Costruire, rafforzare e mantenere marche iconiche.

Piramide marca iconica

L’altro giorno sul solito Marketing News dell’American Marketing Association ho letto un’intervista a Soon Yu, autore del libro Iconic Advantage .

La tentazione è di fare un copia-incolla totale, vista la quantità di cose che ho detto, pensato e (cercato di fare) nella mia attività professionale che ci ho trovato dentro.

Resisto alla tentazione e cerco di farne una sintesi ragionata, ricordando un concetto che ripeto in tutti i miei interventi formativi: le marche crescono, si rafforzano e prosperano nella misura in cui vengono alimentate di idee (significati).

Vedasi anche il mio concetto di “supermarca”.

Ma andiamo ad incominciare.

 

Come si crea una marca iconica?

Va innanzitutto definito il proprio punto di differenziazione unicità (vedasi il mio concetto di “Best Selling Proposition”) e quali sono gli elementi che lo rendono percepibile dal mercato (signature element).

Il punto di differenziazione non è MAI rappresentato dalle caratteristiche del prodotto, ma SEMPRE dalla rilevanza che i sui vantaggi (benefits) significano per la vita dei consumatori.

Per trovare il proprio punto di differenziazione può aiutare la piramide della marca iconica del Sig. Yu. Io uso un modello di ragionamento a matrice un (bel) po’ diverso, ma lo riservo per i clienti o per chi partecipa ai miei corsi di formazione

Bella comunque la metafora di Yu quando dice che la trappola per topi più efficace non è quella più grande o più veloce, ma quella con il formaggio dall’odore più forte.

Spesso le marche iconiche cominciano dalla leadership di una nicchia di mercato (“owning a market niche” rende forse meglio l’idea), perché questo implica una rilevanza distintiva. Per diventare iconici bisogna aggiungere la longevità alla distintività: una marca che mantiene rilevanza distintiva per un lungo periodo di tempo diventa iconica.

 

Come si mantiene una marca iconica?

Ci sono quattro elementi che costituiscono la cornice in cui si crea la rilevanza senza tempo di una marca iconica:

  1. Proteggere l’elemento che rappresenta la marca (brand signature element) per creare familiarità.
  2. Evolvere il racconto della propria eredità/retaggio/origini per alimentare la marca di significato.
  3. Innovare il vantaggio (benefit) per le persone in modo da rinnovare l’interesse (excitement).
  4. Re-immaginare il design per mantenerlo fresco ed attuale.

In realtà gli ultimi tre sono le leve da usare per realizzare la protezione dell’elemento che rappresenta la marca, che è il punto chiave.

 

Perché le marche iconiche si perdono?

Le marche iconiche si perdono per ignoranza interna, per eccessiva voglia di novità o per eccessivo immobilismo.

Ignoranza interna:

se l’azienda non sa cos’è che rende la propria marca iconica in termini di vantaggio distintivo per il mercato ed elemento rappresentativo non potrà proteggerlo. La marca continuerà a rimanere iconica “per caso”, fino a quando gli elementi della sua iconicità verranno cambiati (altrettanto per caso).

 

Eccessiva voglia di novità:

questo secondo è il motivo principale per cui le marche iconiche si perdono. Si verifica quando chi gestisce la marca smette di cercarne il vero significato ed elimina quello che la rendeva iconica per cercarne di completamente nuovi.

Invece di aggiornare gli elementi iconici, evolvendoli, si abbandonano per cercare di creare un significato totalmente nuovo.

Questo può avvenire:

-          per un cambio del management, per cui il nuovo management non conosce chiaramente quali sono gli elementi che rendono la marca iconica (l’ignoranza interna di cui sopra) e/o vuole portare il proprio contributo alla marca.

-          Per una “naturale” noia del management, che dopo anni di gestione della marca vuole fare qualcosa di nuovo e diverso.

-          Per la presunzione di onnipotenza del management, che crede che l’iconicità della marca sia così forte e diffusa da prescindere dagli elementi che l’hanno generata e su cui si basa.

 

Eccessivo immobilismo:

E’ la trappola della coerenza, che resta comunque la base fondamentale di qualsiasi strategia di marketing di successo nel medio-lungo periodo.

Il management decide che per proteggere l’iconicità raggiunta dalla marca non si può né deve toccare niente fino alla morte. Quindi muoiono.

Coerenza vuole dire rimanere fedeli alla propria storia, ai propri valori, alla propria personalità. Questo permette di far evolvere la marca in modo equilibrato infondendo il giusto grado di novità per mantenere rilevanza ed interesse, senza perdere in familiarità.

 

Tutti i concetti precedenti sono sintetizzati in un esempio che fa il Signor Yu di una marca iconica e che riporto letteralmente parola per parola.

C’è Nike Air Max e il suo elemento distintivo che rappresenta la marca (signature element) è la bolla d’aria nella suola. Questo incapsula il loro punto di differenziazione della linea Air Max: rimbalzabilità (buoyance) e prestazioni. La maggior parte della scarpe da ginnastica perdono fino al 40% di sostegno durante la vita della scarpa, ma una bolla d’aria non perderà mai la sua rimbalzabilità. Nike fa tutto il possibile per evidenziare e celebrare questa differenza.

Il passo successivo da fare per proteggere la marca è infondere l’elemento distintivo con constante innovazione.

Quando Nike lanciò Air Max nel 1987 la bolla d’aria era nella parte posteriore del tallone. Col passare degli anni ha coperto l’intero tallone, poi anche la punta della scarpa ed infine l’intera suola. Successivamente sono state inserite “power pocket” di aria nei punti strategici della suola.

In trent’anni Nike ha continuato ad innovare il concetto della “bolla d’aria”, non è mai rimasto statico.

Hanno continuato a raccontare la storia della scarpa, come è stata creata, le nuove celebrità che la usavano, le nuove categorie sportive in cui la scarpa veniva introdotta e come queste introduzioni rivoluzionassero gli sport in cui entrava, fosse il golf oppure il tennis.

Nike ha continuato a far evolvere la storia, le storie creano significati e le persone amano i significati.

Se si guarda ai trent’anni di storia di questa scarpa si vede che hanno continuato a giocare con il design per mantenerla attuale con lo spirito del tempo e le tendenze della moda del momento/periodo.

Hanno protetto l’elemento distintivo che rappresenta la marca infondendolo di innovazione e creando storie al riguardo, circondandolo di rinnovato design, senza violarne la storia e famigliarità.

Il marketing delle mestruazioni.

Bloody hour

Gli affezionati lettori di questo blog probabilmente hanno già intuito che intuito / sanno il fascino che esercitano su di me le coincidenze. O meglio, che non credo (troppo) alle coincidenze e quindi credo (abbastanza) nel destino, ovvero il futuro non è incerto, è solo sconosciuto.
Non potevo quindi fare a meno di scrivere questo post dopo che giovedì scorso mi sono trovato prima a leggere un articolo sull’iniziativa Bloody Hour del locale Anna Loulou bar di Jaffa-Tel Aviv sul quotidiano di Valencia e poi un altro sulla strategia di marketing della marca “U by Kotex” sul numero di settembre di “Marketing News”.
Cominciamo con la Bloody Hour. Concetto e meccanica sono abbastanza semplici.
Partendo dalla considerazione che la propria clientela femminile si trova a sanguinare (traduco letteralmente dall’annuncio dell’evento su fb) il 25% dei giorni del mese, il locale ha deciso di offrire il 25% di sconto alle clienti che vanno al locale nel periodo in cui hanno le mestruazioni.
Il party di lancio dell’iniziativa si è tenuto lo scorso 28 ottobre con lo slogan, semplice ma efficace: “Bloody hour is the new happy hour”.
Per quelli di voi più pruriginosi o sospettosi va detto che per godere dello sconto non serve dimostrare niente, basta la parola e ci si basa sulla fiducia.
Dana & Moran dell’ Anna Loulou bar si aspettano e sperano che l’iniziativa si espanda in giro per il mondo.
Per il momento sicuramente quello che si è diffuso è la notizia, che è stata ripresa un po’ in tutto il mondo.
I malfidenti sono liberi di pensare che si tratti di una (bieca) operazione mediatica. Le due titolari del locale dichiarano che il loro obiettivo era duplice: da una parte far sentire riconosciute e comprese le clienti che si trovano in una situazione speciale riservandogli un trattamento di favore e dall’altra far sì che l’argomento “mestruazioni” sia affrontato più apertamente da tutti, uomini compresi.
A quanto raccontano le due titolari del locale, pare che l’idea sia venuta Moran Barir una sera che al bar il bartender non si ricordava se lei avesse ordinato vino bianco o vino rosso, al che lei rispose: “ecco come te ne ricorderai: ho le mestruazioni quindi portami un vino rosso”. Che può anche essere uno spunto interessante per tutti i wine bar, enoteche, ristoranti nonché per i produttori di vino.
Folklore di marketing a parte, complimenti per l’iniziativa.
Parte in buona parte dalle stesse premesse, ma è molto più articolata la strategia di marketing che alcuni anni fa ha portato la Kimberly-Clark a lanciare la marca di assorbenti, salvaslip, ecc… “U by Kotex”. Per i meno anglofoni e non appassionati di Prince ricordo che la pronuncia della lettera “U” suona come quella di “you”.
Anche qui l’origine del lancio della marca è la considerazione che nel posizionamento e nella pubblicità degli assorbenti si è sempre “perpetuato lo stigma culturale secondo cui il miglior periodo mestruale è quello che viene ignorato”. E giù a fare paracadutismo, mettersi pantaloni bianchi aderenti, ecc..
Il posizionamento con cui la marca è stata lanciata sette anni fa quindi è stato “Breack the Cycle”, ossia “Rompere il Ciclo”, manifestando l’obiettivo di superare gli stereotipi relativamente agli assorbenti e quindi alle mestruazioni.
Questo posizionamento ha portato allo sviluppo di un packaging con immagine originale e diversa rispetto ai classici codici della categoria. Invece delle ennesime confezioni dai toni pastello smorzati “U by Kotex” buca lo scaffale con confezioni nere con colori acidi.

 

u by kotex

I codici grafici si avvicinano quindi al mondo dell’ “athleisure” (abbigliamento tecnico per attività sportive utilizzato anche normalmente nel tempo libero), comunicando quindi modernità/contemporaneità, e dei prodotti di lusso/alta qualità.
“U by Kotex” ha intercettato, e probabilmente almeno in parte stimolato, il cambiamento dell’atteggiamento di parte della società, donne i primis ovviamente, ma non solo, per cui diversi aspetti della femminilità non sono più tabù e vendono affrontati apertamente e con franchezza nella vita di tutti i giorni.
I paternalismi e gli imbarazzi non corrispondevano più a come un’ampia parte delle donne percepisce l’argomento mestruazioni.
La comunicazione quindi è andata di conseguenza. Sul sito sezioni con descrizione dei prodotti e valutazione da parte delle consumatrici, informazioni e consigli non solo sui prodotti ma anche sulle mestruazioni in generale, un calcolatore del ciclo mestruale, ricette, esercizi di fitness ed una sezione di intrattenimento con la web serie “Carmilla” su un gruppo di studentesse, di cui una è un vampiro!!! (questo è il link ed avviso che crea dipendenza, io mi sono guardato le prime 20 puntate una dopo l’altra).
“U by Kotex” ha strutturato l’ascolto della propria audience con il ”Period Project” (che si potrebbe tradurre come “Progetto Mestruazioni”) e la prima iniziativa è stata il “Period Shop” (che si potrebbe tradurre come il “Negozio delle Mestruazioni).
Si è trattato di un negozio temporaneo aperto per tre giorni nel maggio 2016, nato dall’idea espressa in un post di una studentessa universitaria che si lamentava del fatto che non esistessero negozi dedicati ai prodotti per le mestruazioni e descriveva il suo negozio ideale, sfidando qualcuno a farlo.
Detto fatto, U by Kotex ha realizzato un negozio con abbigliamento, accessori, articoli per la casa, articoli di bellezza, cibo legati/adatti al periodo mestruale, oltre, ovviamente, ai propri prodotti.
La logica espressa dall’agenzia creativa che ha realizzato il negozio temporaneo era che “nel comprare tamponi ed assorbenti le consumatrici dovrebbero avere lo stesso divertimento (“excitement” nell’originale) che hanno quando vanno a comprare un nuovo rossetto”.
Il “Period Shop” è stato seguito dalla campagna “Power to Period” (che si potrebbe tradurre come “Potere alle Mestruazioni”),nata anche questa da un tweet e realizzata in collaborazione con DoSomething.org.
La campagna incoraggiava le persone a donare una confezione di assorbenti ad organizzazioni di accoglienza di senzatetto distribuite in tutti gli Stati Uniti.
Quali saranno prossimi passi: “U by Kotex” sta osservando le innovazioni di prodotto che si stanno affacciando sul mercato coppe mestruali, biancheria intima per il periodo mestruale ed assorbenti di materiale totalmente ecocompatibile.
C’è però un aspetto di “processo” più che di prodotto per migliorare la “consumer experience” relativa alle mestruazioni ed è suggerito da Nancy Kramer, Chief Evangelist della IBM iX (qualunque cosa ciò voglia dire) e fondatrice di “Free the Tampon”, un’organizzazione che supporta aziende ed istituzioni pubbliche per rendere disponibili gli assorbenti nei bagni pubblici.
Anche qui si parte dalla semplice constatazione che nella vita reale capita di trovarsi ad aver bisogno di un assorbente e di non averlo con sé. Allo stesso modo che ci aspettiamo di trovare la carta igienica e/o le coperture usa e getta per il wc nel bagno di un bar, azienda, scuola, ecc… “Free the Tampon” ritiene che si dovrebbero trovare anche gli assorbenti.
Per i Signori Uomini a cui sembra un’americanata cito il fatto che, dopo un test pilota in alcune scuole, oggi la citta di New York provvede a rendere disponibili gli assorbenti nei bagni di tutte le scuole pubbliche, prigioni e strutture di accoglienza di senzatetto.
“Free the Tampon” non ritiene che debbano essere i produttori di assorbenti a fornirli gratuitamente e “U by Kotex” evita di spingere per l’adozione di questa politica, per evitare il conflitto di interessi in quanto produttore.
Ciò non toglie che il problema resta, e quindi anche l’opportunità. Se io gestissi una marca di prodotti (qualsiasi tipo) rivolti al pubblico femminile un pensierino di sostenere un’iniziativa del genere lo farei.
Per sintetizzare a me è sembrato un caso estremamente interessante di individuazione di nuovi spazi di mercato in un settore sostanzialmente statico grazie all’osservazione delle tendenze sociali, il coraggio di seguirle/interpretarle (sempre difficile quando uno è tra i leader della categoria), la capacità di utilizzarle per innovare e l’apertura di ascoltare in modo organizzato, sistematico e continuativo per mantenersi attuali rispetto alle proprie audiencies.
E che mi ha fatto ricordare che la pria volta che ho assistito al superamento, con ironia, gli stereotipi relativi al ciclo mestruale è stato nel 1980 o 1981 in uno spettacolo della compagnia del Teatro dell’Elfo di Milano (chissà se esiste ancora). Altro che big data: l’arte è sempre il primo posto in cui si osservano i segnali di cambiamento della società.

Gestire i corporate brands è difficile e complicato: il, cattivo, esempio Coca Cola. 2° e ultima puntata.

Domenica scorsa vi avevo lasciati con la domanda: la campagna #cocacolarenew sarà in grado di riposizionare l’immagine di “Coca Cola” (bevanda) in senso più salutistico per ridurre l’effetto negativo dei nuovi comportamenti di consumo nei confronti delle bibite gassate zuccherate?
La risposta è: dubito fortemente, almeno per due ragioni:
• La campagna è Coca Cola centrica: vero che la voce fuori campo parla di “Coca Cola Company” però l’ashtag è #cocacolarenew.
• Gli altri prodotti sani (thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc…) appartengono a categorie profondamente diverse dalle “cole” per ingredienti, caratteristiche organolettiche e motivazioni di consumo. Il trasferimento di percezione, immagine e competenze è quindi limitato, se non nullo. Mi spiego meglio: se mi piace il Pandoro Bauli e lo considero migliore rispetto ai concorrenti, è probabile che ritenga di poter trovare la stessa qualità anche nei croissants. Si tratta sempre di prodotti dolciari da forno, la cui produzione richiede le stesse competenze e, festività a parte, soddisfano motivazioni e momenti di consumo simili (alzi la mano chi non ha mai fatto colazione con un pezzo di pandoro avanzato dal giorno prima).
Detto in sintesi la campagna #cocacolarenew rimane soprattutto una campagna di Coca Cola (bevanda).
Per questo io vedo più probabile un trasferimento del percepito di Coca Cola sugli altri marchi “sani” che appartengono a Coca Cola Company, che non viceversa.
Nella misura in cui questo si dovesse realizzare, la campagna diventerebbe un boomerang nei confronti delle, più deboli, marche del gruppo. Soprattutto per quei consumatori che ad oggi non erano coscienti del fatto che thè biologico, acqua di cocco, acqua minerale, integratori, ecc… appartenessero alla multinazionale di Atlanta.
Spesso si tende a sottovalutare la forza del marchio originario riflettuto nel corporate brand e della deriva/influenza che ha sugli altri marchi.
Ma c’era qualcosa che Coca Cola Company poteva fare niente per riflettere nella propria immagine la propria evoluzione?
Sì e l’avevano sotto gli occhi, ma era un salto troppo grosso e (probabilmente) non hanno avuto il coraggio di farlo.
E’ lo stesso sito di Coca Cola Italia a riportare le parole dell’Amministratore Delegato di Coca Cola Company, James Quincey:
“The Coca-Cola Company è diventata più grande del marchio Coca-Cola. Il brand Coca-Cola costituirà sempre il cuore e l’anima di The Coca-Cola Company, ma l’azienda oggi è molto di più rispetto al suo brand principale.”.
Lo dice ancora più chiaro il testo dello spot, quando in apertura la voce fuori campo recita: We may be one of the world’s most familiar company, but we make more than our name suggest. (Probabilmente siamo una delle aziende più conosciute al mondo, ma facciamo di più di quello che suggerisce/indica il nostro nome).
Ergo, cambiate il nome.
E’ evidente lo strabismo di marketing per cui la notorietà della marca Coca Cola bevanda viene, scorrettamente, attribuita a Coca Cola Company azienda.
E’ probabile che un rinnovamento della percezione di Coca Cola Company in grado di rispecchiare l’evoluzione che ha portato l’azienda ad essere quello che è oggi fosse necessario, sia per guidare le strategie e l’operatività interna che nei confronti dei clienti del trade e degli investitori.
Il problema è che secondo me è possibile farlo solamente con un cambio radicale del marchio/nome aziendale che abbandoni il marchio Coca Cola. O, se volete fare le cose per gradi, che lo mantenga marginalmente durante un primo periodo, per poi eliminarlo successivamente (attenzione però che, come diceva mia mamma, “il medico pietoso fa la piaga pustolosa”).
E’difficile? Certo, nessuno si dovrebbe aspettare che gestire uno dei più grandi marchi mondiali sia una cosa facile.
E’ rischioso? Secondo me meno della strategia #cocacolarenew in corso, per le ragioni spiegate sopra.
E’ inutile? Forse si, per le ragioni spiegate domenica scorsa. Ma, evidentemente, non sono nelle condizioni di poter valutare la necessità di un allargamento dello scopo aziendale di Coca Cola Company per mantenere la massima efficacia ed efficienza nello sviluppo del gruppo (cosa che può valutare solo chi è all’interno dell’azienda).
Deciso però che questo allargamento dello scopo aziendale fosse necessario, andava fatto fino in fondo, staccandosi dal marchio Coca Cola, che intrinsecamente lo restringe.
Come definire questo nuovo scopo? Non dovrebbe essere difficile per un’azienda che rappresenta uno degli emblemi della cultura americana in tutto il mondo.
E anche qui devo ammettere che la nuova visione sviluppata da Quincey di Coca Cola Company come una “Total Beverage Company” è deludente.
Possibile che Coca Cola Company non trovi di meglio per definire se stessa del semplice atto di consumo e che il massimo comun denominatore che ispira il suo modus operandi sia la purezza dell’acqua utilizzata per tutti i suoi prodotti? Forse qualcuno aveva il dubbio che i prodotti di Coca Cola Company fossero realizzati con acqua inquinata?
Se è una Total Beverage Company significa che nel proprio scopo aziendale rientrano anche superalcolici, vino e birra?
Nel definire dei valori comuni che collegano tutti i prodotti, e quindi così avvantaggiarsi sia dell’equity costruita nel tempo dal marchio Coca Cola bevanda che dalla percezione più sana dei nuovi prodotti, Coca Cola Company potrebbe essere una:
• “happiness company”: dove “wellness” è una componente dell’”happiness”.
• “togheterness company”: sia come filosofia di condivisione sia come comunità mondiale grazie alla globalizzazione dell’azienda.
• “opportunity company”: per la moltiplicità delle scelte, per la creazione di opportunità alle persone all’interno dell’azienda, nelle comunità in cui opera, ecc…
Questi sono solo i primi esempi che mi vengono in mente senza alcuna conoscenza dell’azienda, le sue caratteristiche, la sua cultura, oltre a quelle che mi vengono dall’essere un affezionato consumatore.
Concludo sottolineando come questi due post non siano stati sostenuti dalla voglia/soddisfazione di far vedere che sono più furbo di Coca Cola.
E’ invece un profondo dispiacere, da consumatore dei prodotti dell’azienda e da professionista di marketing, vedere come anche Coca Cola Company abbia difficoltà ad operare con una visione complessiva di marketing strategico e temo non sia slegato al fatto che il suo attuale Amministratore Delegato è un inglese, laureato in ingegneria informatica.

Il pericoloso paradosso del leader: seguire i propri followers.

presentazione iPhone X

L’argomento del post di oggi mi frullava per la testa da qualche settimana per almeno due ragioni:

-          È controintuitivo e quindi automaticamente interessante/rilevante.

-          Riguarda una situazione che ho vissuto, o rischiato di vivere, varie volte personalmente nel corso della mia attività professionale e quindi mi appare chiarissima.

Però per una questione di riservatezza e buon gusto non volevo citare le mie esperienze personali e quando ho cercato di trovare altri esempi semplicemente osservandoli dall’esterno, non ho trovato niente che mi convincesse. Tanto che sono arrivato a pensare che i “miei” casi fossero delle eccezioni e non indicatori di una regola (il che era strano, vista la loro numerosità).

Poi oggi sul “El Pais” ho letto un articolo che si intitolava “Apple, il leader che raggiunge i suoi inseguitori” e tutto mi è diventato più chiaro. A parte lo stupore che mi provoca sempre imbattermi in coincidenze tali da non poter credere che siano del tutto casuali, quello della tecnologia è un settore che nella mia osservazione avevo escluso a priori perché consideravo, sbagliando, che l’innovatività fosse legata alle competenze tecnologiche e non alla visione della gestione.

Il paradigma teorico del concetto è il seguente:

Mettiamo che voi sviluppiate una marca/prodotto con una promessa/proposta fortemente innovativa rispetto a quella attuale della categoria in cui si colloca. Una proposta con delle caratteristiche e valori che forniscono benefits (servizi) in grado di intercettare i bisogni e desideri delle persone tanto da allargare i confini e lo scopo che la categoria aveva in precedenza. Così tanto da arrivare perfino a creare una categoria, o sotto categoria, a sé.

Una marca prodotto che definisce un prima e un dopo della categoria/segmento di mercato e che grazie a questo ne diventa leader. Attenzione che l’innovazione non significa necessariamente modernità, ma può essere basata anche sulla affermazione della tradizione (esempio: Harley Davidson).

Man mano che aumenta la vostra quota di mercato, diminuirà quella dei concorrenti, di cui alcuni probabilmente spariranno.

Quelli che sopravvivono hanno sostanzialmente due opzioni strategiche:

-          Cambiare la propria proposta imitando quella del nuovo leader e diventando quindi dei “me-too” che competono sul prezzo

-          Migliorare la propria proposta agendo negli ambiti “classici” della categoria.

Attenzione quest’ultima scelta non è determinata dal fatto che gli ambiti “classici” siano preferiti dalle persone (consumatori) rispetto a quelli nuovi che avete portato/creato voi. E’ invece una scelta obbligata verso gli unici spazi che sono lasciati liberi dal leader.

Cosa succede normalmente nell’arco di un po’ di anni (diciamo da 5 a 10)?

La quota di mercato del leader comincia a venire leggermente erosa dai concorrenti. Perché si tratta di una cosa normale (che non significa inevitabile):

-          Perché se avete una quota di mercato che va dal 30% al 50% del totale, a chi volete che porti via vendite l’attività dei concorrenti?

-          Perché l’intuizione / visione che aveva creato lo spirito della vostra marca/prodotto tende ad affievolirsi nel tempo (e magari anche gli investimenti di marketing).

-          Perché cambiano le persone (consumatori) e voi non siete in grado di mantenere attuale la vostra promessa con lo spirito originario (vedi punto precedente).

-          Perché i concorrenti hanno comunque migliorato la loro proposta spinti dalla competizione con voi.

In questa situazione al leader si presentano sempre due tentazioni:

-          Ridurre il prezzo per fronteggiare la competizione degli imitatori.

-          Normalizzare la propria proposta verso i valori “classici” della categoria che stanno funzionando per i concorrenti.

Cadere nella prima significa ridurre la marginalità della marca/prodotto, e quindi nel tempo ridurre le risorse disponibili per alimentare le strategie che hanno creato la leadership.

Cadere nella seconda è ancora più pericoloso perché significa ridurre la differenza della proposta della marca/prodotto leader rispetto ai suoi inseguitori, e quindi nel tempo minare l’essenza stessa della proposta alla base della leadership. Ergo mettere a repentaglio la leadership.

A qualcuno suona famigliare? Spererei per voi di no, ma credo di sì.

L’esempio dell’iPhone è sorprendentemente paradigmatico.

Che sia stato il game changer che ha sostanzialmente creato la categoria “smartphone” è assodato. Come ricorda l’articolo de El Pais, l’ha fatto grazie ad un mix unico ed integrato di design, software e hardware che forniva alle persone un’esperienza (di utilizzo) che andava oltre l’immaginabile. L’ i-phone non faceva meglio quello che facevano già gli altri telefoni, lo faceva in modo diverso e grazie a questa visione ha cambiato i confini delle cose che si possono fare con un telefono.

L’articolo ricorda come Steve Jobs si fosse sempre negato a produrre un pennino per l’iPad, fedele all’idea originaria del dito come “periferica” più semplice ed imemdiata possibile.

Allo stesso modo si resisteva ad ingrandire lo schermo dell’iPhone, malgrado le tendenze di mercato premiassero i concorrenti che l’avevano fatto.

Egoisticamente e presuntuosamente Steve Jobs puntava più all’”empowerent” delle persone che a soddisfarne “semplicemente” i desideri. (anche) grazie a questa visione nel 2011 Apple presento Siri, un’innovazione concettuale prima che tecnologica che sarà poi imitata da tutti i concorrenti.

Poco importa se c’è gente (come me) che non ha mai usato né Siri né Cortana. Il punto è mantenere la visione che ha generato la leadership viva e focalizzata, all’interno dell’azienda ancor prima che sul mercato, in modo che sia in grado di rinnovarsi per mantenere coerentemente la propria distintività e prevalenza sui concorrenti.

Per farlo occorre forza morale ancora prima che economica.

C’è questa visione nell’iPhone X? Sepre citando l’articolo del “El Pais”, le sue principali novità sono versioni migliorate di tecnologie già presenti in telefoni dei concorrenti con sistema operativo Android.

Certo le prime impressioni sull’iPhone X sono molto positive, soprattutto ha colpito la qualità dello schermo che pare porti la tecnologia OLED ad un altro livello rispetto agli attuali concorrenti.

Quindi detto (un po’ provocatoriamente) in altro modo, l’iPhone X è forse il miglior smartphone Android mai realizzato?

Se il vostro obiettivo è soddisfare tutti i desideri dei vostri consumatori, come farete a sorprenderli superando le loro aspettative?

DEDICA

Il post di oggi è dedicato a mia nipote (fan della Apple) che domani comincia a studiare Economia e Management all’Università di Trento.

Il che mi ricorda la massima di Lupo Alberto in una delle cartoline regalatemi per la laurea: “Più studi più sai. Più sai più dimentichi. Più dimentichi meno sai. MA ALLORA CHI TE LO FA FARE?!!

Dopodichè ho studiato altri sei anni tra specializzazioni, master e dottorato.

In bocca al lupo Anna.