Sono andato a fare la spesa da ALDI ed è stata una delusione.

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Nelle scorse settimane la catena tedesca di discount ALDI ha aperto i primi punti vendita in Italia. In realtà erano anni che si parlava dell’arrivo di ALDI in Italia, ma questa veniva sempre rimandata per la valutazione dell’azienda tedesca rispetto all’attrattività del mercato italiano, considerato troppo complesso per riuscire ad applicare con successo il proprio modello di business.

Ma qual è il modello di business di ALDI? Pur non avendoci mai lavorato dentro, credo di poter dire che si tratta di una catena distributiva che conosco abbastanza bene, per averla frequentata come consumatore prima (ogni viaggio in Germania di lavoro o di piacere prevedeva almeno una spesa da ALDI per vedere cosa si erano “inventati” di nuovo) sia perché per diversi anni sono stato un loro fornitore in Germania.

Detto in sintesi ALDI è l’insegna che negli anni ’60 del secolo scorso ha inventato e realizzato il concetto di hard discount. Il nome ALDI è la crasi di ALbrecht (cognome dei due fratelli che la fondarono rilevando l’attività fondata dalla madre nel 1913) e DIscount.

L’azienda è ancora di proprietà dei discendenti dei due fratelli Karl e Theo Albrecht ed è una delle più grandi aziende della distribuzione a livello mondiale, presente in 18 nazioni.

La proposta di base di ALDI è quella di offrire ai clienti prodotti di qualità medio-alta al prezzo più basso del mercato. Uno dei tanti esempi per esperienza personale: il succo d’arancia di ALDI è più buono di quelli che posso trovare negli altri supermercati (discount e non) e costa meno di tutti, ergo perché dovrei andare a fare la spesa altrove?

La domanda che spesso si fanno anche i professionisti del settore è come sia possibile mantenere questa promessa guadagnando (un sacco di) soldi.

Senza pensare di avere la verità in tasca, e non chiamandomi (purtroppo) Lorenzo Albrecht, secondo me si possono individuare alcuni fattori riconducibili alla massima efficienza e praticità nella gestione del business, che si traduce anche in efficienza e praticità per le persone che vanno a fare la spesa da ALDI.

Nell’analizzarli mi riferirò alla realtà tedesca, sia perché la conosco meglio, sia perché quella originaria/archetipica. In realtà comunque i punti vendita australiani, inglesi o americani differiscono poco da quelli tedeschi.

 

Posizione e disposizione dei punti vendita.

Come ha detto W. Galen Weston, il manager canadese che negli anni 70 ha preso in mano la gestione della Loblaws, la catena distributiva di famiglia, portandola dall’orlo della bancarotta ad essere una delle aziende di distribuzione di maggior successo di tutto il nord america, la vendita al dettaglio si basa su tre “L”: location, location, location.

I fratelli Albrecht, senza dirlo a nessuno, l’avevano capito prima. I negozi ALDI si trovano all’interno delle città, appena fuori dei centri storici e/o nell’immediata periferia. Sono sostanzialmente dei punti vendita di prossimità facilmente raggiungibili, con un buon spazio per parcheggiare in zono “normali” dal punto di vista commerciale e residenziale, quindi zone dove gli spazi commerciali non sono particolarmente costosi. Soprattutto non richiedono lo sforzo di tempo e stress necessario per andare in un centro commerciale all’estrema periferia cittadina (quando non è nel mezzo del nulla).

I punti vendita ALDI sono tutti sostanzialmente uguali: un parallelepipedo ad un piano livello strada con una superficie di vendita di circa 1.000 m2 (tenete presente che un supermercato va da 400 a 2.500 m2, mentre un ipermercato parte da 2.500 m2, ma la dimensione normale è tra i 4.000 ed i 10.000 m2). 

La sensazione all’interno però è di ampiezza perché le corsie sono create dai pallet espositori che non superano il 1,5 m di altezza circa. Quindi non vi trovate a camminare all’interno di corridoi di scaffali per cui la visuale copre l’intero spazio del punto vendita. Scaffali o esposizioni di prodotto più alti vengono realizzati lungo le pareti perimetrali, senza intralciare la vista dello spazio interno.

La disposizione dei prodotti è sempre la stessa per tutti i punti vendita, quindi in qualsiasi ALDI andiate a fare la spesa non avrete problemi ad orientarvi per trovare quello che cercate.

 

Assortimento.

Da ALDI trovate tutto il necessario e (quasi) niente di superfluo, anche se in realtà il concetto di “necessario vs. superfluo” è espresso meglio dai termini inglese “need vs nice”.

Attenzione che nel necessario ci metto dentro anche la referenza di champagne, che però è una sola, senza alternative o varianti che rappresenterebbero il “nice” o “superfluo”.

Il numero di referenze all’interno di un punto di vendita ALDI è di circa 2.000 mentre nel 2016 mediamente un supermercato in Italia ne aveva 10.923. Per capirsi una referenza corrisponde ad un codice EAN e non al numero di confezioni presenti nel punto vendita; ad esempio la confezione di nutella da 500 g e quella da 250 g sono due referenze diverse, poi a seconda della dimensione del supermercato per ogni referenza ci potranno essere 1,2,3,4, … “facing”, ossia confezioni sul fronte dello scaffale che ne occupano lo spazio lineare.

Nella maggioranza delle categorie merceologiche ALDI offre una sola referenza: una referenza di champagne, una referenza di succo di arancia, una referenza di brioche, ecc..

Inoltre la quasi totalità delle referenze, circa il 90%, è prodotto con un marchio di fantasia di proprietà di ALDI o riservato in esclusiva a loro.

Questa struttura dell’assortimento implica diversi vantaggi:

-          Meno referenze significa meno spazio necessario a magazzino per gestire le scorte e meno spazio necessario sul punto vendita per esporre i prodotti.

-          Meno referenze significa la possibilità di esporre sul punto vendita più confezioni, quindi minor frequenza nel ricaricare gli scaffali, quindi minori costi di personale, ossia più efficienza. Se poi ci aggiungete il fatto che spesso l’esposizione è fatta collocando nel punto vendita direttamente il pallet-espositore l’efficienza del personale aumenta ancora di più.

-          Meno referenze significa più rotazioni per ogni singola referenza: se c’è una sola marca di latte invece di quattro, tutti compreranno quella mentre in un supermercato tradizionale le vendite si divideranno tra le varie opzioni disponibili.

-          Più rotazioni per singola referenza significano maggiori vendite e quindi maggior potere contrattuale da parte dei compratori ai ALDI nei confronti dei fornitori.

-          … ma significano anche maggiori possibilità per i fornitori di sviluppare economie di scale e quindi di poter fornire la stessa qualità a costi/prezzi più bassi.

-          Maggiori vendite significa maggior efficienza nella logistica dei trasporti perché si spediscono quantità maggiori per ogni consegna.

-          Meno referenze significa meno fornitori e quindi maggior efficienza in tutti gli aspetti amministrativi e di gestione.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” rafforza la credibilità dei prodotti presenti nel punto vendita, che viceversa potrebbero essere messi in discussione / sminuiti dal prodotto a marchio industriale.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” differenzia il punto vendita ALDI rispetto alle altre catene di discount e supermercati nella sua totalità: i prodotti che trovo da ALDI non li posso comprare da nessuna altra parte. Indipendentemente dal marchio che ci sarà sulla confezione, le fette biscottate (ad esempio) sono percepite come le “fette biscottate di ALDI”. In questa situazione il marchio ed il packaging perdono quindi la loro funzione differenziante, per limitarsi a quella estetica ed a quella identificativa. Non a caso i prodotti di ALDI hanno tutti una confezione che riprende i codici visivi e di comunicazione della categoria merceologica a cui appartengono.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” permette ad ALDI di mantenere la promessa di prezzi bassi. Un marchio industriale infatti ha sempre anche una componente di valore intangibile che deriva dalla comunicazione e dall’innovazione, componente utile (anche per il consumatore in generale), ma non necessaria. E quindi che esula dallo scopo / promessa di ALDI. Infatti da ALDI non troverete mai un prodotto che rappresenta una novità assoluta per il mercato, però le innovazioni vengono rapidamente adottate nel momento in cui cominciano a prendere piede sul mercato.

 

Politiche promo pubblicitarie.

La strategia di ALDI in Germania praticamente non prevede l’utilizzo della pubblicità, mentre questa è utilizzata nei paesi anglosassoni.

 In termini di politiche di prezzo la politica è quella del “prezzo-basso-tutti-i-giorni”, senza l’utilizzo di campagne di sconti periodiche. Le campagne promozionali riguardano principalmente referenze stagionali e non in assortimento continuativo, inserite temporaneamente per seguire le richieste dei clienti nei vari periodi dell’anno (articoli da giardinaggio in primavera, fuochi artificiali a Capodanno, ecc..)

 

Guadagni assoluti ottenuti attraverso l’applicazione di minori margini unitari su grandi volumi di vendita.

Oltre ai vantaggi nei costi di gestione che derivano dal modello di business adottato, in parte sommariamente descritti sopra, la capacità di ALDI di vendere a prezzi più bassi dei concorrenti deriva da una precisa scelta nel rapporto tra volumi di vendita e margini unitari per ottenere i guadagni in valore assoluto.

 

Qualità intrinseca dei prodotti elevata.

Tutti i fattori competitivi descritti prima verrebbero fortemente ridimensionati, se non annullati, nel caso in cui al basso prezzo corrispondesse una bassa qualità intrinseca dei prodotti offerti.

Infatti il principale pilastro che sostiene il successo di ALDI è indubbiamente la qualità dei prodotti che vende nei propri punti vendita, che oscilla tra eccellente e buona.

Nel processo di selezione dei fornitori ALDI non parte dal prezzo, ma dalla valutazione delle caratteristiche del prodotto. Se queste soddisfano gli standard stabiliti, che verranno controllati costantemente da loro durante tutta la fornitura, allora si passa alla valutazione della capacità di soddisfare i requisiti logistici (perché non basta fare un buon prodotto al prezzo giusto se poi non si è in grado di garantire il servizio di approvvigionamento che ne garantisca la disponibilità nei punti vendita).

Sul prezzo in realtà i fornitori di ALDI discutono poco, nel senso che l’intervallo in cui si può muovere la trattativa è intuibile a priori e dipende dal prezzo a cui il prodotto viene venduto nel punto vendita. Se non si pensa di essere in grado di fornire un determinato livello di qualità del prodotto e del servizio all’interno di quell’intervallo, è meglio lasciar perdere in partenza.

 

Questa visione ed il modo in cui è stata realizzata da oltre cinquant’anni a questa parte hanno fatto di ALDI un “game changer” in tutti i mercati in cui opera. Per questo c’era, e c’è, molta preoccupazione e curiosità per il suo arrivo in Italia.

Io però nel punto vendita di Trieste dell’ALDI che conosco ho trovato poco e non visto molto di così preoccupante. Ma oramai per oggi è tardi e ve lo racconterò dopo Pasqua.

Auguri.

Dopo i giornali, i prossimi suicidi saranno quelli di (alcune) catene di super e ipermercati?

Che i giornali si stavano suicidando l’ho scritto in un post del lontano 30 agosto del 2008. Evito di aggiungere e/o riprendere cose già scritte a suo tempo. Se volete capire l’introduzione di questo post, ecco qui il link a “Perchè i giornali si stanno suicidando”

Sottolineo solamente che la scelta del termine “suicidarsi” era per sottolineare come la morte dei giornali non fosse conseguenza inevitabile per il cambiamento della domanda del mercato, bensì conseguenza delle scelte (coscienti o meno) dei giornali stessi.

Mi chiedo se la stessa cosa non stia avvenendo per alcune catene della grande distribuzione italiana, dopo aver passato una settimana ad analizzarne i dati di andamento ed aver frequentato un po’ di punti vendita.

In estrema sintesi lo sviluppo della grande distribuzione commerciale in Italia è avvenuto principalmente a scapito dei negozi tradizionali fino ad almento metà degli anni ’90, con una redditività basata in buona parte sui contributi richiesti, ed ottenuti, dai fornitori e dalla rendita finanziaria creata dall’incassare immediatamente per la vendita di prodotti pagati a 90/120 giorni.

Questo scenario è andato annullandosi nel corso degli ultimi anni con le nuove aperture di super ed ipermercati, la riduzione delle risorse che i fornitori possono destinare a finanziarie la propria presenza sugli scaffali e l’annullamento della redditività finanziaria.

Tutto questo significa che oggi le catene della grande distribuzione devono costruire il successo di vendita e di reddività grazie a quello che avrebbe dovuto essere stato sempre il loro business principale: soddisfare in modo più efficace ed efficiente i desideri/bisogni dei loro clienti attuali e potenziali.

Lo stanno facendo?

La settimana scorsa ero a Milano accompagnando una missione commerciale di produttori alimentari tedeschi che cercavano importatori distributori in Italia. Ho quindi approfittato per andare a vedere un punto vendita Esselunga, come faccio sempre ogni volta che sono a Milano. Esselunga infatti è la catena distributiva più innovativa nei diversi aspetti della proposta e quindi, quando me ne capita l’occasione vado a vedere la “frontiera” della distribuzione in Italia. (i punti vendita Esselunga si trovano sostanzialmente solo in Lombardia, Toscana e Lazio).

Sarà forse perchè venivo da aver visitato du supermercati biologici dove regnava un’atmosfera rilassata, ma è stata una delusione.

Confusione, musica alta, questi scaffali lunghi ed alti che davano una sensazione industriale e leggermente claustrofobica e rendevano difficile orientarsi tra l’assortimento ed individuare i prodotti/marche. I prodotti biologici erano collocati insieme a quelli non biologici della stessa categoria merceologica (meglio così o meglio creare il reparto biologico all’interno del punto vendita?), ma in modo così confusi che si faceva fatica trovarli.

Per la cronaca sono sto parlando dell’Esselunga di Via Losanna a Milano

Ieri invece sono dovuto andare in un supermercato PAM a Trieste, perchè le Coop Essepiù dove vado di solito erano chiuse in occasione del 25 aprile (non esprimo opinioni sulla scelta). Credo sia il supermercato più scomodo del mondo, uno dei più user UNfriendly che abbi mai visto in termini di disposizione, assortimento, prezzi, organizzazione. Direi che rispecchia la cultura di business aziendale, che nelle mia esperienza di fornitore della catena si basa sul massimo sfruttamento della propria posizione.

Già scrivendo di marketing totale ho modificato la P di “Place” (distribuzione) in “Presenza”.

La domanda quindi è: cosa vogliono, e cosa vorranno in futuro, le persone riguardo all’approvvigionamento dei prodotti che usano per vivere (ossia riguardo a quello che oggi è rappresentato dal “fare la spesa”)? Sarà qualcosa di profondamente diverso da oggi nella sua essenza o solo nella forma? Come fare a soddisfarli?

Butto lì una dritta agli amici e colleghi della GDO: è almeno dal 2008 (ma ho ricordi di ricerche che risalivano al 2004 e riportavano gli stessi dati) che la quota di mercato dei negozi con licenza ambulante (i mercati rionali) si mantiene costante intorno all’11% del totale delle vendite di prodotti alimentari. Mentre i piccoli negozi tradizionali continuano a chiudere, gli ambulanti si mantengono costanti.

Forse per capire come soddisfare i consumatori nel futuro conviene analizzare in profondità cosa gli spinge a continuare a fare la spesa presso la forma di commercio più arcaica che c’è.

Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 5: le politiche di PRESENZA (già distribuzione).

Ok il post di oggi è facile perchè il futuro delle distribuzione l’ho già presagito quando ho cambiato 2 delle 4 P del marketing, ribattezzando la “distribuzione” in “presenza” (qui il link al post del 19 maggio 2013, tempus fugit).

La distribuzione del futuro sarà quindi basata sulla presenza dei prodotti/servizi nei luoghi fisici e/o virtuali dove sono presenti i (potenziali) consumatori.

Gli esempi di scaffale virtuale parlano al presente (avanzato per carità) più che al futuro, visto che le esperienze di Tesco nelle stazioni della metropolitana in Sud Corea e Peapod a nelle stazioni del trasporto pubblico di Chicago sono rispettivamente del 2011 e del 2012.

Più che di ispirazione, siamo oramai nella fase di valutazione dei risultati ed adattamento della tecnologia per la sua diffusione, come spiega questo articolo sul cammino fatto da Tesco su questa strada.

La rivoluzionarietà del concetto è sintetizzata nella dichiarazione di Mike McNamara, group CIO di Tesco: “Il merchandising virtuale ci permette di caricare scaffali virtuali con prodotti virtuali semplicemente premendo un bottone. Non dovendo più fare il laborioso processo di allestire fisicamente nuovi assortimenti, adesso possiamo provare INFINITAMENTE più combinazioni di assortimenti e formati. Per i nostri clienti questo significa che possiamo adattare gli assortimenti dei nostri negozi alle richieste locali ed allo stesso tempo mantenere un’ottima gestione del planogramma, necessaria per avere un’operatività efficiente.

Visto  che ultimamente ho letto da più parti che l’evoluzione verso la società digitale sta indebolendo il concetto di “marca”, mi sembra utile sottolineare come la riconoscibilità ed il significato valoriale della marca siano cruciali in una situazione di scaffale virtuale. Bisogna però essere marca, come scrivevo lo scorso 24 agosto , perchè solo a chiacchere e distintivo non si va molto lontano.

Bene: sono in giro per i fatti miei, trovo uno scaffale virtuale, ho 5 minuti per fare la spesa, guardo i prodotti che mi interessanoe confermo l’acquisto facendo l’occhiolino. Poi come faccio ad averli fisicamente?

Ho già detto che non sono così convinto sul proliferare dei droni. E’ più una cosa di pelle, ma se devo cercare di razionalizzare forse è perchè il drone funziona se il cliente è in uno spazio preciso e facilmente accessibile (poi è sicuro che da qui al 2024 i droni saranno in grado di aprire le porte “digitando” la password a distanza).

Il futuro della società invece secondo me vedrà un aumento di mobilità. Questo apre l’opportunità ad intercettare il cliente nei sui percorsi che fa per i suoi scopi personali. Tesco, ancora loro, l’hanno capito e sono stati i primi ad organizzare un e-commerce su larga scala che prevede la possibilità di ritirare l’ordine in un punto vendita a scelta. Non sono costretto a stare a casa ad aspettare la consegna, sulla strada di casa passo a raccogliere l’ordine che ho fatto virtualmente. Le ricerche prima, ed i risultati poi dimostrano che circa il 50% delle persone preferisce questa formula a quella della consegna a domicilio.

Si sfruttano di più gli spazi fisici del negozio, dove la funzione di “deposito” diventa preminente su quella di esposizione della merce e si utilizza il personale, meno impegnato nella gestione degli scaffali. Come fossero tanti Amazon aperti al pubblico.

Per tutto quello acquistabile e fruibile on-line il concetto è il medesimo: non sarà il cliente ad andare nel negozio, ma il negozio ad andare dal cliente. In questo caso senza neanche i problemi di logistica per la consegna.

L’autentica realizzazione del regno del consumatore, liberato dalla schiavitù di dover ANDARE a fare la spesa.

 

 

 

 

 

 

Le conseguenza della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 3

Dunque, dopo aver passato lo scorso fine settimana al Vinitaly e quello prima al ProWein, il prossimo sono a Chicago. L’unico fine settimana in un mese in cui sono a casa arriva finalmente la primavera ed io d avenerdì ho un fortissimo raffreddore con conseguente afonia ed eruzione cutanea (???). Niente cavallo, niente orto, niente di niente. volendo vedere il bicchiere mezzo pieno (o forse solo 1/4), la situazione ideale per concludere la saga sull’evoluzione dei canali distributivi. Spero di non aver preso qualche strano virus asiatico, con tutti i cinesi che ho visto, e parto.

Nei due post precedenti in sintesi volevo dire che in una fase di strutturale stagnazione demografica e (quindi) economica non sarà la convenienza fine a se stessa a far ripartire i consumi. Non sarà nemmeno quello che permettera di aumentare le quote di mercato, perchè nel momento in cui diventa la base dell’offerta di tutti, automaticamente non è più differenziante. L’unico risultato certo sono l’aumento medio del surplus del consumatore, in seguito all’offerta generalizzata di prezzi inferiori rivolta ad un paniere più ampio di prodotti ed a segmenti più ampi di consumatori, e la simmetrica riduzione dei margini della distribuzione. Di per sè ptrebbe anche essere una cosa positiva, fino al giorno in cui la ferramenta che vi faceva il colore che vi serviva non è costretta a chiudere.
L’esempio più emblematico di questa eccessiva corsa allo sconto è il diffondersi delle svendite di fine stagione negli outlet, format che basa la sua essenza sulla vendita di capi delle stagioni passate a prezzi di svendita. Quante paia di scarpe può avere un uomo o un donna (niente battute sessiste)?. Quanti divani, poltrone e sofà può comprare una persona in vita sua?
Per capire quale potrà essere l’evoluzione dei canali distributivi in Italia credo sia utile innazitutto recuperare un concetto di marketing di qualche anno fa e poi passato di moda: il ciclo di vita del consumatore. E’ passato di moda talmente presto che non ho trovato riferimenti in italiano e quelli in inglese si riferiscono in realtà a due aspetti diversi: i diversi stadi del rapporto del consumatore con l’azienda e i diversi comportamenti di spesa delle persone a seconda della fase del ciclo di vita in cui si trovano. Questo secondo me è l’aspetto più autentico ed interessante, soprattutto perchè i comportamenti di acquisto vengono associati alla fase relativa del ciclo di vita delle persone a non alle loro caratteristiche demografiche assolute. Detto in altre parole le coppie che hanno il primo figlio mostrano comportamenti di acquisto simili, indipendentemente dall’età dei componenti, mentre persone con profilo demografico simile hanno comportamenti di acquisto diversi se si trovano ad uno stadio diverso del loro ciclo di vita.
Mi aspetto quindi che l’evoluzione dei canali distributivi in Italia andrà nella direzione di maggior efficenza che porterà a:
- crescita dell’e-commerce che unisce minori costi di gestione e di usufruizione all’ampiezza dell’assortimento. Questo può rappresentare un’opportunità per reti di negozio esistenti che possono diventare punti di ritiro degli ordini fatti on-line (alternativa più pratica rispetto alla consegna a domicilio per vari segmenti di consumatori).
- crescita dei punti vendita di prossimità (ed infatti i supermercati tengono), con una trasformazione degli assortimenti che aumenteranno in ampiezza (per dare maggior servizio) e si ridurranno in profondità per essere meglio gestibili sia da parte del negozio che del consumatore che ci fa la spesa dentro.
- trasformazione delle reti vendita in reti di consulenti. Questo fenomeno si è già verificato circa vent’anni fa nell’industria mangimistica e credo che sia un esempio interessante. A seguito della sempre minor differenziazione del prodotto (la valutazione di un mangime si basa sui suoi componenti nutritivi, il cui contenuto è facilmente confrontabile tra le diverse marche) le aziende hanno potenziato la propria rete di vendita. Quando anche questa è diventata una caratteristica comune di tutte le aziende, le reti di vendita sono state affiancate da reti di consulenti, a quel punto la scelta di lavorare con un’azienda piuttosto che con un altra è determinata dalla capacità del consulente di far rendere di più i propri mangimi nell’allevamento dei clienti e quindi il passaggio successivo è stata l’eliminazione delle reti di vendita (poichè sono uscito dal mondo della zootecnia vent’anni fa, non so quale sia la situazione oggi. Sarebbe interessante scoprirlo, magari si trovano indicazioni interessanti per il futuro).
- crisi dei category killers secondo l’andamento delle categorie in cui operano: esaurito il drenaggio di clientela dalla piccola distribuzione tradizionale o saranno capaci di trasformarsi oppure seguiranno l’andamento delle categorie. Non c’è dubbio che le vendite di libri fisici diminuiranno (è una questione di tecnologia), o le librerie saranno in grado di ventare qualcosa di diverso, oppure chiuderanno.

Avrò ragione? Chissà! Spero solo che chi si occupa di politiche distributive si ponga queste domande e lo faccia con un minimo di progetto per evitare inutili consumi di suolo (questa sì una risorsa limitata). E’ di poche settimane fa l’inaugurazione del nuovo casello di Villesse (Gorizia) per servire quello che diventerà il più grande parco commerciale del Nordest con un bacino di utenza stimato di 1.300.000 clienti. Ora considerato che c’è già un outlet a Palmanova (10 minuti in macchina), che tutto il Friuli Venezia Giulia ha 1.236.103 abitanti e che tutta la Slovenia ne ha poco più di 2.000.000, più che il “primo tassello di un progetto importante per l’isontino” mi sembra l’ennesimo, inutile, stupro ambientale. Una volta lì era tutta campagna.

Le conseguenze della crisi economica: l’evoluzione dei canali distributivi in Italia – 1.

Continuo la serie delle conseguenze della crisi economica. Come buona norma, partiamo dai freddi numeri.

Secondo la rilevazione ISTAT a dicembre 2012 delle vendite del commercio al dettaglio lo scorso anno le vendite al dettaglio a prezzi correnti (quelli pagati dai consumatori in sostanza) sono diminuite del -2,2% con un -0,9% per la GDO ed un -3,1% per le piccole superfici. L’alimentare è calato del -0,8% ed il non alimentare del -2,8%.
In termini di canali gli ipermercati hanno fatto -1,6%, i supermercati +0,1%, i discount alimentari +1,6%, i grandi magazzini -2,5% (tecnicamente la categoria è “imprese non specializzate a prevalenza non alimentare”), i category killer -1% (tecnicamente “imprese specializzate”). Questa è la sintesi, consiglio comunque di guardare il flash ISTAT linkato per una visione più completa.

Questi numeri mi hanno ricordato il 2007 quando in Stock analizzando i dati Nielsen sulle vendite della GDO si evidenziava un calo degli ipermercati, una tenuta dei supermercati, la crescita dei superstore (tipologia di punto vendita introdotta in Italia sostanzialmente da Esselunga, con una metratura tra i 1.500 ed i 3.500 m2, che quindi nella rilevazione ISTAT può ricadere o nei super o negli iper) e la crescita del discount.

Uno scenario non molto diverso da quello attuale, a conferma che la crisi economica sta soprattutto intensificando tendenze che erano già in atto, legate ad altri fattori. Quali?

Secondo me il calo dell’iper è dovuto al fatto che è diventato un formato di negozio troppo faticoso. E’ faticoso da raggiungere, è faticoso farci la spesa dentro perchè troppo dispersivo, è faticoso gestire una famiglia in un ambiente così grande ed è faticoso, a causa dell’ampiezza dell’offerta, controllare la spesa complessiva, anche se i prezzi sono/fossero mediamente più convenienti rispetto ad altri formati.
Visto in termini più “sociologici”, l’iper è un formato che si basa sul concetto di “andiamo a passare il pomeriggio al centro commerciale” e quando per l’evoluzione socio-demografica questo concetto diventa spesso un incubo, l’iper entra in crisi. Non voglio dilungarmi troppo in approfondimenti e spiegazioni, ricordo solo che una delle cose che caratterizzano le società occidentali e la carestia di tempo.

Il supermercato viceversa è diventato il punto vendita di prossimità sia in termini fisici che di “esperienza di acquisto (semplicità degli assortimenti, conoscenza del personale, ecc…) , sostituendo in questo i negozi tradizionali che sono andati via via sparendo. In più ha intensificato la convenienza di prezzo con lo strumento delle promozioni, strumento che ha acquistato più forza in seguito alla banalizzazione delle marche e quindi alla parcezione da parte del consumatore di una determinata categoria di prodotto come sostanzialmente omogenea. In altre parole ogni settimana il consumatore può trovare una merendina, un prosciutto, un vino, un olio, ecc. in offerta.

Il discount abbandona la marca (quello italiano non del tutto) per spingere al massimo sul convenienza, grazie anche ad un assortimento ridotto (che significa anche semplicità) ed una praticità della localizzaizone dei punti vendita simile al supermercato.

In questa situazione, che ripeto esisteva già nel 2007, si inserisce la crisi economica e la risposta praticamente di tutte le catene distributive e di tutti i formati è quella di puntare esclusivamente sulla convenienza, con i deludenti risultati che abbiamo visto.

La ragione di questo insuccesso si potrebbe ricondurre alla perdita di senso di cui parlavo in questo blog nel 2008 analizzando le strategie dei produttori.

Secondo me però c’è qualcosa di più profondo ed è il fallimento della visione aziendale guidata dalla finanza e sostenuta dalle vendite che ha caratterizzato le aziende negli ultimi 5-10 anni.

Ne ho già parlato nel 2010 in una serie di post inziata a settembre e terminata ad ottobre, però nel nuovo scenario attuale vale la pena di approfondire.

Oggi ho pubblicato un post che aveva nel titolo il termine autismo. Prima di usarlo ho fatto un brevissimo approfondimento su wikipedia per essere sicuro che fosse attinente. con tutto il dovuto rispetto per chi veramente soffre della malattia, ragionando in senso lato in ambito socio-economico mi ha colpito la descrizione di due sintomi: l’ecolalia, ossia la ripetizione di parole, suoni o frasi sentite dire, senza che queste si trasformino in apprendimento da utilizzare in modo costruttivo in situazioni diverse da quelle in cui sono state generate, e la marcata resistenza al cambiamento, consegfuenza dell’importanza per l’ordine.

Ecco, sempre senza voler mancare di rispetto a chi è malato, credo che per descrivere spiegare l’incapacità di rispondere all’attuale afasia economica (termine rubato ad un amico) sia necessario andare oltre al concetto già noto di “miopia di marketing” e conio il termine di “autismo di marketing”.

Rispetto al tema questo post non è nemmeno a metà, però è già tardi ed è il secondo in un giorno. La mente si sta sfuocando e quindi rimando ad una prossima puntata. Non garantisco quando, perchè il prossimo fine settimana c’è il Vinitaly. salute!