori ma solo “persone”).

Ci sono studi che dimostrano come sviluppare prodotti avendo in mente come si sentiranno le persone nell’usarli invece di pensare semplicemente alle caratteristiche che dovranno avere o alle funzioni che dovranno svolgere o alle caratteristiche psico-socio demografiche del target, porta a trovare soluzioni più creative, ma comunque pratiche e praticabili.

L’approccio “come si sentirà il consumatore” aiuta anche ad uscire dai preconcetti che i diversi esperti, professionisti di marketing compresi, applicano inconsciamente nell’affrontare le questioni aziendali.

E per chi fatica a lavorare di fantasia, ci sono strumenti che aiutano a mettersi nei panni degli altri. La tuta AGNES (Age Gain Now Empathy System) permette a chi la indossa di vivere la motricità, flessibilità, destrezza, forza e vista di una persona anziana (vecchio è un termine che è sparito dal nostro vocabolario, riferito alle persone).

Il bello è che le cose fatte pensando a chi ha capacità ridotte rispetto alla norma risultano più semplici da usare per tutti. Le persone infatti hanno una innata, inconscia, capacità di compensare autonomamente per le situazioni complicate o difficili. Poi, quando qualcuno trova una soluzione diversa, più comoda, sembra l’uovo di colombo. Come i misurini inclinati di Oxo, nella foto di apertura di questo post, che permettono di vedere la quantità versata dall’alto senza doversi chinare.

C’è un vecchio detto nel marketing secondo cui se il concetto ed i processi di marketing sono applicati alla perfezione, la comunicazione diventa superflua.

La comunicazione di Oxo è estremamente concreta e si focalizza nella spiegazione di come funzionano i propri prodotti. Il principio è che se i tuoi prodotti dimostrano nei fatti che sei empatico, non è necessario DIRE che sei empatico.

Non c’è comunicazione più debole di quella che dice esplicitamente il posizionamento che la marca/prodotto dovrebbe/vorrebbe trasmettere. Come scrivevo tre anni fa analizzando la campagna pubblicitaria di lancio dell’Asti Secco “Dire di essere “glam” (qualunque cosa voglia significare) è la cosa meno “glam” del mondo.

L’altra grande lezione confermata dall’esperienza di Oxo è che l’empatia verso l’esterno nasce dall’empatia che c’è dentro l’azienda. Come sempre l’identità vera, che non sempre corrisponde a quella dichiarata, la sua cultura profonda determinano le sue azioni e quindi il suo posizionamento sul mercato.

Non pensate di poter semplicemente fare delle strategie empatiche perché le persone vi sgameranno.

Dovete abbracciare e coltivare una CULTURA dell’empatia; le strategie giuste verranno sole.

Perché le aziende / marche vanno in crisi.

Giovedì scorso ho scritto in anticipo il post per questa settimana. Si intitola(va) “Gli shopping bots stanno rivoluzionando i processi e l’esperienza d’acquisto e dimostrano l’importanza del concetto di Marketing Totale e delle sue implicazioni.”

E’ un bel post ed era già pianificato per la pubblicazione automatica questa domenica alle 19:21.

Poi sabato mattina sono andato a fare la spesa.

Ed all’ingresso del (piccolo) supermercato Coop che frequento mi sono trovato davanti questo espositore natalizio del caffè Illy in offerta.

Espositore Illy natale 2017

Mi sono venuti in mente anche Benetton e Melegatti e quindi non sono riuscito a sfuggire al mio destino che mi vede dedicare, oramai da 10 anni, parte della domenica pomeriggio a scrivere il post di biscomarketing.

Comincio completando l’affermazione del titolo: le aziende vanno in crisi perché smettono di rispettare la propria identità, la propria cultura, i propri valori, in pratica quello grazie al quale hanno creato i vantaggi competitivi che le hanno portate al successo.

Questo è il principale fattore interno che determina i problemi di un’azienda / marca ed è anche il fattore che indebolisce la capacità dell’azienda / marca di anticipare/reagire con successo ai fattori di crisi esterni quali cambiamenti tecnologici e/o nel comportamento delle persone (consumatori), ecc…

Una marca capace di rimanere fedele al proprio spirito, senza per questo essere immobile, ha buone probabilità di convertirsi in una “Supermarca” che trascenderà le tendenze del proprio settore merceologico (per l’approfondimento del concetto di Supermarca potete leggere questo mio post del febbraio 2016).

Per me non è una novità. Sono sempre stato convinto dell’importanza cruciale della definizione chiara ed onesta del posizionamento delle marche come pilastro e come guida di ogni strategia di successo.

Si tratta di una cosa a cui ho sempre dato massima importanza nel mio lavoro in azienda ed è l’aspetto principale in cui opero nella mia attività di consulente.

Eppure le aziende continuano a sottovalutarlo, forse perché sembra una cosa talmente semplice da non meritare importanza. Certo che è semplice, ma (proprio per questo) difficile.

Le dichiarazioni di Luciano Benetton nella recente intervista rilasciata a Repubblica sulla crisi della sua azienda e sulle strategie di rilancio sono illuminanti:

«Mentre gli altri ci imitavano, la United Colors spegneva i suoi colori. Ci siamo sconfitti da soli(N.d.A.: il grassetto è mio). I negozi, che erano pozzi di luce, sono diventati bui e tristi come quelli della Polonia comunista. E parlo di Milano, Roma, Parigi… Abbiamo chiuso in Sudamerica e negli Usa»

«hanno (N.d.A.: riferito ai manager che gestivano l’azienda dopo la sua uscita dai ruoli operativi) smesso di fabbricare i maglioni. È come se avessero tolto l’acqua a un acquedotto. Ho visto cappotti alla russa, con il doppiopetto, il bavero largo, le spalle grosse… di colore grigio sporco. Pensi che hanno chiuso le tin-to-rie!».

Con il senno di poi sembra evidente l’assurdità per un’azienda che si chiama “United Colors” di chiudere le tintorie, però dei dirigenti (che si presume) qualificati ed esperti l’hanno fatto.

E’ giusto ricordare che i problemi di Benetton non nascono dal fatto che il concetto di instant-fashion di cui sono stati gli inventori / pionieri sia entrato in crisi. Tutt’altro: si tratta dell’approccio tutt’ora vincente nella produzione e distribuzione di abbigliamento.

Solo che mentre Zara ed H&M, per fare due nomi, si ispiravano al successo di Benetton, trovando soluzioni di maggior successo, Benetton smetteva di farsi ispirare da se stesso (o di essere fonte di ispirazione, se preferite).

Credo che sia evidente l’enorme vantaggio competitivo in termini di competenze, dimensioni, curve di esperienza, capillare presenza sul mercato, (potenziale) capacità di ascoltare i consumatori, esperienza, ecc… che Benetton aveva sui concorrenti che oggi lo hanno superato quando questi concorrenti sono partiti.

Patrimonio completamente dilapidato nel giro di 10 anni (se la “nuova” strategia di rilancio sia effettivamente nuova oppure una minestra riscaldata è un tema in cui qui oggi non entro).

Attenzione che non è sufficiente il mantenimento della gestione famigliare per assicurare la coerenza tra visione e gestione. Il figlio di Luciano Benetton è stato presidente dell’azienda dal 2012 al 2014. E’ necessario formalizzare l’identità attraverso un lavoro di (psico)analisi dell’azienda / marca, per poterla poi trasferire nel tempo e nello spazio

Forse ancora maggiore era il vantaggio competitivo di Melegatti indipendentemente dal brevetto del pandoro nel 1894 chiunque ha almeno 45 anni sa che fino agli anni ’80 il pandoro era solo Melegatti. E non si trattava di uno slogan, era un dato di fatto. Ve lo dice un vecchio bambino degli anni ’70 che, minoritariamente ai tempi, non mangiava il panettone.

Le cose sono cominciate a cambiare a partire dagli anni ’80 (grazie?) all’arrivo di Bauli sul mercato nazionale (sull’invenzione del pandoro Ruggero Bauli diceva “Chi l’ha inventado non se sa, ma el pandoro Bauli lo gò inventado mi”), seguito poi da Paluani.

Quindi anche qui ci troviamo in un settore in crescita, in cui il pioniere si è perso in strategie che rincorrevano il mercato invece di lavorare sulla propria proposta per aggiornarla ed affermarla. Qui trovate il mio post di 2 anni fa (tempi non sospetti) E se il problema principale di Melegatti fosse la qualità del prodotto e non comunicazione e posizionamento?”

E arriviamo, brevemente, ad Illy. A partire dagli anni ’90 e per almeno vent’anni Illy è stato il riferimento nel settore del caffè per tutti: consumatori, baristi, produttori concorrenti.

Ha costruito il proprio successo diffondendo la cultura del caffè basandosi sull’eccellenza in ogni aspetto. Massima qualità intrinseca del prodotto, conoscenza assoluta e trasferimento delle conoscenze per utilizzarlo al meglio (ossia su come fare il caffè, vedi “Università dell’Espresso”) e stile che (s)confina con l’arte.

La qualità intrinseca è stata messa in discussione con le capsule (area di affari in cui tra l’altro ha tradito/abbandonato i principi con cui aveva dato vita al progetto delle cialde E.S.E.) ed in quanto a stile, la foto all’inizio di questo post parla da sola.

La pressione del mercato, una certa uggia che subentra al fare sempre le stesse cose, la voglia di novità portata dalle nuove persone che entrano in azienda, sia per un naturale modo diverso di vedere le cose sia per provare a se stessi ed agli altri di cosa si è capaci. Sono tutti fattori che tendono a minare la coerenza intrinseca della gestione e, soprattutto, la coerenza con l’identità / spirito / personalità della marca.

Ma sono tutte scorciatoie faticose ed in cui è facile perdersi.

Siate onesti con voi stessi, così la vostra proposta sarà autentica ed i consumatori vi troveranno. Siate confusi o, peggio, falsi ed i consumatori scapperanno per quanto li cerchiate e li blandiate.

Onestà, autenticità, coerenza non significano fissità ed immobilismo.

Come sa chiunque sia stato al timone di una barca a vela con il brutto tempo (ad esempio navigando di bolina per tornare da Melilla, enclave spagnola sulla costa mediterranea del Marocco, a Motril, porto vicino a Granada, con mare forza 5) per mantenere la rotta bisogna continuamente aggiustare il timone e regolare le vele.

Si impara più rapidamente in barca, dove l’effetto degli errori ed i relativi rischi si vedono subito, che non in azienda. Però, se non si impara, si naufraga uguale (oppure si chiama un consulente, che sia bravo mi raccomando).

Marketing is global, business is local; ovvero location-based marketing is here to stay.

La prima frase del titolo l’ho sentita dire da nonmi ricordo più chi ad un convegno al Cibus del 1992. Alcune ere geologiche digitali fa. E per un bel pezzo “glocal” è stato uno dei termini di modi nella comunicazione e gestione aziendale.

L’effettivo avvento della società digitale sta riportando il marketing ai suoi aspetti fondamentali, dando la possibilità di realizzare con un’immediatezza raramente vista prima gli enunciati di principio.

Se la creazione e gestione dei contenuti, fatta in gran parte sui media digitali, è alla base dell’immagine (reputazione) della marca, il location-based marketing è quello che permette di utilizzare gli stessi media per monetizzarla.

Cos’è il location-based marketing?

Da definizione di wikipedia si tratta di una nuova forma di comunicazione (pubblicità in originale, N.d.A.) che integra la comunicazione su dispositivi portatili con servizi/prodotti su base locale. La tecnologia è utilizzata per identificare dove si trova il (potenziale N.d.A.) consumatore e fornirgli comunicazioni legate specificatammente al luogo in cui si trova sui sui dispositivi portatili (smartphone per farla breve N.d.A.).

Secondo Bruner e Kummar (2007) ” location-based marketing si riferisce ad informazioni controllate dall’azienda e disegnate specificatamente per il luogo in cui gli utenti accedono ad un mezzo di comunicazione.”

Questa la definizione, che come vedete risale a quasi 10 anni fa, ma quali sono le tendenze?

Un articolo di Mireya Prado nel numero primaverile di Marketing Insights, rivista dell’American Marketing Association, indica queste come le principali.

1. La facilità d’uso su smartphone (e tablet) è cruciale.

La diffusione della navigazione da smartphone ha portato i motori di ricerca ad adottare nuove tecnologie per migliorare l’esperienza di utilizzo. Google ad esempio ha spinto sulle Accellerated Mobile Pages (in sintesi una tecnologia che permette di caricare più velocemente le pagine su smartphone ed ha effettuato vari aggiornamenti dell’algoritmo per migliorare la ricerca locale da dispositivi mobili.

Anche per il 2016 è prevedibile che gli aggiornamenti continuino ed una delle direzione in cui si svilupperanno è quella di utilizzare gli “structured data” come elemento di dterminaazione del ranking nelle ricerche (se sapessi cosa significa, lo spiegherei. al momento l’ho solo intuito leggendo la spiegazione che ne fa google search)

La sintesi di tutto questo è che nel 2016, per avere successo nelle ricerche su base locale bisognerà disegnare i nostri media digitali con un approccio “mobile first” in modo da fornire agli utenti la miglior esperienza di navigazione possibile per semplicità e completezza.

 

2. Capire che le persone (consumatori) usano i social come vogliono loro, non come l’azienda vorrebbe che li usassero.

Sulla diffusione dei social creo ci sia poco da dire, perchè la viviamo tutti in prima persona. Come in prima persona viviamo la diffusione del loro utilizzo da cellullare (i direi quasi che il secondo ha favorito il primo).

Questo ha creato la proliferazione di messaggi/contenuti in tempo reale a livello globale.

La conseguenza per i messaggi di contenuti locali è la necessità di comunicare direttamente con il consumatore e quindi di creare un coinvolgimento (dimenticatevi likes e follower: sono solo scalpi, al limite, decorativi).

Oggi i consumatori si aspettano una risposta diretta da una marca in meno di un’ora (io qualche anno fa avevo fissato come obiettivo del mio dipartimento di rispondere entro un giorno. Ognuno pensi ai tempi di risposta che riceve dalle marche, quando le riceve).

Perchè allora fare la fatica di accontentare questi tempi di risposta? Perchè una connessione rilevante con la marca aumenta di 7 volte la probabilità che un consumatore risponda positivamente ad una promozione.

 

3. Beacons e mobile wallet non sono una moda.

L’adozione di beacons e mobile wallet è ancora marginale perchè queste tecnologie non hanno ancora portato chiari vantaggi per le persone (consumatori). Nel momento in cui le marche saranno in grado di offrire esperienze (di acquisto) in grado di rispondere alla domanda del consumatore “A me cosa me ne viene?”, l’adozione sarà rapida.

La marca Sephora nel 2015 ha fatto dei test integrando beacons e mobile wallet nella ricerca dei punti vendita ed all’interno del punto vendita. In questo modo è possibile ottenre informazini riguardo a cosa e/o come porta i consumatori ad effettuare un acquisto e sviluppare le proprie strategie di conseguenza.

 

4. La cura della privacy non è un’opzione.

Il location-based marketing ha per sua natura un rischio intrinseco di diventare spam agli occhi del consumatore.

Quello che evita questo rischio è la rilevanza dei messaggi che la marca invia relativamente al contesto in cui si trovano le persone.

Secondo uno studio realizzato da Accenture negli USA, il 49% dei consumatori non hanno problemi a condividere i propri dati con una marca, se questa fornisce informazioni per loro rilevanti. Viceversa preparatevi ad essere nella lista dei loro adblockers.

Alla rilevanza nei confronti dei consumatori, vanno aggiunte trasperenza e chiarezza su come, quando e perchè la marca utilizzerà i loro dati.

 

5. La crescente importanza del location-based marketing richiede una sua gestione da parte delle aziende.

Si prevede la creazioen di una nuova figura all’interno dlele aziende: il Chief Location Officer, responsabile di gestire la comunicazione tra le varie funzioni aziendali per creare una miglior relazione con il cliente / consumatorea livello di esperienza locale.

 

Concludo con tre considerazioni mie:

a) molti dei concetti del location-based marketing mi sembrano collegati a quelli del (mio) marketing totale. La gestione però appare estremamente complessa.

b) leggendo l’articolo su Marketing Insights e scrivendo questo post mi sono sentito molto vecchio e affaticato.

c) i miei post hanno fama di essere complessi e non di facile comprensione. molte delle cose che ho scritto in questo post non sono chiare nemmmeno a me (vedi punto precedente). Se qualcuno me le volesse spiegare è il benevenuto.

 

Segmentare, targhettizzare, posizionare ai tempi del marketing totale.

Giovedì e venerdì ho tenuto due lezioni su “L’impostazione del brand” al Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino organizzato a Firenze da Wine Job.

Siccome in questo ultimo paio d’anni mi sono reso conto che ho la tendenza ad affrontare le tematiche di marketing sempre da un punto di partenza piuttosto avanzato, nel preparare le lezioni sono andato a riprendere gli appunti del primo corso di gestione del marketing che ho insegnato nel lontanissimo 1992 (24 anni fa! Brividi!).

La cosa è stata utile ed anche interessante: mi sono reso conto che in questi anni ho acquistato in esperienza, e forse, in profondità, ma ho perso in chiarezza e rigore.

Ad ogni modo le lezioni mi sembra siano andate bene (poi diranno gli allievi con la loro valutazione). Quindi ho fatto un salto sulla sedia quando oggi leggendo Marketing News ho trovato l’articolo dove l’emerito professor Schultz dichiarava sorpassato il modello STP, ovvero Segmenting, Targeting e Positioning.

Roba vecchia secondo lui, innanzitutto perché si tratta di concetti definiti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso (maledetti rottamatori, continuano a venir fuori dove meno te li aspetti).

Ohibò, mi sono detto, vuoi vedere che ho insegnato delle cose che valgono più? Proprio io, che mi sono inventato il concetto del Marketing Totale proprio per avere un quadro teorico per guidare la gestione di marketing nell’era digitale?

Poi ho continuato a leggere e mi sono reso conto che io ed il Prof. Schultz diciamo cose molto simili, solo che io continuo ad usare i vecchi termini (reintepretati) mentre lui ne usa di nuovi.

Poco importante in questo caso, mentre importa quello che diciamo. Ecco quindi quello che dico io (se volete leggere quello che dice lui iscrivetevi all’American Marketing Association, o almeno registratevi nel sito).

 

Il positioning oggi viene cronologicamente prima del segmenting e del targeting.

Il posizionamento di una marca era, è e rimarrà quello che la marca rappresenta nella testa delle persone.

Quello che è cambiato rispetto agli anni ’70 è che si è passati da un mercato in cui le marche andavano alla ricerca dei consumatori ad un mercato, oggi, in cui sono i consumatori a trovare le marche.

Allora la definizione del posizionamento da parte dell’azienda (operativamente la definizione del positioning statement) non si fa dopo positioning e targeting sulla base delle aspettative (presunte) dei mercati obiettivo, ma si fa PRIMA sulla base dell’identità aziendale.

L’autenticità infatti è cruciale per farsi trovare dalle persone nei posti e nei momenti giusti” ed ancor di più per soddisfare in modo credibile e quindi durevole.

Però, come mi ha chiesto uno studente, se il posizionamento reale è quello che dà il consumatore, perché parlo della necessità da parte dell’azienda di definire il proprio posizionamento come DEL pilastro su cui poggia tutta l’attività di marketing?

Perché l’obiettivo ideale, e quindi mai realizzato al 100%, è quello che la percezione della marca che abbiamo noi azienda che la marca la “facciamo” e quella che hanno le persone che la usano, corrispondano.

 

La segmentazione per essere efficace DEVE partire sempre dal comportamento delle persone, idealmente dai benefits (servizi) che cercano nell’uso dei prodotti.

Le persone consumano sempre servizi, più o meno incorporati in prodotti fisici.

Sono i desideri/bisogni che vogliono soddisfare a determinare i servizi che ricercano in un prodotto e quindi quali sono i prodotti concorrenti.

Dai benefici attesi deriveranno in larga misura le occasioni, le modalità, i livelli d’uso e l’atteggiamento nei confronti della marca/prodotto.

Sarà quindi il grado di omogeneità nei confronti di uno o più di questi parametri a costituire la base su cui definire un segmento.

Bisognerà poi vedere se oltre alla volontà di acquistare/consumare, i segmenti individuati posseggono anche la capacità, innanzitutto economica, di consumare. In altri termini se hanno una rilevanza economica sufficiente rispetto alla struttura ed agli obiettivi aziendali.

Se c’è questa rilevanza economica, per rendere operativo il segmento passando al targeting è necessario trovare i modi per accedervi in termini di comunicazione e/o vendita. E l’accessibilità di un segmento viene ancora determinata in buona parte dalle caratteristiche geografiche, demografiche e psicografiche delle persone che lo compongono.

 

Il targeting oggi riguarda principalmente i modi con cui ci si rivolge ai segmenti, mentre i contenuti (di fondo) sono legati all’identità della marca (e quindi al positioning a priori).

Il targeting è la globalità delle azioni con cui la marca si rivolge ai segmenti individuati. Per questo da un po’ di tempo io preferisco utilizzare il termine audiences invece di target markets

Il complesso di azioni riguarda tutto le attività del marketing mix: prodotto, prezzo, presenza (accezione che prende la P di Place nell’approccio del Marketing Totale) e percezione (accezione che prende la P di Promotion nell’approccio del Marketing Totale).

Non commettiamo ancora il classico errore di considerare marketing=comunicazione (o peggio ancora pubblicità).

Perché il targeting sia efficace, le strategie devono riuscire a far comprendere l’identità della marca alle audiences alle quali si vuole rivolgere.

La realizzazione delle strategie riguarderà quindi soprattutto le modalità verbali, visuali o reali con cui la marca si rivolge (o si fa trovare, è quasi la stessa cosa) alle audiences.

Viceversa riguarderà solo limitatamente i contenuti fondanti del concetto della marca. Al massimo potrà selezionare tra i diversi contenuti che la definiscono quali sono più interessanti / comprensibili per le diverse audiences.

Sempre avendo ben presente il rischio di incoerenza oppure di banalizzazione, che porta alla perdita di credibilità.

E’ per questo che le marche sono tanto più solide quanto più larga è la loro personalità.

 

Qui mi fermo perché il post è già abbastanza lungo e, soprattutto, è già abbastanza tardi. Se qualche concetto non vi è chiaro perché non è stato sviscerato abbastanza, cercate nel blog e troverete almeno un post specifico dedicato alla maggior parte degli argomenti di oggi.

Utilità e importanza del concetto di SUPERMARCA.

Oggi stavo preparando le lezioni sull’impostazione della marca per il Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino per la prossima settimana e quindi sono venuto sul blog a cercare il post sul concetto di supermarca.

Con mio grande stupore non ho trovato niente.

Lo stupore è duplice, sia perché ero convinto di aver scritto un post al riguardo sia perché ritengo il concetto di supermarca uno dei più utili ed interessanti tra quelli che ho sviluppato in tutti questi anni di ricerca e di professione.

Ho definito il concetto di supermarca nel 2005 o 2006 quando lavoravo come Direttore Marketing in Stock per avere un modello teorico che mi aiutasse a comprendere, e quindi gestire, meglio un fenomeno empirico che riguardava la Keglevich Vodka e Frutta.

Avevo osservato infatti che in seguito alle strategie di rilancio della marca iniziate nel 2001 le vendite continuavano a crescere, malgrado il declino della categoria.

Mi spiego meglio. Nei primi tre / quatto anni di realizzazione del nuovo piano di marketing, la quota di mercato di Keglevich Vodka e frutta era cresciuta perché le sue vendite erano cresciute più della crescita del mercato. Si trattava di una situazione abbastanza “normale” per cui la crescita del leader di mercato, Keglevich lo era con una quota del 44%, aveva avuto un effetto un effetto di trascinamento dei consumi di tutta la categoria merceologica di appartenenza.

Poi però la quota di Keglevich Vodka e Frutta aveva continuato a crescere perché le sue vendite in valore assoluto crescevano, mentre quelle della categoria calavano.

In altri termini l’andamento delle vendite di Keglevich Vodka e Frutta prescindevano e trascendevano da quelle della sua categoria merceologica (anche la quota della Keglevich bianca cresceva, quindi le sue vendite aumentavano più di quelle della categoria merceologica, che però era comunque in crescita).

Si trattava di un comportamento che mi ricordava quello del vermouth Martini: le vendite di vermouth erano in calo da almeno dieci anni e l’immagine del vermouth come categoria merceologica era assolutamente desueta, polverosa ed antiquata, ma il vermouth Martini continuava ad essere un prodotto di successo, con un percepito di contemporaneità, stile, ecc…

Il lavoro di posizionamento, e quindi differenziazione fatto sulla marca aveva di fatto staccato la percezione del (vermouth) Martini da quella del vermouth tout-court.

Ho immaginato che la stessa cosa stesse succedendo per la Keglevich Vodka e Frutta e l’ho dichiarata una supermarca all’interno dell’organizzazione aziendale, ossia anche nella percezione delle altre funzioni, quali vendite, produzione, acquisti, amministrazione, ecc…, e delle altre aziende del gruppo. Di conseguenza questa percezione si è trasferita anche ai clienti. Nei confronti dei consumatori questa presa di coscienza non era necessaria, perché loro ci erano già arrivati grazie alle attività di marketing che avevamo realizzato.

Ma quindi cos’è che fa di una marca una supermarca? Nella mia visione il fatto che il suo trend di vendita sia positivo ed in controtendenza rispetto alla sua categoria di appartenenza. Non basta quindi che sia leader e che aumenti la sua quota perché cala meno del mercato, deve crescere in valore assoluto all’interno di una categoria che diminuisce.

Da cui si conferma l’importanza di osservare anche gli andamenti dei valori assoluti dei diversi indicatori che misurano le performances di una marca (vendite in volume, valore, prezzo unitario, numero di clienti, ecc..) e non solo dei loro rapporti competitivi (quote di mercato, distruzione numerica e ponderata, ecc..)

Riconoscere che si ha in mano una supermarca è estremamente utile perché la sua gestione efficace richiede alcuni cambiamenti rispetto all’approccio classico:

  1. Il valore della quota di mercato come indicatore della salute della marca perde di rilevanza.

Se la supermarca trascende dalla propria categoria è evidente che la quota di mercato classica diventa un indicatore pericolosamente parziale per capire se la nostra supermarca si sta indebolendo o rafforzando rispetto al mercato più ampio in cui viene collocata dai consumatori. Per seguire lo sviluppo della nostra supermarca in quanto tale diventa quindi necessario allargare il mercato di riferimento su cui misurarne le performances.

 

  1. Va ridefinito il set competitivo.

La supermarca compete nella mente del consumatore con concorrenti che vanno al di là dei prodotti appartenenti alla categoria. Anzi è probabile che nel momento in cui diventa supermarca, la nostra marca non si confronti più con i prodotti della sua categoria.

La definizione del set competitivo corretto è cruciale per osservare e controllare le attività dei concorrenti e l’atteggiamento del mercato nei loro confronti.

Nel caso della Keglevich Vodka e Frutta io ho cominciato a confrontarla in due contesti: quello dei liquori e distillati nella loro totalità e quello dei “night spirits” come categoria creata ad hoc.

Nel mercato dei superalcolici esisteva già la categoria dei “white spirits”, basata sul colore e comprendente rum, vodka, gin e tequila. Quella dei “night spirits” invece era una categoria basata sull’atteggiamento del consumatore e le modalità di consumo che quindi oltre ai “white spirits” comprendeva anche, ad esempio, l’amaro Jegermeister.

  1. Lo scopo della marca va ampliato.

Per sviluppare e rafforzare una supermarca come tale, la visione dello scopo e posizionamento della marca che guida le strategie (di marketing) deve essere più ampio rispetto ad una marca “normale”. E’ proprio grazie a questa visione più ampia che le attività di marketing differenziano la marca non solo rispetto ai concorrenti “naturali”, ma anche alla categoria in generale.

La supermarca trascende così dai codici della categoria e si porta ad un livello superiore.

 

Quello sinteticamente descritto qui sopra è il percorso per gestire con efficacia ed efficienza una supermarca. E già questo è un bel risultato.

Ancora più bello però è riuscire a creare una supermarca.

Per farlo si può usare lo stesso percorso, seguito però in senso inverso. Partendo quindi dalla definizione della nostra marca che ne allarghi i confini, pianificando le relative strategie e costruendo gli strumenti di controllo in grado di guidarci ed orientarci nei nuovi territori.

Perché, come sempre, se vogliamo realizzare qualcosa dobbiamo prima immaginarlo.

Wind, XFactor, le sponsorizzazioni e l’importanza della coerenza strategica.

Wind all inclusive music

“Queste regole sono semplicissime, le capirebbe un bambino di quattro anni, Chico, vammi a trovare un bambino di 4 anni, perché io non ci capisco niente!” (Rufus T. Firefly) alias Groucho Marx.

Mia nipote teen ager l’altro giorno mi chiede cosa ne penso della sponsorizzazione di X factor da parte di Wind. Io rispondo che non ne penso niente perchè nè sono cliente wind nè guardo X-Factor.

Mi spiega quindi rapidamente la questione.

Wind è (uno) dei main sponsor di X-Factor ed ha lanciato delle tariffe “music” collegate a questa sponsorizzazione (quindi al programma, quindi al mondo della musica, quindi al target dei teen-ager) che permettono di scaricare ed ascoltare musica tramite l’applicazione di Napster.

Essendo totalmente in target, lei se la scarica, ma poi scopre che negli oltre 30 milioni di brani che ci sono su Napster, non ci sono tutti quelli cantati dai partecipanti ad X-Factor. O meglio, se ho capito bene, su Napster ci sono tutte le cover cantate durante il programma, ma non tutte le versioni originali.

Ergo, dopo aver sentito una canzone cantata da un partecipante di X-Factor ha voluto andare a sentire com’era la versione originale (sarà stata meglio o peggio di come l’hanno cantata ad X-Factor?) e non l’ha trovata perchè non è tra quelle di cui Napster ha i diritti.

Siccome lei non è così naif come la dipingo io, è assolutamente cosciente che è una questione di diritti e quindi la domanda vera che voleva farmi, come professionista di marketing (lo so ho una brutta vita) era “Ti sembra possibile che questi della Wind diano un pacco di soldi di sponsorizzazione ad X-Factor e non riescano neanche a fare in modo che le canzoni utilizzate nel programma rientrino nei 30 milioni di brani (mi rifiuto di usare la parola “traccia”) di cui Napster ha i diritti, per evitare che i loro clienti si sentano ingannati?”.

Forse alla wind non hanno bisogno di un bambino di 4 anni, ma un’adolescente di 17 potrebbe dargli una mano.

Questo aneddoto tocca alcuni punti interessanti del concetto di marketing totale:

1. Apparire coerenti è più facile che essere coerenti: una volta le interazioni tra la marca e le proprire audiencies erano meno frequenti nel tempo e nello spazio. Soprattutto erano in larghissima misura unidirezionali e sotto il controllo della marca.

La marca preparava con cura la realizzazione e l’esecuzione delle proprie campagne di comunicazione, quindi era molto più semplice che queste mantenessero una loro coerenza interna e con le altre strategie di prodotto, distribuzione e prezzo.

Adesso le interazioni tra la marca e le proprie audiencies sono diffuse e continue nel tempo e nello spazio. Di conseguenza la coerenza si può ottenere solamente con la definizione di una chiara identità/personalità della marca e la sua condivisione ed (intima) adozione all’interno dell’organizzazione (nell’organizzazione io comprendo tutte le funzioni aziendali+più i suoi fornitori di prodotti e servizi).

Per dirlo in un altro modo, una volta le marche incontravano i propri consumatori (quasi) esclusivamente dandogli appuntamento, quindi si ppotevano preparare con cura, scegliere il vestito adatto, truccarsi, aggiustarsi i capelli, comportarsi secondo l’immagina che volevano dare, ecc…. Oggi le marche incrociano le proprie audiencies sempre, anche appena sveglie oppure alla fine della giornata quando sono stanche e vorrebbero solo mettersi in pantofole e pigiama. L’unico modo per non far prendere paura ai consumatori è ESSERE se stessi in ogni occasione.

Se la marca mostra qualche lacuna nel suo approccio (rispetto) verso (le aspettative) dei propri consumatori non basta cambiare spot, bisogna intervenire sulla propria essenza (carattere). E questo è molto più difficile.

2. (voler) Creare dei legami emotivi con le proprie audiencies è un arma a doppio taglio. Le marche si sono spostate dall’apparire all’essere un po’ perchè forzate dalla società dell’era digitale ed un po’ perchè si sono convinte che creare legami emotivi con i consumatori sia un fattore di successo.

Io non sono del tutto d’accordo con questa visione (vedi il mio post Lovemarks vs. users: i rischi dell’amore platonico (per le marche)), ma per il momento prendiamo per buona la validità dell’obiettivo delle marche di creare legami emotivi con i propri consumatori.

Detto in parole semplici l’obiettivo è che i miei consumatori mi amino.

Il problema di maneggiare sentimenti forti è che se poi sentono traditi, mi odieranno. E l’unico modo per evitare (ridurre) il rischio che si sentano traditi è che io, marca, a mia volta ami i consumatori.

Non è un impegno da poco e le parole hanno tutto il peso che possiedono nei rapporti tra le persone. In realtà non sarebbe nemmeno troppo difficile se nelle aziende l’approccio di marketing fosse prevalente e la funzione marketing svolgesse il ruolo strategico che le è proprio. Purtroppo però la situazione più diffusa attualmente è quella di un marketing marginale nella definizione e realizzazione delle strategie e di una predominanza dell’approccio finanziario, che tipicamente ama più il denaro che le persone.

Alla fine di questo pistolotto pseudo filosofico qualcuno potrebbe dire che dò troppa importanza alla coerenza.

Vi, e mi, chiedo voi stabilireste una relazione stabile con una persona incoerente? Avreste fiducia in lei? Soprattutto fareste affari con una persona incoerente?

Cambiate “persona” con “marca” e capirete perchè io continuo a considerare la coerenza delle attività della marca come precondizione per il suo successo.

Snapchat e le strategie social media marketing (delle marche).

logo snapchat
Snapchat è un’applicazione che mi è sempre stata simpatica per almeno due motivi:

1. Grazie a snapchat due anni fa (o era l’anno scorso) sono riuscito a fare la figura dello zio al passo con i tempi con la mia nipote teen-ager. Parlavamo di applicazioni quando gli ho chiesto se aveva Snapchat e non sapeva nemmeno cosa fosse. Ovviamente nel giro di 1 mese lei sapeva tutto ed io no (per inciso nella stessa conversazione mi ha anche detto di non capire proprio il senso di twitter, di usarlo quindi non se ne parlava neppure.

2. Da qualche parte ho letto che l’archiviazione di tutte le futilità che vengono pubblicate su internet richiede un costo energetico pari (o forse superiore?) a quello che era neccesario per la carta stampata prima dell’avvento di internet. In altre parole pare che con il suo abuso, ci siamo giocati il vantaggio ambientale dell’uso del digitale. Benvenga quindi un’applicazione che non conserva quello che facciamo, fosse solo per la parsimonia dell’uso dei server.

Per quelli che magari non lo sanno, snapchat è un’applicazione che permette di inviare tramite smartphone immagini, video e chat che si cancellano automaticamente dopo un tempo che va da 1 a 10 secondi. Qui trovate il link al sito che vi spiega un po’ tutto sull’uso di Snapchat come utente e come investitore di pubblicità.

Qui invece trovate il link al post “Ora spiego anche ai non quindicenni cos’è Snapchat (e a che serve)” del sito www.consumatrici.it per una infarinatura di come funziona (grazie a Pamela Guerra per la segnalazione.

Io snapchat l’ho scaricato un paio di settimane fa (no quando ne parlavo con mia nipote non l’avevo fatto, che ho un’età e non posso riempirmo lo smartphone di stupidaggini), perchè l’ho trovato tra i link social di un sito di una società americana che stavo guardando l’altro giorno.

Mi ha incuriosito che una marca avesse anche Snapchat di fianco di facebook, twitter, pinterest e quindi ho creato il mio profilo Snapchat (l’unico modo per capire veramente come funziona una app è entrarci ed usarla).

Così ho imparato che Snapachat negli USA è una delle app (o l’app) con il maggior numero di utenti attivi nella fascia 13-34 anni. L’informazione viene dal sito di Snapchat e non l’ho verificata, però mi fido dell’accuratezza di www.Datamediahub.it che in un post dello scorso 9 settembre riportava numeri notevoli per questa applicazione.

In Italia la diffusione non è ancora così ampia però ci sono dei segnali che potrà crescere rapidamente, come l’utilizzo di Snapchat da parte di X-Factor per l’interazione social della prossima stagione (il concetto e “double screen” nella fruizione della TV, ed io direi anche “Triple screen”).

Comunque già adesso io quando sono entrato per la prima volta in Snapchat con il mio account nuovo di zecca, sono rimasto stupito della quantità di marche già presenti. Utilizzano la funzione storie, per cui creano una storia per immagini che rimane visibile per 24 ore. Se, oramai assuefatti all’eterntà di internet, vi sembra poco, ricordatevi che è la vita media di un quotidiano. Il che implice avere storie (interessanti) da raccontare tutti i giorni, nel bene e nel male.

Confesso che non ci ho ancora giocato abbastanza da capire come si usa adesso e come si potrebbe usare in futuro. Ho già qualche idea, però sono solo abbozzi, di utilizzo strategico come quello attuale, ma anche tattico. D’altra parte è vero o non è vero che nel marketing totale le strategie devono (anche) essere tattiche e le tattiche (anche) strategiche?

Forse però la ragione la ragione più profonda, quasi inconscia, che mi ha portato a dedicare attenzione a Snapshot è che ci ho visto un chiaro collegamento al concetto di mobile moment di cui leggevo un anno fa su Marketing News.

Cos’è un mobile moment? E’ un punto nel tempo e nello spazio (potremmo dire nello spazio tempo? La fisica continua a tornare, sovrapponendosi all’economia) in cui qualcuno prende uno smartphone o un tablet per ottenere immediatamente quello che vuole. La corretta identificazione dei mobile moments è la base per costruire strategie mobile di successo, specialmente per sviluppare applicazioni che non vengano ignorate (nel migliore dei casi) o causino frustrazione e malcontento nei potenziali utilizzatori (nel caso peggiore).

Caso mai prossimamente dedicherò un post a questo concetto sviluppato da Josh Bernoff, ma adesso, riguardo a Snapchat, cosa c’è di più adatto al “momento” di una applicazione che dura un attimo?

E nei (corto) circuiti mentali che girano nella mia testa questo mi riporta ad un bellissimo vecchio claim dello Stock 84: “La felicità è un attimo, dividila con Stock 84″.

Nuovamente ritorna la fisica (e la filosofia, che in nuce, non sono poi così diverse) se penso che un istante si può sempre dividere in due istanti più piccoli e così all’infinito, per cui in realtà dividendo l’istante lo moltiplico. Ecco che, racchiudendo la felicità in un attimo, il consumatore che la divide con Stock 84, la moltiplica.

….. dopo la lettura questo post si autodistruggerà ……

“Chiedi all’esperto”: Arexons inventa l’acquisto selfsevice …. assistito

Una decina di giorni fa ero nel mio supermercato di fiducia (non è uno slogan, c’è davvero) e cercavo una cosa da comprare. Non mi ricordo cosa fosse, forse l’additivo anticalcare per il ferro da stiro, comunque un prodotto che non acquisto di frequente.

Anche così, considerate che stiamo parlando di un supermercato piccolo con 6 casse (e non ne funzionano mai più di 4), dove faccio la spesa tutte le settimane. Eppure non riuscivo a trovarlo. Giravo tra le poche corsie cercando di immaginare i ragionamenti di category management (parola grossa) che potevano aver fatto nel disporre i prodotti, ma niente.

Allora mi sono ricordato della distribuzione pre-supermercati di quando ero piccolo, diciamo un po’ più di 40 anni fa: sarei entrato in un negozio specifico (ai tempi nessuno si sarebbe sognato di chiamarlo “specializzato”) ed avrei chiesto a chi stava dietro il banco (c’era sempre un banco) di darmi “il” prodotto per la quello che mi serviva. Raramente avrei chiesto una marca, normalmente avrei espresso un’esigenza.

Quella che oggi si chiama “vendita assistita” era la norma e, perso tra 4 corsie di un supermercato (grazie Clash!), mi sono reso conto di quanto l’esperienza di acquisto fosse più semplice.

Più limitata in termini di scelta? Sicuramente. Più costosa? Certo. Più dispersiva in termini di tempo? Forse si forse no. Ma sicuramente più facile per il consumatore (oltre che probabilmente più ecologica, se non altro per la riduzione del packaging).

Poi dopo un paio di giorni ho sentito per radio la nuova campagna Arexons “Chiedi all’esperto”. In sostanza la Arexons ha messo a disposizione dei consumatori un numero verde ed una chat sul sito, attraverso cui le persone potranno chiedere consiglio su quale prodotto Arexons comprare a seconda del problema che devono risolvere.

In pratica l’Arexons punta a fare una vendita assistita attraverso i canali distributivi self service.

L’idea mi sembra bella ed interessante e mi ha stimolato una serie di riflessioni che riporto sostanzialmente a ruota libera.

I prodotti Arexons sono tipicamente prodotti a bassa frequenza di acquisto e quindi prodotti con cui mediamente i potenziali consumatori hanno una bassa familiarità.

D’altra parte l’assortimento è piuttosto vasto, proprio perchè copre tutti gli aspetti della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc….

D’altra parte questa iniziativa di Arexons, soprattutto se avrà successo, evidenzia un grande limite dell’attuale struttura distributiva. 10 anni sarebbe stato impensabile che un consumatore di fronte allo scaffale chiamasse la Arexons per farsi consigliare su che prodotto acquistare, non tanto per limiti tecnologici, ma perchè avrebbe chiesto al personale del negozio.

La campagna “Chiedi all’esperto” sottolinea come oggi riuscire a trovare un addetto con cui parlare nei negozi della grande distribuzione, anche specializzata, sia difficile e come, quando finalmente lo si trova, spesso non sia particolarmente esperto sulle caratteristiche dei prodotti che ci sono in negozio.

Da un certo punto di vista la campagna “Chiedi all’esperto” segnala alle azienda della distribuzione la possibilità di acquisire un grande vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, rispondendo alla richiesta di servizio che i loro clienti, oggi abbandonati, non trovano.

A meno che altre marce non seguano l’esempio Arexons e scavalchino la distribuzione nel servizio al consumatore. Mi chiedo come mai Arexons non abbia messo la chat in un app (magari tecnicamente non si può, scusate l’ignoranza).

Questa visione apre la strada verso il negozio a marchio, strada già consolidata nell’abbigliamento. Nel momento in cui io Arexons mi sono consolidato come “l’esperto” della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc…., cosa mi impedisce di valorizzare al massimo questo posizionamento del marchio utilizzandolo per aprire dei punti vendita, oltre che per i prodotti?

Secondo me per fare questo passo il limite è più mentale che non di competenze. Mentre la distribuzione è diventata anche produttore decenni fa con i prodotti a marchio proprio, i produttori faticano a fare il salto concettuale per diventare anche distributori.

Soprattutto nei mercati, come probabilmente quello di Arexons, dove non funzionerebbe un negozio monomarca, ma un negozio con un assoertimento adeguato potrebbe comunque sfruttare la forza del marchio Arexons.

Nella mia esperienza professionale ho provato almeno un paio di volte a portare l’azienda a fare esperienze nella distribuzione con modelli non monomarca, per la necessità di offrire un assortimento completo e rilevante al consumatore. I miei colleghi / superiori mi hanno sempre guardato perplessi e mi hanno chiesto se avevo considerato che in questo modo avremmo rischiato di sviluppare le vendite dei concorrenti.

Io ho sempre risposto che comunque la gestione del punto vendita e dell’assortimento rimaneva sotto il nostro controllo e che la distribuzione sarebbe stata una grandissima e preziosissima fonte di informazioni sul comportamento del consumatore.

Soprattutto aggiungevo che non vedevo nessun rischio, anzi se i prodotti di aziende concorrenti si sarebbero venduti meglio significava che il consumatore trovava la loro proposta migliore. Quindi comunque avrebbe finito per “batterci” sul mercato, però se noi ne eravamo i distributori avremmo imparato direttamente dalle loro strategie ed avremmo guadagnato sulle loro vendite. In sintesi più i miei concorrenti vendevano e più io avrei guadagnato: meglio di così, impossibile.

E’ a questo punto che lo sguardo da perplesso diventava allibito.

Sarà per questo che oggi io tifo Arexons.

Loacker: dai maestri del wafer, l’innovazione di prodotto …… monoprodotto.

Saranno quasi quarant’anni da quando ho mangiato i miei primi wafer Loacker.

Da quella volta non ne ho mai mangiati altri, semplicemente perchè i wafer Loacker sono (o mi sono sempre sembrati) nettamente i più buoni sul mercato.

Con l’età ho smesso di mangiare wafer, ma non di mangiare snack dolci (una volta dicevo che uno degli elementi caratterizzanti le società occidentali è la pornografia; credo si possa aggiungere il perdurare dei comportamenti adolescenziali, vedi facebook, anche se probabilmente la prima è conseguenza dei secondi).

Ho quindi ripreso a mangiare prodotti Loacker quando l’azienda ha lanciato sul mercato le tortine. Da qualche mese sugli scaffali del mio supermercato di fiducia sono apparse le barrette choco& milk cereals, che ho subito provato.

Essendo anche queste molto buone, sono diventate una presenza costante nel mio frigo (lo so che la cioccolata in frigo è una barbarie sensoriale, però non è che stiamo parlando di napoliten da degustazione).

Ecco la prova.

Loacker

Poi l’altro giorno mangiando una barretta mi sono reso conto che non è altro che una base di wafer Loacker “vestita”. Lo stesso vale per le tortine. Ed è per questo che sono così buone.

Ossia che il dominio della maestria nella produzione del miglior wafer permette alla Loacker di fare innovazione di prodotto, nel senso di proporre qualcosa che attira e soddisfa diversi segmenti di persone e diverse occasioni/momenti di consumo, rimanendo sostanzialmmente un’azienda “monoprodotto” (alla fine sempre wafer sono).

O per dirla in altro modo: the excellence pursuer succeeds for ever. I miei più sinceri complimenti.

Nota 1: lo stimolo a provare “automaticamente” i nuovi prodotti da parte dei consumatori è uno dei principali valori della reputazione di una marca. E quando dico valori intendo la parola nel suo significato monetario, perchè la prova generata dalla fiducia nella marca implica un considerevole risparmio in attività promo-pubblicitarie, noncè una accellerazione delle rotazioni. Doppio effetto: meno costi e più ricavi. Dubito però che questo valore sia monetizzabile da tutte le analisi che si realizzano attualmente per misurare il ROI di marketing (o ROMI: return on marketing investment) ed a cui vengono subordinate le decisioni sugli investimenti di marketing.

Nota 2: ovviamente questo post NON è un post sponsorizzato. Se l’avete pensato, lavatevi la bocca con l’aceto come quando si dicevano le parolacce.

 

A fronte della previsione di calo dei consumi di vino in Italia, che fare?

“Le solite cose che ripeto (non solo io) da qualche anno a questa parte” è la risposta che ho dato la settimana scorsa a chi me l’ha chiesto.

Ci sono gli articoli che pubblicati nel 2012 su “Il Mio Vino” ed i miei pezzi che ho avuto l’onore di vedere ospitati sul blog “Vino al Vino” di Franco Ziliani.

Poi guardando nell’archivio di biscomarketing mi sono accorto che i 3 post dal titolo “Il calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia” (1,2 e 3) risalgono già al 2011 (li trovate qui, quo e qua).

Siccome so che non riuscirò più ad articolare i miei ragionamenti con tanta precisione e chiarezza questo sarà un post assertivo, quasi per assiomi, basato sulla mia competenza (risultato della combinazione di scienza, coscienza ed esperienza) nel settore del vino. Anche perchè ricerche affidabili sulle motivazioni relative alla quantità ed alla frequenza di consumo e non consumo del vino da parte degli italiani io non ne ho trovate.

Premetto quindi un grande “SECONDO ME” che vale per tutto quanto segue. Se vi sembra ci sia qualcosa di sensato ed utile, prendetelo. Altrimenti andatevi a leggere i post vecchi, che saranno sicuramente migliori.

Volendo sintetizzare il vino in in quanto categoria merceologica in Italia sta diventando come il latino: una cosa da esperti appassionati, difficile, complicata, noiosa, intimorente ed un po’ snob.

(Quasi) tutto il vino viene proposto con una di significati etici, estetici, culturali, sensoriali, sociali, territoriali, economici, ecc…. che nè tutti i vini nè tutti i consumatori sono (sempre) in grado di sostenere. Anzi è una sovrastuttura che si giustifica ed è necessaria per una minoranza dei vini, dei consumatori e delle (potenziali) occasioni di consumo. Le eccezioni di Prosecco e Franciacorta sono lì a confermare la regola con i loro successi.

Questa sovrastuttura è connaturata con il vino? (quasi) Mai. E’ necessaria/utile? Raramente.

Il vino deve tornare ad essere (anche) un prodotto semplice. Quando ero in Santa Margherita usavo il concetto “semplice, ma non banale”, adesso forse a livello di categoria di prodotto mi accontenterei che ogni tanto fosse anche banale, se questo servisse a riportarlo alla semplicità.

Una delle tante indicazioni interessanti che abbiamo raccolto quando l’anno scorso con Squadrati abbiamo presentato il quadrato semiotico dei wine lovers, è che tutti quelli che l’hanno visto si sono resi conto come la comunicazione del vino si rivolga esclusivamente alla parte superiore del quadrato (sacro) mentre il grosso dei consumi avviene nella parte inferiore (Profano).

Che poi non è nemmeno vero, perchè i grandi comunicatori del vino, intesi come quelli che raggiungono i maggiori numeri di persone (consumatori e non) sono Tavernello e San Crispino. L’ennesima distorsione del mondo del vino che si appiattisce sulla (presunta) eccellenza.

Bisogna ri-fuggire dall’impegno/fatica/sfida della degustazione per ri-tornare al piacere di bere.

Non è solo la comunicazione che va cambiata, ma l’intero approccio di cui la comunicazione è conseguenza.

Il vino con l’acqua non è il demonio, è lo spritz.

In Francia sta crescendo il consumo di vini aromatizzati con aggiunta di succo di frutta, il gusto più popolare è il pompelmo, che nascono da un’abitudine di consumo tradizionale del Midì.

Perchè il prosecchino o lo champagnino devono sempre essere visti come un diminutivo offensivo e non come un vezzeggiativo? Un segnale di vicinanza ed empatia nei confronti del prodotto?

Perchè non si può giocare con il vino? Di cosa abbiamo paura? Non lo so e non lo capisco, però so che questa paura la trasmettiamo alle persone che con il vino hanno paura di sbagliare economicamente (il prezzo non è un indicatore della qualità), sensorialmente (ho preso un vino che non si sposa con il piatto, con i gusti delle altre persone), socialmente (ho preso un vino da ignorante).

Una ricerca spagnola (altro paese storico di consumo e produzione con consumi in forte calo) di un paio di anni fa rilevava come una buona percentuale di persone (mi pare di ricordare tra il 15% ed il 20%) se invitata a cena sceglieva di portare della birra proprio per togliersi da qualsiasi problema o imbarazzo.

Togliere la paura di sbagliare significa non sbagliare più, perchè fa ripartire la curiosità di provare e quindi ogni errore diventa in realtà una scoperta.

Perchè nella comunicazione del vino non si parla più del resveratrolo e dei benefici che il consumo moderato di vino ha sulla salute? Eppure è stato uno degli elementi chiave da cui è partito il trend di consumo di vino negli USA vent’anni fa.

Il consumatore italiano che percezione ha veramente della salubrità e della qualità del vino in generale? Le persone hanno in testa più i pericoli dei solfiti, influenzate anche dal gran parlare che se ne fa all’interno del mondo vinicolo oppure gli effetti positivi sulla salute?

Nelle ultime due settimana sono stato a due diversi convegni e ad un certo punto in tutti e due è stata sottolineate la necessità di colmare la distanza che si è creata tra citta e campagna per la diffidenza dei consumatori nei confronti delle produzioni agricole.

Tutte le volte che sul giornale c’è la notizia di un sequestro, non importa se dovuto ad un errore nei registri di cantina, si crea nelle persone un dubbio sull’affidabilità del prodotto. Attenzione: non è ignoranza è normale.

Il Vinitaly di quest’anno per me è stato anche un Vinitaly di fallimenti, perchè avevo 3 bellissimi (secondo me ovviamente) progetti per delle ricerche / convegni e non sono riuscito a realizzarne nemmeno uno (avevo anche un progetto per un bellissimo stand, ma questa è un’altra storia). Uno dei tre era una ricerca per capire qual’è la percezione del consumatore riguardo alla qualità/salubrità/affidabilità del vino come categoria merceologica. Per estensione una ricerca per capire le motivazioni di non consumo. Non costa molto, spero che prima o poi (più prima che poi) qualcuno la faccia, perchè da qui vanno ricavate le basi per impostare le strategie (se a qualcuno interessa anche le altre due idee sono ancora attuali e la mia voglia di realizzarle è immutata).

Strategie per puntare a recuperare quel consumo quotidiano di 2/3 bicchieri, strategie che richiederanno anni prima di sortire effetti visibili (come è stato per la comunicazione collettiva dell birra, cominciata nei primi anni ’80), strategie che dovranno riguardare il vino come categoria merceologica, perchè oramai la comunicazione delle marche e dei marchi rischia di non bastare più.

Viceversa si può rassegnarsi ed accettare che, come ha scritto Sandro Sangiorgi in un suo libro, “Il vino, per la gran parte delle persone, è legato ad un momento speciale, raramente è quotidianità” (L’invenzione della gioia, Porthos edizioni, pag. 18).

In questo caso però prepariamoci a chiudere un bel po’ di baracche ed a buttar via parecchi burattini.

I sogni son desideri, chiusi in fondo al cuor: #illydreamers.

Giusto l’altro giorno riflettevo che è da un po’ che non facevo un post dedicato all’attività di una marca e mi chiedevo se fosse dovuto al fatto al essere malato di troppa esperienza (né ho già viste troppo?), alla stanchezza creativa delle marche oppure perché non so più cosa succede, visto che non leggo i giornali, non guardo la TV né ascolto più la radio (grazie alla drastica riduzione delle ore passate in auto).

Poi un mio amico (e lettore di biscomarketing) mi ha chiesto cosa ne pensavo della nuova campagna illy, lanciata in grande stile su stampa, radio e web e che io non avevo visto per i motivi di cui sopra.

Allora per curiosità sono andato a cercarla su web. Ho trovato alcuni degli annunci stampa, alcuni degli spot su youtube (certi si caricavano e certi no), nessuno spot radio.

Non pensavo però di dedicarci un post, per diversi motivi. Innanzitutto mi straniava un po’ partire da uno stimolo esterno, poi perché ho già trattato di illy in numerosi post di questo blog, il più delle volte con toni (costruttivamente) critici. Volevo, e vorrei, evitare l’impressione di un accanimento specifico, magari con lo scopo di sfruttare la notorietà del marchio, tanto più nei confronti di un’azienda dove lavorano alcuni amici e di cui ho ammirato l’approccio strategico dagli anni ’90 in poi.

Per di più non mi dispiacerebbe avere anche un cliente un po’ più vicino a casa, visto che al momento sono tutti sparsi per il nord Italia, e non sono convinto che la critica, seppur costruttiva, sia il modo migliore per stimolare una eventuale collaborazione.

Poi però ho cambiato idea e quindi spero mi credano quando dico che è perché gli voglio bene.

Ho cambiato idea perché nel frattempo ho letto un paio di articoli di Marketing Insight dell’anno scorso ed ho trovato nella campagna #illydreamers una serie di spunti per riflessioni di marketing più generali.

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “Storytelling and Marketing: The Perfect Pairing?”:

“L’arte della narrazione è vecchia come il Mondo e rappresenta forse una delle più antiche forme di comunicazione tra le persone: trasmettere dei messaggi e condividere la conoscenza e la saggezza accumulate per aiutare a gestire e spiegare il mondo intorno a noi”.

“Secondo i risultati di uno studio del 2010 realizzato da ricercatori di Harvard e presentati nell’articolo “What Sex, Food And Selfies Have To Do With Effective Social Marketing”, condividere i nostri pensieri e le nostre esperienze attiva i sistemi di gratificazione del cervello, causando la medesima scarica di dopamina che si genera in conseguenza al sesso, al cibo o all’attività fisica.”

“Secondo un articolo della società di ricerca Nielsen sulla diffusione dell’interazione degli spettatori televisivi con il programma che stanno guardando attraverso i commenti sui social, l’audience su twitter è pari a 50 volte il numero degli autori dei tweets. Ad esempio se 2.000 persone fanno un tweet su un certo programma televisivo, questi tweet saranno visti da 100.000 persone”

Estraggo e traduco al volo dall’articolo “With a purpose”:

“Quello che definisce il successo di lungo periodo di una marca, più dei semplici risultati finanziari attuali, è l’abilità di creare connessioni significative (nel senso che per essere rilevanti devono essere portatrici di un significato specifico, n.d.a.) con i consumatori (i direi meglio con le persone, n.d.a.)”

“… la nostra strategia dovrebbe essere di un coinvolgimento di scopo in tutte le nostre interazioni con i consumatori.”

“Per essere presa in considerazione una marca deve fornire al consumatore qualcosa di utile, per essere credibile ed ottenerne la fiducia deve essere autentica e coerente ai propri obiettivi ed ai propri ideali.”

“Il comportamento di una marca diventa il suo messaggio tanto quanto quello che dice (io direi DI PIU’ di quello che dice o, parafrasando Forrest Gum: marca è quello che la marca fa, n.d.a.).”

“….. è necessario definire e tenere a mente qual è il vantaggio (payoff) emotivo che il consumatore riceve dall’acquisto della marca.”

“Nell’universo digitale e sociale, la comunicazione unidirezionale della marca è rimpiazzata dalle conversazioni.”

Aggiungo a quanto letto su marketing management una considerazione mia, che ho sottolineato anche venerdì durante la mia lezione-seminario all’Università di Cà Foscari a Treviso: il rischio di cambiamenti eccessivamente frequenti nel posizionamento delle marche rispetto alla necessità di reiterazione.

E’ rischio connaturato nell’attività di marketing, che richiede di essere sempre un passo avanti al mercato, ai concorrenti e magari anche alle aspettative dei consumatori. E’ un rischio acuito dal fatto che chi si occupa del marketing e della comunicazione della marca, lo fa tutti i giorni, 365 giorni all’anno e quindi percepisce come “vecchio” un posizionamento che ha appena iniziato a sedimentare nel consumatore.

Permettetemi una considerazione grossolana: se durante l’anno la marca comunica per 1 mese, due anni del Brand Manager equivalgono a 24 anni per il consumatore.

La mission va definita come se fosse eterna e per servire allo scopo di indirizzare e far crescere la marca in una determinata direzione dovrebbe essere mantenuta almeno 5 anni. Il positioning statement (sempre che sia una cosa diversa) dovrebbe derivare dalla mission e quindi avere (almeno) la stessa durata.

Medesimo discorso per il payoff che, secondo me, deve essere l’essenza del positioning statement/mission/scopo della marca.

Modificare con troppo frequenza il payoff impedisce che questo si sedimenti nel percepito del consumatore, diventando un punto di forza e di ancoraggio della marca, anche in grado di accompagnare il consumatore nell’evoluzione del posizionamento della marca.

Queste considerazioni le ho sperimentate in prima persona sul campo con Keglevich che ha mantenuto il payoff “Keglevich la vodka ke volevich” per almeno un decennio, dalla fine degli anni ’90 alla fine degli anni 2000, con crescente successo ed attraverso 3 riposizionamenti della marca. Non credo sia stato un caso che l’unico anno in cui è stato cambiato sia stato quello con le peggiori performances.

Se questo era vero 15 anni fa, secondo me lo è ancora di più oggi, quando la frammentazione e la moltiplicazione di media, messaggi e targets rende ancora più importante il rafforzamento dell’identità della marca.

Torno a bomba, ossia alla campagna #illydreamers riportando qui sotto due annunci stampa e linkando la sezione #illydreamers nel sito dell’azienda.

HenriqueChristophe

Mi/vi pongo quindi alcune domande sulla campagna

-          Stimola la condivisione/il commento?

-          Coinvolge l’audience (consumatori/persone)?

-          Stimola la conversazione della marca con l’audience (consumatore/le persone)?

-          Qual è il payoff emotivo che si aspetta o propone all’audience (consumatore/consumatore)?

-          L’utilizzo dell’hashtag #illydreamers in contemporanea con quello #livehappilly (che è anche il payoff della campagna) rafforza la personalità della marca allargandola oppure la indebolisce confondendo? Considerando poi che da settembre 2014 a gennaio 2015 è stato utilizzato l’hashtag #buongiornoilly per il concorso relativo alla miglior colazione in casa?

-          L’utilizzo della marca negli hashtag favorisce le considivsioni oppure le frena? Ha ragione illy oppure la maggior parte delle altre marche, in tutti i settori, che utilizzano hashtag emozionali dove la marca non compare?

Concludo con due note tecniche, una positiva e una negativa (nella migliore tradizione cerchiobottista).

Della campagna stampa #illydreamers mi è piaciuto che i soggetti siano sospesi. E’ una soluzione che crea una leggera scansione rispetto alla realtà che attira l’attenzione e, soprattutto, suggerisce / sottolinea / rafforza l’aspirazione verso l’alto e verso il cielo implicita nei (grandi) sogni.

A me ha ricordato un po’ le foto che Philippe Halsam faceva alle persone famose mentre saltavano perché secondo lui “l’atto del saltare rivela la vera natura dei soggetti”. Forse sarebbe stato troppo sofisticato fare le foto delle persone veramente nell’atto di saltare, però secondo me sarebbe stato assolutamente coerente con l’autenticità e la qualità del posizionamento di illy, (e l’avrebbe quindi rafforzato) nonché con il suo legame con l’arte.

La nota negativa è che nella pagina web del sito aziendale con la storia di Christophe Locatelli c’è un errore di ortografia. Per un testo che comincia con “Amo le sfumature, ho sempre sognato di distinguermi per i dettagli” non è che sia il massimo.

Come sta scritto nell’intestazione della mia carta intestata ed in calce alla mia firma sulle e-mail:

Il marketing di successo è fatto di strategie nate dall’immaginazione più sfrenata, realizzate con disciplina maniacale.

Marketing Totale: origini, ragioni, implicazioni in 50 diapositive.

In settimana ho pubblicato su slideshare le diapositive del mio seminario sul MARKETING TOTALE.

Poichè è una presentazione, è stata fatta con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione dei partecipanti e quindi le diapositive NON sono autoesplicative (ricordo ancora la mia professoressa di comunicazione in Canada che giudicava le presentazioni dei casi di marketing: “Massimo 4 righe di testo con dimensione del carattere minimo 20).

C’è quindi la certezza che alcune diapositive appaiano criptiche ed il rischio che siano persino interpretate al contrario. D’altra parte basta pensare che per ogni diapositiva sono previsti in media 5 minuti di commenti per capire che i contenuti del seminario sono molto di più della semplice presentazione.

Cionondimeno credo che possa essere di aiuto per megliorare il concetto di marketing totale, in aggiunta ai post che ho già pubblicato sull’argomento in questo blog.

Quanto meno colloca il marketing totale in un contesto più organico rispetto al passato ed al futuro del marketing.

Mettetevi comodi e … buona lettura. Qui trovate il link alla presentazione.

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 6: le politiche di PERCEZIONE (già promo-pubblicità).

Anche il post di oggi parte in teoria un po’ in discesa perchè sul futuro di questa parte del marketing ho già riflettuto sempre lo scorso 19 maggio, quando ho introdotto le’evoluzione di “distribuzione” in “presenza” e “promo-pubblicità” in “percezione” (per amor di precisione ricordo che i termini inglesi originali nella teoria kotleriana classica sono “place” e “promotion”).

Dei due termini frutto delle riflessioni nate dalla voglia di mantenere la “4P” anche in italiano “Presenza” è quello che è sembrato generalmente più indovinato per descrivere i nuovi contesti di mercato, mentre “Percezione” è stato spesso giudicato più una forzatura formale per amor di “P” piuttosto che l’espressione di un diverso punto di vista.

Confesso che la cosa un po’ mi ha stupito perchè in realtà già il termine inglese “Promotion” mi è sempre sembrato il meno efficace dei quattro (pro memoria: gli altri tre sono product, price e place) per l’aderenza solo parziale alle attività che contiene.

Sempre seguendo l’enunciato del Kotler in “Marketing Management” all’interno di “Promotion” ci sono le attività di comunicazione che forniscono al consumatore ragioni d’acquisto, tipicamente pubblicità e PR+passaparola, le attività di promozione che forniscono al consumatore incentivi all’acquisto, promozioni di prezzo, concorsi, ecc…, e le attività di vendita diretta che argomentano l’acquisto con un mix di comunicazione e promozione, come le vendite telefoniche per esempio.

Proprio perchè “promozione” mi sembrava un termine riduttivo a rappresentare questa varietà di concetti strategici e tattici, io in italiano ho sempre utilizzato il (brutto) termine “promo-pubblicità”.

PERCEZIONE però e me è sembrato un sostanziale passo in avanti nel significare il risultato ultimo dell’integrazione di tutte le attività intraprese dalla marca, non solo quelle appartenenti alla funzione Promo-pubblicitaria.

Come ho già scritto in più di una occasione, tutti gli elementi che determinano la forza di una marca si possono ridurre e sintetizzare nelle due dimensioni della PERCEZIONE e del grado di CONOSCENZA che il mercato ha della marca.

E’ evidente l’influenza sulla percezione che ha dell’aspetto del prodotto/servizio nel suo senso più ampio che comprende materiali e forma della confezione, dell’etichetta, la caratterizzazione grafica e tipografica, ecc..

E’ altrettanto assodato il ruolo del prezzo nel far percepire l’esclusività e la qualità di un prodotto/servizio ed il conseguente ruolo delle promozioni, di prezzo e non, nel rafforzare o indebolire la percezione suggerita dal prezzo.

Forse meno evidente, ma sicuramente chiaro il peso che gioca nella percezione la scelta dei modi e canali distributivi. Il tipo di presenza suggerisce delle preconfigurazioni in termini di qualità, esclusività, accessibilità, ecc…

Da tutto questo preambolo deriva che le politiche di comunicazione/promozione, ossia Percezione, nel marketing futuro dovranno necessariamente tener conto dell’INTEGRAZIONE tra tutti gli elementi del sistema della marca (ok oggi ho deciso che parlo come quelli veri).

Ma perchè l’integrazione sia efficace è necessario che sia coerente nel tempo e nello spazio, ed il modo più efficiente per avere un’integrazione coerente è ESSERE (concetto che oramai, avrete capito, vedo alla base del marketing del futuro).

Pura teoria? Mica tanto, eccovi l’esempio di Fulvio Bressan, produttore vinicolo friulano di fascia alta.

Il 22 agosto del 2013 Fulvio Bressan fa un commento fortmente razzista sul Ministro Kyenge sul suo profilo facebook.

Immediatamente inizia la discussione sui social network tra sostenitori e detrattori di Bressan. Il giorno dopo la notizia viene coperta dai principali blog del vino italiadni e da alcuni in lingua inglese.

A questo punto la viralità diventa inarrestabile, la presa di posizione di Bressan su un tema politicamente caldo come il razzismo in generale e quello nei confronti del ministro Kyenge in particolare trova spazio in un articolo di “Repubblica” che viene poi ripreso dal Guardian e via via fino a testate negli U.S.A., Svizzera, Francia, Sudafrica, Nuova Zelanda, India.

La guida dei vini Slow Food, i cui valori sono “buono, pulito e giusto”, decide di non recensire il vini di Bressan per la suo prossima edizione e lo stesso fa Monica Larner, una delle principali e più seguite critiche enologiche statunitensi per i vini italiani.

Non ci sono notizie precise sulle reazioni di importatori/distributori/consumatori dei vini di Bressan.

Qui il link al post con la sintesi della vicenda pubblicata a suo tempo dal blog Intravino.

L’esempio è particolarmente interessante per la sua chiarezza dovuta a diversi aspetti:

- l’automatica coincidenza tra l’essere Fulvio Bressan e la marca Bressan, sia per la piccola dimensione aziendale sia per la voluta e ricercata identificazione del viticoltore ed enologo con i sui vini. L’essere è unico, senza distinzioni e separazioni tra il Bressan viticoltore, il Bressan enologo ed il Bressan che parla (scrive) ai sui amici (contatti) di facebook.

- di conseguenza la percezione è il risultato dell’integrazione della comunicazione nei diversi modi, tempi e stili dell’essere unico. Il pubblico tirerà le somme di eventuali distonie ed incoerenze, arrivando ad una percezione “netta” e su questa base si rapporterà con la marca.

- il contenuto, in questo caso il razzismo, è il principale fattore che determina l’interesse relativamente al messaggio, più che la sua forma/stile.

- l’estensione e la profondità che può raggiungere il passaparola tramite i social, che a loro volta rimbalzano sui mezzi di comunicazione ufficiali (tradizionali e non) rende sostanzialmente incontrollabile già oggi la diffusione della comunicazione. Per il futuro possiamo solo aspettarci una ulteriore riduzione della capacità/potere delle organizzazioni nel controllare il contesto comunicativo in cui operano.

Dite che questo esempio è da manuale proprio perchè relativo ad una realtà semplice, come una piccola azienda vinicola?

In realtà le stesse considerazioni si potevano fare relativamente alle dichiarazione di Guida Barilla e la presenza di famiglie gay negli spot della sua azienda (“mai uno spot con i gay”). Qui in realtà c’è un elemento nuovo: fino a che punto è giusto identificare l’essere del marchio Barilla con l’essere dei suoi azionisti?

Oppure si potevano fare riflettendo sull’effetto che ha avuto la morte dell’orsa Daniza nell’immagine del Trentino come ESSERE un  territorio vocato alla natura.

Allora la gestione efficace della percezione nel marketing del futuro dovrà partire da una profonda ed onesta introspezione che definisca in modo chiaro e condiviso l’essenza dell’organizzazione/marca.

Da questo sarà possibile sviluppare contenuti rilevanti perchè coerenti e forti perchè integrati in tutte le espressioni dell’organizzazione/marca.

Di conseguenza discenderanno anche gli stili, più che le modalità, delle diverse attività che veicolano la percezione.

Credo sia giusto sottolineare come questo processo abbia molto a che fare con l’interno dell’organizzazione/marca e pochissimo a che vedere con il consumatore o target market.

Parlando di marketing sembra strano, però non è voluto a priori: è semplicemente la conseguenza della linearità del ragionamento, ma probabilmente si giustifica pensando alla crescente frammentazione dei segmenti di mercato.

Nel momento in cui diventa difficile/impossibile definire le caratteristiche che identificano un segmento di mercato sufficentemente grande da avere un senso economico saranno più le persone ad intercettare le marche e non viceversa.

Concludo ricordando che se siamo, e lo siamo, tutti nel mercato dei contenuti più che di segmenti di consumatori, sarebbe opportuno parlare di audiences di ascoltatori. Ad ogni modo sempre di persone si tratta.