Dalla raccolta alla cura dei contenuti, ovvero come le marche dovrebbero parlare meno e pensare di più.

Knowledge speaks wisdom listens

Per stimolarmi ed indirizzarmi nella realizzazione di questo blog un amico mi regalò il libro “blog” di D. Kline e D. Burstein (prefazione di Beppe Grillo!). Adesso sembra parecchio strano leggere un libro per imparare a scrivere un blog, ma era il 2006.

Che le abbia lette lì oppure da qualche altra parte, sinceramente non ricordo, ci sono due regole auree che ho cercato di seguire in questi oltre 10 anni di blogging:

1)      scrivi solo quando senti di aver qualcosa da dire.

2)      Scrivi regolarmente (e possibilmente con una cadenza precisa).

L’implicazione di queste due regole è di sentire regolarmente di aver qualcosa da dire. Non succede sempre e questa è la ragione principale per cui ogni tanto salto la mia scadenza di pubblicazione domenicale (che poi in teoria non è considerato un giorno particolarmente buono per pubblicare posts).

Sono regole che credo valgano per tutti, persone fisiche, fittizie e marche, e idealmente per tutte qualsiasi testata (poi è ovvio che se avete un quotidiano da far uscire tutti i giorni entrano in gioco anche altri fattori, ma non sono qui oggi per parlare di editoria).

Ecco perché sono convinto che le marche sui social tendenzialmente parlino troppo.

La necessità della frequenza nella comunicazione sui facebook, twitter, instagram, ecc… che sottolineerà, giustamente, ogni esperto/consulente/agenzia porta spesso a pubblicare “qualcosa”, malgrado non ci sia davvero niente da dire.

Un’altra regola rispetto al web/social che ho sempre cercato di seguire in azienda è quella di considerarli principalmente un canale di ascolto e solo secondariamente un mezzo per far parlare la marca/azienda.

Probabilmente per questo sono sempre stato convinto dell’opportunità che la content curation rappresenta per la comunicazione social delle aziende/marche: selezionando i contenuti che ho “ascoltato”, cosa che farei comunque per mantenermi informato su quello che succede, riesco sempre ad avere regolarmente qualcosa di rilevante da dire.

Dove “rilevante” nasce dal punto di vista definito dal mio posizionamento/identità/personalità dell’azienda/marca prima ancora che dagli interessi dei segmenti-obiettivo. Ergo, se non avete definito il vostro posizionamento/identità/personalità, o l’avete definito male, avete un problema.

Sarà per tutto quanto ho esposto sopra che ho trovato particolarmente interessante l’articolo di David Krejicek “From Data Collection to Curation” pubblicato sul numero di aprile/maggio della rivista “Marketing News” dell’American Marketing Association”?

Oppure è perché oggi ero a corto di idee e quindi mi dedico al data curation?

Comunque sia, ecco cosa ha scritto Krajicek, sintetizzato e mescolato alle mie considerazioni.

 

Definisci l’obiettivo dall’inizio.

Sembra ovvio, però è dal 1989 che lo sento ripetere nei vari corsi/articoli/seminari di marketing (strategico) e nella pratica aziendale vedo realizzare progetti e attività partendo da obiettivi vaghi, quando non assenti.

Come sempre parlando di obiettivi, quanto più specifici e dettagliati, tanto meglio.

In questo modo sarà più facile separare le informazioni veramente utili da quelle semplicemente disponibili. L’opportunismo va bene, a non deve essere il principio guida altrimenti le informazioni estranee agli obiettivi, ma disponibili, creeranno un rumore di fondo che rende meno fruibile ed interessante il contenuto.

 

Adottate un punto di vista ampio partendo dal vostro posizionamento (in moda da mantenere la coerenza).

Non selezionate i contenuti basandovi sul settore in cui operate, ma piuttosto in base al posizionamento ossia a quello che l’azienda/marca vuole rappresentare nella mente delle persone.

Se penso ad esempio al #realbeauty di Dove, nella selezione di contenuti non mi limiterei semplicemente alla vera bellezza di persone vere opposte alla bellezza “irreale” proposta dal sistema della moda, ma coinvolgerei la bellezza reale in tutti i suoi ambiti ed espressioni (graffiti di strada, gesti e chi più ne ha più ne metta, creativamente parlando c’è solo l’imbarazzo della scelta).

Questo indipendentemente dal fatto che la creazione di contenuti realizzata da Dove focalizzata sulla bellezza vera di donne vere sia abbondantemente efficace, perché quanto più una marca è capace di trascendere dal suo nocciolo senza perdere la propria essenza e tanto più diventerà forte.

Per inciso, ahimè, non ho nessun rapporto professionale con Dove.

 

Siate direttivi, non dogmatici.

La selezione di contenuti è sempre legata a degli obiettivi e ad una visione che creano il valore aggiunto grazie ai quali il totale della cura dei contenuti è più della somma delle parti. Se però vogliamo che la cura dei contenuti sia uno strumento di dialogo dobbiamo essere onestamente aperti e quindi eliminare il più possibile i preconcetti. Detto in altre parole non evitare di selezionare contenuti rilevanti solo perché non sono allineati con la nostra visione.

 

Siate aggiuntivi non duplicativi.

Aggiungete considerazioni ai contenuti selezionati, collegateli tra di loro secondo i vostri obiettivi e la vostra visione. E’ questo che vi fa passare dalla raccolta di contenuti alla selezione, con il relativo auemnto di valore aggiunto.

 

Siate di una trasparenza cristallina.

Nei principi e negli scopi che vi guidano, nel perché delle scelte, nelle fonti da cui attingete (e magari fate un po’ più di fact checking di quello che fanno normalmente i giornali italiani), nel citare e dare credito dei contenuti a chi li ha prodotti.

 

Siate agnostici.

I contenuti coerenti/rilevanti/interessanti rispetto ai vostri obiettivi ed alla vostra visione possono trovarsi ovunque. Tenete occhi e orecchie aperte senza avere (troppe) idee predeterminate sull’origine dei contenuti; state ai fatti.

 

L’atto di selezione implica sempre un atto di comunicazione.

Questo mi sembra talmente ovvio che se provo a spiegarlo sicuro che mi ingarbuglio. Quindi lo lascio così.

 

N.d.A.: rileggendo l’articolo di Krajicek per scrivere questo post mi sono reso conto che trattava la cura dei dati e non dei contenuti (non a caso è Chief Commercial Officer di GfK Consumer Experience. Quindi il contenuto del post è principalmente farina del mio sacco e poco citazione/traduzione di quanto ha scritto lui. Quello che ho mantenuto integralmente uguale all’articolo originale sono i titoli dei paragrafi, a dimostrazione che i principi della curation vs. collection sono simili, che si tratti di dati o di contenuti.  

La Brand Equity è come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa.

BrandTats2

Il concetto di “Brand Equity” è considerato, giustamente, uno dei più importanti in ambito aziendale perché descrive il valore il valore di una marca. La frequenza e l’enfasi con cui viene usato farebbe presupporre l’esistenza di una sua definizione chiara e, soprattutto, condivisa.

Continue reading

Il neuromarketing produce packaging orientati al “clickbaiting” più che al coinvolgimento?

infografia-021

Premessa: questo post si preannuncia un po’ confuso e astratto perché nasce più da sensazioni che da fatti conclamati (quelli bravi avrebbero detto “segnali deboli”), sensazioni che mi hanno stimolato ragionamenti ancora in divenire ed anche piuttosto astratti.

Continue reading

Marketing is global, business is local; ovvero location-based marketing is here to stay.

La prima frase del titolo l’ho sentita dire da nonmi ricordo più chi ad un convegno al Cibus del 1992. Alcune ere geologiche digitali fa. E per un bel pezzo “glocal” è stato uno dei termini di modi nella comunicazione e gestione aziendale.

L’effettivo avvento della società digitale sta riportando il marketing ai suoi aspetti fondamentali, dando la possibilità di realizzare con un’immediatezza raramente vista prima gli enunciati di principio.

Se la creazione e gestione dei contenuti, fatta in gran parte sui media digitali, è alla base dell’immagine (reputazione) della marca, il location-based marketing è quello che permette di utilizzare gli stessi media per monetizzarla.

Cos’è il location-based marketing?

Da definizione di wikipedia si tratta di una nuova forma di comunicazione (pubblicità in originale, N.d.A.) che integra la comunicazione su dispositivi portatili con servizi/prodotti su base locale. La tecnologia è utilizzata per identificare dove si trova il (potenziale N.d.A.) consumatore e fornirgli comunicazioni legate specificatammente al luogo in cui si trova sui sui dispositivi portatili (smartphone per farla breve N.d.A.).

Secondo Bruner e Kummar (2007) ” location-based marketing si riferisce ad informazioni controllate dall’azienda e disegnate specificatamente per il luogo in cui gli utenti accedono ad un mezzo di comunicazione.”

Questa la definizione, che come vedete risale a quasi 10 anni fa, ma quali sono le tendenze?

Un articolo di Mireya Prado nel numero primaverile di Marketing Insights, rivista dell’American Marketing Association, indica queste come le principali.

1. La facilità d’uso su smartphone (e tablet) è cruciale.

La diffusione della navigazione da smartphone ha portato i motori di ricerca ad adottare nuove tecnologie per migliorare l’esperienza di utilizzo. Google ad esempio ha spinto sulle Accellerated Mobile Pages (in sintesi una tecnologia che permette di caricare più velocemente le pagine su smartphone ed ha effettuato vari aggiornamenti dell’algoritmo per migliorare la ricerca locale da dispositivi mobili.

Anche per il 2016 è prevedibile che gli aggiornamenti continuino ed una delle direzione in cui si svilupperanno è quella di utilizzare gli “structured data” come elemento di dterminaazione del ranking nelle ricerche (se sapessi cosa significa, lo spiegherei. al momento l’ho solo intuito leggendo la spiegazione che ne fa google search)

La sintesi di tutto questo è che nel 2016, per avere successo nelle ricerche su base locale bisognerà disegnare i nostri media digitali con un approccio “mobile first” in modo da fornire agli utenti la miglior esperienza di navigazione possibile per semplicità e completezza.

 

2. Capire che le persone (consumatori) usano i social come vogliono loro, non come l’azienda vorrebbe che li usassero.

Sulla diffusione dei social creo ci sia poco da dire, perchè la viviamo tutti in prima persona. Come in prima persona viviamo la diffusione del loro utilizzo da cellullare (i direi quasi che il secondo ha favorito il primo).

Questo ha creato la proliferazione di messaggi/contenuti in tempo reale a livello globale.

La conseguenza per i messaggi di contenuti locali è la necessità di comunicare direttamente con il consumatore e quindi di creare un coinvolgimento (dimenticatevi likes e follower: sono solo scalpi, al limite, decorativi).

Oggi i consumatori si aspettano una risposta diretta da una marca in meno di un’ora (io qualche anno fa avevo fissato come obiettivo del mio dipartimento di rispondere entro un giorno. Ognuno pensi ai tempi di risposta che riceve dalle marche, quando le riceve).

Perchè allora fare la fatica di accontentare questi tempi di risposta? Perchè una connessione rilevante con la marca aumenta di 7 volte la probabilità che un consumatore risponda positivamente ad una promozione.

 

3. Beacons e mobile wallet non sono una moda.

L’adozione di beacons e mobile wallet è ancora marginale perchè queste tecnologie non hanno ancora portato chiari vantaggi per le persone (consumatori). Nel momento in cui le marche saranno in grado di offrire esperienze (di acquisto) in grado di rispondere alla domanda del consumatore “A me cosa me ne viene?”, l’adozione sarà rapida.

La marca Sephora nel 2015 ha fatto dei test integrando beacons e mobile wallet nella ricerca dei punti vendita ed all’interno del punto vendita. In questo modo è possibile ottenre informazini riguardo a cosa e/o come porta i consumatori ad effettuare un acquisto e sviluppare le proprie strategie di conseguenza.

 

4. La cura della privacy non è un’opzione.

Il location-based marketing ha per sua natura un rischio intrinseco di diventare spam agli occhi del consumatore.

Quello che evita questo rischio è la rilevanza dei messaggi che la marca invia relativamente al contesto in cui si trovano le persone.

Secondo uno studio realizzato da Accenture negli USA, il 49% dei consumatori non hanno problemi a condividere i propri dati con una marca, se questa fornisce informazioni per loro rilevanti. Viceversa preparatevi ad essere nella lista dei loro adblockers.

Alla rilevanza nei confronti dei consumatori, vanno aggiunte trasperenza e chiarezza su come, quando e perchè la marca utilizzerà i loro dati.

 

5. La crescente importanza del location-based marketing richiede una sua gestione da parte delle aziende.

Si prevede la creazioen di una nuova figura all’interno dlele aziende: il Chief Location Officer, responsabile di gestire la comunicazione tra le varie funzioni aziendali per creare una miglior relazione con il cliente / consumatorea livello di esperienza locale.

 

Concludo con tre considerazioni mie:

a) molti dei concetti del location-based marketing mi sembrano collegati a quelli del (mio) marketing totale. La gestione però appare estremamente complessa.

b) leggendo l’articolo su Marketing Insights e scrivendo questo post mi sono sentito molto vecchio e affaticato.

c) i miei post hanno fama di essere complessi e non di facile comprensione. molte delle cose che ho scritto in questo post non sono chiare nemmmeno a me (vedi punto precedente). Se qualcuno me le volesse spiegare è il benevenuto.

 

Segmentare, targhettizzare, posizionare ai tempi del marketing totale.

Giovedì e venerdì ho tenuto due lezioni su “L’impostazione del brand” al Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino organizzato a Firenze da Wine Job.

Siccome in questo ultimo paio d’anni mi sono reso conto che ho la tendenza ad affrontare le tematiche di marketing sempre da un punto di partenza piuttosto avanzato, nel preparare le lezioni sono andato a riprendere gli appunti del primo corso di gestione del marketing che ho insegnato nel lontanissimo 1992 (24 anni fa! Brividi!).

La cosa è stata utile ed anche interessante: mi sono reso conto che in questi anni ho acquistato in esperienza, e forse, in profondità, ma ho perso in chiarezza e rigore.

Ad ogni modo le lezioni mi sembra siano andate bene (poi diranno gli allievi con la loro valutazione). Quindi ho fatto un salto sulla sedia quando oggi leggendo Marketing News ho trovato l’articolo dove l’emerito professor Schultz dichiarava sorpassato il modello STP, ovvero Segmenting, Targeting e Positioning.

Roba vecchia secondo lui, innanzitutto perché si tratta di concetti definiti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso (maledetti rottamatori, continuano a venir fuori dove meno te li aspetti).

Ohibò, mi sono detto, vuoi vedere che ho insegnato delle cose che valgono più? Proprio io, che mi sono inventato il concetto del Marketing Totale proprio per avere un quadro teorico per guidare la gestione di marketing nell’era digitale?

Poi ho continuato a leggere e mi sono reso conto che io ed il Prof. Schultz diciamo cose molto simili, solo che io continuo ad usare i vecchi termini (reintepretati) mentre lui ne usa di nuovi.

Poco importante in questo caso, mentre importa quello che diciamo. Ecco quindi quello che dico io (se volete leggere quello che dice lui iscrivetevi all’American Marketing Association, o almeno registratevi nel sito).

 

Il positioning oggi viene cronologicamente prima del segmenting e del targeting.

Il posizionamento di una marca era, è e rimarrà quello che la marca rappresenta nella testa delle persone.

Quello che è cambiato rispetto agli anni ’70 è che si è passati da un mercato in cui le marche andavano alla ricerca dei consumatori ad un mercato, oggi, in cui sono i consumatori a trovare le marche.

Allora la definizione del posizionamento da parte dell’azienda (operativamente la definizione del positioning statement) non si fa dopo positioning e targeting sulla base delle aspettative (presunte) dei mercati obiettivo, ma si fa PRIMA sulla base dell’identità aziendale.

L’autenticità infatti è cruciale per farsi trovare dalle persone nei posti e nei momenti giusti” ed ancor di più per soddisfare in modo credibile e quindi durevole.

Però, come mi ha chiesto uno studente, se il posizionamento reale è quello che dà il consumatore, perché parlo della necessità da parte dell’azienda di definire il proprio posizionamento come DEL pilastro su cui poggia tutta l’attività di marketing?

Perché l’obiettivo ideale, e quindi mai realizzato al 100%, è quello che la percezione della marca che abbiamo noi azienda che la marca la “facciamo” e quella che hanno le persone che la usano, corrispondano.

 

La segmentazione per essere efficace DEVE partire sempre dal comportamento delle persone, idealmente dai benefits (servizi) che cercano nell’uso dei prodotti.

Le persone consumano sempre servizi, più o meno incorporati in prodotti fisici.

Sono i desideri/bisogni che vogliono soddisfare a determinare i servizi che ricercano in un prodotto e quindi quali sono i prodotti concorrenti.

Dai benefici attesi deriveranno in larga misura le occasioni, le modalità, i livelli d’uso e l’atteggiamento nei confronti della marca/prodotto.

Sarà quindi il grado di omogeneità nei confronti di uno o più di questi parametri a costituire la base su cui definire un segmento.

Bisognerà poi vedere se oltre alla volontà di acquistare/consumare, i segmenti individuati posseggono anche la capacità, innanzitutto economica, di consumare. In altri termini se hanno una rilevanza economica sufficiente rispetto alla struttura ed agli obiettivi aziendali.

Se c’è questa rilevanza economica, per rendere operativo il segmento passando al targeting è necessario trovare i modi per accedervi in termini di comunicazione e/o vendita. E l’accessibilità di un segmento viene ancora determinata in buona parte dalle caratteristiche geografiche, demografiche e psicografiche delle persone che lo compongono.

 

Il targeting oggi riguarda principalmente i modi con cui ci si rivolge ai segmenti, mentre i contenuti (di fondo) sono legati all’identità della marca (e quindi al positioning a priori).

Il targeting è la globalità delle azioni con cui la marca si rivolge ai segmenti individuati. Per questo da un po’ di tempo io preferisco utilizzare il termine audiences invece di target markets

Il complesso di azioni riguarda tutto le attività del marketing mix: prodotto, prezzo, presenza (accezione che prende la P di Place nell’approccio del Marketing Totale) e percezione (accezione che prende la P di Promotion nell’approccio del Marketing Totale).

Non commettiamo ancora il classico errore di considerare marketing=comunicazione (o peggio ancora pubblicità).

Perché il targeting sia efficace, le strategie devono riuscire a far comprendere l’identità della marca alle audiences alle quali si vuole rivolgere.

La realizzazione delle strategie riguarderà quindi soprattutto le modalità verbali, visuali o reali con cui la marca si rivolge (o si fa trovare, è quasi la stessa cosa) alle audiences.

Viceversa riguarderà solo limitatamente i contenuti fondanti del concetto della marca. Al massimo potrà selezionare tra i diversi contenuti che la definiscono quali sono più interessanti / comprensibili per le diverse audiences.

Sempre avendo ben presente il rischio di incoerenza oppure di banalizzazione, che porta alla perdita di credibilità.

E’ per questo che le marche sono tanto più solide quanto più larga è la loro personalità.

 

Qui mi fermo perché il post è già abbastanza lungo e, soprattutto, è già abbastanza tardi. Se qualche concetto non vi è chiaro perché non è stato sviscerato abbastanza, cercate nel blog e troverete almeno un post specifico dedicato alla maggior parte degli argomenti di oggi.

SEO nel 2016: le nuove regole di ricerca.

La scorsa settimana mi sono occupato delle strategie di web marketing dal punto di vista concettuale (quasi dottrinale direi).

Oggi vado sull’operativo sintetizzando un interessante articolo uscito sul numero di novembre 2015 di “marketingnews”, una delle riviste dell’American Marketing Association (ho già detto che consiglio di associarsi?) a firma di Christine Birkner.

L’articolo originale ha esattamente lo stesso titolo di questo post, solo in inglese, ed indica 6 punti chiave per massimizzare i propri investimenti di marketing e comunicazione attraverso il SEO (che per i meno esperti significa Search Engine Optimization).

Prima di passare ai sei punti però alcune considerazioni generali sui principali fattori che avranno impatto sul SEO nel 2016 secondo uno studio della società di consulenza Moz Inc. di Seattle.:

- usufruibilità sui dispositivi mobili (smartphone e tablet): impatto + 88%.

- analisi del valore percepito delle pagine: impatto + 81%.

- dati di utilizzo delle pagine come il dwell time (tempo effettivo che un visitatore passa su una pagina web prima di tornare alla pagina dei risultati della ricerca sul motore di ricerca): impatto + 67%.

- leggibilità e design delle pagine: impatto +67%.

 

Lo studio identifica anche i fattori che ridurranno il loro impatto SEO nel 2016, quali l’efficacia di link a pagamento (-55%) e l’influenza dell’anchor text (il testo cliccabile di un link che porta ad una pagina, normalmente in blu) con -49%.

Ma veniamo ai sei consigli su come ottimizzare il SEO:

 

1. Intention is everything:

Non c’è può bisogno di focalizzarsi sulle parole chiave. Oggi i motori di ricerca si sono fatti più furbi (o più raffinati) e guardano a come le persone interagiscono con le pagine/sito. Vanno avanti e indietro tra la pagina dei risultati della ricerca sul motore di ricerca (SERP), oppure trovano sul sito quello che cercavano?

Prima per il SEO bastava preoccuparsi di avere i “clicks”, oggi è fondamentale l’attività dopo il click. Non basta più solamente avere i clicks, bisogna soddisfare l’intenzione / aspettativa dell’utente.

 

2. Keywords aren’t the be-all and end-all:

Inserire parole chiave nei titoli sta diventando meno importante. Una volta se si voleva migliorare la propria classifica come “miglior ristorante”, scrivevi “miglior ristorante” tre o quattro volte. Oggi i motori di ricerca hanno migliorato l’analisi semantica del discorso, quindi se scrivo riferendomi ae eccezzionali esperienze enogastronomiche nel mio ristorante, loro abboccheranno comunque (anzi meglio).

Va considerato anche che il 75% delle ricerche viene fatto inserendo da 3 a 5 parole, quindi i titoli dei siti/pagine vanno scritti di conseguenza.

 

3. Focus on the user experience:

Attualmente Google cambia il proprio algoritmo di ricerca circa 500 volte all’anno con lo scopo di far si che chi utilizza Google come motore di ricerca trovi quello che gli interessa nelle prime pagine (io direi nella PRIMA pagina, N.d.A.).

Il punto non è come faccio a fregare l’algoritmo; il punto è come faccio ad assicurarmi che il mio contenuto sia il miglior contenuto possibile sul web per le parole che mi interessano (che poi è il concetto dell’importanza dell’identità nell’approccio del marketing totale).

Per farlo la chiave è creare contenuti originali. Quindi bisogna darsi un piano editoriale (siamo tutti nel mercato dell’editoria vero Federico? Vero Pier Luca Santoro? Il bello è che i nostri contenuti originali possono partire anche da contenuti esistenti di altri. Curare i contenuti significa anche prendere pezzi di altri (citando SEMPRE le fonti) aggiungendo però la nostra idea / visione: “condivido questo perchè ….”

 

4. Size matters:

Gli articoli più lunghi sono quelli che in media ottengono i migliori risultati nelle ricerche sul web. Qui confesso che ho goduto, poi l’entusiasmo è un po’ scemato perchè come lunghi si considerano i pezzi tra 1.200 e 1.500 battute, il mio pezzo manualistico su “Come, ma soprattutto PERCHE’, fare il budget aziendale” uscito su Vinix superava le 3.000.

Per rendere più digeribili i pezzi lunghi divideteli in paragrafi, usate elenchi puntati, foto, ecc…

 

5. Optimize for mobile:

Le ricerche sui motori di ricerca da smartphone e tablet sono in costante crescita, quindi assicuratevi che i vostri contenuti siano ricercabili anche attraverso questi apparecchi. Punto.

 

6. Use unique images:

Le immagini in Google non sono un riferimento così importante come una volta, però ogni volta che potete usate un’ immagine personalizzata o unica. Nel lungo periodo sarete ripagati dello sforzo.

 

Ma il consiglio più importante di SEO più importante per il 2016, secondo la’utrice dell’articolo è focalizzarsi sulla propria audience. In passato gli operatori di marketing /aziende provavano a promuovere quello che loro volevano che le persone vedessero (in passato? Magari fosso passato. N.d.A.). Oggi quello che veramente fa schizzare il proprio SEO è dare alle persone quello che effettivamente vogliono vedere.

Ricordiamo che l’azienda non fa i profitti perchè appare prima o seconda nella pagina di ricerca di Google. L’azienda fa i profitti perchè apparendo nei primi risultati di ricerca la nostra audience obiettivo è facilitata a trovarci. Se poi quando arrivano nel sito/pagina/profilo social hanno una delusione è peggio che non se non ci avessero mai trovati.

 

Segmentazione vs. (iper)personalizzazione: strategie alternative o complementari?

Marketing Insights July/August 2015

Non c’è dubbio che il BIG DATA sia uno dei concetti più di moda nel marketing degli ultimi anni.

In estrema sintesi con BIG DATA si indica l’enorme quantità di informazioni disponibili sui comportamenti (di consumo) delle persone attraverso la raccolta delle loro “tracce digitali” e la capacità delle aziende di raccoglierle ed analizzarle per capire cosa succede oggi e prevedere cosa succederà in futuro.

E’ quindi un concetto / attività strettamente legato all’era digitale ed ha portato ad un profondo ripensamento non solo nell’impostazione dell’operatività (di marketing) delle aziende, ma anche nella nell’impostazione delle strategie. In particolar modo l’utilizzo del BIG DATA è alla base dell’evoluzione del marketing verso l’iper-personalizzazione.

Io confesso che sono stato un po’ perplesso rispetto alla centralità strategica del BIG DATA, sia per la difficoltà oggettiva di ricavare informazioni rilevanti e significative da questa enorme massa di dati disorganizzati, sia, soprattutto, perchè le informazioni ricavabili dal BIG DATA sono dettagliatissime su cosa succede adesso, ma dicono poco sul perchè e quindi su cosa succederà in futuro.

Questi dubbi li ho balbettati in un post di qualche tempo sul futuro del marketing: “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) – 2″. Però mi è rimasta la sensazione di non aver veramente focalizzato la questione.

E’ stat quindi un piacere leggere durante le vacanze l’articolo di David Krajicek, Amministratore Delegato di GFK Consumer Experiences Nord America, sul rapporto tra il vecchio concetto di segmentazione e quello nuovo di iper-personalizzazione. L’articolo si intitola “When Opposites Attract” e lo trovate sul numero di luglio/agosto 2015 della rivista Marketing Insights, pubblicata dall’American Marketing Association.

Io qui ne riporto alcune pillole, secondo me molto utili ed illuminanti e sufficientemente leggere da leggere (potenza degli accenti occulti) visto che siamo ancora ad inizio anno e dobbiamo ri-carburare dopo la pausa festiva.

  1. La segmentazione è strategie, l’iper-personalizzazione è esecuzione. Vero che la personalizzazione è una forma estremamente sofisticata di attivazione, ma attivazione rimane. Come dico io, è solo un tecnicismo (per quanto raffinato).
  2. La segmentazione identifica i consumatori potenziali della marca, l’iper-personalizzazione si focalizza su coloro che hanno già espresso un interesse per la marca.
  3. La segmentazione si focalizza sulle motivazioni, l’iper-personalizzazione è basata sulle azioni.
  4. La segmentazione guarda al futuro, l’iper-personalizzazione vive nel presente.
  5. La segmentazione trova gli spazi liberi, l’iper-personalizzazione corre a chiudere il divario.
  6. La segmentazione è invisibile per i consumatori, l’iper-personalizzazione può essere dolorosamente evidente (e invasiva).
  7. Non tutto deve essere personalizzato: l’uso del BIG DATA porta con sè la tentazione di personalizzate e micro-targettizzare solamente perchè è tecnicamente possibile.

L’articolo conclude con questo paragrafo:

Alla fin fine non c’è un buon sostituto alla comprensione strategica dei mercati ed a dove risiedono i diversi targets. La buona gestione richiede un equilibrio tra quello che è personale e quello che è generale (“scalable” in originale N.d.T.). Abbiamo bisogno di essere più precisi nella comprensione di quelli che sono i bisogni e le motivazioni più importanti per i consumatori, non semplicimente nella conoscenza dei comportamenti che i consumatori hanno già manifestato. Segmentazione ed iper-specializzazione possono lavorare insieme per creare l’equilibrio perfetto tra micro e macro, strategia ed esecuzione.

In altre parole io direi che per far fruttare al meglio le possibilità offerte dalla iper-specializzazione l’azienda (che ha risorse di tempo, soldi e persone limitate) deve gestirle con una visione strategica costruita (anche) attraverso la segmentazione.

Bene, bello, sono d’accordo con me stesso. Però so di avere oramai una certa età e quindi mi chiedo: non sarà che questa visione è legata alle mie abitudini ed alle mie competenze?

Ho studiato abbastanza statistica multivariata per chiedermi se (l’apparente) incapacità attuale di capire le motivazioni dei comportamenti attraverso il BIG DATA non sia solo frutto della nostra incapacità nel raccogliere ed analizzare i dati. E quindi sia destinata ad essere superata in un (prossimo) futuro.

Melgio il dubbio o la certezza? Un mio amico all’Università aveva una sola certezza: meglio il dubbio.

 

Snapchat e le strategie social media marketing (delle marche).

logo snapchat
Snapchat è un’applicazione che mi è sempre stata simpatica per almeno due motivi:

1. Grazie a snapchat due anni fa (o era l’anno scorso) sono riuscito a fare la figura dello zio al passo con i tempi con la mia nipote teen-ager. Parlavamo di applicazioni quando gli ho chiesto se aveva Snapchat e non sapeva nemmeno cosa fosse. Ovviamente nel giro di 1 mese lei sapeva tutto ed io no (per inciso nella stessa conversazione mi ha anche detto di non capire proprio il senso di twitter, di usarlo quindi non se ne parlava neppure.

2. Da qualche parte ho letto che l’archiviazione di tutte le futilità che vengono pubblicate su internet richiede un costo energetico pari (o forse superiore?) a quello che era neccesario per la carta stampata prima dell’avvento di internet. In altre parole pare che con il suo abuso, ci siamo giocati il vantaggio ambientale dell’uso del digitale. Benvenga quindi un’applicazione che non conserva quello che facciamo, fosse solo per la parsimonia dell’uso dei server.

Per quelli che magari non lo sanno, snapchat è un’applicazione che permette di inviare tramite smartphone immagini, video e chat che si cancellano automaticamente dopo un tempo che va da 1 a 10 secondi. Qui trovate il link al sito che vi spiega un po’ tutto sull’uso di Snapchat come utente e come investitore di pubblicità.

Qui invece trovate il link al post “Ora spiego anche ai non quindicenni cos’è Snapchat (e a che serve)” del sito www.consumatrici.it per una infarinatura di come funziona (grazie a Pamela Guerra per la segnalazione.

Io snapchat l’ho scaricato un paio di settimane fa (no quando ne parlavo con mia nipote non l’avevo fatto, che ho un’età e non posso riempirmo lo smartphone di stupidaggini), perchè l’ho trovato tra i link social di un sito di una società americana che stavo guardando l’altro giorno.

Mi ha incuriosito che una marca avesse anche Snapchat di fianco di facebook, twitter, pinterest e quindi ho creato il mio profilo Snapchat (l’unico modo per capire veramente come funziona una app è entrarci ed usarla).

Così ho imparato che Snapachat negli USA è una delle app (o l’app) con il maggior numero di utenti attivi nella fascia 13-34 anni. L’informazione viene dal sito di Snapchat e non l’ho verificata, però mi fido dell’accuratezza di www.Datamediahub.it che in un post dello scorso 9 settembre riportava numeri notevoli per questa applicazione.

In Italia la diffusione non è ancora così ampia però ci sono dei segnali che potrà crescere rapidamente, come l’utilizzo di Snapchat da parte di X-Factor per l’interazione social della prossima stagione (il concetto e “double screen” nella fruizione della TV, ed io direi anche “Triple screen”).

Comunque già adesso io quando sono entrato per la prima volta in Snapchat con il mio account nuovo di zecca, sono rimasto stupito della quantità di marche già presenti. Utilizzano la funzione storie, per cui creano una storia per immagini che rimane visibile per 24 ore. Se, oramai assuefatti all’eterntà di internet, vi sembra poco, ricordatevi che è la vita media di un quotidiano. Il che implice avere storie (interessanti) da raccontare tutti i giorni, nel bene e nel male.

Confesso che non ci ho ancora giocato abbastanza da capire come si usa adesso e come si potrebbe usare in futuro. Ho già qualche idea, però sono solo abbozzi, di utilizzo strategico come quello attuale, ma anche tattico. D’altra parte è vero o non è vero che nel marketing totale le strategie devono (anche) essere tattiche e le tattiche (anche) strategiche?

Forse però la ragione la ragione più profonda, quasi inconscia, che mi ha portato a dedicare attenzione a Snapshot è che ci ho visto un chiaro collegamento al concetto di mobile moment di cui leggevo un anno fa su Marketing News.

Cos’è un mobile moment? E’ un punto nel tempo e nello spazio (potremmo dire nello spazio tempo? La fisica continua a tornare, sovrapponendosi all’economia) in cui qualcuno prende uno smartphone o un tablet per ottenere immediatamente quello che vuole. La corretta identificazione dei mobile moments è la base per costruire strategie mobile di successo, specialmente per sviluppare applicazioni che non vengano ignorate (nel migliore dei casi) o causino frustrazione e malcontento nei potenziali utilizzatori (nel caso peggiore).

Caso mai prossimamente dedicherò un post a questo concetto sviluppato da Josh Bernoff, ma adesso, riguardo a Snapchat, cosa c’è di più adatto al “momento” di una applicazione che dura un attimo?

E nei (corto) circuiti mentali che girano nella mia testa questo mi riporta ad un bellissimo vecchio claim dello Stock 84: “La felicità è un attimo, dividila con Stock 84″.

Nuovamente ritorna la fisica (e la filosofia, che in nuce, non sono poi così diverse) se penso che un istante si può sempre dividere in due istanti più piccoli e così all’infinito, per cui in realtà dividendo l’istante lo moltiplico. Ecco che, racchiudendo la felicità in un attimo, il consumatore che la divide con Stock 84, la moltiplica.

….. dopo la lettura questo post si autodistruggerà ……

Il marketing nel 2024 secondo gli opinion leaders dell’AMA a me sembra già vecchio.

La lettura delle riviste dell’American Marketing Association è sempre stata per me fonte di ispirazione, talvolta con la soddisfazione di trovare conferme rispetto a cose che avevo già realizzato in azienda e/o teorizzato in questo blog.

Durante le mie recenti vacanze in Brasile ho approffittato del tempo libero per leggere “Marketing News” dello scorso gennaio, dove 11 opinion leaders mondiali erano stati intervistato su come vedevano il marketing nel 2024 (lo so, considerare “Marketing News” una lettura da omrellone spiega molte cose, nel bene e nel male).

Ora io non so se con l’età sono divantato un vecchio brontolone cinico, se mi sono bevuto completamente il cervello in un delirio di onniscenza dopo aver modificato 2 delle 4 P o se le moltissime ore passate in macchina a pensare mi hanno portato effettivamente a raggiungere livelli di marketing strategico estremamente avanzati.

Comunque sia i miei appunti a margine dell’articolo contengono quasi solo punti di domanda ed un solo punto esclamativo.

Jonathan Becher, CMO di SAP crede che una marca dovrà sembrare un editore ed un editore dovrà sembrare una marca, intendendo con questo che la gran parte delle marche dovrà comunicare attraverso contenuti di intrattenimento in modo da fornire informazioni senza annunci pubblicitari. Non sto a tediarvi linkando il mio post di inizio anno (credo) dove riprendevo un articolo apparso in un’altra rivista dell’AMA che diceva che siamo tutti nel business editoriale. Concetto che avevo espresso anche in (almeno) un post precedente citando come esempio la Volvo e la sua credibilità nell’ambito della sicurezza stradale, ancora prima dell’era digitale. Jonathan, se questa è la tua previsione del marketing del futuro, fidati, è già successo. Aggiungo che, citando Caparezza, sono fuori dal tunnel del divertimento e quindi non condivido la previsione che i contenuti delle marche si appiattirabbo sul divertimento (se qualcuno di voi ha mai usato SAP, saprà che SAP+divertimento è un ossimoro).

Rohit Bhargava, autore di Likeonomics prevede che i consumatori cederano l’accesso ai loro profili social in cambio di “micro-incentivi” (risparmi, migliori offerte, ecc…). Cito testualmente “Se possiamo avere il messaggio giusto, per la persona giusta, nel momento giusto e l’abilità di fornirlo cambieremmo completamente il nostro modo di commerciare. Non dovremmo più comprare impressions perchè saranno inutili. Ed avremmo tassi di conversione vicini al 100%.” Ora, nessuno ha mai sostenuto che il marketing attuale debba essere monodirezionale dall’azienda ai consumatori (se lo trovate sul Kotler, vi pago da bere). E’ una deriva che hanno preso le aziende e che sembrava sulla via di essere scardinata dal maggior potere che la rivoluzione digitale ha dato alle persone (consumatori). Invece qui torniamo all’azienda che continua a calare dall’alto le sue proposte, solo con maggior precisione grazie alla “perfetta” conoscenza dei consumatori acquisita attraverso i loro profili social. Domanda banale: se non si acquistano più “impressions” il 100% di concersioni a cosa si riferisce?

Su una linea simile la visione di Pete Blackshaw, capo del digitale e social media della Nestlè, secondo cui nei prossimi 10 anni si assisterà una convergenza tra un maggior controllo del consumatore (sigh!) ed una più accurata capacità del marketing di soddisfare bisogno non soddisfatti o inespressi. “Nuove forme di analisi dei dati, alimentate volontariamente dai consumatori, contribuiranno a nuovi livelli di precisione nelle attività di marketing”. Il dubbio che le persone sfuggano/rifiutino i prodotti disegnati appositamente per loro a loro insaputa, c’è a fine dell’intervento, ma non è tale da generare uno scenario diverso rispetto al perfezionamento del marketing monodirezionale di precisione.
Blackshaw ricorda anche come oggi i consumatori comincino (???? n.d.a.) ad utilizare i codici QR per andare oltre l’etichetta e questa trasparenza da qui a 10 anni si troverà ad ogni passo del processo di acquisto. Io il primo codice QR l’ho messo su un vino nel 2011, e non ero nemmeno un pioniere perchè alcuni concorrenti l’avevano adottato già l’anno prima. La trasparenza già oggi sta già passando da PLUS a MUST e prevedo che l’utilizzo dei codici QR diminuirà (se non è già successo) se il valore aggiunto delle informazioni non compensa la fatica richiesta.

Glen Hiemstra, autore di Turning the Future into Revenue: What Business and Individuals Need to Know to Shape Their Future, apre il suo intervento dicendo: “I confini tra il mondo analogico e quello che consideriamo oggi come mondo digitale spariranno. Saremo on line ed off line allo stesso tempo”. OK bene: è dal 2007 che sostengo e pratico che non c’è separazione tra on e off line in quanto tutto succede nella mente delle persone, che è una.

Sulla visione di Rita J. King, Direttore di business development della società di consulenza Science House, sono quasi d’accordo. Vede un superamento della divisione tra i creativi e la funzione marketing delle aziende (in seguito alla necessità delle aziende/marche di comunicare contenuti). Prevede però la responsabilità di creare i contenuti rimarrà a carico delle agenzie. io personalmente sono convinto che per assicurare autenticità, credibilità e coerenza la creazione dei contenuti e, soprattutto, la gestione delle relazioni debba essere eseguito dall’azienda. E’ (perchè anche questo è un cambiamento già in atto) quindi necessario che le funzioni marketing si dotino di competenza creative o che coordinino strettamente in modo strategico il lavoro delle agenzie.

L’intervento di Gerd Leonhard, Amministratore Delegato della società di consulenza Svizzera The Futures Agency è forse quello che mi ha lasciato più attonito. Comincia così: “il marketing come l’abbiamo conosciuto nel passato era un’attività diversa dalla produzione e dalla Ricerca & Sviluppo, il che sostanzialmente significa che ci sono persone che inventano cose e persone che le vendono”. E’ vero che ho iniziato questo blog tanti anni fa prorpio partendo dalla constatazione della crisi in cui era caduta la funzione marketing nelle azienda, ma mai avevo pensato che fossimo messi così male. Prosegunedo si trova questa perla “Stiamo finalmente arrivando al punto nel quale il marketing non è l’arte (??? n.d.a.) di vendere qualcosa a gente che non vuole niente (??? n.d.a). Sta diventando più la cura/organizzazione di un “ambiente”: io curo l’immagine (“picture” nel testo originale) che tu vedrai e che tu vuoi vedere”. Vertice di monodirezionalità, mi viene da scusarmi a me con Kotler da parte sua.

Andrew Markowitz, Direttore della Global Digital Strategy alla General Electric rientra nel filone della perfetta targettizzazione grazie all’uso del big data. “Tu quasi non saprai che ti stanno commercializzndo (“you’re being marketed to” nel testo originale) perchè ci saranno dati fantastici, versioni (“versionining” nell’originale) fantastiche, esperienze fantastiche che realmente cancelleranno alcune delle barriere che esistono oggi. …… vedo un’ incredibile personalizzazione. Se non hai qualcosa che sia su misura, perderai.” Pare proprio che il futuro sia basata sull’uso del Santo Graal digitale.

Il primo punto esclamativo l’ho messo di fianco all’intervento di Gwen Morrison, Amministratore Delegato della società di consulenza The Store, parte del gruppo multinazionale di comunicazione e marketing WPP. Partendo anche lei dal presupposto che le gente richiede personalizzazione sostiene che tutto è a richiesta (“on demand” nell’originale): i contenuti, il commercio, ecc… Conseguenza è che alla gente piace interagire con altre persone. Io mi spingo oltre dicendo che per soddisfare un mercato in cui tutto è a richiesta (spesso) non sono sufficienti attività di push, per quanto perfette grazie all’analisi del big data, ma (ad un certo punto) è necessaria la possibilità dell’intervento di una persona in grado di interagire efficacemente con i clienti attuali e/o potenziali.

Chris Nurko, Global Chairman della società di consulenza londinese FutureBrand, fa un ragionamento lineare: la popolazione mondiale cresce rapidamente – più persone significa più contenuto e più connettività – connettività e contenuto saranno regolate dalle norme relative alla privacy ed alla proprietà intellettuale in Europa e Nord America – la proprietà intellettuale e la privacy saranno assolutamente la questione n.1 nel 2024 (nel testo originale “the biggest zeitgeist change”). Lasciamo perdere il club di Roma e le sue previsioni sui rischi dell’eccessiva crescita di popolazione, lasciamo perdere anche i trend demografici che vedeno l’invecchiamento (ed il successivo calo) della popolazione europea al netto dell’immigrazione), che dire di quelli che nel 2024 avranno tra 20 e 30 anni cresciuti in un ambiente in cui è normale che tutti sappiano tutto di tutti. E’ stato Mark Zuckerberger a dire che la privacy non esiste, mica io. Vero che magari la sua non è l’opinione più indipendente del mondo, però come visione del futuro un po’ di credibilità di base ce l’ha. Riguardo poi alla centralità del mondo occidentale, direi che c’è un bel po’ di miopia di marketing rispetto al ruolo che nei prossimi 10 anni giocheranno, oltre ai BRICS, le nazioni del centrafrica.

Concludo con J. Walker Smith, executive chairman della società londinese The Future Company. I miei appunti sul suo intervento vedono un punto esclamativo ed un punto di domanda. il punto esclamativo sta di fianco alla frase “Gli algoritmi e la sperimentazione rimpiazzeranno la psicologia e la visione come cuore del marketing”. Il punto esclamativo è doppio per la rilevanza ed originalità dell’osservazione e perchè, finalmente, si tratta di qualcosa che effettivamente si realizzera da qui a 10 anni. Il punto di domanda (a matita) sta di fianco all’affermazione “Alla fine il mercato del futuro avrà la forma di sempre. All’informazione segue il controllo, quindi man mano che le tecnologie digitali passive mettono più informazione e conoscenza nelle mani degli operatori di marketing, questi riguadagneranno più controllo”.

Finita la parte facile delle critiche, verrebbe quella difficile delle proposte. Però è tardi ed il post è già abbastanza lungo e denso.

Rimando quindi le proposte su come immagino il marketing del futuro alla prossima settimana. Per non lascivi del tutto all’oscuro anticipo che in estrema sintesi credo che per il marketing del 2024 sarà necessario ESSERE piuttosto cher apparire. Detto così sembra una banalità, però le implicazioni sono numerose e profonde.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale) 2.

Quando il primo maggio ho scritto il primo post su questo argomento non prevededo una seconda puntata.

Poi però mi sono accorto che gli interessanti stimoli forniti dalle pubblicazioni dell’American Marketing Association, mi avevano fatto dimenticare lo spunto da cui originariamente avevo avuto l’idea di scrivere su questo argomento.

Lo spunto in questione è stata la notizia dello scorso 19 marzo secondo cui uno studio condotto dalla Coca Cola rilevava che il livello di buzz della marca aveva un effetto praticamente nullo sulle vendite a breve termine.

Ora al di là dei distinguo fatti dal management della Coca Cola già nel comunicare i dati della ricerca e dall’innegabile moda per cui molte aziende investono (investivano) in attività web, social, buzz etc.. senza darsi degli obiettivi precisi nè dotarsi di strumenti di misurazione dei risultati, la notizia mi è sembrata fin da subito una s…tupidaggine.

Per la serie le ricerche bisogna saperle scrivere ogni analisi deve essere realizzata con un obiettivo di ricerca relativo ad un’ipotesi sul fenomeno analizzato. E l’ipotesi che il buzz abbia un rilevante effetto sulle vendite a breve termine mi sembra, quanto meno, sorprendente.

Secon l’approccio, che a questo punto definirei classico, del Kotler il Promotion mix che compone la “P” di promotion delle “4 P” marketing è formato da pubbiclità (advertising), pubbliche relazioni (publicity), promozioni alla vendita (sales promotion) e vendita diretta (personal selling). I primi due strumenti hanno prevalentemente la funzione di fornire alle persone ragioni per l’acquisto mentre gli ultimi due svolgono la funzione di fornire incentivi all’acquisto.

E’ evidente che l’effetto di pubblicità e PR si realizza nel periodo medio-lungo mentre promozioni e vendita diretta agiscono nel breve.

Ora, mantenendo l’approccio per cui l’avvento del web ha influenzato prevalentemente le modalità operative del marketing e della comunicazioni, non i concetti, io assimilerei il buzz alle PR. Ecco quindi che scoprire che non c’è una forte correlazione tra buzz e vendite a breve termine non mi stupisce.

C’è poi l’altra questione della difficoltà di misurazione degli effetti delle diverse attività di marketing sulle vendite, soprattutto di quelle che hanno il compito di creare il posizionamento della marca, ossia una predisposizione favorevole da parte del mercato (a quanto ne so le tecniche quantitative più efficaci sono ancora le regressioni doppio log con le vendite come variabile dipendente e gli investimenti nelle varie attività di marketing come variabili indipendenti, analisi sui cui limiti non mi sembra il caso di entrare qui).

Restando a livello concettuale è chiaro che l’effetto di un taglio prezzo (promozione alle vendite) o di una attività di telemarketing (vendita diretta) è fortemente influenzato dalla conoscenza e dall’immagine della marca creata dalle attività di pubblicità e PR realizzate non solo nel momento in cui taglio prezzo e telemarketing vengono realizzati, ma anche nei periodi precedenti. La difficoltà però sta nel separare l’effetto di pubblicità e PR dal resto.

In Coca Cola ne sono ovviamente ben coscienti, come dimostra questo intervento di Wendy Clarck, Direttore di Comunicazione di Marketing integrata della Coca Cola.

Ma c’è un altro motivo per aspettare prima di cantare il de profundis della comunicazione (in senso ampio) sul web. In base alle ricerche condotte dalla Datalogix sulle campagne pubblicitarie realizzate su Facebook risulta che i banner pubblicati sulla colonna di destra del nsotro schermo hanno un ritorno che, nel 70% dei casi, è superiore di tre volte rispetto al costo dell’investimento. Secondo queste ricerche le modalità con cui agiscono questi banner sono assimilabili a quelle degli spot TV (si torna al modello teorico kotleriano classico).

Quelo che invece è sorprendente è che secondo questi dati non c’è alcuna correlazione tra l’efficacia della campagna banner ed il numero di clik sul banner stesso. E questo mette un forte dubbio sul Sacro Graal della misurazione dell’effecicia della comunicazione on line.

Consiglio vivamente di leggere il breve articolo sull’argomento pubblicato su l’Internazionale n. 993.

La prossima volta concludo le disquisizioni su occupazione e disoccupazione, promessa.

“Servire il Popolo”: magistero evangelico, imperativo marxista-leninista o disciplina manageriale? Papa Francesco e la risolutezza dei buoni.

Questo titolo prolisso alla Wertmuller nasce dallo stupore provato nel sentire i servizi del giornale radio sull’omelia odierna di Papa Francesco durante la messa della sua investitura (lo so che non si chiama così, ma una volta tanto opto per la sintesi rispetto alla precisione).
E’ che io la servant leadership l’ho imparata, analizzata ed approfondita studiando gli articoli di William B. Locander e David L. Luechauer, pubblicati sulla rivista Marketing Management dell’American Marketing Association.
Dubito che Papa Francesco abbia studiato gestione del personale, ma da un gesuita ci si può aspettare anche questo, ed è molto, molto, molto, molto più probabile che la sua ispirazione siano gli esempi storici di servant leadership in ambito filosofico e religioso (Gesù in primis ovviamente).
Semmai una ennesima dimostrazione dell’universalità dell’umano (ricordo tanti anni al master della SMEA il manager di un’azienda appasionarsi per la dimensione economica dell’uomo, visione che mi è sempre sembrata limitata e riduttiva rispetto alla dimensione umana delle persone). Dimostrazione che probabilmente si chiude e si rafforza (oppure si cortorcuita a seconda del punto di vista) osservando con il percorso umano di Aldo Brandirali, fondatore dell’estinta rivista dell’Unione Comunisti Italiani “Servire il Popolo”.

Comunque la si veda, io spero che questo aiuti a dare fiducia alle persone che cercano di guidare e non di comandare. Bisogna essere (diventare) forti per non aver timore della tenerezza.

Il bello è che secondo le rilevazioni dell’agenzia di rating della responsabilità sociale delle imprese Standard Ethics, le imprese “più buone” sono anche quelle con i migliori risultati nel lungo periodo.