Come annunciato concludo questa serie di post sulle ricerche di marketing con alcune riflessioni su come queste vanno lette, o meglio analizzate.
Se avete dei dubbi sui risultati di una ricerca, approfondite.
Con questo non voglio dire di non credere alle ricerche solo perchè i risultati che forniscono sembrano andare contro alle nostre aspettative, però l’esperienza e la conoscenza che viene dalla frequentazione continua del settore in cui si opera devono essere dei parametri per far suonare campanelli d’allarme di fronte ad indicazioni che appaiono anomale. In questi casi è doveroso approfondire le modalità di esecuzione della ricerca e di analisi dei dati, per confermare che i risultati siano effettivamente affidabili. Ricordiamoci che quasi sempre la consocenza delle dinamiche del settore che ha l’istituto di ricerca è sporadica rispetto alla nostra; se da una parte questo porta il vantaggio di una visione libera da pregiudizi, dall’altro noi commitenti abbiamo il compito di rilevare eventuali cantonate, sempre in aggiuato. Ancora una volta sottolineo che non parlo di teoria astratta, bensì di (a volte dura) realtà. Qualche anno fa sono stato coinvolto in una ricerca pan-eropea relativamente ai livelli di conoscenza , acquisto e fedeltà di una marca che distribuivamo in Italia. L’istituto che seguiva tutto il progetto quindi era straniero e si era appoggiato ad una istituto italiano solamente per la realizzaizone delle interviste (ora non ricordo se telefoniche oppure on-line, ma poco importa). I risultati per l’Italia mostravano un’elevata conoscenza (awareness) ed una positiva percezione della marca con livelli invece molto bassi di acquisto e praticamente inesistenti di fedeltà. Il proprietario della marca quindi ci stimolava ad individuare delle strategie che riuscissero a convertire questo elevato numero di potenziali consumatori in consumatori effettivi. Questi dati però contrastavano sia con la percezione che avevamo in azienda del mercato, sia con i risultati di una ricerca che avevamo svolto noi circa un anno prima. Analizzando il database ottenuto dalle interviste (che, dopo qualche insistenza, sono riuscito ad avere) ho notato che nell’analisi delle risposte la lista delle marche a volte era in ordine alfabetico mentre altre volte era in ordine decrescente di conoscenza. Analizzando le due liste per me era chiaro che c’era stata un’inversione e che ai dati di conoscenza in ordine descrescente fosse poi stata associata la lista delle marche in ordine alfabetico, in considerazione anche del fatto che il risultato di conoscenza che sembrava incredibile per la nostra marca, si adattava invece benissimo alla marca a cui avrebbe corrisposto nel caso dell’inversione delle liste durante le analisi. Mi ci sono volute parecchie telefonate ed un incontro di persona con il Direttore Marketing internazionale della marca in questione ed i responsabili del progetto di ricerca per convincerli a fare questa verifica. Alla fine si è scoperto che avevo ragione io, ovviamente l’Istituto non sapeva spiegarsi come aveva potuto accadere, invece, come dicono gli americani, shit happens e non c’è nessun problema. Solamente quando si sente la puzza sarebbe meglio guardare sotto la suola invece di far di niente per non voler vedere che le nostre belle scarpe si sono sporcate. Approfitto per sottolineare come informazioni informazioni sbagliate portino a decisioni dannose; nel nostro caso l’impostazione di una strategia opposta a quella necessaria (spinta all’acquisto vs. costruzione di awarness).
L’errore campionario è una cosa seria
Detto in sintesi e con tutte le inesattezze di un non-statistico come me, l’errore campionario in una ricerca di mercato è la percentuale di probabilità che un determinato numero sia effettivamente quello con un determinato intervallo di confidenza (solitamente il 95%). Detto in termini più chiari e più pratici una ricerca svolta su un campione di 1.000 persone ha un errore campionario del +/- 3,16%. Questo significa che in un questionario con domande a risposta multipla, se una domanda ha ricevuto il 15% di risposte, questo 15% è in realtà compreso tra 11,84% e 18,16%.
Si tratta di un’informazione cruciale nel leggere i risultati di una ricerca di mercato, perchè permette di sapere quali numeri sono effettivamente diversi (ad essere più precisi diversi in misura statisticamente significativa) e quali invece appaiono diversi a causa dell’errore campionario, mentre sono in realtà, statisticamente parlando, lo stesso numero. Sempre andando sul concreto e mantenendo l’esempio precedente, 15% ed 11% sono, statisticamente parlando, lo stesso numero in quanto i loro intervalli si sovrappongono: 11%+3,16%= 14,16%, 15%-3,16%= 11,84%.
Attenzione 1: spesso nel corso di un’intervista alcune domande vengono sottoposte solamente ad una parte selezionata del campione iniziale, ad esempio solo ai consumatori che hanno visto la pubblicità della marca. In questo caso la base campionaria si riduce e l’errore aumenta in modo esponenziale (per la precisione al quadrato).
Attenzione 2: nel corso degli anni ho sentito Istituti e ricercatori, anche autorevoli, parlare dell’importanza di cogliere i segnali deboli dati da piccole differenze anche su campioni limitati. Non discuto dell’utilità di cogliere i segnali deboli, non sono però d’accordo all’interpretazione dei dati delle ricerche quantitative come se le leggi matematiche dell’inferenza statistica non esistessero.
Attenzione 3: tutte quello che ho detto sopra NON vale per ricerche che vanno a misurare parametri metrici, pesi e misure, a meno che questi non vengano ricondotti ad intervalli chiusi in domande a risposta multipla. Si tratta comunque di tipologie di indagine estremamente rare nell’ambito delle ricerche di mercato (per chi fosse comunque interessato, il link di wikipedia all’inizio del paragrafo può essere un punto di partenza per approfondimenti).
Concludo il paragrafo svelando la (semplice) formula per calcolare l’errore campionario di una ricerca: E= 1/√n*100, dove n è la numerosità del campione. Tornando all’esempio concreto di cui sopra: E= radice quadrata di 1/1.000.
Qui mi fermo, anche se ci sono ancora un paio di aspetti che volevo affrontare, perchè mi sembra che il post sia già molto denso.
Quindi mi smentisco una volta di più e rimando la conclusione alla quinta e, davvero, ultima puntata.
bravo Lorenzo!
se solo riuscissi, nella ricerca di nuova occupazione stabile (nel frattempo sto divertendomi a fare consulenza strategica e di comunicazione a una start up nel settore viaggi specializzati), se solo riuscissi dunque a trasferire ai potenziali datori di lavoro la necessità di avere qualcuno che di ricerche/numeri/etc ne capisca sul serio, cioè che non li legga e basta, sarei a cavallo! (si dice ancora, dopo la caduta dell’impero austro ungarico: “a cavallo”, come espressione di benessere?)
a presto, Luigi
(se passi per Milano, just call me)
Ciao! Grazie per il post, davvero utilissimo!
Vorrei chiederti, gentilmente, qualche approfondimento in più riguardo la formula dell’errore campionario (tipo come e da dove si ricava).
Ho notato che viene utilizzata anche in questa ricerca:
http://www.affarinternazionali.it/documenti/TT-Immigr11_IT.pdf (pag.28)
ma non capisco matematicamente come sia generata.
Grazie e perdonami per il disturbo!
PS: se hai anche qualche riferimento bibliografico sono disposto a darci un’occhiata!
Caro GianMichele, la formula è radice quadrata di 1/n, dove n=numerosità del campione.
Questa formula pratica è il risultato di una serie di equazioni che partono dalla distribuzione di probabilità, dove 50-50 è ladistribuzione con l’errore massimo. Mi rendo che questa spiegazione non chiarisce moltissimo, ma almeno hai la formula per calcolare l’errore.
Bibliografia io non so indicartela, io l’ho studiato su testi in inglese e spagnolo ma non dovrebbe essere difficile trovarne in italiano.