Trend spotting

Questa settimana sono stato due giorni a Londra e per qualche strana congiunzione astrale il 2012 è l’anno in cui Londra mi piace, anche se c’erano 20 gradie la classica pioggerellina londinese (o magari proprio per questo arrivando dalla minima di 30 gradi di Trieste).

Confermando la sua fama di metropoli d’avanguardia, ho notato alcune cose che mi hanno incuriosito e potrebbero essere segnali di tendenze, eccole:

CROWD JOURNALIM

Le cose curiose ho iniziato a vederle sulla rivista di bordo di Ryanair. D’altra parte buona parte del presente che viviamo oggi lo dobbiamo anche alla visione del futuro di Ryanair riguardo ai viaggi in aereo, quindi non c’è da stupirsi che siano dei catalizzatori di tendenze.
Ecco quindi l’incipit della rubrica di viaggi dove sono i lettori a segnalare, tramite i social media, dove manadare il giornalista e cosa deve vedere. Oramai può sembrare quasi ovvio, ma è un bel cambiamento rispetto allo standard ancora prevalente per cui io lettore mi aspetto che un (presunto) esperto di viaggi mi consigli dove andare e cosa fare/vedere.
Qui l’esperto è sostituito dalle indicazione di normali turisti che nei posti ci sono già stati. Non so se tra le tante segnalazioni, la decisione di quale seguire sia semplicemente quantitativa (si sceglie il luogo suggerito da più persone) oppure se c’è una valutazione qualitativa del giornalista/redazione. Vedo già la perplessità di chi dubita che la “massa” posso dare indicazioni interessanti rispetto ad un esperto specializzato, da cui il conseguente rischio di banalizzazione.
Potrebbero anche aver ragione, se solo i contenuti editoriali delle riviste di viaggio (e non solo) fossere dettati da scelte squisitamente giornalistiche e non dalle attività di PR dei vari enti di turismo. Ai giornali prezzolati, preferisco il crowd journalism.
Che poi l’autore dell’articolo non fosse un giornalista in senso stretto, ma un comico/umorista mi sembra la perfetta chiusura del cerchio.

LE CURE DENTALI COME COMMODITY

Questo è veramente opera di Ryanair, perchè senza i voli low cost a nessuno verrebbe in mente di prendere un aereo per andare dal dentista.
Quindi, ricordando dagli studi di economia aziendale, un’area d’affari viene definita dalla triade prodotto-mercato-teconologia. Qui la tecnologia dei voli low cost ha potenzialmente allargato l’area d’affari “cure dentali” in termini geografici all’intero continente. Questo è un dato di fatto e rappresenta un segnale delle tendenze che, grazie a questa tecnologia, si potranno verificare anche in altre aree d’affari.
Ma la cosa stupefacente è l’atteggiamento del mercato, inteso come consumatore. Credo di aver già scritto da qualche parte su questo post che uno dei trend del marketing è, già da anni, la banalizzazione o commoditization dei prodotti, ma mai avrei immaginato che si sarebbe applicato anche alle cure dentali. Il dentista è un medico che ti fa male, da poco a tanto in proporzione alla sua bravura. Io non metterei mai la mia bocca nelle mani di uno sconosciuto e non riesco a capire se è il rispamio che crea la fiducia o se c’è anche una valutazione di fondo da parte del mercato (consumatori) che le cure dentali siano oramai un prodotto standard in U.K. come in Italia, Lettonia o Portogallo.
Giuro: fossi stato un dentista inglese, mai sarei preoccupato della concorrenza da altri paesi europei. Anche perchè il turismo dentale implica il superamento di altre barriere operative come la conoscenza delle lingue (almeno l’inglese) da entrambe la parti ed il tempo necessario per le cure. Forse il mio dentista sarà arretrato (Fabio: lo scrivo ai fini del post, ma non lo penso), ma non è che tutti gli interventi si possano fare in una sola seduta.
Magari è qui che Oporto ha un vantaggio competitivo sulla Lettonia, grazie alla maggiore offerta turistica. Infatti la loro pubblicità recita “Visita Oporto e torna a casa con un sorriso nuovo”, mentre i lettoni dicono “Perchè volare in Lettonia? Per le cure dentali ovviamente” (come se non ci fossero altri motivi; chissà cosa ne pensa l’ufficio turistico di Riga).
Mi rimane un’ultima perplessità: se poi il risultato non è quello voluto (i ponti traballano, le gengive fanno male ecc..) uno cosa fa? Riprende l’aereo?

PUBBLICITA’ DRITTA AL PUNTO

Questa è la pubblicità del mio nuovo cliente che serve i locali horeca nella zona di Londra. Mi è sembrato un esempio eccellente di call to action il “Contact us URGENTLY” e di reson why il “for the BEST price/service in town”. Poi bisogna mantenere la promessa, ma a questo ci pensa la cultura del lavoro degli indiani emigrati in U.K. di cui ho già scritto.

BACARDI CHI?

Facciamo finta che voi siate una multinazionale di liquori e distillati con un logo consolidato a livello mondiale, allestireste lo stand in una Fiera rivolta al settore horeca del Regio unito, uno dei principali mercati del bere miscelato, con un logo nuovo? Io direi di no e quindi non mi spiego questa scelta di Bacardi, soprattutto visto che non era supportata da alcuna comunicazione e sulla bottiglie di rum c’era il noto, solito, logo del pipistrello (meno male mi viene da dire).

VANTAGGI, NON CARATTERISCTICHE

Come le due foto di prima, anche questa è un esempio di marketing ben fatto, più che segnale di tendenza.
La nota, spesso dimenticata e sottovalutata, questione che il cliente acquista i vantaggi/servizi contenuti nelle caratteristiche del prodotto e non le caratteristiche in sè.
C’è chi se lo ricorda e ne fà il centro della propria porposta, bravi!

BEVANDE AROMATIZZATE
Qui non ho una foto perchè mi sono dimenticato la rivista in ufficio, però la dichiarazione di un operatore mi ha colpito talmente che me la ricordo a memoria “Il problema con la gente del vino e che parlano ai consumatori (alle persone, n.d.a.) partendo dal presupposto che siano totalmente coinvolti dal prodotto, mentre per la maggior parte delle persone il vino non è altro che una bevanda aromatizzata fatta con l’uva”. Questo lo dedico a Chiara Giovoni per il suo ultimo post sull’industria del vino.

Biscomarketing chiude per ferie (almeno lui). Ci si ritrova dopo ferragosto, buon riposo a tutti.

Bacardi Originals, Bacardi Pina Colada e Mojito, Pampero Mojito alla spina: tornano i ready to drink?

Sfogliando la stampa specializzata del settore bevande nell’ultimo mese non si poteva fare a meno di noatre le pubblicità di alcune novità di prodotto: Bacardi Originals, Bacardi Pina Colada+Bacardi Mojito e Pampero Mojto alla spina (qui il link non è al sito del Pampero, già difficile da trovare di suo, perchè lì questo prodotto non è citato).
Sono prodotti che mi hanno fatto pensare al fenomeno dei ready to drink dei primi anni 2000. Immagino che più di qualcuno si ricorderà dei vari Smirnoff Ice, Bacardi Breezer, Campari Mixx ed Havana Loco. Si trattava di long drinks a base di superalcolico (vodka, rum, campari a seconda dei casi) e di acqua gassata apparsi sul mercato a partire circa dal 2002 e sostanzialmente spariti per il 2005. Nessuno di questi è riuscito a consolidarsi sul mercato e, malgrado i volumi sviluppati siano stati molti importanti grazie ai fortissimi investimenti pubblicitari delle aziende, nel milgiore dei casi il business ha raggiunto il breack-even o poco più.
Era un segmento che avevo analizzato a fondo perchè nel 2003 in Stock eravamo pronti a lanciare due ready to drink a marchio Keglevich (definite e testate ricette e packaging, definiti gli accordi con gli imbottigliatori, ecc..), quando poi abbiamo deciso di non schiacciare il bottone del via. Esperienza, competenza, fortuna o presunzione? Non l’ho mai capito, ma è andata bene così. Secondo me il punto debole della categoria stava nel concetto stesso di prodotto che non era nè una bibita gassata, visto il circa 5% di grado alcolico, nè aveva la qualità di un long drink preparato sul momento, sia intrinsecamente che di immagine (percezione di “beverone” industriale). Inoltre non si basavano su long drinks affermati, ma proponevano sostanzialmente gusti nuovi per il mercato dei long drinks (il capostipite Smirnoff Ice era vodka con leggero gusto di limone, stessa base limone del principale Bacardi Breezer).
Riusciranno le proposte dell’estate 2011 ad avere il successo che non hanno avuto i ready to drink di qualche anno fa? Hanno dalla loro la proposta di long drink classici e molto richiesti (mojito in primis) e la praticità per il trade che deve servirli.
Io però dubito che la valutazione fatta dal consumatore (che ricordiamo sempre sono persone) a suo tempo sarà molto diversa oggi. E’ vero che nelle discoteche e nei locali di grande afflusso è prassi normale oramai da alcuni anni quella di preparare la basi per i long drinks più richiesti, ma c’è comunque una forte componente di intervento del bartender al cui confronto la spina di mojito Pampero mi sembra francamente agghiacciante.
In realtà credo che possa esistere una terza via, che hai tempi avevo proposto in Stock senza successo, ed è quella del facilitare la preparazione di cocktails e long drinks nel consumo in casa. Il numero di persone che per motivi generazionali di ciclo di vita sta riducendo o annullando aperitivo/happy hour/serate fuori casa comincia ad essere rilevante.
Il fatto che queste persone abbiano dovuto cambiare il loro stile di vita riguardo alla frequentazione dei locali non significa che vogliano cambiare anche gli stili di consumo, però preparasi cocktails e long drinks a casa può essere complicato, soprattutto se si tratta di situazioni “sociali” in cui sono presenti più persone.
Una riposta a questa esigenza attualmente insoddisfatta mi era stata ispirata da E’ un concetto che avevo preso da una confezione di Tequila Sauza comprata in un duty free: nell’astuccio c’era una bottiglia da 1l di tequila ed una da 1l di margarita mix, totalmente analcolico. Idea intelligente, però era stata pensata come promozione tattica a se stante e non come innovazione strategica. Il risultato dell’esperienza di consumo era quindi deludente, non per la qualità del cocktail che ne derivava, ma perchè seguendo la proporzione consigliata di 1/3 tequila e 2/3 margarita mix, il mix finiva prima del tequila, per cui, a meno di non darsi agli shoot (ma è un consumo da tutt’altro target) uno rimaneva con del tequila di cui non sapeva che farsene.
Da qui la mia idea di produrre e vendere basi per per cocktails e long drinks come categoria a sè (se poi il lancio avesse previsto confezioni in co-pack con il distillato era un tecnicismo), prevedendo che avessero tutti gli ingredienti necessari, anche quelli alcolici, se del caso. Per rimanere all’esempio del margarita mix, quello che volevo fare io prevedeva al suo interno anche la giusta % di Triple Sec, che è il nome del distillato generico fatto con lo stesso processo del Cointreau (ingrediente ufficiale del Margarita).
In questo modo si ottenevano due obiettivi: si forniva al consumatore un prodotto con cui poteva realizzare un cocktail assolutamente fedele a quello che avrebbe preparato un bartender e, dal punto di vista dell’azienda, si aggiungeva una modalità di vendita del triple sec.
Non c’è la praticità del ready to drink, ma c’è l’autenticità del coinvolgimento diretto del consumatore nella preparazione (semplificata) che gli permette di aggiungere il suo tocco e di variare le proporzioni a suo gusto.
Magari prima o poi riuscirò a realizzarla ed a scoprire se era veramente un bel concetto strategico o solo un’alzata d’ingegno.