Pubblicità, Facebook vs. L’Internazionale: per me vince L’Internazionale.

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Lo scorso 12 dicembre ho pubblicato un post dove spiegavo le ragioni per cui avevo deciso di realizzare la campagna pubblicitaria del Prosecco DOC Spumante “Storie di Noir” che produco insieme alla cantina Bosco Levada di Ceggia, su facebook invece che su L’Internazionale.

Oggi, con un po’ di ritardo, espongo la valutazione dei risultati che mi porta a dire che sarebbe stato meglio farla su L’Internazionale. Anzi, probabilmente sarebbe stato meglio non farla per niente.

L’obiettivo principale della campagna era sostenere le vendite di Storie di Noir nel periodo natalizio, uno dei momenti di maggior consumo di prosecco, sui siti di e-commerce di vini Tannico ed Etilika (soprattutto sul primo, che è il principale e-commerce di vino italiano).

Le bottiglie vendute a chi proveniva dai link dei post su facebook sono state 25, quindi è evidente che l’obiettivo non è stato raggiunto (meno male che c’erano anche le vendite “organiche”).

Magari facendo una pagina di pubblicità su L’Internazionale (il budget di più non permetteva) ne avremmo vendute meno, ma evidentemente 25 bottiglia in più o in meno non spostano il risultato dell’anno.

Il bello di facebook è che uno può analizzare il comportamento delle persone riguardo alla campagna e capire meglio cosa non ha funzionato.

La copertura, ossia le persone che si sono trovate i vari post sponsorizzati nella loro bacheca, è stata di 269.590 utenti facebook.

Le impressions, ossia le volte in cui i post sponsorizzati sono stati visti, sono state 750.190. In pratica ogni utente facebook che ha visto i post, li ha visti 2,78 volte (frequenza). Poiché la visione di un post non è frazionabile si capisce che ci sono stati utenti che l’hanno visto 2 volte ed altri che l’hanno visto 4 (se non peggio). Evidentemente in termini di impatto della campagna non è la stessa cosa rispetto a che TUTTI gli utenti raggiunti vedano i post 3 volte.

In realtà le interazioni con i vari post pubblicati sono state in linea con gli obiettivi perché ci sono state 34.678 interazioni sui post (like, commenti, condivisioni, ecc…) di cui 5.886 click sui link che portavano alle pagine di Storie di Noir sui siti di Tannico e di Etilika (il peso della campagna è stato circa 90% Tannico e 10% Etilika).

Quindi quello che non ha funzionato è stata la conversione in acquisto da parte delle persone una volta arrivate sul sito di e-commerce. Io mi aspettavo intorno al 10%, ma mi sarei accontentato anche del 5%. Tassi di conversione abbastanza in linea con quelli realizzati in campagne simili, a quanto mi dicono.

Cosa è mancato. Sinceramente non lo so, ma provo a fare delle ipotesi.

 

La scelta del target.

Nelle mie aspettative uno dei vantaggi di facebook era la possibilità di mirare al target con precisione chirurgica, sogno di tutti gli investitori di pubblicità, ancora di più se sono del segno della Vergine come me.

Ho scoperto però che non è proprio così, perché restringendo il target in termini geografici, demografici e psicografici, l’investimento per ottenere la copertura voluta diventa molto più alto.

Non chiedetemi come mai, perché non l’ho ancora capito malgrado me lo sia fatto spiegare più di una volta. La sensazione che mi è rimasta è che a facebook interessa vendere agli investitori il maggior numero di utenti e quindi penalizza in termini di costo contatto le pianificazioni troppo ristrette. Un come quando Fininvest, ossia Canale 5, Rete 4 e Italia 1, nella pianificazione delle campagne pubblicitarie di Limoncè mi metteva i passaggi degli spot alle 2 di notte per “ottimizzare”.

Il problema non è banale perché grazie all’accesso ai dati che Tannico mette a disposizione dei propri fornitori, io dispongo di parecchie informazioni su profilo geografico e demografico di chi acquista Storie di Noir, quindi so con una buona precisione quanta comunicazione sto sprecando e dove.

Tra l’altro facebook permette di definire il target per comune o per regione, ma non per provincia.

 

La (scarsa) velocità del mezzo.

Sempre nelle mie aspettative facebook doveva essere un media molto veloce, con la possibilità di correggere in corsa la pianificazione, investendo di più sui post che mostravano i migliori risultati ed abbandonando i meno efficienti.

Questa era stata una delle ragioni per preferire facebook a L’Internazionale, prevedendo di concentrare la campagna dal 10 al 17 dicembre (l’uscita su L’Internazionale sarebbe stata sul numero dell’11 dicembre). massimo fino al 20. Oltre questa data infatti i siti di e-commerce non riescono più a garantire la consegna prima di Natale e qui dini i giochi degli acquisti di vino per le feste sono chiusi.

Nuovamente ho scoperto che le cose stanno diversamente da come credevo: i post sponsorizzati hanno bisogno almeno di qualche giorno per sviluppare i numeri di copertura e frequenza previsti. A meno di non aumentare significativamente l’investimento.

Questo riduce anche la possibilità sperimentare l’efficacia dei diversi post (learning by doing) per puntare su quelli che mostrano i migliori risultati, perché significa in un certo senso ripartire ogni volta.

Aggiungeteci poi che facebook ha sospeso il post con il link a Tannico venerdì 11 dicembre, giusto prima del cruciale fine settimana del 12-13 dicembre, perché si trattava di un vino, quindi un alcolico, e dovevano verificare che il target definito da noi non fosse in contrasto con la loro politiche aziendali. Stranamente il post con il link ad Etilika, esattamente uguale a parte il sito a cui portava, è rimasto tranquillamente on line.

 

Alla fine per raggiungere gli obiettivi di copertura e frequenza, abbiamo allargato la pianificazione a tutta l’Italia invece che solo alle regioni dove le persone avevano acquistato Storie di Noir in passato, e l’abbiamo allungata fino al 22 dicembre. Probabilmente questo ha contribuito alla bassa conversione tra click al sito e successivi acquisti.

 

In sintesi cosa ho imparato.

  • Il budget necessario per fare una campagna facebook nazionale (o almeno pluriregionale) è simile a quello per fare una campagna su “L’Internazionale” e, credo, per estensione su gran parte dei media classici vista la riduzione delle tariffe.
  • Facebook è impostato su delle logiche basate sulla quantità più che sulla qualità dell’audience. Cercare di uscire da queste regole è molto difficile o, quantomeno, molto costoso. Detto in altre parole facebook è impostato sui suoi interessi, non su quelli degli investitori. Anche qui mi ricorda tanto le logiche della televisione generalista di una volta.
  • Facebook vende agli investitori un grande mare di persone/teste/scalpi (scegliete voi il termine che preferite) su cui gettare le reti per poi fare la cernita una volta rientrati in posto. Fuor di metafora facebook è (può essere) una fonte di audience, che una volta agganciata, va “lavorata” con altri strumenti. Per questa ragione la comunicazione su facebook per essere efficace dovrebbe essere continua(tiva) e dovrebbe puntare a portare le persone in luoghi fisici, i supermercati Aldi ad esempio, o digitali, il sito aziendale, in cui fanno altri tipi di esperienze con la marca.
  • Credo che attraverso facebook si possa lavorare sulla conoscenza della marca (awareness) e sul “reclutamento” di potenziali consumatori (vedi sopra), ma non molto sul posizionamento / reputazione della marca (lo so è il contrario di quello che dicevo nel 2016, ma gli anni passano e le cose cambiano).
  • Facebook si presta poco ad operazioni spot.
  • Con piccoli budget facebook è un mezzo ideale per campagne a livello locale (comune) di attività radicate sul territorio che vendono beni o servizi, soprattutto se sono in grado di sviluppare attività di database marketing.

Col senno di poi, di cui notoriamente son piene le fosse, avrei fatto la pagina su “L’Internazionale”. Forse perché sono un boomer, però non sono il solo vista la quantità di cantine che da dicembre in avanti hanno fatto pubblicità sulla rivista.

Pubblicità: Facebook vs. L’Internazionale, il caso Storie di Noir Prosecco DOC.

campagna fb storie di noir

Non so se è proprio un “caso”, sicuramente è il mio caso.

Come sa già chi segue i miei blogs (questo e quello che scrivo su Vinix), a febbraio di quest’anno insieme alla cantina Bosco Levada abbiamo presentato il Prosecco DOC “Storie di Noir”. La caratteristica di questo vino è che nella cuvée, oltre alla Glera, abbiamo usato un 13-14% di Pinot Nero vinificato in bianco.

Vi risparmio tutti i problemi commerciali legati a presentare un nuovo prosecco nel pieno della crisi da pandemia del COVID-19, perché non direi niente di nuovo.

La situazione è quel che è, lamentarsene serve a poco; meglio cercare di affrontarla come si sa e si può.

Io quello che so e può è fare marketing e del marketing fa parte la comunicazione, che comprende anche la pubblicità (nel complesso quello che io nel mio concetto di Marketing Totale chiamo la P di “Percezione”).

Non disponiamo di grandi budget, anzi in teoria di budget non ne abbiamo proprio, però quando circa un mesetto fa su “L’internazionale” ho visto una pagina di pubblicità … della pubblicità su L’Internazionale, mi si è accesa la curiosità di scoprire se per caso la crisi della pubblicità non avesse reso abbordabile l’acquisto di una pagina.

L’obiettivo non era tanto creare conoscenza e reputazione della marca ma dare una mano alle vendite di Storie di Noir sui due e-commerce dove è presente: Tannico e Wineowine.

Così ho contattato la AME- Agenzia del Marketing Editoriale, concessionaria degli spazi su L’internazionale ed ho chiesto la quotazione per una pagina nel mese di dicembre.

La quotazione, che ovviamente per correttezza non dico, mi è sembrata buona e quindi ho cominciato ragionare sulla creatività (fatta in casa per risparmiare). Confrontandomi poi con un amico mi ha detto “Perché invece la pubblicità non la fai su facebook?”

Ho approfondito e queste sono state le mie scoperte/considerazioni.

-          In termini di costo contatto tra la pagina su L’Internazionale ed una campagna decente di due settimane (stessa copertura con frequenza di almeno 3 viste del post sponsorizzato per ogni contatto) non c’erano grandi differenze.

-          L’impatto della pagina su “L’Internazionale” rispetto al post sponsorizzato su facebook secondo me è superiore. Ricordo che la formula del GRP che trovate su Marketing Management del Kotler è GRP=RxFxI, ossia il Gross Rating Point è dato dalla Copertura (“R” di reach) moltiplicata per la Frequenza, moltiplicata per l’Impatto. Quando parlate con agenzie di pubblicità e concessionarie lo calcolano solamente come RxF, perché misurare l’Impatto è complicato. Questo però non significa che non ci sia e che il suo peso non sia importante.

-          Il passaggio logico e fisico dall’Attenzione all’Azione (andare sui siti di e-commerce ed acquistare Storie di Noir), attraverso le fasi intermedie di Interesse e Desiderio (modello AIDA) è sicuramente più lungo, complesso e difficile partendo dalla pagina de L’Internazionale rispetto al post sponsorizzato di facebook.

-          Malgrado il profilo dei lettori de L’Internazionale sia molto in linea con quello dei potenziali clienti di Storie di Noir, facebook permette una pianificazione molto più mirata e quindi, in teoria, una maggior efficienza dell’investimento. Soprattutto quando si può prendere la mira sui dati demografici e geografici oggettivi delle vendite su Tannico attraverso lo strumento di intelligence che mettono a disposizione dei fornitori.

-          Nei 15 giorni (scarsi) di campagna su facebook si può correggere il tiro dei contenuti e della pianificazione in base ai risultati. La pagina de L’Internazionale lì è e lì resta.

 

Quindi alla fine mi sono deciso per fare la campagna su facebook. Questo il link alla pagina (sharing is caring): Storie di Noir – Prosecco DOC | Facebook

Ma quanto mi piacerebbe avere obiettivi strategici di costruzione della conoscenza e reputazione della marca a medio termine per poter pianificare su L’Internazionale.

La rivoluzione del web prossima ventura è già iniziata!

Masai smartphone

Sull’Internazionale di due settimane fa la copertina era dedicata ad un interessantissimo articolo dal titolo “L’altra metà di internet” (uscito in originale sull’Economist) che chiunque si occupi di marketing dovrebbe leggere.

Per chi non ha potuto leggere l’articolo, ma anche per chi l’ha letto, provo qui a farne una sintesi organica, inframmezzando qualche spunto strategico.

Cominciamo con qualche numero, altrimenti non sarei io.

-          Nel 2018 gli utenti di internet hanno superato la metà della popolazione mondiale.

-          Nei paesi ad alto reddito gli utenti di internet sono circa l’80% della popolazione, in Cina il 58%, in India il 30% e nei paesi meno sviluppati meno del 25%.

Quindi la gran parte dei nuovi utenti di internet arriverà dai paesi meno sviluppati / più poveri, quindi persone che non parlano né l’inglese né il mandarino, anzi che in buona misura sono analfabeti e che accederanno dallo principalmente dallo smartphone.

In un post del 2011 (brividi) scrivevo che per capire il futuro del marketing era opportuno guardare cosa succedeva in Brasile, Cina, India e Russia. Adesso aggiungeteci anche l’Africa, soprattutto subshariana.

La cosa più interessante dell’articolo è l’analisi di cosa fanno le persone di questi paesi più poveri, o anche le persone più povere di questi paesi, una volta che hanno accesso ad internet.

Chattano e guardano video esattamente come le persone più ricche dei paesi più ricchi. Detto in maniera più sofisticata lo usano per stare in contatto, divertirsi ed esprimersi.

Detto in maniera meno sofisticata, cazzeggiano. Detto in maniera più neutra “passano il tempo”.

Che fossero in buona o cattiva fede, le aziende ed istituzioni occidentali parlavano soprattutto della diffusione di internet tra i poveri come strumento di sviluppo e crescita economica. Formazione a distanza, informazioni sulla salute, sulle attività professionali, ecc…

Invece i più poveri vogliono innanzitutto divertirsi, come i più ricchi. Uguale uguale.

E qui mi viene in mente un’intervista a Desmond Morris letta tanti anni fa dove diceva che le tribù di cacciatori-raccoglitori alla fine della giornata (ma probabilmente anche durante) quello che fanno è trovarsi intorno al fuoco a raccontarsi storie e spettegolare. Bisognerà che prima o poi mi decida a leggere “La scimmia nuda” ed ad inserire elementi di antropologia nelle mie lezioni di marketing.

I tre paesi con la maggior penetrazione di internet nella popolazione sono U.S.A., India e Brasile.

Come per noi nei paesi sviluppati uno smartphone collegato ad internet è un’opportunità di trasformare momenti vuoti in momenti piacevoli. Internet è l’economia del tempo libero dei più poveri del pianeta.

Ma che tipo di economia, se sono poveri? Una trentina di anni l’Africa veniva utilizzata come esempio paradigmatico per spiegare l’effettivo potenziale di mercato di un’area geografica: in Africa c’è la popolazione, ma non hanno i soldi, quindi il mercato reale è piccolo ed è quello determinato dal potere d’acquisto.

Qui è tornato in mente il mio amico messicano che frequentava con me il Corso di Specializzazione in Marketing dei Prodotti Alimentari allo IAMZ di Saragozza (Spagna, non Sicilia). Dopo le lezioni sulla distribuzione tenute da docenti e manager anglosassoni ha detto una cosa tipo: “In Messico la distribuzione funziona così: ogni incrocio ci sono 4 bancarelle, una per ogni angolo, che vendono qualcosa (tacos, verdure, ferramenta, musicassette, ecc…). Niente di quello che ci hanno spiegato ha nulla a che vedere con questo sistema. Però siamo milioni”.

Nei paesi ricchi il modello di business di internet che si è affermato prevede di vendere l’attenzione degli utenti agli inserzionisti. Detto in altri termini si tratta di vendere pubblico alle aziende. Che poi è il modello di business basato sulla pubblicità che ha portato al fallimento i giornali.

L’interesse economico per i miliardi di utenti più poveri risiede nel fargli pagare per fargli accedere ad internet e per quello che fanno sulle app/piattaforme. Che poi è un modello più sano perché si focalizza sulla vendita diretta dei propri prodotti/servizi e non su quella indiretta del proprio pubblico.

Piccole somme su ampia scala.

Per dare un’idea della scala considerate che nel 2016 i canali indiani su YouTube con oltre 1 milione di iscritti erano 20. Oggi ce ne sono oltre 600 e tra i cinquanta con più iscritti ce quello in lingua bhojpuri, una lingua parlata solo in alcuni degli stati più poveri dell’India.

I video sono la modalità preferita dagli utenti più poveri di internet. In india si stima che l’impostazione di YouTube come homepage superi quella di Google.

I video sono una forma di comunicazione più facile ed efficace, per tutto non solo per l’intrattenimento. Soprattutto considerando che i prossimi utenti di internet parleranno una molteplicità di lingue, ma magari non saprà né leggerle né scriverle. I video sono più facili da comprendere e da condividere.

Inoltre parlare è comunque più comodo di scrivere per la maggior parte delle persone, come dimostra la diffusione dell’uso dei messaggi vocali su WhatsApp e delle storie su Instagram..

Attenzione che più poveri ed analfabeti non significa più stupidi e sprovveduti.

In Angola Facebook e Wikipedia, offrono servizi a “costo zero” che danno un accesso limitato ma buono ad internet. Accesso che le persone poi usano per scaricare film illegalmente.

Molto più diffuso è l’utilizzo legale dei wi-fi pubblici per scaricarsi contenuti da guardare successivamente off-line.

Siccome poi le esperienze dei consumatori (persone) sono diffuse, le modalità di utilizzo degli strumenti si moltiplicano, al di là di come erano state pensate dalle aziende che li avevano creati (vedi il mio concetto di Marketing Totale).

In India circa 1/3 degli utenti ha problemi di insufficiente spazio di archiviazione su propri smartphone, anche perché si tratta smartphone di fascia bassa. Si è diffuso quindi l’uso dei schede di memoria esterna (sistema Android) per archiviare i propri dati.

Da qui si è passati all’acquisto di schede di memoria con caricati contenuti di intrattenimento (film e musica) da guardare ed ascoltare con un’applicazione che si chiama MX Player. Questa applicazione è installata ogni giorno su oltre 1 milione di telefoni Android, ma nel 65% dei casi non viene scaricata da Google Play Store, bensì direttamente dalle schede di memoria che contengono anche i contenuti di intrattenimento. La app poi ha creato anche al suo interno un servizio di film e musica in streaming.

Ricordiamoci poi che stiamo parlando di culture molto diverse da quelle occidentali, culture in cui avere uno smartphone significa indipendenza e privacy. In famiglie dove c’è un solo televisore, quando c’è, o una sola radio, lo smartphone collegato ad internet significa poter guardare e ascoltare quello che si vuole.

In contesti rurali o di piccoli paesi e città dove la presenza ed il controllo “sociale” di famiglie (non solo fratelli e sorelle, manche zii, cugini, ecc…), vicini e conoscenti è ampio, lo smartphone collegato ad internet crea un ambito di privacy in cui interagire per parlare o fare quello che si vuole (PornHub indica che in India il 90% del suo traffico viene da cellulari, contro il 75% degli USA, che non è un dato poi così distante).

Vantaggi che rendono la questione della cessione dei propri dati alle aziende che forniscono i servizi del web un problema minore. Come disse Indira Gandhi alla conferenza internazionale che decise la proibizione del DDT, rivolgendosi ai rappresentanti dei paesi sviluppati: “Voi volete la bistecca senza il DDT, noi ci accontenteremo della bistecca”.

Culture diverse che hanno valori diversi, ad esempio rispetto ai canoni estetici minimalisti affermatisi in occidente, anche grazie alle scelte di Apple.

Oppure rispetto alle forme di espressione. In India prima degli smartphone e dei social molte persone avevano una suoneria per cui chi chiamava un cellulare sentiva una canzone scelta dall’utente e non il solito segnale acustico. I pagamenti per questo servizio avevano fruttato agli operatori indiani 82 miliardi di rupie tra il 2009 ed il 2012 (considerate che oggi il reddito medio pro-capite indiano è di 427.000 rupie all’anno, e la media non è una statistica molto veritiera della distribuzione del reddito in India).

Oggi l’azienda Times Internet sta studiando di far pagare 1 rupia per aggiungere una canzone ad un messaggio personale oppure per personalizzare l’aspetto di una app sul proprio telefono.

E il lavoro? Arriva, dopo ma arriva. L’esempio è quello di un taxista analfabeta di Mumbai che lavorare con Uber usa un’applicazione che trascrive il parlato e poi copia questo testo e lo invia come messaggio scritto agli utenti in attesa, sperando che sia sensato, come spesso succede.

Sicuro però che passa più tempo a guardare video ed ascoltare musica per ingannare il tempo tra una corsa e l’altra.

E quello descritto qui sopra è solo quello che si osserva con un approccio basato principalmente sulla fruizione di contenuti. Ma siamo nell’epoca dei Contenuti Generati dagli Utenti.

Una ricerca di Snapchat dice che attualmente sulla sua piattaforma ci sono 400.000 Lenses, quei “trucchi” non saprei come altro definirli, che vi cambiano la faccia, fanno zampillare stelle dalle mani, ecc … create dagli utenti.

Immaginate cosa succederà man mano che l’altra metà della popolazione mondiale entrerà in internet.

Ma questa è un’altra storia, che racconterò alla prossima occasione.

E’ la strategia che fa il messaggio, non il mezzo: l’esempio di #EcorNaturasì su L’@Internazionale.

Quota post ha una base fattuale inusualmente imprecisa.

Ma non importa, perchè anche se quello su cui si basano i ragionamenti non fosse vero (e lo è), sarebbe comunque reale. E questo rende i ragionamenti comunque validi ed interessanti. Diciamo che è un post di ispirazione Malapartiana, intesa come Curzio

Questa premessa solo perchè dal servizio abbonati del L’Internazionale non mi hanno risposto su come recuperare i pdf dei vecchi numeri e quindi non ho potuto verificare se, come ricordo, in un numero di due/tre mesi fa tutte (o quasi) le pagine pubblicitarie avevano annunci di Ecor Naturasì.

Visto che il mio ricordo è piuttosto chiaro, prendiamolo per buono perchè nell’era digitale in cui viviamo, fornisce un ottimo esempio di utilizzo strategico di un mezzo analogico nella comunicazione di un marchio emergente.

Il mio ricordo è piuttosto chiaro anche perchè quando ho letto quel numero de L’Internazionale mi è tornato in mente che nel 1990 in Canada avevo visto il caso della strategie applicata da (forse) IBM o Pepsi Cola che avevano coperto tutta la pubblicità del numero di Time (o era Newsweek?) uscito in occasione dell’elezione di George Bush (o era il secondo mandato Reagan?).

Dettagli a parte è una strategia che da quella volta mi èsempre rimasta nel fondo della memoria perchè prima o poi avrei voluto utilizzarla anch’io. E ad oggi purtroppo non ci sono ancora riuscito.

Quindi quando l’ho trovata realizzata da Ecor Naturasì su L’Internazionale, mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente.

Per chi non lo sapesse Ecor Naturasì è la più grande catena italiana di negozi e supermercati di prodotti biologici e biodinamici.

Il settore è in crescita ed Ecor Naturasì è in una fase di espansione della rete dei negozi, che sta portando il marchio in zone nuove (la catena è originaria del Veneto) e quindi a toccare nuovi potenziali consumatori.

L’acquisto di tutta la pubblicità del L’Internazionale mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente perchè:;

- garantisce che il marchio sarà visto dai i lettori perchè la sua ripetizione pagina dopo pagina rende impossibile non notarlo prima della fine del giornale.

- permette di comunicare l’ampiezza dell’assortimento biologico e biodinamico dei negozi Ecor Naturasì. Per la strategia di comunicazione questo implica vantaggi tattici e strategici.

Tatticamente mostra a quelli che sono già consumatori di prodotti biologici che attualmente acquistano in piccoli negozi la comodità rappresentata dai supermercati Ecor Naturasì. Inoltre può intercettare consumatori potenziali, inclini ad acquistare prodotti biologici, ma non ancora acquirenti (o acquirenti sporadici) grazie all’interesse suscitato da una specifica categoria merceologica di cui sono forti consumatori (o a cui sono particolarmente interessati). Se pensate, come succedeva a me, che i prodotti biologici coprano solo alcune categorie merceologiche vi sbagliate. In un supermercato biologico ci sono esattamente le stesse che trovate un un supermercato tradizionale, dai soft drinks alle merendine.

Strategicamente poter presentare l’assortimento permette allo stesso tempo di evitare la “monotonia comunicative” e di ribadire marchio e posizionamento. La varietà del contenuto deriva dalla presentazioen di prodotti diversi, che però si inseriscono in una grafica costante e coerente che veicola il marchio ed il posizionamento.

- fornisce rilevanza e credibilità al marchio. Indipendentemente dall’efficacia delle pagine pubblicitarie realizzate, l’acquisto di tutta la pubblicità di un numero di una rivista comunica e posiziona di per sè la marca come forte, credibile e rilevante.

Aggiungeteci che il target dei lettori de L’Internazionale è probabilmente perfettamente allineato (io i dati di readership non li ho, ma Ecor Naturasì, sì) con clienti attualie potenziali di Ecor Naturasì e l’operazione appare ancora più … perfetta.

Aggiungeteci ancora che il numero tutto Ecor Naturasì è stato precedeto e seguito da alcuni numeri dove counque la presenza pubblicitaria della marca era piuttosto massiccia, quindi aumentando e prolungando l’effetto dl numero “evento” e … ho finito gli aggettivi.

A me quello che ha colpito è soprattutto che dimostra come degli obiettivi ed una strategia chiara, realizzata bene permettano di fare dell’ottimo marketing al di fuori delle pianificazioni classiche (la “paginetta” pubblicitaria su un certo numero di riviste per due/ tre mesi, magari ripetendo la campagna due volte all’anno) o delle mode di chi pensa che oggi si possa/debba pianificare solo sul web.

Invece le regole classiche della pubblicità valgono ancora ed una di queste insegna che la pubblicità efficace va pensata e realizzata in modo da sfruttare pienamente il mezzo, qualunque esso sia.

Magari se ne ricordassero tutti quelli che pianificano comunicazione sul web in un approccio di push.

 

 

Ma questa pubblicita’ Lavazza e’ adeguata all audience de “L’Internazionale”?

adv Lavazza Italia

Oggi pubblico da smartphone, quindi saro’ breve per forza.

Venerdi’ su l’ultimo numero de “L’Internazionale” c’era questa pubblicita’ delle capsule Lavazza (spero che voi la vediate dritta, perche’ io la vedo storta). Realizzata come sempre da Armando Testa.

La cosa che mi ha colpito e’, giustamente, l’immagine centrale che comunica con chiarezza e forza il concetto di italianita’.

Tanto forte che partendo dal pattriottismo puo’ arrivare al militarismo, passando per il nazionalismo.

Per questo mi e’ venuto da chiedermi: questa creativita’ e’ adatta alla audience de “L’Internazionale”?.

Nell’era del marketing totale, vedi i vari post dei mesi scorsi, dove i prodotti di massa personalizzano le etichette per i singoli consumatori e’ corretto NON porsi la questione di realizzare una creativita’ adeguata per ogni mezzo utilizzato. Fatta salva ovviamente l’identita’ della marca?

Paranoie da fanatici del marketing?

 

E’ vero che il brainstorming non funziona (più)? Secondo me no.

Brainstorming rules

Oggi mi prendo una pausa dagli argomenti viti-vinicoli per non far diventare questo blog troppo monocorde.

Lo faccio riflettendo su un articolo di Kevin Ashton (quello che ha inventato il termine “internet delle cose” mica pizza e fichi, che poi la pizza bianca con i fichi è buonissima) apparso lo scorso giugno su L’internazionle con il titolo “Il brainstorming è solo uno spreco di tempo”. L’articolo in italiano NON è disponibile on-line sul sito de L’Internazionale, però è disponibile l’originale inglese pubblicato dall’Observer.

L’uscita dell’articolo ha generato alcuni interventi tra i quali segnalo quelli di Annamaria Testa (pubblicitaria), Jacopo Fo (autore, attore e scrittore) e Ciro Esposito (professionista di comunicazione digitale, ho detto bene?). consiglio di leggerli tutti e tre, perchè portano punti di vista e contenuti diversi, che aiutano ad avere un’idea più chiara e completa della questione (come fosse unng  brainstorming).

Questi tre interventi sono più o meno d’accordo con Ashton con riserva. Nel senso che dipende da cosa si intende con il termine “brainstorming”.

“Brainstorming” è uno dei termini di marketing / gestione aziendale più abusati. Praticamente in ogni contesto aziendale (e non solo) ogni volta che si fanno delle chiacchere più o meno in libertà su un argomento qualcuno alla fine dice “abbiamo fatto un brainstorming”.

Non è così.

In estrema sintesi un brainstorming è una sessione di lavoro di gruppo, durante la quale un gruppo di persone si riunisce in un posto e sputa fuori tutte le idee che gli vengono in mente rispetto ad un determinato argomento.

Detto così, ci sta dentro di tutto. Ed infatti il mio sospetto è che l’inefficacia venga proprio dalla mancanza di regole, che non significa maggiore libertà (intelletuale), e di omogeneità nell’applicazione formale di questa tecnica.

La mia esperienza personale è che i brainstorming funzionano. Forse dipende da come ne ho fissato gli obiettivo e le modalità di realizzazione.

Lo scopo di un brainstorming è quello di generare idee (spunti), non di svilupparle o definirle, ed in questo è estramemente più efficace del lavoro individuale (sia in termini di tempo in assoluto che di rapporto idee/tempo).

Per ottenere questa efficenza bisogna adottare delle tecniche / pratiche / regole che lo differenziano dal cazzeggio. Queste sono le mie:

  • Il posto dove si svolge il brainstorming deve essere diverso dal solito ambiente di lavoro, possibilmente però evitare anche “la stanza del brainstorming”, perchè altrimenti si rischia di ricadere comunque in una routine.
  • No cellulari che squillano, nè che vibrano nè in silenzioso.
  • Tendenzialmente no a computer, sicuramente no a partecipanti che rispondono alle mail o fanno i fatti loro con il portatile.
  • Dimensione massima del gruppo:  10 persone (i sacri testi dicono 8, però, non si sa come, si aggiunge sempre qualcuno).
  • Composizione del gruppo: il più interdisciplinare / interfunzionale possibile (non sai mai da dove possono arrivare gli spunti).
  • Durata massima: 20′ (tanto poi sforerete a 30′).
  • Tra i componenti ci deve essere un facilitatore / moderatore che interviene, se necessario, per garantire il rispetto delle regole e la partecipazione di tutti.
  • Quantità e non qualità delle idee.
  • Tutte le idee contano.
  • La pazzia è positiva.
  • Quello che viene detto non si giudica, critica o discute, neanche da se stessi (quindi no autocritica nè autocensura).
  • Non sottovalutare, e quindi non esprimere, quello che appare ovvio (ad essere rigorosi questo rientrava nel punto precedente, ma il rischio è così forte da richiedere una sottolineatura).
  • (Se si vuole) usare figure / disegni / grafica per visualizzare le idee.
  • Rendere tutte le idee visibili a tutti in ogni momento utilizzando lavagne a fogli mobili, muri, etc. (non valgono presentazione powerpoint).
  • Le idee dei componenti del gruppo stimolano altre idee (effetto “valanga”).
  • Numerare le idee.
  • Riscaldare il cervello (sono quei 5′ / 10′ che vi fanno arrivare alla mezz’ora).
  • Fatene una sessione di lavoro divertente.

Alcune considerazioni per realizzare meglio queste regole e migliorare l’efficacia del brainstorming:

- Riscaldamento mentale: ci possono essere varie tecniche. Quella che seguo io praticamente sempre è chiedere ai partecipanti del gruppo di pensare da soli almeno mezz’ora alla questione che verrà trattata nel brainstorming. Meglio se lo fanno il giorno prima e non giusto prima dell’inizio della sessione. Si tratta di far lavorare la mente per “associazioni libere”, in una specie di “”brainstorming individuale”.

- Problemi di “prevaricazione” da parte delle persone più estroverse: questo è probabilmente il problema più spinoso perchè è quelloc he crea le maggiori distorsioni e limiti alla capacità da parte di tutto il gruppo di “aprire la scatola” come fosse una mente unica. Io l’ho risolto da diversi anni adottando una tecnica di brainstorming che mi hanno insegnato come brainstomp e funziona così: ogni partecipante scrive le proprie idee con un pennarella su un cartoncino man mano che gli vengono e le lasciano sul tavolo che si colloca al centro della stanza in cui si svolge il brainstorming. I partecipanti camminano lentamente intorno al tavolo, perchè il movimento aiuta. Nella stanza si mette un sottofondo musicale, possibilmente vivace / energetico. Al centro del tavolo si accende una candela, che aiuta i partecipanti a riprendere la concentrazione quando la perdono. Dopo dieci minuti si cambia il senso di rotazione intorno al tavolo.

Potete sorridere, o anche ridere (io ho visto di quelle facce ….), di questi accorgimenti che però hanno lo scopo di creare una distonia fisica dalla normale routine e quindi stimolare la distonia mentale alla base della creatività.

Questa tecnica presenta anche importanti vantaggi operativi:

- evita l’interazione diretta tra le persone e quindi il crearsi di “blocchi di comunicazione”, malumori, ecc…

- permette una eccellente partecipazione di persone che non hanno dimestichezza con il brainstorming perchè le regole sono facili da capire, seguire e controllare.

- permette al “facilitatore” della sessione di gestirla senza interventi distorsivi. In pratica deve solo ricordare la regola del silenzio per evitare il dibattito/giudizio delle idee e regolare il ritmo del lavoro con la velocità della sua camminata.

- tutti i partecipanti possono sempre vedere tutte le idee generate dagli altri e quindi si favorisce l’effetto “valanga”.

 

Clusterizzazione delle idee: conclusa la sessione di braistorming / brainstomp fate una breve pausa. Non più di 10 minuti e nessuno deve dedicarsi ad attività “esterne” alla sessione. Poi il gruppo lavora per raggruppare le idee in diversi clusters / categorie. Non esiste un numero predefinito di clusters nè categorie predefinite a priori. I diversi clusters verranno identificati sulla base della similitudine / sovrapposizione delle idee generate.

A questo punto ringraziate e rimandate tutti a loro lavoro normale …. dando appuntamento per domani o dopodomani.

 

Selezione (darwiniana) delle idee/spunti generati: il giorno dopo la sessione di brainstorming (o al massimo due), a mente fredda e fresca il gruppo di lavoro si riunisce di nuovo e seleziona le idee suddivise in clusters. A me tendenzialmente piace metterle in ordine dalla prima all’ultima, per non buttare via niente (il mio quarto di sangue furlano), voi se volete sulle idee pessime (che saranno la maggior parte) potete anche metterci una pietra sopra. La logica è quella della tecnica di braintrust utilizzata dalla Pixar e descritta dal post di Ciro Esposito.

Se avete bisogno di fare un brainstorming e non vi fidate di me come consulente (reprobi ingrati!), vi segnalo che le regole riportate nell’immagine che apre questo post (che sono solo ALCUNE delle regole che io utilizzo) le ho imparata in un seminario organizzato dall’Istituto per la Creatività Applicata.

Se invece volete fare un’analisi Delphi come quella citata da Annamaria Testa…., beh la prima che ho fatto era nel 1993 sulle prospettive della pastorizia, ossia i miei opinion leaders erano pastori; uno dei progetti di ricerca più divertenti che ricordi.