Finalmente ho capito perché la Grande Distribuzione Organizzata fatica a creare valore (differenziante) per i propri clienti.

Io la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) la frequento, ovviamente, da cliente/consumatore e l’ho frequentata da fornitore. Ho avuto colleghi e collaboratori che avevano lavorato come buyers per catene di livello nazionale, ma personalmente non sono mai stato “dall’altra parte della scrivania”.

Da esperto di marketing mi è sempre sembrato che le strategie della GDO del largo consumo (super ed iper mercati per capirsi), fossero sempre piuttosto nel targettizare, differenziare e qualificare la proposta rispetto alle insegne concorrenti.

Quando assistevo o conducevo trattative come fornitore rimanevo sempre un po’ stupito dalla comune impostazione tipo suk (senza però la gentilezza dei mercanti arabi) perché mi è sempre sembrata una logica che IMPEDISCE di lavorare per migliorare il business, tanto del fornitore come dell’insegna cliente.

Ovviamente secondo il mio connaturato approccio di marketing il miglioramento del business si ottiene attraverso la creazione di valore per le persone (consumatori).

Non è caso che il periodo in cui rapportarsi con la GDO mi è sembrato più proficuo, e sicuramente più divertente, è stato quando negli uffici acquisti delle catene ai category manager è stato dato maggior peso rispetto ai buyers nelle trattative con i fornitori.

Si è trattato però di un periodo di breve durata, 2 o 3 anni al massimo, dopodichè si è tornati a discutere solo di listini, sconti promozionali, premi di fine anno, listing e tutti i vari giochi delle tre carte ancora in uso nelle trattative di vendita.

Immagino che sia stato perché l’approccio di trattativa più o meno dura risultava più redditizio in termini di conto economico.

Di quegli anni mi ricordo una frase dettami da un buyer “Biscontin, io ho il dovere professionale di spremerla il più possibile perché in questo modo raggiungo due obiettivi: ottengo le migliori condizioni di acquisto possibili per me e riduco la sua capacità di dare le stesse condizioni (se non migliori) ai miei concorrenti.”

Non faceva una piega, come non la faceva il mio dovere professionale di trattare tutti i clienti allo stesso modo (che significa anche offrire condizioni migliori sulla base dei volumi di acquisto) non solo per una questione etica, ma anche per il concreto rischio che il cliente che scopre di essere stato trattato peggio decida di cambiare fornitore.

Poi l’altro giorno ho avuto un’illuminazione quando ho sentito per caso un vecchio amico che ha lavorato molti anni per insegne della GDO, enunciare un principio fondamentale della gestione delle insegne distributive:

“Con gli acquisti fai il margine, con le vendite fai il fatturato”

Immediatamente ho pensato “Dov’è il valore per clienti del supermercato in questa equazione?”.

E’ un mese che ci penso, ma non lo trovo.

Se parlassimo di un’azienda manifatturiera sarebbe come operare secondo il concetto di produzione. Traduco dalla mia edizione (canadese) di Marketing Management di Kotler:

“Il concetto di produzione sostiene che i consumatori favoriranno quei prodotti che sono ampiamente disponibili e di basso costo. I managers delle aziende orientate alla produzione si concentrano nel raggiungere alta efficienza produttiva ed ampia copertura distributiva.”

Da notare che nello sviluppo dei concetti di orientamento dell’impresa al mercato, quello di produzione è quello “primordiale”, a cui sono seguiti poi quello di prodotto, quello di vendita e quello di marketing, man mano che il concetto precedente entrava in crisi. Ossia non era più in grado di creare vantaggi competitivi per l’azienda .

Attenzione non significa che il concetto di successivo sostituisca il precedente (ad esempio quello di prodotto sostituisca quello di produzione), ma che il successivo si AGGIUNGE al precedente. Per cui in seguito all’attività delle aziende concorrenti le strategie legate al concetto di produzione da PLUS diventano un MUST (o conditio sine qua non, se preferite continuare con il latino), mentre quelle legate al concetto di prodotto sono il nuovo PLUS. E così via.

Visto con gli occhi degli economisti aziendali, il concetto di produzione del Kotler, somiglia al concetto di leadership dei costi sviluppato da Michael Porter.

Il punto però è che per un’insegna della GDO la leadership dei costi non si ottiene tanto con le trattative di acquisto dei prodotti in vendita, visto che i fornitori cercheranno di mantenere condizioni equivalenti per i vari clienti, quanto piuttosto lavorando sui costi della struttura e del funzionamento dell’organizzazione.

Che è esattamente quello che permette alle catene di discount di marginare bene, pur vendendo a prezzi più bassi rispetto a super ed ipermercati (non ho visto dati recenti, ma qualche anno fa la reddività per metro quadrato dei punti vendita Eurospin era seconda solo a quella di Esselunga).

D’altra parte operare con il concetto “gli acquisti fanno il margine, le vendite fanno il fatturato” implica non targettizzare e non innovare in termini di assortimenti, layout, arredi, promozioni, ecc…

Non voglio dilungarmi in considerazioni operative su un settore che conosco di riflesso e quindi lascio a voi le considerazioni implicite nel concetto, magari partendo da questo esempio: le catene della GDO disponevano dei dati relativi ai comportamenti d’acquisto dei titolari delle loro carte fedeltà molto prima che esistesse Amazon, ma invece di realizzare comunicazioni e promozioni mirate hanno continuato (e continuano) a riempire le cassette della posta di tutti indistintamente con gli stessi volantini (e quindi parlano TUTTE sostanzialmente solo di prezzo).

Sono andato a fare la spesa da ALDI ed è stata una delusione.

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Nelle scorse settimane la catena tedesca di discount ALDI ha aperto i primi punti vendita in Italia. In realtà erano anni che si parlava dell’arrivo di ALDI in Italia, ma questa veniva sempre rimandata per la valutazione dell’azienda tedesca rispetto all’attrattività del mercato italiano, considerato troppo complesso per riuscire ad applicare con successo il proprio modello di business.

Ma qual è il modello di business di ALDI? Pur non avendoci mai lavorato dentro, credo di poter dire che si tratta di una catena distributiva che conosco abbastanza bene, per averla frequentata come consumatore prima (ogni viaggio in Germania di lavoro o di piacere prevedeva almeno una spesa da ALDI per vedere cosa si erano “inventati” di nuovo) sia perché per diversi anni sono stato un loro fornitore in Germania.

Detto in sintesi ALDI è l’insegna che negli anni ’60 del secolo scorso ha inventato e realizzato il concetto di hard discount. Il nome ALDI è la crasi di ALbrecht (cognome dei due fratelli che la fondarono rilevando l’attività fondata dalla madre nel 1913) e DIscount.

L’azienda è ancora di proprietà dei discendenti dei due fratelli Karl e Theo Albrecht ed è una delle più grandi aziende della distribuzione a livello mondiale, presente in 18 nazioni.

La proposta di base di ALDI è quella di offrire ai clienti prodotti di qualità medio-alta al prezzo più basso del mercato. Uno dei tanti esempi per esperienza personale: il succo d’arancia di ALDI è più buono di quelli che posso trovare negli altri supermercati (discount e non) e costa meno di tutti, ergo perché dovrei andare a fare la spesa altrove?

La domanda che spesso si fanno anche i professionisti del settore è come sia possibile mantenere questa promessa guadagnando (un sacco di) soldi.

Senza pensare di avere la verità in tasca, e non chiamandomi (purtroppo) Lorenzo Albrecht, secondo me si possono individuare alcuni fattori riconducibili alla massima efficienza e praticità nella gestione del business, che si traduce anche in efficienza e praticità per le persone che vanno a fare la spesa da ALDI.

Nell’analizzarli mi riferirò alla realtà tedesca, sia perché la conosco meglio, sia perché quella originaria/archetipica. In realtà comunque i punti vendita australiani, inglesi o americani differiscono poco da quelli tedeschi.

 

Posizione e disposizione dei punti vendita.

Come ha detto W. Galen Weston, il manager canadese che negli anni 70 ha preso in mano la gestione della Loblaws, la catena distributiva di famiglia, portandola dall’orlo della bancarotta ad essere una delle aziende di distribuzione di maggior successo di tutto il nord america, la vendita al dettaglio si basa su tre “L”: location, location, location.

I fratelli Albrecht, senza dirlo a nessuno, l’avevano capito prima. I negozi ALDI si trovano all’interno delle città, appena fuori dei centri storici e/o nell’immediata periferia. Sono sostanzialmente dei punti vendita di prossimità facilmente raggiungibili, con un buon spazio per parcheggiare in zono “normali” dal punto di vista commerciale e residenziale, quindi zone dove gli spazi commerciali non sono particolarmente costosi. Soprattutto non richiedono lo sforzo di tempo e stress necessario per andare in un centro commerciale all’estrema periferia cittadina (quando non è nel mezzo del nulla).

I punti vendita ALDI sono tutti sostanzialmente uguali: un parallelepipedo ad un piano livello strada con una superficie di vendita di circa 1.000 m2 (tenete presente che un supermercato va da 400 a 2.500 m2, mentre un ipermercato parte da 2.500 m2, ma la dimensione normale è tra i 4.000 ed i 10.000 m2). 

La sensazione all’interno però è di ampiezza perché le corsie sono create dai pallet espositori che non superano il 1,5 m di altezza circa. Quindi non vi trovate a camminare all’interno di corridoi di scaffali per cui la visuale copre l’intero spazio del punto vendita. Scaffali o esposizioni di prodotto più alti vengono realizzati lungo le pareti perimetrali, senza intralciare la vista dello spazio interno.

La disposizione dei prodotti è sempre la stessa per tutti i punti vendita, quindi in qualsiasi ALDI andiate a fare la spesa non avrete problemi ad orientarvi per trovare quello che cercate.

 

Assortimento.

Da ALDI trovate tutto il necessario e (quasi) niente di superfluo, anche se in realtà il concetto di “necessario vs. superfluo” è espresso meglio dai termini inglese “need vs nice”.

Attenzione che nel necessario ci metto dentro anche la referenza di champagne, che però è una sola, senza alternative o varianti che rappresenterebbero il “nice” o “superfluo”.

Il numero di referenze all’interno di un punto di vendita ALDI è di circa 2.000 mentre nel 2016 mediamente un supermercato in Italia ne aveva 10.923. Per capirsi una referenza corrisponde ad un codice EAN e non al numero di confezioni presenti nel punto vendita; ad esempio la confezione di nutella da 500 g e quella da 250 g sono due referenze diverse, poi a seconda della dimensione del supermercato per ogni referenza ci potranno essere 1,2,3,4, … “facing”, ossia confezioni sul fronte dello scaffale che ne occupano lo spazio lineare.

Nella maggioranza delle categorie merceologiche ALDI offre una sola referenza: una referenza di champagne, una referenza di succo di arancia, una referenza di brioche, ecc..

Inoltre la quasi totalità delle referenze, circa il 90%, è prodotto con un marchio di fantasia di proprietà di ALDI o riservato in esclusiva a loro.

Questa struttura dell’assortimento implica diversi vantaggi:

-          Meno referenze significa meno spazio necessario a magazzino per gestire le scorte e meno spazio necessario sul punto vendita per esporre i prodotti.

-          Meno referenze significa la possibilità di esporre sul punto vendita più confezioni, quindi minor frequenza nel ricaricare gli scaffali, quindi minori costi di personale, ossia più efficienza. Se poi ci aggiungete il fatto che spesso l’esposizione è fatta collocando nel punto vendita direttamente il pallet-espositore l’efficienza del personale aumenta ancora di più.

-          Meno referenze significa più rotazioni per ogni singola referenza: se c’è una sola marca di latte invece di quattro, tutti compreranno quella mentre in un supermercato tradizionale le vendite si divideranno tra le varie opzioni disponibili.

-          Più rotazioni per singola referenza significano maggiori vendite e quindi maggior potere contrattuale da parte dei compratori ai ALDI nei confronti dei fornitori.

-          … ma significano anche maggiori possibilità per i fornitori di sviluppare economie di scale e quindi di poter fornire la stessa qualità a costi/prezzi più bassi.

-          Maggiori vendite significa maggior efficienza nella logistica dei trasporti perché si spediscono quantità maggiori per ogni consegna.

-          Meno referenze significa meno fornitori e quindi maggior efficienza in tutti gli aspetti amministrativi e di gestione.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” rafforza la credibilità dei prodotti presenti nel punto vendita, che viceversa potrebbero essere messi in discussione / sminuiti dal prodotto a marchio industriale.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” differenzia il punto vendita ALDI rispetto alle altre catene di discount e supermercati nella sua totalità: i prodotti che trovo da ALDI non li posso comprare da nessuna altra parte. Indipendentemente dal marchio che ci sarà sulla confezione, le fette biscottate (ad esempio) sono percepite come le “fette biscottate di ALDI”. In questa situazione il marchio ed il packaging perdono quindi la loro funzione differenziante, per limitarsi a quella estetica ed a quella identificativa. Non a caso i prodotti di ALDI hanno tutti una confezione che riprende i codici visivi e di comunicazione della categoria merceologica a cui appartengono.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” permette ad ALDI di mantenere la promessa di prezzi bassi. Un marchio industriale infatti ha sempre anche una componente di valore intangibile che deriva dalla comunicazione e dall’innovazione, componente utile (anche per il consumatore in generale), ma non necessaria. E quindi che esula dallo scopo / promessa di ALDI. Infatti da ALDI non troverete mai un prodotto che rappresenta una novità assoluta per il mercato, però le innovazioni vengono rapidamente adottate nel momento in cui cominciano a prendere piede sul mercato.

 

Politiche promo pubblicitarie.

La strategia di ALDI in Germania praticamente non prevede l’utilizzo della pubblicità, mentre questa è utilizzata nei paesi anglosassoni.

 In termini di politiche di prezzo la politica è quella del “prezzo-basso-tutti-i-giorni”, senza l’utilizzo di campagne di sconti periodiche. Le campagne promozionali riguardano principalmente referenze stagionali e non in assortimento continuativo, inserite temporaneamente per seguire le richieste dei clienti nei vari periodi dell’anno (articoli da giardinaggio in primavera, fuochi artificiali a Capodanno, ecc..)

 

Guadagni assoluti ottenuti attraverso l’applicazione di minori margini unitari su grandi volumi di vendita.

Oltre ai vantaggi nei costi di gestione che derivano dal modello di business adottato, in parte sommariamente descritti sopra, la capacità di ALDI di vendere a prezzi più bassi dei concorrenti deriva da una precisa scelta nel rapporto tra volumi di vendita e margini unitari per ottenere i guadagni in valore assoluto.

 

Qualità intrinseca dei prodotti elevata.

Tutti i fattori competitivi descritti prima verrebbero fortemente ridimensionati, se non annullati, nel caso in cui al basso prezzo corrispondesse una bassa qualità intrinseca dei prodotti offerti.

Infatti il principale pilastro che sostiene il successo di ALDI è indubbiamente la qualità dei prodotti che vende nei propri punti vendita, che oscilla tra eccellente e buona.

Nel processo di selezione dei fornitori ALDI non parte dal prezzo, ma dalla valutazione delle caratteristiche del prodotto. Se queste soddisfano gli standard stabiliti, che verranno controllati costantemente da loro durante tutta la fornitura, allora si passa alla valutazione della capacità di soddisfare i requisiti logistici (perché non basta fare un buon prodotto al prezzo giusto se poi non si è in grado di garantire il servizio di approvvigionamento che ne garantisca la disponibilità nei punti vendita).

Sul prezzo in realtà i fornitori di ALDI discutono poco, nel senso che l’intervallo in cui si può muovere la trattativa è intuibile a priori e dipende dal prezzo a cui il prodotto viene venduto nel punto vendita. Se non si pensa di essere in grado di fornire un determinato livello di qualità del prodotto e del servizio all’interno di quell’intervallo, è meglio lasciar perdere in partenza.

 

Questa visione ed il modo in cui è stata realizzata da oltre cinquant’anni a questa parte hanno fatto di ALDI un “game changer” in tutti i mercati in cui opera. Per questo c’era, e c’è, molta preoccupazione e curiosità per il suo arrivo in Italia.

Io però nel punto vendita di Trieste dell’ALDI che conosco ho trovato poco e non visto molto di così preoccupante. Ma oramai per oggi è tardi e ve lo racconterò dopo Pasqua.

Auguri.

Ancora marketing relazionale: i cattivi esempi di Loacker e Coop.

Mi piace partecipare ai concorsi. Non che abbia mai vinto niente di particolare, però mi piace giocare.

Quindi tempo fa ho partecipato al concorso Loacker “Una tortina d’oro” (tanti anni fa avrei voluto fare un concorso mettendo un diamante dentro ai wurstel, ma non ho mai sviluppato l’idea perché il rischio che chi lo trovasse si rompesse un dente era troppo grande e quindi l’idea irrealizzabile).

Per partecipare i sono iscritto al sito Loacker e quindi periodicamente mi arriva una mail/newletter dall’azienda. Non le avevo mai aperte fino ad oggi, ma l’altro giorno l’ho fatto, un po’ perchè sto ragionando di marketing relazionale ed un po’ perché prometteva buoni sconti per acquisti di prodotti Loacker (che in effetti è un po’ che non compro).

Quindi ho aperto la mail, i sono guardato i vari contenuti fino a quando sono arrivato in fondo ed ho cliccato sul link per ottenere i buoni sconto.

Il link non i ha portato direttamente nella pagina del sito Loacker dove scaricare i buoni sconto, a nella home page. Poco male, ci sta. Per scaricare i buoni sconto dovevo entrare nel mio profilo personale del sito inserendo e-mail e password.

Ora devo ammettere che già la richiesta della password mi sembra eccessiva. Di password ne devo ricordare già troppe e sicuramente quella del sito Loacker non è né tra quelle che uso più spesso né tra quelle che mi preoccupano maggiormente. cosa rischio se qualcuno mi hackera il profilo Loacker? Che mi portino via i biscotti?

Ad ogni, come dicevo mi piace giocare, e quindi ho richiesto una nuova password all’indirizzo e-mail al quale avevo ricevuto la newletter.

Il sistema mi ha risposto automaticamente che non c’è nessun utente registrato con quella mail. Allora perché mi avete mandato la newsletter offrendomi dei buoni sconto?

Siccome, per quanto mi diverta a giocare, ho anche altro da fare nella vita, ho detto un bel CIAONE al sito Loacker ed ai suoi buoni sconto (vorrà dire che aspetterò la prossima promozione sullo scaffale).

Il caso della Coop se vogliamo è ancora più grave / sconcertante.

Da anni faccio la spesa al supermercato Coop vicino a casa (ci andavo già prima, quando era un supermercato Despar).

Dal 20 gennaio è iniziato il concorso #2MilioniDiPremi, per cui ogni 20 euro di spesa si riceve una cartolina gratta e vinci.

Se non si è vinto niente con il gratta e vinci si può andare sul sito apposito #2MilioniDiPremi ed inserire il codice della cartolina per partecipare ad una estrazione. Se non ricordo male il sito è il medesimo di quello usato da Coop per un concorso analogo realizzato lo scorso anno, a cui i sono sicuramente già registrato, ma di cui non assolutamente idea che mail e che password ho usato.

Ad ogni modo non me ne preoccupo perché il concorso è riservato ai soci quindi mi aspetto che per giocare i codici sia sufficiente inserire il mio codice socio, a cui presumo siano collegati tutti i dati che mi hanno chiesto al momento dell’associazione (se vogliamo fare i sofisti essere socio della Coop è una cosa un po’ diversa da una normale carta fedeltà di un’altra catena di supermercati).

Sbagliavo. Nel senso che per registrarmi il sito mi richiede di inserire il codice numerico stampato sotto il codice a barre della tessera socio. Non la cosa più pratica e comprensibile del mondo. Provo prima omettendo lo zero iniziale, poi anche con lo zero iniziale. In entrambi i casi il sito mi segnala che il formato del codice è errato e anche in questo caso decido che gli eventuali premi ad estrazione li vincerà qualcuno più bravo / meritevole / paziente di me.

Quello però che mi chiedo: perché non mi avete fatto giocare con il mio codice socio a 7 cifre stampato bello chiaro sul retro della mia tessera socio? Dite che il problema è che il codice potrebbe non essere univoco tra le varie Coop che ci sono in Italia (in altre parole qualcun altro in una Coop diversa potrebbe avere lo stesso numero)? Basta richiedere di indicare la cooperativa di appartenenza, che è chiaramente stampata sul fronte della tessera (nel mio caso “Coop Alleanza 3.0″ ed il gioco è fatto.

Se invece anche all’interno di Coop Alleanza 3.0 il mio codice potrebbe non essere univoco, beh allora di strada da fare ne avete molta e la cosa un po’ anche mi preoccupa.

Continuo ad essere sconcertato di quante risorse e sforzi le aziende dedichino ad instaurare una relazione con i propri consumatori e quanta poca attenzione mettano nel gestirla, seguendo un approccio che non solo non è di servizio (alla fin fine il cliente sono io, e nel caso di Coop sono anche “proprietario”), ma nemmeno paritetico. E’ invece di “superiorità”.

E stiamo parlando di due aziende “brave”, che più di una volta ho segnalato su questo blog per le loro strategie interessanti ed efficaci.

Figuriamoci le altre.

 

(bando alle ciance) La questione dei sacchetti di plastica vista secondo l’approccio di marketing.

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Come primo post del 2018 avevo in mentre due argomenti diversi, però da quando il 4 gennaio sono rientrato in Italia l’argomento “sacchetti di plastica” mi ha sopraffatto.
All’inizio l’ho sostanzialmente ignorato, anche per l’oggettivo ridotto peso economico della questione, però poi la quantità di spazio che continua ad occupare su tutti i mezzi di comunicazione (formali ed informali, digitali ed analogici) gli conferisce un indubbio peso sociale.
Quindi mi è venuta voglia di approfondire tutte le mezze informazioni, nessuna risolutiva o completamente esatta, per cui spesso contrastanti tra loro, in cui mi sono imbattuto, anche perché giovedì sono andato a fare la spesa. Ho potuto così osservare quali potrebbero essere i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto indotti dalla nuova legge e le relative opportunità e minacce sui diversi mercati.
Quella che segue quindi è un’analisi della situazione secondo un approccio (integrato, ovviamente) di marketing, libera da valutazioni politiche e/o demagogiche.
Per facilitarne l’esecuzione e la comprensione l’ho divisa in 3 parti: definizione del quadro normativo, analisi dei possibili/probabili cambiamenti dei comportamenti di mercato, brevi considerazioni sulla comunicazione politica. La parte principale è la seconda, ma non si poteva svolgere senza la prima, perché la legislazione definisce i confini entro cui ci si può muovere. La terza non sarebbe necessaria ai fini dello scopo di questo post, però deriva direttamente dalla seconda e, già che c’ero, mi sembrava un peccato “buttarla via”.

Il quadro normativo.
Alla luce delle informazioni parziali e contradditorie relativamente al quadro normativo che trovavo sui vari mezzi di informazione a cui accennavo in precedenza, sono andato alla fonte e mi sono letto tutti provvedimenti coinvolti (grazie internet per permettere di trovarli e di spulciarli senza doverli stampare: più comodo e più ecologico). Nel testo trovate tutti i link.
La legge 123 del 03-08-17 che prevede che dal primo gennaio 2018 non possano più essere utilizzate buste di plastica con meno del 40% di materia prima rinnovabile (percentuale che salirà progressivamente fino al 60% dal 1° gennaio 2021), ottempera a quanto previsto dalla Direttiva UE 2015/70 che a sua volta modificava la Direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse in plastica in materiale leggero (definito come quello con spessore inferiore ai 50 micron).
La legge 123 a sua volta è la conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 recante disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno. Se vi chiedete cosa diavolo c’entrino le borse in plastica con le “disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno”, la risposta è niente. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quanto le leggi italiane sia scritte male sia come impianto strutturale sia come redazione. Un giurista mi ha detto che il problema è noto, la sua soluzione è costantemente all’ordine del giorno, ma non se ne esce probabilmente perché deriva dai regolamenti parlamentari. E’ un problema non da poco, ma ha poco a vedere con l’argomento di questo post e quindi lo lascio perdere.
In realtà il DL 20-06-17 n.91 riguardo ai sacchetti di plastica non dice sostanzialmente niente. Li tratta all’articolo 9, che consta di un solo comma. E’ talmente breve che vale la pena di riportarlo integralmente:

Art. 9

Misure urgenti ambientali in materia di classificazione dei rifiuti

1. I numeri da 1 a 7 della parte premessa all’introduzione
dell’allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, sono sostituiti dal seguente: «1. La classificazione dei
rifiuti e’ effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente
codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione
2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione,
del 18 dicembre 2014».

La legge 123 del 03-08-17 conferma quanto sopra (con una minima modifica formale) ed aggiunge l’articolo 9-bis che, nei suoi numerosi commi, disciplina la commercializzazione delle borse di plastica in materiale leggero ed ultraleggero (definito come quello con spessore inferiore ai 15 micron), sua con disposizioni ex-novo che modificando articoli del Capo V del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”.
Fatto un minimo di ordine nell’intrico dei provvedimenti che si riferiscono alla questione (prometto che non ne ti tiro fuori altri), andiamo a vedere le cose salienti che dicono partendo dalla Direttiva UE 2015/70. Vale la pena spiegare per i meno avvezzi alla legislazione comunitaria che la Direttiva è un provvedimento con cui la UE sostanzialmente definisce un obiettivo, lasciando ampia libertà agli Stati Membri su come raggiungerlo (viceversa il Regolamento Comunitario è un provvedimento legislativo che dice a tutti gli Stati Membri quello che devono fare con limitata, o nulla, libertà riguardo alle modalità di recepimento).
In altre parole si sapeva che “ce l’ha chiesto l’Europa” era probabilmente una bugia senza nemmeno leggere la Direttiva (che poi è solo di 5 pagine e quindi si legge anche in fretta).
La Direttiva comunque contiene ovviamente cose importanti. Secondo me il principio più importante è quello enunciato al punto 9 delle considerazioni iniziali (il grassetto è mio):
“Inoltre, è provato che le informazioni ai consumatori svolgono un ruolo decisivo nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’utilizzo di borse di plastica. Pertanto, è necessario impegnarsi a livello istituzionale per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti sull’ambiente delle borse di plastica e liberarsi dall’idea ancora diffusa che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso“.
A cui aggiungerei subito dopo il punto 15 delle considerazioni iniziali:
“I programmi di sensibilizzazione per i consumatori in generale e i programmi educativi per i bambini possono svolgere un ruolo importante nella riduzione dell’utilizzo di borse di plastica.”
Dal punto di vista operativo invece la cosa più importante contenuta dalla Direttiva è che lascia libertà agli Stati Membri sulle misure da adottare per raggiungere una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero. Queste misure però devono includere una delle seguenti opzioni, oppure entrambe (copie e incollo, il grassetto come sempre è mio):
“Le misure adottate dagli Stati membri includono l’una o l’altra delle seguente opzioni o entrambe:
a) adozione di misure atte ad assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse dagli obiettivi di utilizzo nazionali;
b) adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure“.
Come vedete viene esplicitato che le borse in plastica in materiale ultraleggero, quelle usate per frutta e verdura per capirsi, possono essere escluse dalle misure di riduzione dell’utilizzo di borse in plastica (i più attenti di voi l’avevano già capito dal fatto che la norma si riferisce sempre alla “borse in plastica di materiale leggero”. Per di più la direttiva richiede che il pagamento delle borse in plastica venga fatto entro il 31 dicembre 2018.
Quindi è stato il Parlamento Italiano a decidere di far pagare anche le borse in plastica di materiale ultraleggero e di farle pagare dal 1 gennaio 2018 e non, per esempio dal 30 dicembre 2018.
Chiarisco subito che io sono personalmente d’accordissimo con questa decisione.
L’altra considerazione è che tutto il can-can che si sta facendo in questi giorni su giornali e social è in ritardo 5 mesi, perché il 3 di agosto 2017 si sapeva già che dal 1 gennaio 2018 tutte le borse di plastica avrebbero dovuto avere almeno il 40% di materia prima rinnovabile e sarebbero stati a pagamento. Il che ha come corollario una certa disonestà intellettuale da parte delle forze sociali (partiti politici e non solo) che oggi si stracciano le vesti.

Opportunità e minacce del nuovo quadro di mercato.
Secondo quanto riporta un articolo del mensile della Coop “Con: consumatori e responsabilità”, in Italia venivano utilizzati attualmente 8.000.000.000 di sacchetti di polietilene ultraleggeri all’anno.
Considerando un prezzo di vendita medio di 0,03 euro (sto largo), significa un maggior fatturato da parte della distribuzione alimentare piccola e grande (soprattutto) di 240.000.000 di euro. Quindi maggiori introiti dello stato tramite l’IVA di 52.800.000 euro. Un po’ pochi rispetto al bilancio dello stato per pensare che l’obiettivo principale della scelta del Governo sia stata quella di fare cassa (per dare un’idea il debito del Comune di Roma è di 17.000.000.000 di euro).
Per le entrate delle tasse sul reddito d’impresa è difficile fare delle previsioni perché dipendono dall’effettivo aumento dei guadagni da parte delle aziende del dettaglio alimentare. Se il prezzo di cessione dei nuovi sacchetti corrisponde alla differenza di costo tra quelli vecchi e quelli nuovi non ci sarà aumento del reddito d’impresa, se invece il prezzo di cessione supera questa differenza ci sarà un aumento dei guadagni mentre se le aziende distributive decidono di investire e vendono i nuovi sacchetti ad un prezzo che non copre la differenza di costo rispetto ai vecchi, il reddito d’impresa diminuirà e di conseguenza anche le tasse pagate dalle aziende. Il tutto ovviamente in una situazione di ceteris paribus, ossia con le tutte le altre variabili immutate.
In sintesi comunque le cifre in gioco sono piccole sia a livello unitario, 0,02 / 0,03 euro a sacchetto – 5 / 10 euro a famiglia all’anno, che a livello complessivo.
Più significativi invece appaiono i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto ed ancora di più le opportunità strategiche per le catene della GDO, che al momento paiono essersi limitate a soddisfare i requisiti minimi di legge.
In termini del comportamento del consumatore bisogna tenere conto della combinazione di due fattori.
Da una parte l’imposizione di far pagare i sacchetti di plastica ultraleggeri sembra sia stata vissuta da ampie fasce di popolazione come un balzello (quanto questo sia stata spontaneo e quanto alimentato da strategie politiche populiste e demagogiche, qui poco importa) mentre dall’altra è noto, provato, consolidato e generalizzato l’interesse delle persone nei confronti dell’ambiente se questo non comporta (eccessivi) costi monetari o “comportamentali”.
Per questo quindi dubito fortemente che il pagamento dei sacchetti per frutta e verdura sposti gli acquisti delle persone sui prodotti cosiddetti di IV gamma, ossia l’ortofrutta già preparata per il consumo e confezionata in buste di plastica, come hanno suggerito alcuni esperti.
Osservando le persone al supermercato ho notato piuttosto un interesse per la frutta e verdura fresca già confezionata in rete di plastica e per quella venduta a cassetta intera.
Se io fossi il Direttore Marketing di una catena della GDO osserverei con attenzione il dato del peso medio dell’acquisto per atto di acquisto per vedere se cresce e quello della frequenza di acquisto per vedere se cala. Nel caso in cui crescesse il primo e rimanesse invariato il secondo significherebbe che le persone stanno comprando più frutta e verdura. Se ne stanno anche mangiando di più dipende da quanta ne buttano via (spero nell’umido) perché è andata a male.
Farei anche un’altra cosa: comincerei ad inserire nell’assortimento frutta e verdura fresca confezionata in rete in formati più piccoli di quelli attuali e vedere come ruotano. Oltre ad offrire al consumatore il vantaggio di una confezione più ecologica (meno plastica) e che a lui non costa, miglioro tutta l’organizzazione del reparto riducendo l’utilizzo delle bilance (tempo per pesare, inceppamenti, manutenzione, sostituzione rotoli etichette) e le conseguenti perdite di tempo alle casse (sacchetti non pesati e prezzati, codici EAN illeggibili). In sintesi fornisco più valore ai consumatori ed abbasso i miei costi: meglio di così, impossibile.
Queste le prime due cose che mi vengono in mente e che si possono realizzare da subito.
Il comportamento del consumatore però apre prospettive su cui potrebbe essere interessante investire, sia per fidelizzare gli attuali che per attirarne di nuovi.
In questo senso l’avviso nel supermercato Coop della foto che apre questo post è deludente da tutti i punti di vista.
E’ deludente la forma: un foglio A4 stampato al computer ed attaccato con il nastro adesivo. Si poteva fare di meglio su un argomento al quale le persone stanno dando così tanta attenzione e che quindi diventa un’opportunità di comunicazione rilevante.
E’ deludente nel contenuto: COOP semplicemente si adegua alla normativa e comunica che il prezzo di 2 centesimi al sacchetto copre solo in parte i costi. Quindi con i 2 centesimi in realtà Coop sta assorbendo parte dei costi che altrimenti avrei dovuto pagare io? E quanti costi assorbe? Visto che anche altre catene di supermercati li fanno pagare 2 centesimi all’uno anche loro coprono parte dei costi che sarebbero stati a carico del consumatore, oppure no? Se veramente Coop si sta impegnando per me mi piacerebbe sapere come e quanto, instillare dubbi di credibilità nella mente dei propri clienti credo sia la cosa peggiore che un negoziante possa fare.
In comunicazione ci si sforza tanto per poter attirare l’attenzione delle persone e poi quando ce la danno spontaneamente la sprechiamo così.
Nel frattempo leggo sul giornale che Coop annuncia che “presenterà a breve soluzioni e materiali di confezionamento sulla merce fresca e sfusa che siano effettivamente riutilizzabili a bassissimo costo per i consumatori e di maggior vantaggio per l’ambiente”.
Si poteva fare di più e meglio per differenziarsi? Credo proprio di sì e continuo con l’esempio di Coop perché la rivista “Con” riporta che durante l’iter legislativo si era opposta al pagamento dei sacchetti da parte dei consumatori, quindi aveva previsto di sopportare i costi aggiuntivi per i 350.000.000 di sacchetti che utilizza ogni anno.
Si poteva far pagare i sacchetti 0,01 euro l’uno, si potevano utilizzare sacchetti con il 100% di materia prima rinnovabile, si potevano usare sacchetti di carta.

Attenzione, non è che ce l’ho con la Coop, di cui sono affezionato cliente: sono tutte cose che potevano fare anche le altre catene di supermercati.

La carta è la strada che la stessa Coop ha preso nel reparto pescheria e mi sembra la strada che sta prendendo il piccolo dettaglio indipendente, per il quale far pagare i sacchetti è un po’ più complesso in termini operativi e soprattutto è molto più difficile in termini di rapporto con la clientela.

Quindi la nuova norma crea una situazione evidentemente favorevole per i produttori di bioplastica, a attenzione anche ai produttori di sacchetti di carta.
Ecco perché sono d’accordo con la scelta del Parlamento di far pagare anche i sacchetti ultraleggeri: la norma sta spingendo verso una riduzione dell’uso della plastica al di là degli obblighi di legge e sta contribuendo a smontare l’idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso.
Se poi avessero destinato l’introito IVA a campagne di sensibilizzazione sulla visione degli imballaggi secondo la regola delle 3R – Ridurre, Riusare, Riciclare in questo ordine di priorità – sarebbe stato ancora meglio, ma per il momento mi accontento.

La comunicazione del PD sulla questione del pagamento che sacchetti di plastica ultraleggeri.
Il post è già lungo, quindi sarò estremamente sintetico.
Sul pagamento dei sacchetti di plastica per l’ortofrutta il PD a tre mesi dalle elezioni ha fatto la figura del Governo gabelliere che ruba ai poveri per dare agli amici ricchi.
Questo anche perché alle accuse populiste e demagogiche si è risposto con altrettanta confusione ed imprecisione (per non dire bugie “E’ una norma europea”).
La materia in realtà era chiara e conosciuta, il governo del Pd ha fatto una scelta precisa nel recepimento della direttiva che immagino (e voglio sperare) non era casuale, a basata su precise valutazioni.
Valutazioni che probabilmente porteranno a risultati apprezzati da ampie face di elettori fedeli e potenziali.
Anche nell’attuale frammentazione della comunicazione non avrebbe fatto male una presa di posizione ufficiale da parte del PD che ne spiegasse le ragioni, anche perché magari sarebbe stato un indirizzo e riferimento per tutti i rappresentanti del Partito, gli attivisti ed i simpatizzanti che sui social hanno condiviso posizioni sbagliate e contradditorie che alla fine fanno il gioco degli avversari.
Populista è chi populista fa e rispondere al populismo con il populismo sullo stesso argomento non funziona. Se proprio si vuole percorrere questa strada comunicativa (tutto da vedere se è nelle corde del proprio target elettorale, a questa è un’altra storia) bisogna usarlo per distrarre l’attenzione da questo argomento per portarla su altri.
Detto in altre parole, il meme della cugina di terzo grado di Renzi funziona solo per chi si rende conto che è un meme e comunque continua a rimestare l’argomento togliendo attenzione a quello del miglioramento dei dati sui musei.
Ricordo Prodi che, sbeffeggiato come “Mortadella”, arrivava ai dibattiti con il suo plico di carte e l’aria da professore (in teoria quanto di peggio si poteva immaginare per la raccolta del consenso) e le elezioni le vinceva, anche con tutte le televisioni contro.

Gli shopping bots stanno rivoluzionando i processi e l’esperienza d’acquisto e dimostrano l’utilità del concetto di Marketing Totale e delle sue implicazioni.

chat-bot

Avvertenza: ho seri problemi con la “m” della tastiera, mi scuso in anticipo per i refusi.

Interessante articolo sull’effetto degli shopping bot nei comportamenti d’acquisto su Marketing News che stimola altrettanto interessanti riflessioni sulla gestione del marketing (no, non sono d’accordo su tutto quello che si dice nell’articolo).

Innanzitutto, cos’è uno shopping bot: detto semplice è un software programmato per fare acquisti on line cercando il miglior prezzo per un determinato prodotto, categoria di prodotto o marca (la distinzione tra i tre è importante, ma per il momento la tralasciamo).

Detto in altre parole è la realizzazione dell’homo oeconomicus teorizzato dagli economistici classici (Adam Smith sta facendo le capriole nella tomba) che si comporta in modo totalmente razionale, esclusivamente nel proprio interesse.

Gli shopping bots cambiano quindi radicalmente i comportamenti e l’esperienza di acquisto nell’e-commerce, che è già una parte importante del commercio al dettaglio ed è chiaramente destinato a diventarlo ancora di più in futuro.

Uno shopping bot lavora per trovare la migliore offerta:

-          24 ore su 24,

-          7 giorni su 7,

-          non ha sostanzialmente limiti nel numero di siti che può visitare,

-          non è influenzato da abitudini,

-          non ha alcun vantaggio dal fatto che la “sua” carta di credito ed i “suoi” dati siano già registrati (quindi limitarsi a ricercare le offerte solamente nei soliti siti non rappresenta per un bot alcun vantaggio in termini di “costi” di gestione della ricerca e della transazione),

-          non ha alcun vantaggio ad essere iscritto a newsletter che gli ricordino/segnalino le offerte,

-          non ha bisogno di siti aggregatori o intermediari (tipo Expedia o Edreams per capirci),

-          non subisce gli algoritmi utilizzati dai siti di e-commerce per gestire i prezzi in modo dinamico, alzandoli o abbassandoli in base all’ora al giorno, ecc…,

-          non gli interessa la combinazione tra comodità, ampiezza ed assortimento proposta da un sito di e-commerce. La comodità non è un fattore, l’ampiezza dell’assortimento se la crea da solo con la ricerca e quindi sceglie sempre in base al miglior prezzo.

L’articolo di marketing news sostiene anche che gli shopping bots rendono irrilevanti la marca e la pubblicità.

Io qui non sono d’accordo riguardo alla marca e lo sono in parte riguardo alla pubblicità, se la vedo nel concetto di PERCEZIONE secondo la mia visione di marketing totale.

Non sono d’accordo sul fatto che gli shopping bots rendano irrilevante la marca, perché il bot fa quello per cui è stato programmato (ovvio).

Quindi se devo acquistare un articolo con delle specifiche tecniche definite, ad esempio una risma di fogli A4 di una determinata grammatura, sicuramente la marca sarà irrilevante. Probabilmente lo sarà anche nel caso in cui voglia comprare una stampante a colori multifunzione, oppure un volo aereo da a.

Credo però che la marca riacquisti un certo valore nel caso in cui voglia acquistare un maglione, un barattolo di caffè, un libro. Ossia nel caso i prodotti siano meno standardizzati: a seconda della marca un maglione avrà un taglio diverso, il caffè un sapore diverso ed il romanzo che voglio leggere è esattamente quello e non un altro.

Se la marca mantiene una sua rilevanza, la mantiene evidentemente la percezione che della marca hanno i consumatori che danno al bot le istruzioni per gli acquisti. Quanto e come pesi oggi la pubblicità nella percezione di una marca da parte delle persone (e quanto peserà in futuro) è tutta un’altra questione che non si può affrontare qui (su cui trovate però vari post passati all’interno del blog e su cui scriverò di nuovo a breve)

Secondo me però può essere interessante considerare quale può essere l’effetto della percezione delle marche per gli shopping bot dotati di intelligenza artificiale.

Non mi sembra particolarmente difficile inserire nella programmazione del bot anche l’elemento delle valutazioni che di un determinato prodotto hanno fatto gli utenti che l’hanno già acquistato. Ed anche inserire nella valutazione anche eventuali recensioni, articoli, post, ecc. mi sembra più un problema tecnico che concettuale.

In sintesi, immagino che si potrà operare per modificare la percezione delle marche non solo da parte delle persone che il bot lo usano (gli danno le istruzioni), ma anche del bot stesso.

Quello che è certo è che con gli shopping bots sarà praticamente impossibile applicare prezzi diversi per lo stesso prodotto della stessa marca e che aumenterà ancora di più la concorrenza di prezzo da parte di prodotti/marche simili/sostitutive.

L’altro importante ribaltamento di paradigma nella gestione del marketing che gli shopping bots confermano ed accelerano è quello per cui nella società digitale non sono più le marche a cercare i consumatori, ma sono i consumatori che le trovano.

Cambio di paradigma che rafforza l’importanza dell’autenticità, precondizione per essere riconoscibili, e quindi farsi trovare, ed unica garanzia di saper mantenere le promesse fatte alle persone, come pilastro su cui deve poggiare la gestione delle marche.

Tutte cose, utili, che trovate nella visione del Marketing Totale che ho teorizzato qualche anno fa. Non metto i link, a trovate facilmente i post dalla casella di ricerca del blog.

Siate onesti con voi stessi per esserlo con gli altri.

La fine del dettaglio, come lo conosciamo.

“It’s the End of the World as We Know it (and I Feel Fine)” cantavano i R.E.M. nel 1987 (la cover di Ligabue è del 1994).
Trentanni dopo “Marketign News” pubblica un articolo intitolato “The End of Retail (as we knew it)” e dal contenuto doesn’t seem they feel very fine.

Siccome quello che succede oltreoceano in larghissima misura poi si verifica da noi con un po’ di ritardo (mesi o anni, a seconda) credo sia interessante ragionare sui concetti principali dell’articolo.

Innanzitutto lo scenario: nei primi tre mesi del 2017 alcune tra le principali 5 catene americane di grandi magazzini, quindi non stiamo parlando della distribuzione alimentare, hanno perso vendite per 4,6 miliardi di dollari.
Stiamo parlando di Macy’s, Kohl’s, Dillard’s, J.C. Penney e Nordstrom. Le vendite di quest’ultima sono state le più basse dal 1972.
Sears, forse la più famosa catena di grandi magazzini americana, ha chiuso centinaia di punti vendita e nove aziende hanno dichiarato bancarotta, eguagliando in 3 mesi il totale di tutto il 2016.

Colpa di Amazon? Sicuramente sì, ma solo in parte.
Una ricerca rileva che:
- il 30% dei consumatori preferisce vedere dal vivo, toccare con mano (le cose) e provare le cose (l’abbigliamento) prima di comprare.
- al 49% piace portarsi a casa immediatamente quello che hanno comprato.
- Il 18% dice che gli piace ancora andare in negozio per la specifica esperienza d’acquisto.
- “Solo” il 7% dichiara di acquistare esclusivamente on-line.
Il fatto che con lo smartphone le persone abbiano il mondo in tasca ha certamente cambiato la società e quindi anche i comportamenti d’acquisto, non necessariamente cancellando i negozi fisici, ma sicuramente cambiando quello che le persone si aspettano quando ci entrano.
Un’altra ricerca rileva che i commessi non riescono a dare una risposta soddisfacente ai clienti nel 50% dei casi. Se la percentuale vi sembra incredibile significa che non siete mai andati a comprare nei negozi dei grandi mall americani. La prima volta che mi è successo, era il 1990 e cercavo con un amico un cronografo Hamilton, sono rimasto stupito e demoralizzato di come i commessi delle orologerie conoscessero a malapena quello che avevano in negozio in quel momento e non avessero idea del resto.

La mia impressione è che oggi questa de-specializzazione del personale si sia diffusa anche da noi.
Magari una volta il problema era minore perché anche il consumatore ne sapeva poco, ma oggi non è più così.
Un’altra ricerca ancora stima che il valore delle vendite off-line “generate” da dispositivi mobili nel 2016 siano state pari a 1.700 MILIARDI di dollari. Ossia poco più della metà di tutte le vendite al dettaglio negli USA.
Significa che le persone cercano quello che vogliono acquistare sui dispositivi mobili e poi vanno in negozio a comprarlo. Significa quindi che arrivano in negozio molto ben informati.
Non si fa menzione del trend inverso, apparso qualche anno fa, di andare a vedere il prodotto fisicamente in negozio e poi acquistarlo a prezzo inferiore on-line. Che sia dovuto a politiche di prezzo più accurate? Oppure all’abitudine oramai acquista negli acquisti on-line che ha reso superflua la necessità di toccare con mano il prodotto prima di comprarlo?
In contemporanea si prevede che gli acquisti realizzati da smartphone cresceranno ad un tasso di oltre il 20% all’anno da qui al 2021, raggiungendo un totale di 152 miliardi di dollari, pari al 24% di tutti gli acquisti on-line.

In questo scenario le catene di grandi agazzini americane hanno risposto cercando di rifugiarsi nei vecchi modelli, perseguendo maggior efficienza attraverso la riduzione dei costi, ma lo scenario riportato sopra dimostra una volta di più che l’efficienza senza l’efficacia non serve a niente.
La prima cosa da fare quindi è recuperare il gap digitale. Se la metà delle vendite off-line comincia dai dispositivi mobili, l’esperienza digitale (app, sito, ecc…) offerta alle persone da un negozio fisico deve essere almeno pari a quella offerta da un negozio on-line.
Come non mi stancherò mai di ripetere on-line ed off-line non sono due cose separate, ma fanno parte integrante ed integrale dello stesso mondo: il nostro.

E quindi, sempre nell’ottica del Marketing Totale, la P di Presenza che sostituisce quella di Place va vista sia coe presenza fisica che digitale.
Attenzione che la parità digitale per i negozi fisici non è un vantaggio competitivo, ma è un must competitivo. La condizione minima per la sopravvivenza su cui costruire il successo attraverso il coinvolgimento del cliente.
Quando e come agganciare i (potenziali) clienti, specialmente i nativi digitali?
Qui è utile il concetto di micro-momenti sviluppato da Google. Un micro-momento sono quei pochi secondi in cui le persone scelgono nel momento in cui decidono di guardare il proprio smartphone per fare, comprare o imparare qualcosa.
Dalle analisi di Google il 90% delle persone non aveva alcuna specifica marca in mente nei loro micro-momenti ed il 73% ha fatto la propria decisione d’acquisto in base a quale azienda fosse la più utile/accessibile durante i loro micro-momenti di ricerca di acquisto.
Gli affezionati lettori di questo blog forse ricorderanno che una delle implicazioni del mio concetto di marketing totale, nato dalle riflessioni sulle caratteristiche della società digitale, è che non sono più le aziende/marche a cercare i consumatori, bensì i consumatori a trovare le aziende/marche. E’ quindi necessario essere facili da trovare nel momento giusto. Da qui l’importanza di un’identità, chiara forte ed autentica.

A questo punto è il caso di fare qualche esempio.
Bonobos’ Guideshop, catena di negozi di abbigliamento recentemente acquistata da Walmart per 310 ilioni di dollari.
I negozi sono organizzati con un concetto di showroom, ossia nel negozio non ci sono gli stessi capi nelle diverse varianti di taglie e colori ripetuti, ma c’è un solo “campione” per tipo e taglia.
I clienti prendono appuntamento con il negozio tramite il web, così quando arrivano sono subito accolti da un commesso che li seguirà nell’acquisto, provano i vestiti per scegliere taglio e tessuto. Per quanto riguarda i colori che non sono presenti in negozio, il commesso fa delle foto ai clienti con il capo scelto e poi gli mostra le diverse varianti di colore applicando dei filtri all’immagine.
Il profilo del cliente viene registrato per aiutarlo a trovare la stessa taglia e lo stesso taglio alla prossima occasione.
Il cliente fa l’acquisto nel punto vendita e dopo due giorni riceve il capo a casa (evidente il risparmio di spazio nel negozio, quindi di costo di affitto del punto vendita).

Nordstrom si sta rilanciando inserendo zone pop-up nei negozi in modo da creare negozi temporanei all’interno dei negozi e così rinnovare continuamente l’assortimento, in modo rendere più divertente/interessante l’esperienza d’acquisto perché c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire.
Strategia in essenza non molto diversa da quella di Zara, che con il suo rinnovo rapido e continuo dell’assortimento ha superato il concetto di “collezione”.

Best Buy, catena di elettronica, sta aumentando le proprie vendite puntando sul divertimento nel processo d’acquisto permettendo ai clienti di provare gli articoli, quindi sostanzialmente di giocare, prima di acquistarli, ultimi arrivi compresi. Anche qui il modello si avvicina ad una showroom.
Per evitare di diventare una webroom e vedere i propri potenziali clienti andare a casa a comprare on-line l’articolo che avevano provato in negozio, Best Buy offre come garanzia di miglior prezzo, oppure rimborsa, rispetto a tutti i negozi fisici ed alcuni siti di e-commerce, Amazon compreso.
Il cliente quindi può giocare nel punto vendita, se gli piace lo compra al miglior prezzo del mercato e se lo porta a casa subito, senza dover aspettare che gli arrivi per corriere.

In sintesi bisogna sperimentare perché i vecchi modelli non reggono più ricordando che:
- C’è una quota di consumatori mobile only, una maggioranza mobile first, ed una quota (piccola e calante?) di mobile never.
- L’esperienza di consumo COMPLESSIVA è UNA SOLA ed è il risultato della somma (meglio se diventa una moltiplicazione) delle esperienze digitali e di quelle fisiche.
No, il commercio non è un paese per vecchi.

O2O trend (tendenza online-to-offline).

Biscomarketing vede e prevede.

Il 15 settembre 2014 scrivevo che nel 2024 (data presa come riferimento del futuro per una serie di interviste fatte da Marketing News a vari guru del marketing) “non sarà il cliente ad andare nel negozio, ma il negozio ad andare dal cliente”.

Una previsione che risultava sostanzialente dal ragionamento speculativo sulle conseguenze del cambiamento di visione della distribuzione come Place alla distribuzione come Presenza che avevo elaborato il 19 maggio del 2013 e che mi avevo organizzato ed articolato un anno dopo nel concetto di Marketing Totale, insieme al cambiamento della “P” di Promotion in Percezione (i link ai vari post non li metto, li potete facilmente trovare con la funzione di ricerca nel blog)

Questa nuova pre – visione della funzione distributiva aveva già trovato una conferma nel progetto Amazon Go di punto vendita senza casse, di cui avevo parlato tempo fa.

Adesso leggo Meininger’s Wine Business International di dicembre 2016 che:

- in Cina nel 2015 è cominciata la tendenza O2O, o Online to Offline revolution (essere stato più avanti dei cinesi un po’ mi fa piacere, un po’ mi fa paura).

- I due principali siti cinesi di vendita di vino on line, Yesmywine e 1919, hanno in programma per il 2017 di aprire dei negozi fisici per poter raggiungere ed essere raggiunti più facilmente dal consumatore (tenete presente che oggi Yesmywine è in grado di garantire la consegna nello stesso giorno degli ordini on line nelle maggiori città cinesi).

- In particolar modo 1919, che ha già 1.000 negozi fisici sparsi per la Cina, prevede di arrivare a 120 negozi nella sola Shanghai per la fine del 2017. In questo modo contano di raggiungere l’obiettivo di consegnare il prodotto tra i 19 e 30 MINUTI dopo avere ricevuto l’ordine.

Registrato il fatto mi vengono in mente almeno due corollari:

1) Per osservare i futuri trend di marketing conviene guardare alla Cina. Sarà pure capitalismo di stato, ma, nella mia esperienza, è uno dei più competitivi. Da una parte ci sono consumatori con aspettative (di servizio) elevate, dall’altra aziende che di fatto possono operare con la massia libertà da vincoli legali e/o sociali. Moltiplicate tutto con l’immensa dimensione del mercato e capite quanto premiante sia riuscire ad avere un vantaggio competitivo, anche piccolo, rispetto ai concorrenti.

2) L’e-commerce è e sarà sempre di più un lavoro da professionisti. Giustamente. Quindi le aziende che vogliono gestire direttamente il proprio e-commerce saltando gli intermediari commerciali è bene che valutino bene il valore della loro proposta per i loro consumatori obiettivo, che si dotino delle competenze e strumenti adeguati e si preparino ad un ambiente competitivo estremamente darwinistico.

Eurospin sta creando un nuovo modello di grande distribuzione: il supermercato low cost.

Eurospin è una catena della grande distribuzione classificata tradizionalmente come discount.

Nel 2015 aveva oltre 1.000 punti vendita distribuiti in tutta Italia (forse solo Conad ha una copertura del territorio altrettanto capillare), con un fatturato di 4,4 miliardi di euro, in crescita del 6,7% rispetto al 2014.

Secondo un’analisi Mediobanca sulle perfomances delle principali catene italiane della grande distribuzione nel periodo 2010-2014 Eurospin ha mostrato:

-          La più crescita maggiore con un +48,7% contro il +1,5% medio del settore;

-          Il più alto fatturato per addetto nel 2014 con 650 euro, doppio rispetto ad Esselunga che si colloca al secondo posto;

-          La più alta redditività nel 2014 con un ROE (Return on Equity) del 24,2%, Esselunga è al secondo posto con il 13,6%.

Bastano i prezzi bassi insiti nel concetto di discount a spiegare questo successo.

Io direi di no, perché nello stesso periodo Lidl, storica insegna del discount tedesco presente in Italia dal 1992, è andata bene ma non così tanto ed altre insegne di discount a livello locale/regionale sono andate male, tanto che alcune hanno chiuso e/o sono state cedute (vedi catena e marchio DICO ceduti da COOP al Gruppo Tuo nel 2013).

Secondo me forse non è nemmeno dovuto solo all’abilità di Eurospin nel fare bene il proprio lavoro, ossia i discounter, ma anche alla creazione di una formula nuova e diversa.

Il paradigma della formula discount è Aldi, catena tedesca al momento non presente in Italia.

I punti vendita Aldi sono tutti uguali con superficie tra gli 800 e 1.000 m2 (in pratica un supermercato di medie dimensioni), la stessa disposizione dei reparti, l’esposizione dei prodotti direttamente nei cartoni sul pallet con cui sono consegnati.

L’assortimento è di circa 800 referenze limitato non tanto in termini di ampiezza (numero di categorie merceologiche) quanto, soprattutto, in termini di profondità (numero di referenze per ogni categoria merceologica).

Le promozioni sono poche o nulle sui prodotti in assortimento continuativo e si limitano a prodotti in assortimento temporaneo, spesso legati alla stagione (ad esempio razzi e petardi nel periodo di Capodanno).

I prodotti sono tutti a marchio privato dell’insegna, non sono presenti marchi industriali (tipo Coca Cola per capirsi).

Tutti gli aspetti della gestione tendono alla massima efficienza in modo poter massimizzare la parte del prezzo del prodotto che serve per pagare la qualità del prodotto stesso e non i costi di funzionamento del supermercato.

In questa logica rientra probabilmente anche la scelta di non fare pubblicità. L’immagine di Aldi viene diffusa attraverso il passaparola e la riconoscibilità del marchio e dei punti vendita (edifici bassi bianchi con tetto spiovente scuro)

Grazie a questa gestione ed alle capacità negoziali dei buyers (che sfruttano anche i grandi volumi di acquisto) Aldi riesce ad offrire prodotti di buona qualità intrinseca a prezzi più bassi rispetto alle catene di supermercati tradizionali.

Due aneddoti:

-          Ogni volta che i miei colleghi della Repubblica Ceca andavano a trattare per rinnovare i contratti annuali il buyer di Aldi controllava l’auto aziendale con la quale erano arrivati: modello cilindrata e se era nuova rispetto a quella dell’anno prima.

-          I miei parenti che vivono in Germania fanno la spesa da Aldi secondo il principio che “hanno il pane più buono di tutti gli altri supermercati ed è anche quello che costa meno. Perché andare da un’altra parte”.

Considerazione in linea con quello che dicono i due fratelli Albrecht, proprietari di Aldi, rispetto alle loro due tipologie di clientela: quelli che devono fare bene i conti e quelli che sanno fare bene i conti.

Il concetto di Lidl è simile, ma leggermente un po’ più ibrido verso il soft discount: ambiente meno spartano nei punti vendita, presenza di qualche prodotto di marca (Coca Cola ad esempio), promozioni settimanali e maggior importanza del non food nell’assortimento.

Soprattutto Lidl fa, almeno in Italia, campagne pubblicitarie per far conoscere e posizionare il marchio. Campagne però sempre basate sulle promozioni in atto.

Eurospin invece secondo fa qualcosa di diverso unendo alla gestione operativa classica dell’hard discount una comunicazione di posizionamento della marca/insegna slegata dalla singola promozione, più propria della GDO classica.

Quest’anno ad esempio Eurospin ha sponsorizzato la maglia bianca al Giro d’Italia e le frequenti campagne radio sono centrate sulla comunicazione del generale concetto di “spesa intelligente”, non nel comunicare gli specifici punti prezzo dei prodotti in promozione.

In sintesi mi sembra che Eurospin stia sviluppando un nuovo modello che trascende dalle classificazioni dei formati distributivi partendo da una precisa identità della proposta ed utilizzando coerentemente tutti gli strumenti, pubblicità compresa, per costruire, diffondere e rafforzare il proprio posizionamento.

In altre parole sta parlando ai consumatori come persone per portarle nei propri punti vendita e una volta che sono dentro, tratta le persone come consumatori in termini di varietà e qualità dei prodotti e dei prezzi di vendita.

Semplice, niente di più e niente di meno che la realizzazione della propria mission:

Offrire al consumatore un assortimento limitato di prodotti alimentari e non alimentari di elevata qualità, di sicura freschezza a prezzi davvero convenienti tutti i giorni dell’anno. Vogliamo soddisfare i nostri clienti con cortesia e disponibilità, diffondendo fiducia nell’insegna e nei nostri marchi.

Marketing is global, business is local; ovvero location-based marketing is here to stay.

La prima frase del titolo l’ho sentita dire da nonmi ricordo più chi ad un convegno al Cibus del 1992. Alcune ere geologiche digitali fa. E per un bel pezzo “glocal” è stato uno dei termini di modi nella comunicazione e gestione aziendale.

L’effettivo avvento della società digitale sta riportando il marketing ai suoi aspetti fondamentali, dando la possibilità di realizzare con un’immediatezza raramente vista prima gli enunciati di principio.

Se la creazione e gestione dei contenuti, fatta in gran parte sui media digitali, è alla base dell’immagine (reputazione) della marca, il location-based marketing è quello che permette di utilizzare gli stessi media per monetizzarla.

Cos’è il location-based marketing?

Da definizione di wikipedia si tratta di una nuova forma di comunicazione (pubblicità in originale, N.d.A.) che integra la comunicazione su dispositivi portatili con servizi/prodotti su base locale. La tecnologia è utilizzata per identificare dove si trova il (potenziale N.d.A.) consumatore e fornirgli comunicazioni legate specificatammente al luogo in cui si trova sui sui dispositivi portatili (smartphone per farla breve N.d.A.).

Secondo Bruner e Kummar (2007) ” location-based marketing si riferisce ad informazioni controllate dall’azienda e disegnate specificatamente per il luogo in cui gli utenti accedono ad un mezzo di comunicazione.”

Questa la definizione, che come vedete risale a quasi 10 anni fa, ma quali sono le tendenze?

Un articolo di Mireya Prado nel numero primaverile di Marketing Insights, rivista dell’American Marketing Association, indica queste come le principali.

1. La facilità d’uso su smartphone (e tablet) è cruciale.

La diffusione della navigazione da smartphone ha portato i motori di ricerca ad adottare nuove tecnologie per migliorare l’esperienza di utilizzo. Google ad esempio ha spinto sulle Accellerated Mobile Pages (in sintesi una tecnologia che permette di caricare più velocemente le pagine su smartphone ed ha effettuato vari aggiornamenti dell’algoritmo per migliorare la ricerca locale da dispositivi mobili.

Anche per il 2016 è prevedibile che gli aggiornamenti continuino ed una delle direzione in cui si svilupperanno è quella di utilizzare gli “structured data” come elemento di dterminaazione del ranking nelle ricerche (se sapessi cosa significa, lo spiegherei. al momento l’ho solo intuito leggendo la spiegazione che ne fa google search)

La sintesi di tutto questo è che nel 2016, per avere successo nelle ricerche su base locale bisognerà disegnare i nostri media digitali con un approccio “mobile first” in modo da fornire agli utenti la miglior esperienza di navigazione possibile per semplicità e completezza.

 

2. Capire che le persone (consumatori) usano i social come vogliono loro, non come l’azienda vorrebbe che li usassero.

Sulla diffusione dei social creo ci sia poco da dire, perchè la viviamo tutti in prima persona. Come in prima persona viviamo la diffusione del loro utilizzo da cellullare (i direi quasi che il secondo ha favorito il primo).

Questo ha creato la proliferazione di messaggi/contenuti in tempo reale a livello globale.

La conseguenza per i messaggi di contenuti locali è la necessità di comunicare direttamente con il consumatore e quindi di creare un coinvolgimento (dimenticatevi likes e follower: sono solo scalpi, al limite, decorativi).

Oggi i consumatori si aspettano una risposta diretta da una marca in meno di un’ora (io qualche anno fa avevo fissato come obiettivo del mio dipartimento di rispondere entro un giorno. Ognuno pensi ai tempi di risposta che riceve dalle marche, quando le riceve).

Perchè allora fare la fatica di accontentare questi tempi di risposta? Perchè una connessione rilevante con la marca aumenta di 7 volte la probabilità che un consumatore risponda positivamente ad una promozione.

 

3. Beacons e mobile wallet non sono una moda.

L’adozione di beacons e mobile wallet è ancora marginale perchè queste tecnologie non hanno ancora portato chiari vantaggi per le persone (consumatori). Nel momento in cui le marche saranno in grado di offrire esperienze (di acquisto) in grado di rispondere alla domanda del consumatore “A me cosa me ne viene?”, l’adozione sarà rapida.

La marca Sephora nel 2015 ha fatto dei test integrando beacons e mobile wallet nella ricerca dei punti vendita ed all’interno del punto vendita. In questo modo è possibile ottenre informazini riguardo a cosa e/o come porta i consumatori ad effettuare un acquisto e sviluppare le proprie strategie di conseguenza.

 

4. La cura della privacy non è un’opzione.

Il location-based marketing ha per sua natura un rischio intrinseco di diventare spam agli occhi del consumatore.

Quello che evita questo rischio è la rilevanza dei messaggi che la marca invia relativamente al contesto in cui si trovano le persone.

Secondo uno studio realizzato da Accenture negli USA, il 49% dei consumatori non hanno problemi a condividere i propri dati con una marca, se questa fornisce informazioni per loro rilevanti. Viceversa preparatevi ad essere nella lista dei loro adblockers.

Alla rilevanza nei confronti dei consumatori, vanno aggiunte trasperenza e chiarezza su come, quando e perchè la marca utilizzerà i loro dati.

 

5. La crescente importanza del location-based marketing richiede una sua gestione da parte delle aziende.

Si prevede la creazioen di una nuova figura all’interno dlele aziende: il Chief Location Officer, responsabile di gestire la comunicazione tra le varie funzioni aziendali per creare una miglior relazione con il cliente / consumatorea livello di esperienza locale.

 

Concludo con tre considerazioni mie:

a) molti dei concetti del location-based marketing mi sembrano collegati a quelli del (mio) marketing totale. La gestione però appare estremamente complessa.

b) leggendo l’articolo su Marketing Insights e scrivendo questo post mi sono sentito molto vecchio e affaticato.

c) i miei post hanno fama di essere complessi e non di facile comprensione. molte delle cose che ho scritto in questo post non sono chiare nemmmeno a me (vedi punto precedente). Se qualcuno me le volesse spiegare è il benevenuto.

 

“Chiedi all’esperto”: Arexons inventa l’acquisto selfsevice …. assistito

Una decina di giorni fa ero nel mio supermercato di fiducia (non è uno slogan, c’è davvero) e cercavo una cosa da comprare. Non mi ricordo cosa fosse, forse l’additivo anticalcare per il ferro da stiro, comunque un prodotto che non acquisto di frequente.

Anche così, considerate che stiamo parlando di un supermercato piccolo con 6 casse (e non ne funzionano mai più di 4), dove faccio la spesa tutte le settimane. Eppure non riuscivo a trovarlo. Giravo tra le poche corsie cercando di immaginare i ragionamenti di category management (parola grossa) che potevano aver fatto nel disporre i prodotti, ma niente.

Allora mi sono ricordato della distribuzione pre-supermercati di quando ero piccolo, diciamo un po’ più di 40 anni fa: sarei entrato in un negozio specifico (ai tempi nessuno si sarebbe sognato di chiamarlo “specializzato”) ed avrei chiesto a chi stava dietro il banco (c’era sempre un banco) di darmi “il” prodotto per la quello che mi serviva. Raramente avrei chiesto una marca, normalmente avrei espresso un’esigenza.

Quella che oggi si chiama “vendita assistita” era la norma e, perso tra 4 corsie di un supermercato (grazie Clash!), mi sono reso conto di quanto l’esperienza di acquisto fosse più semplice.

Più limitata in termini di scelta? Sicuramente. Più costosa? Certo. Più dispersiva in termini di tempo? Forse si forse no. Ma sicuramente più facile per il consumatore (oltre che probabilmente più ecologica, se non altro per la riduzione del packaging).

Poi dopo un paio di giorni ho sentito per radio la nuova campagna Arexons “Chiedi all’esperto”. In sostanza la Arexons ha messo a disposizione dei consumatori un numero verde ed una chat sul sito, attraverso cui le persone potranno chiedere consiglio su quale prodotto Arexons comprare a seconda del problema che devono risolvere.

In pratica l’Arexons punta a fare una vendita assistita attraverso i canali distributivi self service.

L’idea mi sembra bella ed interessante e mi ha stimolato una serie di riflessioni che riporto sostanzialmente a ruota libera.

I prodotti Arexons sono tipicamente prodotti a bassa frequenza di acquisto e quindi prodotti con cui mediamente i potenziali consumatori hanno una bassa familiarità.

D’altra parte l’assortimento è piuttosto vasto, proprio perchè copre tutti gli aspetti della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc….

D’altra parte questa iniziativa di Arexons, soprattutto se avrà successo, evidenzia un grande limite dell’attuale struttura distributiva. 10 anni sarebbe stato impensabile che un consumatore di fronte allo scaffale chiamasse la Arexons per farsi consigliare su che prodotto acquistare, non tanto per limiti tecnologici, ma perchè avrebbe chiesto al personale del negozio.

La campagna “Chiedi all’esperto” sottolinea come oggi riuscire a trovare un addetto con cui parlare nei negozi della grande distribuzione, anche specializzata, sia difficile e come, quando finalmente lo si trova, spesso non sia particolarmente esperto sulle caratteristiche dei prodotti che ci sono in negozio.

Da un certo punto di vista la campagna “Chiedi all’esperto” segnala alle azienda della distribuzione la possibilità di acquisire un grande vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, rispondendo alla richiesta di servizio che i loro clienti, oggi abbandonati, non trovano.

A meno che altre marce non seguano l’esempio Arexons e scavalchino la distribuzione nel servizio al consumatore. Mi chiedo come mai Arexons non abbia messo la chat in un app (magari tecnicamente non si può, scusate l’ignoranza).

Questa visione apre la strada verso il negozio a marchio, strada già consolidata nell’abbigliamento. Nel momento in cui io Arexons mi sono consolidato come “l’esperto” della pulizia, lavaggio e manutenzione di auto, moto, nautica, ecc…., cosa mi impedisce di valorizzare al massimo questo posizionamento del marchio utilizzandolo per aprire dei punti vendita, oltre che per i prodotti?

Secondo me per fare questo passo il limite è più mentale che non di competenze. Mentre la distribuzione è diventata anche produttore decenni fa con i prodotti a marchio proprio, i produttori faticano a fare il salto concettuale per diventare anche distributori.

Soprattutto nei mercati, come probabilmente quello di Arexons, dove non funzionerebbe un negozio monomarca, ma un negozio con un assoertimento adeguato potrebbe comunque sfruttare la forza del marchio Arexons.

Nella mia esperienza professionale ho provato almeno un paio di volte a portare l’azienda a fare esperienze nella distribuzione con modelli non monomarca, per la necessità di offrire un assortimento completo e rilevante al consumatore. I miei colleghi / superiori mi hanno sempre guardato perplessi e mi hanno chiesto se avevo considerato che in questo modo avremmo rischiato di sviluppare le vendite dei concorrenti.

Io ho sempre risposto che comunque la gestione del punto vendita e dell’assortimento rimaneva sotto il nostro controllo e che la distribuzione sarebbe stata una grandissima e preziosissima fonte di informazioni sul comportamento del consumatore.

Soprattutto aggiungevo che non vedevo nessun rischio, anzi se i prodotti di aziende concorrenti si sarebbero venduti meglio significava che il consumatore trovava la loro proposta migliore. Quindi comunque avrebbe finito per “batterci” sul mercato, però se noi ne eravamo i distributori avremmo imparato direttamente dalle loro strategie ed avremmo guadagnato sulle loro vendite. In sintesi più i miei concorrenti vendevano e più io avrei guadagnato: meglio di così, impossibile.

E’ a questo punto che lo sguardo da perplesso diventava allibito.

Sarà per questo che oggi io tifo Arexons.