Alcune dritte su come NON scrivere un curriculum (secondo me).

Recentemente 3 persone diverse in un arco di tempo piuttosto breve mi hanno chiesto consigli sul proprio curriculum.

E’ notorio che io non credo alle coincidenze, quindi ho deciso di riprendere i post su biscomarketing fornendo alcune dritte delle cose da evitare, secondo me, al momento di scrivere un c.v.

Evidentemente non sono un professionista della selelzione del personale (anche se da quando sono libero professionista collaboro con una società di selezione di Milano), però qualche volta sono stato selezionatore per i reparti/aziende che dirigevo e numerose volte sono stato selezionato.

Le indicazioni che seguono quindi sono frutto molto della pratica e pochissimo della teoria.

Per inciso il mio ultimo c.v. è di 2 facciate, entre il penultimo (di un anno prima) era di quattro.

1. L’obiettivo del c.v. non è farsi assumere, è farsi fare il colloquio. Non è quindi necessario specificare tutti i dettagli di tutto quello che si è fatto, ma dare sufficenti informazioni significative perchè chi è responsabile della selezione ritenga il profilo sufficentemente interessante da farvi fare il colloquio.

2. Rifuggete dal formato standard europeo. E’ dispersivo confuso e lungo. Le informazioni vengono sostanzialmente ripetute, tanto che si fa fatica a capire quante e quali cose abbia fatto il candidato. A nessuno (dico io) interessa leggere la tabella delle conoscenze linguistiche con le sigle degli standard europei. Indicate il vostro livello di conoscenza delle lingue come elementare, medio, ottimo o madrelingua, se chi vuole assumervi è un’azienda seria vi faranno comunque un test di lingua e non gli avrete fatto perdere tempo. un’altro probelma dello standard europeo è che è …standard. Per definizione quindi farete fatica a risaltare, quindi a suscitare interesse. Tra 50 cv tutti in formato europeo, uno che non lo è già si nota. A voi decidere quanto strani volete sembrare, dipende dalla posizione per cui si manda il c.v., dal profilo ricercato e da quanto strani siete davvero.

3. Non preoccupatevi della sintesi. Nessuno si aspetta che una persona al primo o secondo lavoro abbia un c.v. di 4/5 pagine. Evitate di riempire il c.v. di esperienze e titoli marginali (lavori di due mesi, corsi di 3 settimane). Se avete bisogno di rimpolpare il c.v., piuttosto raggruppateli in un’unica voce di esperienze varie.

4. Evitate l’ordine “Cognome Nome”, fa appello della scuola dell’obbligo (questa magari è una mania mia).

5. Non ho mai creduto che indicare gli hobby servisse a molto. Probabilmente non fa male, io però non li ho mai guardati più di tanto, se devo assumere un Brand Manager mi interessa poco che faccia corsa in montagna o sia appassionato di lettura.

6. E’ ovvio che un c.v. sia un po’”luci e suoni”, evitate però di esagerare con l’indoramento della pillola per non creare aspettative sbagliate. Se siete persone serie magari vi sembrerà strano, ma ho visto dei c.v. che riportavano esperienze professionali inventate di sana pianta.

7. Preoccupatevi di tenere allineato il vostro c.v. su linkedin. E’ la prima cosa che guarderà chi deve selezionarvi, poi passerà a facebook.

8. Tenete aggiornato il c.v.. Mi è capitato più di una volta di contattare delle persone per la selezione per una posizione e sentirmi dire che avrebbero andato il c.v. appena possibile perchè risaliva ancora all’anno prima.

9. Quest’anno ha girato in rete il c.v. di Merissa Mayer, CEO di Yahoo. Se non l’avete visto, vi consiglio di darci un’occhiata.

10. Arrivate al colloquio preparati. Questo significa studiare il sito dell’azienda ed il profilo linkedin di chi vi selezionerà (poi potete passare a quello facebook). E’ naturale che durante il colloquio siate concentrati a dare la migliore immagine di voi, soprattutto se si tratta del primo (o dei primi) lavori. Però non dimenticate anche di cercare di capire com’è effettivamente il posto che vi offrono, la situaizone e la cultura dell’azienda e lo stile di gestione di chi sarà il vostro responsabile. Essere senza lavoro è brutto, ma essere nel lavoro sbagliato può essere peggio.

In bocca al lupo a tutti!

 

La fondamentale differenza tra artefici ed esecutori.

“… la nostra prima priorità dovrebbero essere le persone che lavorano per l’azienda, poi i clienti, poi gli azionisti. Perchè se i dipendenti sono motivati, i clienti saranno contenti e quindi gli azionisti guadagneranno attraverso il successo dell’azienda.”
- Richard Branson, Chairman, Virgin

Tempo fa quando sono uscito dopo aver visitato un’azienda mi è venuta in mente questa frase di Richard Branson.

E’ un’azienda che fa risultati, organizzata bene, ma mentre ero lì avevo la sensazione che c’era qualcosa che non mi convinceva del tutto. Andando via ho capito che era la mancanza di energia. Non si percepiva dalle persone nessuna tensione, nessuna spinta nel fare al meglio il proprio lavoro.

Non che ci fossero degli scansafatiche che cercavano di evitare di fare il loro lavoro. E’ che per la maggior parte dei dipendenti il lavoro non era il “loro”, era qeullo che l’azienda gli chiedeva di fare. Erano degli esecutori che aspettavano che qualcuno gli dicesse cosa dovevano fare, per farlo al meglio delle proprie competenze.

Più passano gli anni e più mi convinco che il siccesso duraturo delle organizzazioni passa (anche) dal generare artefici invece che esecutori.

Dico generare perchè il modo e lo stile di gestione hanno un’influenza determinante nel creare le condizioni per cui le persone si comportino come artefici oppure come esecutori.

Cosa intendo per artefice? Una persona che ha la consapevolezza delle sua posizione nell’organizzazione e quindi delle responsabilità che implica. Dalla responsabilità consegue l’autonomia nello svolgere il proprio lavoro e l’autonomia richiede un adeguato livello di informazione, strumenti e formazione.

Io personalmente tendo ad allargare l’informazione oltre al livello necessario per l’autonomia legata alla respondabilità perchè di base sono convinto che se le persone capiscono meglio il contesto in cui operano lavorano meglio, sia a livello di attività che di performances.

La gerarchia delle organizzazioni (dovrebbe) essere strutturata per responsabilità. Io ho sempre posto molta attenzione che non mi venissero assegnate (troppe) resposnsabilità che esulavano dalla mia posizione e dalle mie mansioni e che non me ne venisse tolta nessuna di quelle previste dalla mia posizione e dalle mie mansioni. Di conseguenza esigevo autonomia ed informazioni coerentemente alle responsabilità.

Se le responsabilità (e mansioni) che oltreppasavano il mio ruolo diventavano troppe e/o si prolungavano per troppo tempo, era giunto il momento di parlare di inquadramento e di stipendio.

Tutta questa lunga spiegazione in inglese si sintetizza con il termine di “empowerment“, ossia di dare al personale il potere per poter svolgere al meglio il proprio lavoro. Tra l’altro il termine inglese implica che il potere viene dato (o ceduto) da chi si trova a livelli più alti di responsabilità nell’organizzazione.

In questo modo le persone diventano artefici del proprio lavoro. Gli obiettivi aziendali diventano i loro obiettivi, o meglio vedono come gli obiettivi del loro lavoro giocano sugli obiettivi aziendali.

Attenzione che se l’empowerment, che è molto di moda, viene solo dichiarato e poi rimane nelle buone intenzioni dell’azienda, si trasforma in un boomerang perchè le persone si sentono prese in giro / truffate.

Cosa significa fare l’empowerent sul serio?

Significa creare un ambiente di lavoro basato sul rispetto e la trasparenza nei rapporti personali.

Significa garantire la libertà di parola (d’altra parte è un principio costituzionale) senza che questa venga usata contro chi ha parlato.

Significa dare alle persone la tranquillità di imparare dai propri errori.

Significa seguirle per evitare che le conseguenze degli errori siano troppo gravi (buttare le persone in acqua per vedere se e come sanno nuotare NON è empowerment).

Significa fare prendere coscienza alle persone che sono i primi responsabili della propria mansione, del modo in cui viene svolta e dei risultati ottenuti.

Ci sono alcune frase che dico sempre quando inizio a (dover) gestire un gruppo di persone:

La gerarchia è nell’organizzazione, non nell’attitudine“. Intendo che un’organizzazione funziona bene se c’è una gerarchia (piatta) basata sulle responsabilità e la capacità di utilizzare tutte le conoscenze e competenze delle persone che la compongono. Come si sul dire, non esistono domande stupide (se sono fatte in buona fede).

Non sono io che devo dirvi cosa fare, sei voi che dovete chiedermi quello che vi serve per fare bene il vostro lavoro

Il fatto che io sia responsabile anche del vostro lavoro, non vi solleva dall responsabilità di quello che fate e come lo fate” (vedi punti precedenti). Esempio: il fatto che ci sia un correttore di bozze non esime chi scrive da fare attenzione agli errori di ortografia e grammatica perchè un testo zeppo di errori costringerà il collega ad un maggior lavoro (mancanza di rispetto, vedi sopra) ed aumenta il rischio che qualche errore sfugga (peggioramento della perfomance).

Era il 1983 quando facendo il corso caporali ho scoperto che la consegna è “precisa, coincisa, tassativa”.

Oramai perfino negli eserciti hanno attenuato questi principi per migliorare efficacia ed efficienza.

Dispace vedere aziende che di fondo operano ancora con principi ottocenteschi, per di più con con consegne confuse, prolisse ed aleatorie.

 

Lead through ideas (therefore innovation).

Faccio un’ eccezione alla mia regola di limitare l’uso dell’inglese ai casi strettamente indispensabili con un titolo totalmente in inglese.

Il motivo è che nessuna traduzione del concetto di “lead” in questo contesto mi piaceva, perchè qui lead è un po’ guidare, un po’ condurre, un po’ dirigire, un po’ “indurre a”, un po’ coinvolgere.

Ormai per tutti (sembra) chiara la differenza tra autoritarietà ed autorevolezza, ma “lead” ha un significato più ampio e meno duro, nel senso di soft e hard skills (ancora l’inglese).

Ad ogni modo, qualunque sia il significato che volete dargli, credo che nelle organizzazioni (economiche e non) sia sottovalutata l’importanza che hanno le idee per raggiungere il risultato.

Le idee sono quello che fanno una grande azienda, anche se non è un’azienda grande, parafrasando la vecchia pubblicità dei pennelli Cinghiale secondo cui per un lavoro bene fatto non ci voleva un pennello grande, ma un ungrande pennello.

Credo sia tanto più vero, quanto più si allarga il numero e l’eterogeneità dei portatori di interessi / fornitori / partners (stakeholders) con cui l’azienda deve interegire e con i quali i rapporti sono gerarchicamente sempre più deboli e labili.

E’ vero che le cose si fanno con i soldi (risorse), ma si fanno anche con le idee. Anzi le cose (strategie) si fanno PIU’ con i soldi che con le idee.

Oramai da un po’ di tempo tendo sempre a fare esempi tratti dalla mia esperienza diretta. Forse è vanità, a me piace pensare che sia per (di)mostrare che non si tratta di concetti puramente teorici, malgrado possano sembrarlo.

Le (buone) idee creano risorse (umane e finanziarie) perchè motivano le organizzazioni e le persone. Nota: le persone si motivano sempre da sè, l’attività di chi ha la responsabilità di gestire delle persone può solo affievolire o incrementare la loro motivazione intrinseca.

Un’agenzia (di pubblicità, di PR, di gestione di social media, ecc…) lavorerà con più voglia (dedicando attenzione, tempo, cura) ad una grande idea rispetto ad un grande budget.

Una buona idea può diventare un catalizzatore per realizzare co-marketing che moltiplicano la disponibilità di risorse ed arricchiscono il concetto iniziale, moltiplicandone quindi la rilevanza.

A tutti piace essere all’avanguardia, sia per soddisfazione personale che per i risultati che porta in termini di affari. Essere portatori di idee, genera rispetto e credibilità da parte di consumatori, clienti, intermediari commerciali e reti di vendita.

Esempi vissuti in prima persona potrei farne a decine, ma non voglio dilugarmi ed annoiarvi.

Lead through ideas, in italiano potrei tradurlo diventare generatori di idee, è conseguenza di un approccio culturale, quindi è facile e difficile allo stesso.

E’ facile perchè è una questione principalmente di atteggiamento, apertura mentale, curiosità intellettuale e competenze.

E’ difficile perchè pensare in grande richiede spesso un salto culturale è sempre il coraggio di andare oltre lo status quo (su questo rimando al post “Eterodossia ed innovazione”)

Il problema si risolve quando l’innovazione permanente, ma non frenetica, diventa lo status quo.

Per chiarire quello che voglio dire, o per confondervi ancora di più, concludo con tre citazioni:

“L’impresa di successo non è nè in anticipo nè in ritardo sui tempi: è giusta”; Giorgio Brunetti, professore di Economia Aziendale dell’Università Cà Foscari di Venezia durante una lezione al mio corso della Smea di Cremona. Io negli anni l’ho leggermente modificata dicendo che l’azienda di successo deve essere leggermente in anticipo sui tempi (consumatori, clienti, concorrenti).

“Excellence Pursuer, Prevail Forever”; slogan China Contruction Bank.

” A creative man is motivated by the desire to achieve, not by the desire to beat others. ”; Ayn Rand.

Being an achiever, not beater, brings you to your goals!

Gestione del personale ed etologia 5.

Oggi pensavo di scrivere un post sull’ennesima bolla papale emessa da Angelo Gaja e ripresa da numerosi siti (qui il link a quella indispensabile miniera di dati che è “I numeri del vino“).

Però mi rendo conto che, anche facendo raffreddare l’argomento per 10 giorni, molto probabilmente non sarebbe uscito un post critico, bensì un post polemico. E la polemica non mi interessa. Dico solo che Gaja oggi esprime posizioni contrarie a quelle che sosteneva nel settembre 2012 e che io confutavo in due lunghi post gentilmente ospitati da Franco Ziliani nel suo blog “Vino al vino”. A parte i modi, da cui il rischio di scadere nella polemica, non ho molto da aggiungere all’analisi, se siete curiosi potete andare a rileggerli perchè credo che buona parte delle considerazioni siano ancora valide.

Escluso Gaja, una ex collega ed amica mi suggeriva di regionare sul fatto se esiste ancora il marketing, ma il post della scorsa settimana non è stato abbastanza riposante per affrontare oggi un DOMANDONE di tale livello.

Prendo allora spunto dalla notizia relativa allo studio sull’efficenza del volo degli uccelli migratori (riporto il link a El Pais perchè ha pubblicato un giorno prima dei giornali italiani e perchè la ricerca sul sito del Corriere si è interrotta con il messaggio Service Temporarely Unavailable).

La notizia in sostanza è che uno studio condotto dal Royal Veterinary College dell’Università di Londra sul volo di uno stormo di ibis eremita evidenzia come gli uccelli in formazione a “V” coordinino con estrema precisione il battito delle ali rispetto all’uccello che li precede, in modo da sfruttare al massimo le correnti d’aria che crea e ridurre quindi il dispendio di energia. E’ per questo che il movimento dello stormo in volo ricorda un’onda permanente.

Ora, a parte che non avevo mai pensato che gli uccelli migratori volassero così per un semplice fatto estetico (e NON aprirò una parentesi sull’intrinseca eleganza del gesto parsimonioso, dalla danza all’architettura), la notizia risveglia il produttore animale che è in me e mi permette di riprendere l’argomento del legame tra gestione del personale ed etologia, uno di quelli che ricordo con più affetto tra i tanti affrontati in quasi 7 anni di biscomarketing.

Osservando la tecnica di volo dell’ibis eremita i ricercatori inglesi si sono giustamente focalizzati sul risultato: la massimizzazione dell’efficenza dello sforzo permette allo stromo di volare più a lungo (tempo e distanza) di quanto non potrebbe fare un uccello da solo oppure uno stormo peggio organizzato.

Questa organizzazione di volo però richiede il verificarsi di tre premesse comportamentali:
1) tutti gli uccelli conoscono la rotta, ossia sanno qual’è la meta e quali sono i persorsi per raggiungerla;
2) tutti gli uccelli sono d’accordo di raggiungere la stessa meta;
3) tutti gli uccelli condividono gli sforzi turnandosi al vertice della “V”, la posizione più faticosa.

In realtà utilizzo il modello dello stormo nella spiegazione e nella gestione dell’organizzaizone del lavoro da circa 10 anni. Da quando ho scoperto questa matrice degli stili organizzativi.

organization matrix

Io normalmente la uso in diverse fasi.

Riunisco il gruppo di lavoro e la mostro “muta”, senza la spiegazione delle due assi e senza il testo dei quadranti per evitare di suggerire giudizi di valore. A questo punto chiedo a tutti di dire qual’è secondo loro il modello organizzativo migliore. Poi chiedo in che situazione ci troviamo noi.

Poi scopro la versione parlante, con i testi nei riquadri e la spiegazione delle assi, chiedo conferma delle opinioni espresse in precedenza e ragioni sul perchè l’organizzazione migliore sia quella dello stormo.

Mi permetto di concludere con alcune avvertenze:
- utilizzate questo modello con il vostro gruppo di lavoro solamente se vi sentite solidi nella sua gestione. Discutere apertamente di questi aspetti, soprattutto con uno strumento così forte, innesca delle dinamiche che non possono essere più fermate. Possono essere solo gestite.
- La solidità non dipende solo dai vostri rapporti con i collaboratori, ma anche da quelli tra di loro.
- Se pensate di mostrare/discutere la matrice singolarmente con i diversi collaboratori per ridurre il rischio di innescare dinamiche disgregative, NON fatelo. E’ molto probabile che i collaboratori parleranno tra loro comunque ed avrete creato un clima diffidenza.
- la situazione organizzativa più pericolosa in cui potete trovarvi è quella del quadrante A, perchè può darvi l’impressione di essere nel quadrante D. Vi accorgerete della differenza al primo problema che richiede un supporto da parte di tutto il gruppo di lavoro.
- anche se sembra ci siano parecchi esempi di successo con organizzazioni come quelle del quadrante C, personalmente penso che sia una situazione attualmente semplicemente impossibile. La turbocompetizione richiede una quantità e tempestività di risposte che cui le persone a tutti i livelli dell’organizzazione si trovano a dover affrontare un certo grado autonomia che aumenta la dispersione della mandria.
- prima di pensare che si tratta di belle teorie, peccato però che i vostri collaboratori siano tutti degli incapaci menefreghisti, ricordatevi che le 3 premesse comportamentali per il funzionamento dello stormo implicano una continua, dettagliata e trasparente informazione, la necessaria formazione, l’aperta discussione per la definizione e condivisione degli obiettivi.

Buona fortuna.
-

La voglia non costa niente, ma rende molto.

I libri non si devono valutare dal numero di pagine, i quadri non si devono valutare dalla dimensione ed i post non si devono valutare dalla lunghezza.

Settimana scorsa mi si esaurisce la batteria del cellulare (vecchio Samsung Galaxi del 2011, ma ancora in vendita). Ladurata era diventata di circa mezz’ora e se parlavo mi si spegneva anche collegato al caricabatterie della macchina.

Vado in due negozi di telefonia cellulare a Trieste (uno Vodafone come l’abbonamento ed uno no) ed ottengo la stessa risposta: questa non l’abbiamo. Vado in un Media World sicuro di trovare la batteria, anche se non originale, quanto meno per la superfice del negozio, e la commessa mi fa “Non teniamo batterie, le batterie si comprano su internet”(????!!!!).

Provo in un negozio di telefonia a Oderzo: “in casa non ce l’ho, se vuole la ordino ed arriva in una settimana”.

Provo, tanto perchè ci sono passato davanti, nell’unico negozio di telefonia di Salgareda dove c’erano due clienti prima di me, mostro il telefono. Negoziante: “Credo di averla, mi lasci controllare”, tira fuori svariati modelli di batteria (almeno ne aveva) “No, mi spiace, se vuole la ordino e arriva domani”, “No, grazie lo stesso” faccio io ….. “Aspetti un momento” fa lui, apre la vetrina con i telefoni in esposizione e prova ad aprire i vari Samsung fino a che non trova quello che ha la batteria uguale alla mia.

Non credo che i 25 euro che ha incassato gli abbiano cambiato la giornata. E’la consapevolezza del proprio lavoro che fa venire la voglia di farlo bene e questo fa la differenza.

Domanda per tutti quelli che hanno la responsabilità della gestione di persone: date la consapevolezza del loro lavoro e del loro ruolo ai vostri collaboratori? Sono pronti a fare un passo in più per risolvere le situazioni?

Sempre di più fa e farà la differenza tra il successo e l’insuccesso delle organizzazioni.

“Servire il Popolo”: magistero evangelico, imperativo marxista-leninista o disciplina manageriale? Papa Francesco e la risolutezza dei buoni.

Questo titolo prolisso alla Wertmuller nasce dallo stupore provato nel sentire i servizi del giornale radio sull’omelia odierna di Papa Francesco durante la messa della sua investitura (lo so che non si chiama così, ma una volta tanto opto per la sintesi rispetto alla precisione).
E’ che io la servant leadership l’ho imparata, analizzata ed approfondita studiando gli articoli di William B. Locander e David L. Luechauer, pubblicati sulla rivista Marketing Management dell’American Marketing Association.
Dubito che Papa Francesco abbia studiato gestione del personale, ma da un gesuita ci si può aspettare anche questo, ed è molto, molto, molto, molto più probabile che la sua ispirazione siano gli esempi storici di servant leadership in ambito filosofico e religioso (Gesù in primis ovviamente).
Semmai una ennesima dimostrazione dell’universalità dell’umano (ricordo tanti anni al master della SMEA il manager di un’azienda appasionarsi per la dimensione economica dell’uomo, visione che mi è sempre sembrata limitata e riduttiva rispetto alla dimensione umana delle persone). Dimostrazione che probabilmente si chiude e si rafforza (oppure si cortorcuita a seconda del punto di vista) osservando con il percorso umano di Aldo Brandirali, fondatore dell’estinta rivista dell’Unione Comunisti Italiani “Servire il Popolo”.

Comunque la si veda, io spero che questo aiuti a dare fiducia alle persone che cercano di guidare e non di comandare. Bisogna essere (diventare) forti per non aver timore della tenerezza.

Il bello è che secondo le rilevazioni dell’agenzia di rating della responsabilità sociale delle imprese Standard Ethics, le imprese “più buone” sono anche quelle con i migliori risultati nel lungo periodo.