Franciacorta: non è uno spumante, non sono bollicine, è un vino!

Poco fa ho sentito per radio lo spot della Franciacorta (inteso come DOCG, non è così chiaro all’inizio), dove viene definito come “un vino”.

Purtroppo non riesco ad essere più preciso perchè lo spot in rete non lo trovo, nemmeno tra le news del sito del Consorzio (lo so che gli speacker radiofonici sono rognosi con la cessione dei diritti, ma almeno la news che partiva la campagna!).

Ora chiedo al Consorzio (ciao Maurizio), non è che la definizione “un vino” sia un po’ scialba, al di là della genericità già evidente nella semantica?

Oggi come oggi dire “Un vino” non mi pare un concetto particolarmente positivo ed attraente per il consumatore, bene che vada è ininfluente, con il forte rischio che sia deleterio rispetto al percepito di “spumante/bollicine” in generale.

Sicuramente mi sento di dire che è sminuente per la percezione che ha raggiunto il Franciacorta sul mercato in termini di qualità, reputazione ed appeal. In sintesi per il posizionamento che ha nella testa del consumatore e dei portatori di interesse sul mercato(stakeholders come dicono quelli seri). Non mi dilungo su cosa significa “posionamento”, se volete approfondire potete leggere qui.

Detto in altre parole, e volendo parlare per slogan, per me “il Franciacorta è più di un vino” (dopo avere regalato il claim “Conegliano e Valdobbiadene: dove il Prosecco è Superiore” continuo nella tradizione. Si vede che gli spumanti mi ispirano in modo particolare).

Da parte mia per le prossime festività vi auguro di bere vino spumante all’aperitivo, a tutti pasto e con il dessert, perchè le bollicine mettono sempre allegria e vi faranno sentire più felici (l’altro post di oggi sulla felicità lo trovate qui).

Di terroir e territori.

Su “Il mio vino” di oggi è uscito il mio articolo sul concetto di terroir. Benchè sia, ovviamente, focalizzato sul settore vitivinicolo molte considerazioni valgono per i prodotti a denominazione d’origine in generale.
Qui sotto trovate il pezzo in versione integrale, senza i tagli necessari per farlo rientrare negli spazi del giornale (niente di criciale, però probabilmente così scorre un po’ più fluido). Qualche piccolo privilegio per i lettori di biscomarketing.
Ul lato negativo è che, essendo l’articolo già uscito, non ha senso pubblicarlo qui in due puntate, come la lunghezza e densità dell’argomento avrebbe consigliato. Comunque niente vi impedisce di leggerlo a pezzi, anche perchè sabato parto per la Cina e quindi forse il blog avrà una pausa più lunga del solito.

Il mio professore di marketing management in Canada diceva che un problema mal risolto è un problema mal definito almeno nel 50% dei casi. Alla luce dell’esperienza di quasi vent’anni di professione in diverse aziende del settore agro-alimentare mi sento di dire che se sbagliava, forse era nella percentuale che secondo me è ancora più alta.
Ecco perché sono un convinto assertore della necessità di definire chiaramente i termini delle questioni che si presentano nella pratica della gestione aziendale. La chiarezza deriva innanzitutto dalla condivisione del significato delle parole da parte di tutte le persone coinvolte, perché questa è la precondizione per sviluppare poi soluzioni il più possibile efficienti nell’uso delle risorse ed efficaci nel raggiungimento dei risultati. Viceversa si rischia di definire percorsi che portano in luoghi diversi da quelli previsti (i risultati) o ci arrivano con percorsi più lunghi/tortuosi e quindi costosi di quelli che si sarebbero tracciati con una più corretta comprensione del problema.
Per fugare ogni dubbio che si tratti di un discorso un po’ troppo teorico e fumoso aziendale, vorrei utilizzare l’esempio della terminologia nautica, la cui conoscenza precisa da parte di tutti quelli che sono sulla barca è essenziale per navigare in sicurezza secondo la rotta stabilita.
Operando nel settore vitivinicolo confesso che mi sento sempre un po’ in “pericolo” quando si affrontano questioni legate al concetto di terroir.
Io ho iniziato ad occuparmi di terroir nel 1992, che è stato l’anno di promulgazione dei primi regolamenti UE sui prodotti alimentari DOP ed IGP da cui è derivato il modello utilizzato poi recentemente anche dall’OCM vino. Al tempo stavo facendo il dottorato in Università ed ero tra i componenti di un gruppo di ricerca pan-europeo guidato, ovviamente, da ricercatori francesi.
Il concetto di terroir che ho imparato quella volta dalla cultura che l’ha creato, corrisponde sostanzialmente con quello che si può trovare sull’edizione francese di Wikipedia (la libera traduzione e mia e mi scuso in anticipo per le eventuali imprecisioni): il terroir è uno spazio geografico delimitato, definito a partire di una comunità umana che nel corso della propria storia ha costruito un insieme di tratti culturali distintivi, di saperi e di pratiche. fondati sull’interazione tra l’ambiente naturale ed i fattori umani. Il saper fare così sviluppato rivela una originalità, conferisce una tipicità e permette di riconoscere i prodotti o servizi originari di quel determinato spazio e dunque provenienti dalle persone che lì vivono. I terroirs sono degli spazi viventi ed innovatori che non possono essere assimilati alla sola tradizione.
Detto in altre parole un terroir è il risultato della combinazione con cui si sono sviluppati nel corso della storia di elementi geoclimatici e socioeconomici presenti in una determinata zona
Sempre Wikipedia francese sottolinea come spazi con potenzialità e limiti fisici uguali (o simili) diano luogo a terroir diversi, a seconda delle civiltà che ci si sono insediate, sottolineando così il ruolo qualificante della dimensione culturale del terroir.
Se riferendosi ai francesi è tutto chiaro, le cose cambiano per la definizione di terroir data dalla versione di Wikipedia italiana: Il terroir può essere definito come un’area ben delimitata dove le condizioni naturali, fisiche e chimiche, la zona geografica ed il clima permettono la realizzazione di un prodotto specifico e identificabile mediante le caratteristiche uniche della propria territorialità. Il terroir definisce anche l’interazione tra più fattori, come terreno, disposizione, clima, viti, viticoltori e consumatori del prodotto. Il terreno, la sua composizione geologica, le varie erosioni intervenute per fattori chimici, fisici e biologici, i microrganismi, la macrofauna, la concimazione minerale in aggiunta alla concimazione organica, la topografia del terreno con i diversi approvvigionamenti idrici, i diversi tipi di clima e di conseguenza le diverse temperature, ventilazioni, esposizioni solari ed umidità, fanno si che un vitigno, impiantato in diversi terroir possa produrre uve con caratteristiche diverse e di conseguenza vini molto differenti tra loro nella struttura e negli aromi. Con terroir, quindi, si intende un concetto molto vasto che riassume tutti i criteri che contribuiscono alla tipicità di un vino.
Si nota infatti come la componente socioeconomica sia considerata in modo estremamente sfumato, citando viticoltori e consumatori, a cui si contrappone una caratterizzazione delle uve e del vino legata esclusivamente agli aspetti pedoclimatici. In realtà questa definizione si riferisce più ad un territorio che ad un terroir. Colpisce anche che il concetto di terroir sia implicitamente riferito esclusivamente al vino.
A questo punto conviene allora vedere cosa intende per terroir vitivinicolo l’O.I.V. (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino con sede, si badi bene, a Parigi. La definizione ufficiale di terroir vitivinicolo adottata nel 2010 recita: il terroir vitivinicolo è un concetto che si riferisce ad uno spazio (geografico) sul quale si è sviluppato un sapere collettivo dall’interazione tra un ambiente fisico e biologico identificabile e le pratiche vitivinicole applicate, fino a conferire delle caratteristiche distintive ai prodotti originari di quel determinato spazio (geografico).
In questa definizione gli aspetti socioeconomici hanno un peso maggiore, però sono considerati in un’ottica sostanzialmente statica per cui le pratiche vitivinicole si fossilizzano nelle forme raggiunte attraverso il processo storico di apprendimento e consolidamento. Diventa così impossibile trovare quell’equilibrio tra storia ed innovazione che permette alla tradizione di evolversi per non tradire se stessa.
Concludendo questa lunga premessa teorica credo sia giusto ricordare che dell’ambiente socio-economico fanno parte anche i consumatori, o co-produttori come direbbe Petrini, attraverso l’adozione e diffusione dei prodotti provenienti da un determinato terroir. Se già in passato ci sono esempi di separazione geografica tra il terroir di produzione ed i suoi consumatori (come sarebbe evoluto il terroir Bordeaux senza il mercato inglese?), oggigiorno questo è la norma più che l’eccezione. Confrontarsi con un’eterogeneità di consumatori, appartenenti a culture diverse, richiede da parte delle componenti produttive del sistema del terroir una particolare attenzione alla propria identità essenziale.
Fin qui solo teorica, ma in pratica? In pratica una interpretazione del concetto di terroir chiara e condivisa da tutti gli operatori è indispensabile per gestire con successo le Denominazioni d’Origine.
L’esempio dell’importanza del ruolo delle componenti socio-economiche nella definizione e nel successo di un terroir appare evidente nel caso della Franciacorta.
Si tratta infatti di uno spazio geografico senza tradizione vitivinicola, che nell’arco di 50/40 anni è diventato per tutti il terroir di eccellenza delle bollicine italiane. Eppure, pur non essendo un esperto in agronomia ed ampelografia, dubito si possa dire che dal punto di vista pedoclimatico presenti delle condizioni migliori e più omogenee rispetto a zone di maggior tradizione come, ad esempio, Asti, Trentino o L’Oltrepo Pavese.
Quello che ha permesso al Franciacorta di diventare il successo che è oggi è stata l’interpretazione originale, direi pure la scoperta, di una specifica visione dell’enologia applicata ad un determinato territorio.
Ancora più interessante notare come in Franciacorta questa interpretazione del territorio sia partita da alcune cantine e si sia poi diffusa tra i nuovi produttori che man mano entravano ad operare nella zona, che consolidavano così quella cultura vitivinicola su cui si basa la creazione del terroir.
E un fenomeno unico nella realtà italiana dove normalmente ad una denominazione forte corrispondono marchi aziendali deboli e viceversa. In Franciacorta invece la coesione dei produttori nell’adottare un’interpretazione omogenea del territorio determina una sinergia in cui il riferimento delle cantine di eccellenza ricade su tutto il territorio, stimolando comportamenti di emulazione, più che di imitazione, in un circolo virtuoso che rafforza ulteriore la cultura, l’identità e quindi l’immagine del terroir.
In sintesi nell’eccellenza che sta alla base del successo del Franciacorta il fattore umano gioca un ruolo almeno altrettanto determinante dei fattori pedoclimatici (se non di più). Tralasciare questa componente nella gestione di una denominazione comporta sicuramente un indebolimento dell’identità che impedisce al terroir nel suo complesso di mantenersi dinamico ed allo stesso tempo coerente con la propria storia.
La conseguenza è oscillare tra i due estremi della fossilizzazione in una tradizione fine a se stessa o l’inseguimento di consumi congiunturali attraverso scelte che rischiano di disperdere in pochi anni una reputazione costruita nel corso di decenni, quando non di secoli.

Il calo dei consumi nazionali di vino e la microeconomia. 1

Il 2011 è stato l’anno in cui il settore del vino italiano si è posto la questione del calo del mercato interno (non userò il terribile anglicismo di mercato domestico, anche perchè in italiano ha un significato precise e diverso: indica i consumi realizzati in casa rispetto a quelli fuori casa o alla mescita. Di questo passo chiameremo le biblioteche librerie).
La cosa probabilmente ha raggiunto una dimensione tale da non poter più essere ignorata, se poco più di un mese ad una cena durante l’European Wine Blogging Conference un blogger americano mi chiedeva cosa si stava facebdo in Italia per affrontare il problema.
Visto che non è che si faccia molto, ma di questo parlerò tra poco, vediamo di inquadrare la dimensione del fenomeno. Normalmente si cita il confronto con il passato, diciamo i 100 litri pro-capite consumati 30-35 anni fa rispetto ai 43 litri di oggi. Si tratta di un dato sicuramente eclatante, ma che ritengo poco efficace per trasmettere l’urgenza di attivare azioni di contrasto alla tendenza in corso.
Preferisco quindi provare a fare delle previsioni e farle a lungo termine visto che il tempo del vigneto e de vino spesso non coincidono con il tempo dell’uomo (citazione da Alberto Ugolini).
Incrociando molto spannometricamente i dati dell’ultima ricerca sul consumo di alcolici realizzata da Doxa per l’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcol del Censis con una proiezione della distribuzione della popolazione per classi di età da qui a 25 anni (preso come il tempo medio di vita produttiva di un vigneto) ho calcolato che nel 2024 il consumo di vino in Italia sarà di circa 2,3 milioni di hl INFERIORE a quello attuale. Per dare un parametro di riferimento si tratta di una quantità superiore di oltre 13 volte al vino italiano esportato in Cina (la grande speranza dei mercati mondiali) nel prima semestre del 2011.
Personalmente la ritengo una stima per difetto, ma potrei sbagliarmi anche di molto visto che l’ho calcolata nei ritagli di tempo e con una limitata disponibilità di dati. Commissionando ad un Istituto una ricerca del costo di 3.000-4.000 euro si può facilmente avere una previsione molto più solida. Se uno dei tanti organismi pubblici e/o collettivi che operano nel marcato del vino ritiene che si tratti di una cifra abbordabile (direi di sì) e di soldi ben spesi (direi doppiamente di sì), io sono disponibile a dare il brief all’istituto ed impostare l’analisi.
Tornando al numero, credo sia tale da giustificare una preoccupazione per il settore viti-vinicolo e mi è sembrata meritevole l’iniziativa del Vinitaly che quest’anno nell’immininenza della Fiera ha stimolato un dibattito sull’argomento, coinvolgendo operatori appartenenti a tutte le diverse categorie che operano nel sistema vino in Italia (in realtà i viticoltori erano poco o nulla rappresentati. La cosa secondo me è significativa e peculiare, ma questo è un altro discorso)
Sul sito del Vinitaly trovate tutte le brevi interviste (anche la mia). Al di là dei diversi spunti, nei fatti le aziende continuona ad operare soprattutto in un logica sintetizzata nella sua dichiarazione dal dottor Piero Antinori: “Quello della crisi dei consumi interni di vino è un falso problema, preoccupiamoci piuttosto di vendere bene nel resto del mondo. Il vino di qualità e’ il prodotto più globale in assoluto, non vedo perchè ci si debba focalizzare su una nicchia di 60 milioni di abitanti quando fuori c’è un mercato di 6 miliardi di persone da conquistare. Per una volta il nostro Paese dovrebbe pensare a crescere, non a conservare”. Così il presidente dell’Istituto del vino italiano di qualità Grandi Marchi, Piero Antinori, è intervenuto nel recente dibattito sulla crisi dei consumi interni di vino. “Allarmarsi per un calo fisiologico dei consumi interni è come guardare la pagliuzza per non vedere la trave. Negli ultimi 10 anni gli Stati Uniti hanno visto raddoppiare i consumi interni, per non parlare dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina), dove 3 miliardi di persone e centinaia di milioni di nuovi ricchi si ‘occidentalizzano’ attraverso i nostri status symbol, vino di qualità in primis. In Cina – che è già un mercato potenziale da un miliardo di bottiglie l’anno – ogni 100 litri di vino provenienti dall’estero solo 5 portano l’etichetta italiana. E ancora, a Hong Kong, hub principale per la distribuzione del vino in Asia, il vino italiano si colloca in settima posizione, con una quota di penetrazione del 2,3%, contro il 33% della Gran Bretagna – che distribuisce per lo più vino francese – o il 31% della Francia. Sono questi – ha aggiunto il presidente Antinori – i veri problemi del nostro vino, non tanto quelli legati ai consumi interni. I consumatori italiani sono senz’altro tra i piu’ maturi e consapevoli al mondo: qui, negli anni, il vino si è trasformato da alimento a piacere, da abitudine a scelta culturale. Certo – ha concluso Antinori -non giovano le campagne sempre più aggressive contro il consumo di alcoolici. Campagne dove il vino è sul banco degli imputati e dove si rischia di fare di un’erba un fascio”.
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E qui entra in gioco la microeconomia, perchè questo approccio segue il principio di massimizzazione della produttività (e reddività) marginale della teoria dell’impresa. Detto in altre parole oggi la redditività di 1 euro investito in determinati mercati esteri è (con ogni probabilità) superiore a quella dello stesso euro investito sul mercato nazionale.
La teoria microeconomica dell’impresa si basa però su alcuni assiomi che non sempre trovano riscontro nella realtà, soprattutto nel periodo medio lungo, a cui bisogna guardare se si vuole vivere e non solo sopravvivere. Se così non fosse non si spiegherebbe, ad esempio, il successo di un denominazione come la Franciacorta, le cui vendite si rivolgono in larghissima prevalenza al mercato italiano.
Quindi le domande poste da Vinitaly vanno circostanziate con maggior dettaglio e precisione:
- quali saranno gli affetti di un calo di 2,5 milioni di hl del consumo interno di vino nei prossimi 25 anni?
- quali sono i fattori alla base di questa tendenza (le previsioni basate sui trend demografici hanno il grande vantaggio di basarsi in buona parte su cose già successe)?
- questi fattori possono essere affrontati in modo da correggere il trend? Se sì, come?
- le strategie di contrasto oltre ad essere efficaci possono essere efficenti, ossia economicamente giustificate a livello di settore e/o di azienda?

Io qualche ipotesi di risposta ce l’ho, però questo post è già andato oltre ogni logica e sensata lunghezza. Mi prendo quindi del tempo per la seconda puntata, sperando magari di raccoglierne altre dai commenti che sono sempre benenuti.