Sull’Internazionale di due settimane fa la copertina era dedicata ad un interessantissimo articolo dal titolo “L’altra metà di internet” (uscito in originale sull’Economist) che chiunque si occupi di marketing dovrebbe leggere.
Per chi non ha potuto leggere l’articolo, ma anche per chi l’ha letto, provo qui a farne una sintesi organica, inframmezzando qualche spunto strategico.
Cominciamo con qualche numero, altrimenti non sarei io.
- Nel 2018 gli utenti di internet hanno superato la metà della popolazione mondiale.
- Nei paesi ad alto reddito gli utenti di internet sono circa l’80% della popolazione, in Cina il 58%, in India il 30% e nei paesi meno sviluppati meno del 25%.
Quindi la gran parte dei nuovi utenti di internet arriverà dai paesi meno sviluppati / più poveri, quindi persone che non parlano né l’inglese né il mandarino, anzi che in buona misura sono analfabeti e che accederanno dallo principalmente dallo smartphone.
In un post del 2011 (brividi) scrivevo che per capire il futuro del marketing era opportuno guardare cosa succedeva in Brasile, Cina, India e Russia. Adesso aggiungeteci anche l’Africa, soprattutto subshariana.
La cosa più interessante dell’articolo è l’analisi di cosa fanno le persone di questi paesi più poveri, o anche le persone più povere di questi paesi, una volta che hanno accesso ad internet.
Chattano e guardano video esattamente come le persone più ricche dei paesi più ricchi. Detto in maniera più sofisticata lo usano per stare in contatto, divertirsi ed esprimersi.
Detto in maniera meno sofisticata, cazzeggiano. Detto in maniera più neutra “passano il tempo”.
Che fossero in buona o cattiva fede, le aziende ed istituzioni occidentali parlavano soprattutto della diffusione di internet tra i poveri come strumento di sviluppo e crescita economica. Formazione a distanza, informazioni sulla salute, sulle attività professionali, ecc…
Invece i più poveri vogliono innanzitutto divertirsi, come i più ricchi. Uguale uguale.
E qui mi viene in mente un’intervista a Desmond Morris letta tanti anni fa dove diceva che le tribù di cacciatori-raccoglitori alla fine della giornata (ma probabilmente anche durante) quello che fanno è trovarsi intorno al fuoco a raccontarsi storie e spettegolare. Bisognerà che prima o poi mi decida a leggere “La scimmia nuda” ed ad inserire elementi di antropologia nelle mie lezioni di marketing.
I tre paesi con la maggior penetrazione di internet nella popolazione sono U.S.A., India e Brasile.
Come per noi nei paesi sviluppati uno smartphone collegato ad internet è un’opportunità di trasformare momenti vuoti in momenti piacevoli. Internet è l’economia del tempo libero dei più poveri del pianeta.
Ma che tipo di economia, se sono poveri? Una trentina di anni l’Africa veniva utilizzata come esempio paradigmatico per spiegare l’effettivo potenziale di mercato di un’area geografica: in Africa c’è la popolazione, ma non hanno i soldi, quindi il mercato reale è piccolo ed è quello determinato dal potere d’acquisto.
Qui è tornato in mente il mio amico messicano che frequentava con me il Corso di Specializzazione in Marketing dei Prodotti Alimentari allo IAMZ di Saragozza (Spagna, non Sicilia). Dopo le lezioni sulla distribuzione tenute da docenti e manager anglosassoni ha detto una cosa tipo: “In Messico la distribuzione funziona così: ogni incrocio ci sono 4 bancarelle, una per ogni angolo, che vendono qualcosa (tacos, verdure, ferramenta, musicassette, ecc…). Niente di quello che ci hanno spiegato ha nulla a che vedere con questo sistema. Però siamo milioni”.
Nei paesi ricchi il modello di business di internet che si è affermato prevede di vendere l’attenzione degli utenti agli inserzionisti. Detto in altri termini si tratta di vendere pubblico alle aziende. Che poi è il modello di business basato sulla pubblicità che ha portato al fallimento i giornali.
L’interesse economico per i miliardi di utenti più poveri risiede nel fargli pagare per fargli accedere ad internet e per quello che fanno sulle app/piattaforme. Che poi è un modello più sano perché si focalizza sulla vendita diretta dei propri prodotti/servizi e non su quella indiretta del proprio pubblico.
Piccole somme su ampia scala.
Per dare un’idea della scala considerate che nel 2016 i canali indiani su YouTube con oltre 1 milione di iscritti erano 20. Oggi ce ne sono oltre 600 e tra i cinquanta con più iscritti ce quello in lingua bhojpuri, una lingua parlata solo in alcuni degli stati più poveri dell’India.
I video sono la modalità preferita dagli utenti più poveri di internet. In india si stima che l’impostazione di YouTube come homepage superi quella di Google.
I video sono una forma di comunicazione più facile ed efficace, per tutto non solo per l’intrattenimento. Soprattutto considerando che i prossimi utenti di internet parleranno una molteplicità di lingue, ma magari non saprà né leggerle né scriverle. I video sono più facili da comprendere e da condividere.
Inoltre parlare è comunque più comodo di scrivere per la maggior parte delle persone, come dimostra la diffusione dell’uso dei messaggi vocali su WhatsApp e delle storie su Instagram..
Attenzione che più poveri ed analfabeti non significa più stupidi e sprovveduti.
In Angola Facebook e Wikipedia, offrono servizi a “costo zero” che danno un accesso limitato ma buono ad internet. Accesso che le persone poi usano per scaricare film illegalmente.
Molto più diffuso è l’utilizzo legale dei wi-fi pubblici per scaricarsi contenuti da guardare successivamente off-line.
Siccome poi le esperienze dei consumatori (persone) sono diffuse, le modalità di utilizzo degli strumenti si moltiplicano, al di là di come erano state pensate dalle aziende che li avevano creati (vedi il mio concetto di Marketing Totale).
In India circa 1/3 degli utenti ha problemi di insufficiente spazio di archiviazione su propri smartphone, anche perché si tratta smartphone di fascia bassa. Si è diffuso quindi l’uso dei schede di memoria esterna (sistema Android) per archiviare i propri dati.
Da qui si è passati all’acquisto di schede di memoria con caricati contenuti di intrattenimento (film e musica) da guardare ed ascoltare con un’applicazione che si chiama MX Player. Questa applicazione è installata ogni giorno su oltre 1 milione di telefoni Android, ma nel 65% dei casi non viene scaricata da Google Play Store, bensì direttamente dalle schede di memoria che contengono anche i contenuti di intrattenimento. La app poi ha creato anche al suo interno un servizio di film e musica in streaming.
Ricordiamoci poi che stiamo parlando di culture molto diverse da quelle occidentali, culture in cui avere uno smartphone significa indipendenza e privacy. In famiglie dove c’è un solo televisore, quando c’è, o una sola radio, lo smartphone collegato ad internet significa poter guardare e ascoltare quello che si vuole.
In contesti rurali o di piccoli paesi e città dove la presenza ed il controllo “sociale” di famiglie (non solo fratelli e sorelle, manche zii, cugini, ecc…), vicini e conoscenti è ampio, lo smartphone collegato ad internet crea un ambito di privacy in cui interagire per parlare o fare quello che si vuole (PornHub indica che in India il 90% del suo traffico viene da cellulari, contro il 75% degli USA, che non è un dato poi così distante).
Vantaggi che rendono la questione della cessione dei propri dati alle aziende che forniscono i servizi del web un problema minore. Come disse Indira Gandhi alla conferenza internazionale che decise la proibizione del DDT, rivolgendosi ai rappresentanti dei paesi sviluppati: “Voi volete la bistecca senza il DDT, noi ci accontenteremo della bistecca”.
Culture diverse che hanno valori diversi, ad esempio rispetto ai canoni estetici minimalisti affermatisi in occidente, anche grazie alle scelte di Apple.
Oppure rispetto alle forme di espressione. In India prima degli smartphone e dei social molte persone avevano una suoneria per cui chi chiamava un cellulare sentiva una canzone scelta dall’utente e non il solito segnale acustico. I pagamenti per questo servizio avevano fruttato agli operatori indiani 82 miliardi di rupie tra il 2009 ed il 2012 (considerate che oggi il reddito medio pro-capite indiano è di 427.000 rupie all’anno, e la media non è una statistica molto veritiera della distribuzione del reddito in India).
Oggi l’azienda Times Internet sta studiando di far pagare 1 rupia per aggiungere una canzone ad un messaggio personale oppure per personalizzare l’aspetto di una app sul proprio telefono.
E il lavoro? Arriva, dopo ma arriva. L’esempio è quello di un taxista analfabeta di Mumbai che lavorare con Uber usa un’applicazione che trascrive il parlato e poi copia questo testo e lo invia come messaggio scritto agli utenti in attesa, sperando che sia sensato, come spesso succede.
Sicuro però che passa più tempo a guardare video ed ascoltare musica per ingannare il tempo tra una corsa e l’altra.
E quello descritto qui sopra è solo quello che si osserva con un approccio basato principalmente sulla fruizione di contenuti. Ma siamo nell’epoca dei Contenuti Generati dagli Utenti.
Una ricerca di Snapchat dice che attualmente sulla sua piattaforma ci sono 400.000 Lenses, quei “trucchi” non saprei come altro definirli, che vi cambiano la faccia, fanno zampillare stelle dalle mani, ecc … create dagli utenti.
Immaginate cosa succederà man mano che l’altra metà della popolazione mondiale entrerà in internet.
Ma questa è un’altra storia, che racconterò alla prossima occasione.