biscomarketing vede e prevede (per i clienti provvede pure).

Diapositiva2Nell’ottobre 2015 pubblicai un’analisi del potenziale di sviluppo del consumo di vino nei diversi stati del U.S.A. su Vinix (questo è il link).

In base alle mie previsioni indicavo il Texas come lo stato con il maggior potenziale di crescita nel consumo di vino.

Recentemente mi è capitato di leggere i risultati di una ricerca realizzata sul mercato USA dalla società Wine Monitor per le Cantine Pasqua che evidenziava la “sorpresa” del Texas, in cui i consumi sono cresciti nell’ultimo decennio del 74%.

Per curiosità sono andato a riprendere i dati della mia analisi del 2015 e li ho confrontati con il consumo di vino in Texas del 2017.

L’aumento del 76% si è verificato nel periodo 2014-2017 e nel 2017 i consumi di vino hanno raggiunto il livello che io avevo previsto a fine 2015.

Diciamo che per me, e per i lettori attenti di Vinix, la “sorpresa” non è stata tale :-)

 

Sono andato a fare la spesa da ALDI ed è stata una delusione.

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Nelle scorse settimane la catena tedesca di discount ALDI ha aperto i primi punti vendita in Italia. In realtà erano anni che si parlava dell’arrivo di ALDI in Italia, ma questa veniva sempre rimandata per la valutazione dell’azienda tedesca rispetto all’attrattività del mercato italiano, considerato troppo complesso per riuscire ad applicare con successo il proprio modello di business.

Ma qual è il modello di business di ALDI? Pur non avendoci mai lavorato dentro, credo di poter dire che si tratta di una catena distributiva che conosco abbastanza bene, per averla frequentata come consumatore prima (ogni viaggio in Germania di lavoro o di piacere prevedeva almeno una spesa da ALDI per vedere cosa si erano “inventati” di nuovo) sia perché per diversi anni sono stato un loro fornitore in Germania.

Detto in sintesi ALDI è l’insegna che negli anni ’60 del secolo scorso ha inventato e realizzato il concetto di hard discount. Il nome ALDI è la crasi di ALbrecht (cognome dei due fratelli che la fondarono rilevando l’attività fondata dalla madre nel 1913) e DIscount.

L’azienda è ancora di proprietà dei discendenti dei due fratelli Karl e Theo Albrecht ed è una delle più grandi aziende della distribuzione a livello mondiale, presente in 18 nazioni.

La proposta di base di ALDI è quella di offrire ai clienti prodotti di qualità medio-alta al prezzo più basso del mercato. Uno dei tanti esempi per esperienza personale: il succo d’arancia di ALDI è più buono di quelli che posso trovare negli altri supermercati (discount e non) e costa meno di tutti, ergo perché dovrei andare a fare la spesa altrove?

La domanda che spesso si fanno anche i professionisti del settore è come sia possibile mantenere questa promessa guadagnando (un sacco di) soldi.

Senza pensare di avere la verità in tasca, e non chiamandomi (purtroppo) Lorenzo Albrecht, secondo me si possono individuare alcuni fattori riconducibili alla massima efficienza e praticità nella gestione del business, che si traduce anche in efficienza e praticità per le persone che vanno a fare la spesa da ALDI.

Nell’analizzarli mi riferirò alla realtà tedesca, sia perché la conosco meglio, sia perché quella originaria/archetipica. In realtà comunque i punti vendita australiani, inglesi o americani differiscono poco da quelli tedeschi.

 

Posizione e disposizione dei punti vendita.

Come ha detto W. Galen Weston, il manager canadese che negli anni 70 ha preso in mano la gestione della Loblaws, la catena distributiva di famiglia, portandola dall’orlo della bancarotta ad essere una delle aziende di distribuzione di maggior successo di tutto il nord america, la vendita al dettaglio si basa su tre “L”: location, location, location.

I fratelli Albrecht, senza dirlo a nessuno, l’avevano capito prima. I negozi ALDI si trovano all’interno delle città, appena fuori dei centri storici e/o nell’immediata periferia. Sono sostanzialmente dei punti vendita di prossimità facilmente raggiungibili, con un buon spazio per parcheggiare in zono “normali” dal punto di vista commerciale e residenziale, quindi zone dove gli spazi commerciali non sono particolarmente costosi. Soprattutto non richiedono lo sforzo di tempo e stress necessario per andare in un centro commerciale all’estrema periferia cittadina (quando non è nel mezzo del nulla).

I punti vendita ALDI sono tutti sostanzialmente uguali: un parallelepipedo ad un piano livello strada con una superficie di vendita di circa 1.000 m2 (tenete presente che un supermercato va da 400 a 2.500 m2, mentre un ipermercato parte da 2.500 m2, ma la dimensione normale è tra i 4.000 ed i 10.000 m2). 

La sensazione all’interno però è di ampiezza perché le corsie sono create dai pallet espositori che non superano il 1,5 m di altezza circa. Quindi non vi trovate a camminare all’interno di corridoi di scaffali per cui la visuale copre l’intero spazio del punto vendita. Scaffali o esposizioni di prodotto più alti vengono realizzati lungo le pareti perimetrali, senza intralciare la vista dello spazio interno.

La disposizione dei prodotti è sempre la stessa per tutti i punti vendita, quindi in qualsiasi ALDI andiate a fare la spesa non avrete problemi ad orientarvi per trovare quello che cercate.

 

Assortimento.

Da ALDI trovate tutto il necessario e (quasi) niente di superfluo, anche se in realtà il concetto di “necessario vs. superfluo” è espresso meglio dai termini inglese “need vs nice”.

Attenzione che nel necessario ci metto dentro anche la referenza di champagne, che però è una sola, senza alternative o varianti che rappresenterebbero il “nice” o “superfluo”.

Il numero di referenze all’interno di un punto di vendita ALDI è di circa 2.000 mentre nel 2016 mediamente un supermercato in Italia ne aveva 10.923. Per capirsi una referenza corrisponde ad un codice EAN e non al numero di confezioni presenti nel punto vendita; ad esempio la confezione di nutella da 500 g e quella da 250 g sono due referenze diverse, poi a seconda della dimensione del supermercato per ogni referenza ci potranno essere 1,2,3,4, … “facing”, ossia confezioni sul fronte dello scaffale che ne occupano lo spazio lineare.

Nella maggioranza delle categorie merceologiche ALDI offre una sola referenza: una referenza di champagne, una referenza di succo di arancia, una referenza di brioche, ecc..

Inoltre la quasi totalità delle referenze, circa il 90%, è prodotto con un marchio di fantasia di proprietà di ALDI o riservato in esclusiva a loro.

Questa struttura dell’assortimento implica diversi vantaggi:

-          Meno referenze significa meno spazio necessario a magazzino per gestire le scorte e meno spazio necessario sul punto vendita per esporre i prodotti.

-          Meno referenze significa la possibilità di esporre sul punto vendita più confezioni, quindi minor frequenza nel ricaricare gli scaffali, quindi minori costi di personale, ossia più efficienza. Se poi ci aggiungete il fatto che spesso l’esposizione è fatta collocando nel punto vendita direttamente il pallet-espositore l’efficienza del personale aumenta ancora di più.

-          Meno referenze significa più rotazioni per ogni singola referenza: se c’è una sola marca di latte invece di quattro, tutti compreranno quella mentre in un supermercato tradizionale le vendite si divideranno tra le varie opzioni disponibili.

-          Più rotazioni per singola referenza significano maggiori vendite e quindi maggior potere contrattuale da parte dei compratori ai ALDI nei confronti dei fornitori.

-          … ma significano anche maggiori possibilità per i fornitori di sviluppare economie di scale e quindi di poter fornire la stessa qualità a costi/prezzi più bassi.

-          Maggiori vendite significa maggior efficienza nella logistica dei trasporti perché si spediscono quantità maggiori per ogni consegna.

-          Meno referenze significa meno fornitori e quindi maggior efficienza in tutti gli aspetti amministrativi e di gestione.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” rafforza la credibilità dei prodotti presenti nel punto vendita, che viceversa potrebbero essere messi in discussione / sminuiti dal prodotto a marchio industriale.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” differenzia il punto vendita ALDI rispetto alle altre catene di discount e supermercati nella sua totalità: i prodotti che trovo da ALDI non li posso comprare da nessuna altra parte. Indipendentemente dal marchio che ci sarà sulla confezione, le fette biscottate (ad esempio) sono percepite come le “fette biscottate di ALDI”. In questa situazione il marchio ed il packaging perdono quindi la loro funzione differenziante, per limitarsi a quella estetica ed a quella identificativa. Non a caso i prodotti di ALDI hanno tutti una confezione che riprende i codici visivi e di comunicazione della categoria merceologica a cui appartengono.

-          La sostanziale assenza di marchi “famosi” permette ad ALDI di mantenere la promessa di prezzi bassi. Un marchio industriale infatti ha sempre anche una componente di valore intangibile che deriva dalla comunicazione e dall’innovazione, componente utile (anche per il consumatore in generale), ma non necessaria. E quindi che esula dallo scopo / promessa di ALDI. Infatti da ALDI non troverete mai un prodotto che rappresenta una novità assoluta per il mercato, però le innovazioni vengono rapidamente adottate nel momento in cui cominciano a prendere piede sul mercato.

 

Politiche promo pubblicitarie.

La strategia di ALDI in Germania praticamente non prevede l’utilizzo della pubblicità, mentre questa è utilizzata nei paesi anglosassoni.

 In termini di politiche di prezzo la politica è quella del “prezzo-basso-tutti-i-giorni”, senza l’utilizzo di campagne di sconti periodiche. Le campagne promozionali riguardano principalmente referenze stagionali e non in assortimento continuativo, inserite temporaneamente per seguire le richieste dei clienti nei vari periodi dell’anno (articoli da giardinaggio in primavera, fuochi artificiali a Capodanno, ecc..)

 

Guadagni assoluti ottenuti attraverso l’applicazione di minori margini unitari su grandi volumi di vendita.

Oltre ai vantaggi nei costi di gestione che derivano dal modello di business adottato, in parte sommariamente descritti sopra, la capacità di ALDI di vendere a prezzi più bassi dei concorrenti deriva da una precisa scelta nel rapporto tra volumi di vendita e margini unitari per ottenere i guadagni in valore assoluto.

 

Qualità intrinseca dei prodotti elevata.

Tutti i fattori competitivi descritti prima verrebbero fortemente ridimensionati, se non annullati, nel caso in cui al basso prezzo corrispondesse una bassa qualità intrinseca dei prodotti offerti.

Infatti il principale pilastro che sostiene il successo di ALDI è indubbiamente la qualità dei prodotti che vende nei propri punti vendita, che oscilla tra eccellente e buona.

Nel processo di selezione dei fornitori ALDI non parte dal prezzo, ma dalla valutazione delle caratteristiche del prodotto. Se queste soddisfano gli standard stabiliti, che verranno controllati costantemente da loro durante tutta la fornitura, allora si passa alla valutazione della capacità di soddisfare i requisiti logistici (perché non basta fare un buon prodotto al prezzo giusto se poi non si è in grado di garantire il servizio di approvvigionamento che ne garantisca la disponibilità nei punti vendita).

Sul prezzo in realtà i fornitori di ALDI discutono poco, nel senso che l’intervallo in cui si può muovere la trattativa è intuibile a priori e dipende dal prezzo a cui il prodotto viene venduto nel punto vendita. Se non si pensa di essere in grado di fornire un determinato livello di qualità del prodotto e del servizio all’interno di quell’intervallo, è meglio lasciar perdere in partenza.

 

Questa visione ed il modo in cui è stata realizzata da oltre cinquant’anni a questa parte hanno fatto di ALDI un “game changer” in tutti i mercati in cui opera. Per questo c’era, e c’è, molta preoccupazione e curiosità per il suo arrivo in Italia.

Io però nel punto vendita di Trieste dell’ALDI che conosco ho trovato poco e non visto molto di così preoccupante. Ma oramai per oggi è tardi e ve lo racconterò dopo Pasqua.

Auguri.

Impressioni di ProWein 2018: day 2 (lunedì).

Sono tornati i russi.

I dati del commercio del vino mostrano che il 2017 ha riportato le importazioni di vino da parte della Russia ai livelli del 2014 e la presenza di molti operatori russi al ProWein lo conferma.

Vero che anche i prezzi che cercano sembrano quelli del 2014 e quelli di una vendemmia scarsa come il 2017, ma questo è un problema a cui si trova sempre una soluzione se c’è la domanda di base.

 

Chiaroscuri organizzativi.

Un’ora per arrivare in fiera con la macchina, il parcheggio P1 è lontanissimo da qualsiasi entrata (e camminare 15 minuti sottozero non è il massimo) e lo staff in fiera non trova un espositore nemmeno dandogli il nome completo e preciso.

Però il guardaroba gratuito è un dettaglio che fa la differenza per noi visitatori senza stand.

 

Qual è sarà la prossima tendenza in tema di etichette?

Dopo l’ondata di animali in etichetta abbiamo avuto quella del minimalismo spinto. Tutte le ricerche sembrano mostrare che per il consumatore il “vino di qualità” è quello che le etichette classiche: disegno della cantina/vigneto, nome del vino annata, grafica e carattere tipografici tradizionali.

Ma, per fortuna, non si consuma solo “vino di qualità”.

Girando per i padiglioni del ProWein una tendenza chiara della direzione in cui sta andando l’immagine delle etichette io non l’ho vista. E  non ho visto nemmeno un’etichetta che mi abbia colpito per il suo “wow effect”.

Se penso a quello che ho visto (soprattutto) nel nuovo mondo vedo parecchi tentativi di fare etichette “esplicite” nella loro comunicazione di una storia, un pensiero o un’emozione.

Riusciranno poi i vini che sono dentro a mantenere le promesse così specifiche fatte dalle bottiglie? Qui sotto un esempio di una viticoltrice della Borgogna che ha chiamato i tre chardonnay ottenuti da parcelle diverse rispettivamente “L’impatiente“, “L’elegante” e “La Voluptuese

20180319_152509Strillare i concetti in etichetta invece di incuriosire e differenziare non rischia forse di ottenere l’effetto contrario?

thumb_54060_default_mediumDubbi legittimi o il segnale dell’avanzare della mia età?

Partendo dalla constatazione che il vino è, diventato (ahimè) un oggetto culturale e pensando a come sono cambiate le copertine dei libri, oggetto culturale per eccellenza, negli ultimi 25 anni probabilmente hanno ragione loro.

 

E per il ProWein 2018 è tutto, anche perchè buona parte del pomeriggio l’ho passato ad approfondire le mie conoscenze di Pinot Bianco dell’Alto Adige, di Champagne, di Borgogna e perfino dei vini del Libano. Ma questa è un’altra storia ….

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Impressioni di ProWein: day 1.

Comparto del prosecco: novità nelle dinamiche competitive del settore.

E’ ufficiale: la Henkell, uno dei principali produttori tedeschi di vini spumanti di proprietà del gruppo Oetker, ha acquisito il 50,67% delle azioni del principale produttore di cava spagnolo, e probabilmente leader mondiale nella produzione di spumante metodo classico, Freixenet (circa 150.000.000 di bottiglie annuali).

L’annuncio è stato dato sabato 17 marzo. Per capirsi il gruppo Oetker è quello che noi in Italia conosciamo come “Cameo”.

In realtà è un po’ più di quello: le varie aziende che appartengono al gruppo, la cui proprietà è ancora famigliare, nel 2017 sommavano 26.000 dipendenti e vendite per 6,1 MILIARDI di euro. Cifre che non comprendono quelli relativi alla società di trasporti marittimi Hamburg Sud, che il Gruppo Oetker ha venduto lo scorso 30 dicembre per 3,7 MILIARDI di euro al gruppo Maersk (quindi non è che abbiano grandi problemi per trovare i 220 milioni di euro che pare abbiano pagato per acquisire la maggioranza di Freixenet).

Per chi non lo sapesse, vale la pena di ricordare che Henkell è anche già proprietaria della cantina italiana Mionetto, uno dei marchi leader nel Prosecco in generale e nella DOCG Conegliano-Valdobbiadene in particolare, e che Freixenet dall’anno scorso commercializza con il proprio marchio Prosecco DOC e DOCG Conegliano-Valdobbiadene che si fa produrre dal gruppo cooperativo “La Marca” di Oderzo, di gran lunga il primo produttore di prosecco DOC.

Per concludere il quadro conviene aggiungere che i volumi di vendita sviluppati dal Prosecco DOC Freixenet non sembra siano stati molto elevati (per il tipo di aziende di cui parliamo ovviamente), anche in seguito al posizionamento elevato dato all’immagine ed al prezzo del vino.

Cosa succederà in futuro riguardo al Prosecco DOC nelle dinamiche tra Freixenet, Mionetto e La Marca non è dato di sapere. Quello che è certo è che le dinamiche del comparto sempre di più seguiranno logiche che esulano dalla realtà del territorio in cui il Prosecco è nato e si è sviluppato, fino a diventare il successo mondiale che è oggi.

Intanto Freixenet a questo ProWein nel suo stand mostra solamente le bottiglie del Prosecco DOC e DOCG Conegliano Valdobbiadene, come l’anno scorso, con l’aggiunta del “Rosato Italiano”. Quindi non uno spumante rosè generico (il Cava rosè l’avevano già), ma uno spumante specificatamente italiano, con un’immagine allineata a quella dei Prosecchi.

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A dare un’idea dell’internazionalità che oramai caratterizza il Gruppo Freixenet i tre pannelli luminosi che decorano lo stand mostrano un vino fermo francese, i due cava “storici” ed il nuovo spumante rosato italiano.

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Comparto del Prosecco (ancora): una nuova tendenza rinnoverà l’immagine del prodotto?

Tra le tante cose che ha caratterizzato e distinto in questi anni il prosecco rispetto agli altri spumanti c’è l’immagine originale delle bottiglie proposta da molte cantine rispetto ai classici spumanti esistenti. Difficile pensare che questa scelta condivisa, o su cui si è allineato, tutto il comparto non abbia giocato un ruolo nel successo degli ultimi 10 anni.

Bottiglie più informali, moderne, dinamiche rispetto alla classica bottiglia da spumante / champagne hanno giocato un ruolo chiave nel posizionare il prosecco come lo spumante nuovo, originale, di qualità ma “rilassato” rispetto agli altri concorrenti più “ingessati”.

Senza perdersi in troppi esempi basta ricordare la bottiglia cosiddetta “Collio” usata per moltissimi Prosecchi, a partire da quelli più economici, che si contraddistingue per forme più arrotondate, minore altezza. Diciamo più simpatia e meno “importanza”.

Da qualche anno a questa l’evoluzione delle bottiglie di prosecco, poi estesasi anche ad altre bollicine italiane, è stata quella di proporre bottiglie più basse e panciute, come ad esempio la bottiglia “Atmosphere”.

Nell’ultimo paio d’anni alcune cantine si sono spostate verso bottiglie più “magre”, senza per questo essere slanciate. Potremmo dire bottiglie che sembrano più da vino fermo (o ancora di più da birra artigianale) piuttosto che da spumante. Ad esempio Bisol, Merotto, Santa Margherita.

Aver trovato oggi Viticoltori Ponte con una bottiglia di questo stile mi fa pensare ad una tendenza che si sta diffondendo. La mancanza del capsulone non è dovuta ad una scelta di immagine ma semplicemente al fatto che non sono arrivati in tempo per l’imbottigliamento per la fiera.

A me però il dubbio che siano più “belle” così rimane (ho messo “belle” tra virgolette perché non ho né intenzione né tempo per spiegare qui il concetto di bello in termini di marketing). Voi cosa ne pensate?

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Venezia è un concetto già usurato da milioni di turisti, vale davvero la pena di utilizzarlo così tanto.

Prima lezione del corso di addestramento dei cani: non ripetete più di 4 volte il comando senza che il cane ubbidisca, altrimenti lo “bruciate”. Alla quinta volta dovete fisicamente far fare al cane quello che avete chiesto in modo che lo associ alla parola. (tutto questo è spiegato meglio nella serie di post “Gestione del personale ed etologia” che trovate in questo blog).

Ora “Venezia” è già un concetto usurato in generale, temo che anche in ambito vinicolo il suo abuso lo stia svalutando (le foto qui sotto sono solo un esempio, tra i vari utilizzi di Venezia nella comunicazione del vino ricordo la campagne Ferrari di un paio di anni fa)

Non mi metto qui a discutere il “diritto” o meno di utilizzarlo da parte delle diverse cantine e consorzi situati in tutto il triveneto, mi pongo più banalmente un dubbio sulla sua efficacia, soprattutto quando non viene contestualizzata in una declinazione. E se cominciassero ad utilizzarlo anche in Istria e Dalmazia, storicamente tanto, o forse più, veneziane di gran parte del triveneto?

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Una, cento, mille Italia.

Il proliferare di aree espositive collettive diverse riunite da diverse espressioni del concetto “vino italiano”, non è nuova, ma giova ripeterlo e ricordarlo perché il risultato è che si annullano a vicenda e quindi un’area espositiva a rappresentare il vino italiano nella sua globalità non c’è e non può esserci.

Tra l’altro con due padiglioni in cui sono presenti solo cantine italiane non è che un logo tricolore sia particolarmente differenziante.

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Non è che l’organizzazione tedesca sia sempre perfetta.

Credo che il mio primo post di analisi e confronto tra Vinitaly e ProWein sia del 2013 o 2014.

Questa che vedete in foto è la coda per comprare il ghiaccio al padiglione italiano alle 10:28 di oggi. Le bestemmie degli espositori non potete sentirle ma le potete immaginare.

Coda 1

Se domani avrò altre impressioni scrivo la seconda puntata, altrimenti vorrà dire che non c’è stato altro che mi ha colpito.

 

“Che cos’è la psichiatria” dovrebbe essere lettura obbligatoria in tutti i corsi di gestione aziendale.

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Oggi un post breve perché sarete tutti a guardare i risultati delle elezioni.

Ho finito di leggere “Che cos’è la psichiatria” a cura di Franco Basaglia, Baldini e Castoldi, 1997.

In realtà questa è una ri-edizione con prefazione di Franca Ongaro Basaglia del volume uscito nel 1967 a cura dell’Amministrazione Provinciale di Parma (da cui al tempo dipendevano gli Ospedali Psichiatrici).

Si tratta di un libro che raccoglie alcuni saggi sulla situazione della psichiatria e dell’istituzione “ospedale psichiatrico” ed alcuni verbali / stralci delle assemblee di comunità dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, dove Basagli nel 1961 cominciò a mettere in pratica le sue teorie ed il suo approccio, trasferite poi nella più famosa esperienza dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste. Esperienze sfociate poi nella legge 180 del 1978 che riformava l’assistenza psichiatrica (gli specialisti del tema mi perdoneranno le semplificazioni).

E’ un testo che oramai si trova solo nelle biblioteche e non in commercio. Ed è un peccato perché secondo me dovrebbe essere un testo obbligatorio in tutti i corsi di gestione aziendale, in special modo negli MBA (Master in Business Administration) per quello che permette di imparare su leadershi, gestione delle organizzazioni, gestione dei gruppi ed empowerment dei collobaratori / persone.

Cito solo il fatto che in Ospedale Psichiatrico Basaglia non indossava il camice e che nelle assemblee di comunità al tavolo di presidenza sedevano 3 degenti: un presidente, una presidente ed un/a segretario/a. Queste cariche venivano votate dall”assemblea a cui partecipavano i degenti ed il personale dell’ospedale e duravano normalmente una settimana (ma potevano essere prolungate nel caso ci fossero da gestire questioni di complessità e durata tale da richiederlo, sempre con votazione ovviamente).

Altro che von Clausewitz o Sun Tzu.

Questa la parte professionale.

Permettetemi anche una considerazione di carattere più personale: è stupefacente come leggendo il libro di Basaglia ci si rendi conto come la spersonalizzazione sia ancora oggi la base dell’organizzazione dell’istituzione ospedaliera (intendo quella “normale”, non quella psichiatrica).

Ovviamente non ai livelli dei manicomi degli anni ’60 del secolo scorso con i malati legati al letto o agli alberi, tranquillizzati attraverso tecniche di soffocamento, curati con elettroshock e lobotomie.

Però l’impostazione è che l’efficienza dell’ospedale sarà maggiore quanto più i ricoverati non si comportino da individui senzienti, ma siano ubbidienti/sottomessi. “Pazienti” nel senso più completo del termine.

In modo particolare se si tratta di pazienti anziani.

La settimana prossima devo restituire il libro alla biblioteca, ma spero di riuscire ad acquistarlo prima o poi perché è uno di quei libri che mi piacerebbe avere in casa.

In qualsiasi momento tra cinque minuti o cinque anni da oggi la pubblicità come la conosciamo noi morirà …

… questo è quanto scrive Andrew Essex nel suo libro “The End of Advertising” uscito nel 2017.

Ora su questo blog ho già ragionato varie volte sulle fine della pubblicità e finanche sulla fine del marketing, che non è la stessa cosa. Alcune delle riflessioni fatte qui nel corso degli anni le ho ritrovate nei concetti espressi dal Sig. Essex nell’intervista che gli ha fatta Marketing News sull’argomento (il che fa sempre piacere).

Credo però che possa essere utile ed interessante tornare sull’argomento per l’organicità con cui la tratta il Sig. Essex, che per gli spunti che fornisce.

Per cercare di rendere il post meno didattico / accademico e noioso, riporterò le parti dell’intervista che ho evidenziato “in ordine di apparizione” (in originale seguite dalla mia traduzione dall’inglese) e ci farò i miei relativi commenti.

 

… the advertising we know may perish, but its heir apparent has potential to be prodigious. After all, people will always need to buy, sell and know what’s new

“… la pubblicità che conosciamo noi magari morirà, ma i suoi eredi sembrano avere un potenziale prodigioso. Dopotutto la gente avrà sempre bisogno di comprare, vendere e sapere cosa c’è di nuovo”

Questo per ricordare una cosa ovvia, che quindi viene spesso dimenticata, quando importante: la pubblicità (ma sarebbe più corretto dire la comunicazione) è una delle fondamenta dell’economia di mercato.

Spesso la pubblicità gode di pessima fama di inutile persuasore occulto (che non è, ma questo è un altro discorso) mentre la comunicazione è uno strumento chiave della competizione che permette alle cose nuove, e spesso migliori, di soppiantare le cose vecchie.

 

Customers, en masse, are choosing to essentially never see ads again by downloading ad blocking software.

“I consumatori in massa stanno scegliendo essenzialmente di non vedere mai più pubblicità, installando software che blocca la pubblicità (su computer e, soprattutto, cellulari.”

Come ho già scritto in passato gli ad-blockers sono una manna per il marketing ben fatto perché dimostrano una cosa che era palese già prima, ma che spesso si faceva finta di non vedere: di base alle persone la pubblicità non interessa.

E questo era abbastanza ovvio. Il contributo principale degli ad-blockers al progresso del marketing è che hanno reso evidente un altro concetto già noto, ma ancora più spesso rimosso nelle strategie di comunicazione delle marche: l’attenzione selettiva per cui le persone non vedono la pubblicità anche se stanno guardando la TV, il video su Youtube, il loro facebook, ecc… Solo per completezza conviene ricordare che all’attenzione selettiva si collegano i concetti di distorsione selettiva e ricordo selettivo.

Quindi se prima potevamo avere l’illusione che le persone vedessero la nostra pubblicità solamente perché erano esposti al messaggio, adesso grazie agli ad-blockers siamo coscienti che non la vedranno. Anche per chi non installato programmi di ad-blocking continua comunque a valere il meccanismo dell’attenzione selettivo: provate a dire il nome della marca pubblicizzato nello spot posizionato prima dell’ultimo video che avete guardato su You Tube.

 

Bad advertising is careening toward extinction.”

“La cattiva pubblicità sta avanzando verso l’estinzione.”

La prima considerazione che mi viene in mente è che la cattiva pubblicità è sempre esistita, però solo nell’attuale società digitale pare spinga le aziende a non fare più pubblicità invece di farne di migliore. Come cattiva pubblicità si intende quelle che non è in grado di aggiungere valore alle persone, quindi di conseguenza la “buona pubblicità” è quella che aggiunge valore alle persone sotto forma di intrattenimento e/o informazioni e/o qualsiasi “utilità” in senso esteso.

Quello che voglio ricordare è che anche nella società analogica succedeva, spesso, che ci fossero lanci di nuovi prodotti che si rivelavano dei flop malgrado fossero sostenuti da grandi budget pubblicitari (e non solo per debolezze intrinseche del prodotto pubblicizzato), ma non per questo si pensava di non farne più.

L’altra considerazione è che il modello di comunicazione digitale, focalizzato sulle conversioni e quindi tendenzialmente tattico, spinga intrinsecamente alla realizzazione di pubblicità cattiva. Ci ritorno più avanti.

 

The last 50 or so years, the industry has subscribed to a model called command and control, which based on the premise that you have to pay to generate attention, that you have to buy awareness.

“Durante gli ultimi 50 anni o giù di lì, l’industria ha sottoscritto un modello chiamato comanda e controlla, basato sulla premessa che dovevi pagare per generare attenzione, che bisognava pagare la consapevolezza (della marca da parte delle persone).”

Sottolineo una volta di più che chi aggiungeva a questo modello della buona comunicazione otteneva risultati migliori.

 

Now I believe you cannot interrupt effectively and, in fact, the interruption is a very bad strategy.

“Adesso ritengo che le marche non possano più interrompere efficacemente e, infatti, l’interruzione è una pessima strategia.”

L’impossibilità di interrompere efficacemente secondo il sig. Essex deriva innanzitutto dalla frammentazione dei mezzi di comunicazione e dall’utilizzo degli ad-blockers.

Verissimo, ma secondo me ci potrebbe essere qualcosa di più nell’atteggiamento delle persone durrante la fruizione dei mezzi di comunicazione.

Partendo dal gurdare la TV generalista ed arrivando a chattare su Whatsapp, passando per ascoltare la radio, leggere un giornale e fare una ricerca su google c’è un continuum che va dalla massima passività al massimo coinvolgimento nei confronti del mezzo.

Ora, normalmente un mezzo a fruizione passiva è ritenuto meno interessante di uno a fruizione attiva per ottenere il suo coinvolgimento con la marca. D’altra parte però il “disturbo” dell’interruzione per le persone è molto più forte quando sono impegnate in un’attività che le coinvolge (praticamente tutte quelle che si svolgono sul web) rispetto ad una in cui sono più passive.

Mi spiego con un esempio. La catena di discount tedesca ALDI sta realizzando una campagna su facebook per l’apertura dei suoi punti vendita in Italia. La campagna su basa su spot in cui italiani che vivono all’estero, in paesi dove ALDI è già presente, raccontano quanto bello sia. Oppure sulla valutazione dei prodotti ALDI da parte delle famiglie italiane che si chiamano Aldi di cognome.

E’ una campagna secondo me ben pensata e ben realizzata ed io gli spot che sono apparsi nella mia newsfeed di facebook me li sono guardati perché ALDI lo conoscevo già, oltre che per curiosità professionale.

Ma mi domando quale attenzione possono aver ricevuto dalle persone a cui il marchio “ALDI” non dice niente. Vado oltre e mi chiedo se i canali web, lo so che qualcuno dirà che non si possono mettere insieme mezzi con caratteristiche molto diverse tra loro, siano adatti a creare l’awareness di base di una marca.

There are huge ways that brands can make the world a better place rather than adding pollution to the equation. It just requires imagination and good leadership.

“Ci sono moltissimi modi in cui le marche possono fare del mondo un posto migliore piuttosto che aggiungere inquinamento (pubblicitario). Serve solo immaginazione e una buona leadership.”

Vorrei ricordare che l’azienda che opera secondo il concetto di marketing punta a soddisfare i propri obiettivi soddisfacendo i bisogni e desideri delle persone meglio dei concorrenti.

Quindi se è vero che fare le persone più felici NON è il fine dell’azienda, si che dovrebbe/potrebbe essere il MEZZO.

When you commodify an audience, you forget that they live lives of great complexity in a context that’s rapidly shifting.

“Quando mercifichi un’audience, dimentichi che loro vivono vite di grande complessità in un contesto in rapido cambiamento.”

Più passa il tempo e più mi convinco che la crisi del marketing in generale e della comunicazione in particolare non deriva dall’obsolescenza dei concetti nella nuova società digitale, ma dal consolidarsi di anni (decenni?) di cattivo utilizzo.

You have to think what do you, as a consumer, want to see, and when do you want to see it?”

“Devi pensare a cosa tu, come consumatore, vuoi vedere e quando vuoi vederlo.”

In realtà non è difficile. E sempre la buona vecchia regola di mettersi nei panni dei propri consumatori, o meglio ancora pensare a come ci comportiamo noi, professionisti di marketing, comunicazione, pubblicità, nelle situazioni in cui siamo consumatori.

E’ per questo che mi stupisco di come la pianificazione pubblicità digitale sia ancora così tanto incentrata sui banner. Oltre 10 anni fa mi ricordo che lessi un articolo che diceva come sul web ci fossero il peggiore ed il migliore messaggio “pubblicitario” che una persona poteva ricevere: il primo era un banner ed il secondo era un consiglio su una marca da parte di un amico.

 

“You can no longer buy relevance …. You have to begin with product and purpose and then some perspective”

“Non puoi più comprare rilevanza… Devi partire con un prodotto ed un scopo e delle prospettive/scopi”

Aggiungo solo che la rilevanza non si è mai potuta comprare.

My simple assumption is make something people like, rather than something people don’t like and you’ll do better.

“La mia assunzione è semplicemente fai qualcosa che piaccia alla gente piuttosto che qualcosa che non gli piace e andrai meglio.”

So che può suonare semplicistico e, soprattutto di questi tempi, non misurabile.

Ma come scrivevo recentemente, le cose succedono indipendentemente che riusciamo a misurarle o meno. Soprattutto per quanto riguarda la percezione delle persone nei confronti delle marche. Inoltre, se come dice il Sig. Essex, il tasso di conversione dei banner pubblicitari è dello 0,001%, per avere dei risultati commerciali che abbiano un minimo di senso è necessario partire da un’audience di 1 miliardo di persone.

Inoltre la possibilità che forniscono i mezzi digitali di targhettizare la comunicazione sta creando un circolo vizioso di disturbo delle persone che parte da cercare di carpirgli i dati personali per poterli raggiungere (o raggiungerli attraverso le cerchie dei loro contatti partendo da uno di cui si hanno i dati) e poi “perseguitarli” con campagne nel peggiore stile push, subissandoli di proposte commerciali, spesso anche dopo che hanno comprato il prodotto o servizio proposto (il re-marketing è diabolico nella sua ignoranza).

 

I believe infrastructure is the ultimate white space, and that’s the future of marketing if we can get the right people in leadership roles.

“Io credo che l’infrastruttura sia lo spazio bianco finale e questo è il futuro del marketing se possiamo avere le persone giuste nei ruoli dove si prendono le decisioni.”

Io sono sempre stato un sostenitore della pubblicità con l’affissione e delle Pubbliche Relazioni. Essex spinge il concetto all’estremo e vede le infrastrutture come media. Negli USA c’è un grosso problema con l’obsolescenza delle infrastrutture, ponti, ferrovie, ecc …

Perché allora non sponsorizzare un ponte finanziando la sua riparazione/manuntenzione? Perché non sponsorizzare il wi-fi sui treni per pendolari?

Non è difficile farsi venire in mente qualcosa che sia coerente e collegato con la marca / prodotto mettendosi nel giusto atteggiamento mentale, ossia che lo scopo non deve essere quello di disturbare ed interrompere le persone in quello che stanno facendo / gli piace.

La tonnara del social media marketing.

La scorsa settimana esprimevo i miei dubbi sul fatto che la comunicazione sui social media creasse più coinvolgimento di quella classica, concludendo però con la certezza che i social media diano migliori risultati per portare le persone direttamente a comprare qualcosa on-line.

Questo sostanzialmente perché da un post su un social media si può passare direttamente ad un e-shop, cosa impossibile con la pubblicità sui media classici.

Tra il dire (il principio generale di cui sopra) ed il fare (concludere la vendita), c’è in mezzo un affascinante mare di attività che riportano il termine “marketing” all’essenza più cruda del verbo “to market” (ossia vendere) da cui deriva.

Cose che più o meno intravedevo o intuivo, ma che non avrei potuto conoscere con precisione vista la mia età se non grazie a Pier Luca Santoro (sempre lui) ed al post “The Strange Brands in Your Instagram Feed” che ha condiviso all’interno di un gruppo facebook di cui faccio parte (così adesso sapete che potete smettere di leggere biscomarketing e seguire invece Pier Luca nelle sue molteplici presenze ed attività on e off line).

Consiglio vivamente a tutti di leggere il post originale, ma per i più pigri e/o per chi non ha dimestichezza con l’inglese ne faccio una sintesi ragionata e commentata. 

Tutto comincia quando l’autore si imbatte su Instagram in una pubblicità per un cappotto proprio del colore che cercava lui e molto economico. Lo compra, il cappotto arriva dalla Cina e la sua qualità (colore a parte) è tanto bassa quanto era basso il prezzo.

Di lì fa un po’ di ricerche sul web e scopre che lo stesso cappotto è venduto da diversi negozi on line che usano tutti la piattaforma Shopify.

Le nuove frontiere della vendita al dettaglio sono spiegate in una serie di video su Youtube da Rory Ganon, in cui racconta la sua sfida di creare un negozio on line da 0 e portarlo a 1.000 $ di fatturato in una settimana. Rory Ganon è un imprenditore diciasettenne che vive in una cittadina alla periferia di Dublino.

La prima cosa da fare è definire un target e questa è stata la cosa per me più affascinante perché quando insegno marketing suggerisco sempre di individuare il proprio target in base ai vantaggi (benefit) che le persone ricercano nella fruizione dei servizi contenuti nel prodotto. Poi da li ricondurlo alle caratteristiche socio-demografiche necessarie per poterlo raggiungere con la comunicazione.

E’ quello che fa anche Rory, ma portandolo all’estremo: lui ha scelto come target i leoni. In un primo momento ho pensato che si trattasse del nome dato da un istituto di ricerca ad un profilo psicografico (chi tra i miei vecchi lettori si ricorda dei “Delfini” della mappa Sinottica di Eurisko negli anni ’90?).

Invece Rory intende proprio i leoni in quanto animali, ossia il suo target saranno quelli a cui piacciono i leoni. Benefit semplice, preciso e quindi efficace per definizione.

Ha fatto dei grandi ragionamenti per scegliere i leoni? Non sembra, invece è entrato in Audience Insight di facebook (per farlo dovete avere un account pubblicitario su facebook) ed ha visto che scrivendo “lions” ci sono da 5 a 6 milioni di persone attive al mese nel mondo. Se poi si aggiunge “wildlife” l’audience cresce a 10-15 milioni di persone attive al mese.

Come insegnano i manuali di marketing un’audience (o target se preferite) per essere rilevante deve essere “azionabile”, ossia poter essere raggiunta, avere la volontà e la capacità di spendere, ecc… Ma un’audience sul web è azionabile per definizione perché, come spiega Rory nei suoi video:

1: ci sono influencer in Instagram a cui posso collegarmi.

2: si possono sviluppare le vendite attraverso pubblicità su facebook.

Altre ragioni non servono.

Prima però Rory deve aprire il suo negozio, non è molto difficile (per un diciassettenne, per me sarebbe molto complicato) va su Shopify ed apre “Lions Jewels”.

Per l’assortimento invece va su AliExpress, un’azienda del sito cinese Alibaba, e tramite una app collegata direttamente a Shopify (anni fa qualcuno mi ha detto “c’è una app per tutto” e già gli ho creduto quella volta, figuriamoci oggi) cerca degli oggetti legati ai leoni tra i negozi presenti su AliExpress.

I negozi possono essere sia di produttori che vendono quello che producono o semplici rivenditori, magari che comprano anche loro su AliExpress dai primi, non ha importanza. L’importante è che forniscano anche il servizio di spedizione e consegna al cliente finale, così Rory non deve gestire né magazzino né logistica. Qui un link interessante che apre una finestra nel mondo del dropshipping

A questo punto Rory ha il suo negozio con il suo assortimento e può cominciare la sua strategia di comunicazione rivolta a quelli a cui piacciono i leoni.

Apre l’account Lions Jewels su Instagram pubblicando un po’ di foto ed inserendo un link al suo negozio on line.

Poi fa un minimo investimento pubblicitario su un account che pubblica foto di natura e così attraverso il suo account Instagram porta alcune centinaia di persone sul suo negozio on line. Chi arriva nel negozio trova l’offerta per un ricevere gratis un braccialetto placcato in oro con l’immagine di un leone (l’articolo che Rory prevede farà le maggiori vendite).

Il negozio on line è corredato di alcuni elementi che favoriscono la conversione da visita ad acquisto

-          un orologio che mostra un finto conto alla rovescia indicando che il tempo per approfittare dell’offerta del braccialetto gratis sta scadendo (questa app di Shopify si chiama Hurrify, e a me suona sia “fretta” che “orrore”).

-          Dei pop-up che dicono “Lorenzo da Trieste ha appena comprato …”. Anche questi non sono necessariamente veri, la app Sales Pop permette infatti al proprietario del negozio on line di creare le proprie notifiche scegliendo la città, i nomi e gli articoli a suo piacimento (quindi quelle più di tendenza).

In realtà però non è importante che le persone che arrivano sul sito approfittino o meno dell’offerta e persino che comprino durante questa prima visita. L’importante è che arrivino perché così Rory riesce a taggarle su facebook e quindi potrà re-targetizzarle.

Per i meno avvezzi di digital marketing forse conviene spiegare che il re-targeting è quella tecnica/strumento per se voi avete cercato su internet, ad esempio, uno schiaccianoci ogni volta che andrete su facebook, google, ecc… vi mostreranno pubblicità di schiaccianoci e siti che vendono schiaccianoci fino alla fine dei vostri giorni (beh non proprio, ma per un bel po’).

A questo punto quindi Rory si dedica a creare annunci per il suo braccialetto con il leone su facebook e testarne l’efficacia analizzando le statistiche fornite da facebook riguardo al pubblico raggiunto, le interazioni, le conversioni, ecc…

Suppongo che si possano panificare le campagne su facebook rivolgendole non solo a quelli che sono entrati nel negozio on line, ma anche al loro network di amicizie. Lo darei per certo nel caso in cui il negozio on-line richieda una registrazione e questa sia fatta dalle persone attraverso il loro profilo facebook (la richiesta di registrarsi ci può stare a fronte dell’offerta del braccialetto gratis).

Come insegnano i (nuovi) manuali di digital marketing, sul web si costruisce la reputazione delle marche attraverso la generazione di contenuti (content marketing), quindi Rory va sul sito Buzzsumo per trovare le cose più popolari relativamente ai leoni ed aprire il blog “cose curiose e divertenti sui leoni” collegato al suo negozio on line.

Anche in questo caso non è importante quello che c’è scritto nel blog, nel momento in cui arrivano al blog attraverso il loro profilo facebook, ossia “sto guardando la mia timeline – mi piacciono i leoni – vedo una notizia curiosa sui leoni – clicco sul link”, possono poi essere targettizzati dalla pubblicità di Rory.

Arriviamo alla fine del processo ossia all’acquisto on-line da parte di una persona. A questo punto il nome e l’indirizzo del compratore vanno inseriti in AliExpress in modo che il fornitore spedisca il braccialetto al compratore (pare che, stranamente, la cosa non sia automatizzabile).

Per non distrarsi dalla promozione del negozio Rory esternalizza il lavoro amministrativo contrattando “lavoratori digitali” qualunque cosa significhi, a 3-5 dollari l’ora sulla piattaforma UpWork.

La fine della storia è che Rory non ha raggiunto l’obiettivo di fatturare 1.000 dollari in una settimana, ma direi che poco importa. Volendo sarebbe più rilevante capire quant’è il guadagno per 1.000 dollari di fatturato. Ma anche questo è marginale rispetto all’ “ecosistema di business” che si sta sviluppando nella società digitale

Tanti anni fa ho scritto che per capire il futuro del marketing si sarebbe dovuto guardare a come lo facevano in Cina www.biscomarketing.it/marketing-allosso/. Qualche anno dopo sono andato in Cina e qualcuno mi ha detto che “i cinesi fanno affari come fosse un gioco d’azzardo e giocano d’azzardo come fossero affari”.

Che il mondo si stia cinesizzando è scoprire l’acqua calda.

Non mi permetto di dare giudizi di valore, dico solo che il marketing che faccio io è una cosa diversa e credo sia utile per un gran numero di marche in svariate categorie merceologiche. O almeno spero.

L’engagement dei post su facebook è superiore a quello della pubblicità classica? Non credo proprio.

Mercoledì scorso il sempre interessantissimo sito DataMediaHub ha analizzato i dati sull’utilizzo dei social in Italiapubblicati nel rapporto annuale di Hootsuite e We Are Social Quelli mi hanno colpito di più sono quelli relativi al coinvolgimento (engagement) generato dai post di facebook che vedete riportati nell’infografica qui sotto.

Tassi-di-Engagement-Facebook
Considerato che Facebook, insieme a Google, è diventato uno dei principali medium su cui le aziende investono in comunicazione grazie alla sua (presunta) efficacia, la domanda che mi sono fatto è: davvero la pubblicità classica (stampa, affissioni, radio e anche TV, che è probabilmente il medium più freddo) ha dei livelli coinvolgimento inferiori?
Visti i bassi numeri di facebook mi sento di credere che il coinvolgimento creato dai media classici sia almeno equivalente, se non superiore. Soprattutto considerando che nell’audience raggiunta da facebook c’è un certo di numero di persone che appartiene alla base dei fan della pagina, e quindi ha già una certa relazione con la marca, e che la targetizzazione dell’audience a cui rivolgersi su facebook può essere mirata con molta maggior precisione, rivolgendosi così a persone che potenzialmente hanno un maggior livello di affinate e di interesse nei confronti del messaggio.
Purtroppo non ho una risposta certa, perché sui media classici non ci sono strumenti per misurare il coinvolgimento delle audiences raggiunte dal messaggio con la stessa precisione che esiste per i social media.
Nella definizione della pianificazione pubblicitaria la possibilità o meno di misurarne l’attenzione e/o il coinvolgimento da parte delle persone esposte al messaggio non è secondaria, perché si andranno a preferire i medium di cui è possibile controllare meglio le performances.
Il problema esisteva già con i media classici, per cui le agenzie di pubblicità ed i centri media tendevano ad essere restii a pianificare l’affissione (cartelloni pubblicitari fissi, totem, cartelloni pubblicitari sugli autobus, ecc…) in quanto gli indicatori di perfomances della campagna erano meno precisi rispetto, ad esempio, a quelli della TV (non starò qui a fare un’analisi critica dell’auditel come strumento di misurazione delle perfomances della pubblicità).
Detto in altre parole se il contro media deve pianificare una campagna che raggiunga una determinata percentuale delle persone che appartengono all’audience obiettivo (reach) con una certa frequenza (frequency), quindi un determinato livello dei cosiddetti GRP (Gross Rating Point = Reach x Frequency; Kotler in realtà ci aggiunge anche l’Impatto, e non è un’aggiunti da poco, ma non è il caso di parlarne qui), preferirà utilizzare radio, stampa e TV perché di questi riesce a misurare i GRP con maggiore affidabilità.
Il punto però è che i fenomeni si verificano indipendentemente dalla nostra capacità di misurarli. Voglio dire che anche se non riesco a misurare con precisione i GRP dell’affissione, questa pubblicità avrà comunque un effetto sulla percezione della marca da parte delle persone che la vedono.
E se l’efficacia dell’affissione è maggiore, ad esempio, di quella della TV in realtà sto pianificando peggio la mia campagna.
Ma come faccio a saperlo?
E’ necessario fare una riflessione sulle metriche che si utilizzano per misurare l’efficacia delle campagne pubblicitarie.
Dall’avvento dei social networks spesso si distingue tra metriche di vanità (vanity metrics) e metriche di risultato (performances metrics), dove nelle prime si considerano il numero di followers, fan, ecc… e nelle seconde il numero di likes (che però qualcuno considera “vanità”) i commenti, le condivisioni, i click ai links, ecc…
Questa distinzione si faceva, pur con meno indicatori, anche per i media classici, ma in realtà la differenza tra metriche di vanità e di risultato non è qualitativa come invece considerano in molti.
Dal seguire una pagina a cliccare sul link di un post per entrare in un sito c’è un continuum lungo il quale il livello di coinvolgimento aumenta, e chi condivide un post di facebook deve essere prima un fan della pagina. Vero che i percorsi non sono sempre così lineari oppure i passaggi possono essere più accelerati, ma questo si verifica soprattutto per l’effetto della comunicazione che la marca fa sugli altri media (vedi il mio post “Quanto vale un fan di facebook?”).
Quello per cui facebook è sicuramente più efficace rispetto alla pubblicità classica è, ovviamente, nel generare direttamente delle vendite facendo arrivare le persone alle pagine di vendita dei negozi on-line (indifferente se di proprietà della marca o meno).
Ma questa è un’altra storia, di cui parlerò la prossima settimana.

Ancora marketing relazionale: i cattivi esempi di Loacker e Coop.

Mi piace partecipare ai concorsi. Non che abbia mai vinto niente di particolare, però mi piace giocare.

Quindi tempo fa ho partecipato al concorso Loacker “Una tortina d’oro” (tanti anni fa avrei voluto fare un concorso mettendo un diamante dentro ai wurstel, ma non ho mai sviluppato l’idea perché il rischio che chi lo trovasse si rompesse un dente era troppo grande e quindi l’idea irrealizzabile).

Per partecipare i sono iscritto al sito Loacker e quindi periodicamente mi arriva una mail/newletter dall’azienda. Non le avevo mai aperte fino ad oggi, ma l’altro giorno l’ho fatto, un po’ perchè sto ragionando di marketing relazionale ed un po’ perché prometteva buoni sconti per acquisti di prodotti Loacker (che in effetti è un po’ che non compro).

Quindi ho aperto la mail, i sono guardato i vari contenuti fino a quando sono arrivato in fondo ed ho cliccato sul link per ottenere i buoni sconto.

Il link non i ha portato direttamente nella pagina del sito Loacker dove scaricare i buoni sconto, a nella home page. Poco male, ci sta. Per scaricare i buoni sconto dovevo entrare nel mio profilo personale del sito inserendo e-mail e password.

Ora devo ammettere che già la richiesta della password mi sembra eccessiva. Di password ne devo ricordare già troppe e sicuramente quella del sito Loacker non è né tra quelle che uso più spesso né tra quelle che mi preoccupano maggiormente. cosa rischio se qualcuno mi hackera il profilo Loacker? Che mi portino via i biscotti?

Ad ogni, come dicevo mi piace giocare, e quindi ho richiesto una nuova password all’indirizzo e-mail al quale avevo ricevuto la newletter.

Il sistema mi ha risposto automaticamente che non c’è nessun utente registrato con quella mail. Allora perché mi avete mandato la newsletter offrendomi dei buoni sconto?

Siccome, per quanto mi diverta a giocare, ho anche altro da fare nella vita, ho detto un bel CIAONE al sito Loacker ed ai suoi buoni sconto (vorrà dire che aspetterò la prossima promozione sullo scaffale).

Il caso della Coop se vogliamo è ancora più grave / sconcertante.

Da anni faccio la spesa al supermercato Coop vicino a casa (ci andavo già prima, quando era un supermercato Despar).

Dal 20 gennaio è iniziato il concorso #2MilioniDiPremi, per cui ogni 20 euro di spesa si riceve una cartolina gratta e vinci.

Se non si è vinto niente con il gratta e vinci si può andare sul sito apposito #2MilioniDiPremi ed inserire il codice della cartolina per partecipare ad una estrazione. Se non ricordo male il sito è il medesimo di quello usato da Coop per un concorso analogo realizzato lo scorso anno, a cui i sono sicuramente già registrato, ma di cui non assolutamente idea che mail e che password ho usato.

Ad ogni modo non me ne preoccupo perché il concorso è riservato ai soci quindi mi aspetto che per giocare i codici sia sufficiente inserire il mio codice socio, a cui presumo siano collegati tutti i dati che mi hanno chiesto al momento dell’associazione (se vogliamo fare i sofisti essere socio della Coop è una cosa un po’ diversa da una normale carta fedeltà di un’altra catena di supermercati).

Sbagliavo. Nel senso che per registrarmi il sito mi richiede di inserire il codice numerico stampato sotto il codice a barre della tessera socio. Non la cosa più pratica e comprensibile del mondo. Provo prima omettendo lo zero iniziale, poi anche con lo zero iniziale. In entrambi i casi il sito mi segnala che il formato del codice è errato e anche in questo caso decido che gli eventuali premi ad estrazione li vincerà qualcuno più bravo / meritevole / paziente di me.

Quello però che mi chiedo: perché non mi avete fatto giocare con il mio codice socio a 7 cifre stampato bello chiaro sul retro della mia tessera socio? Dite che il problema è che il codice potrebbe non essere univoco tra le varie Coop che ci sono in Italia (in altre parole qualcun altro in una Coop diversa potrebbe avere lo stesso numero)? Basta richiedere di indicare la cooperativa di appartenenza, che è chiaramente stampata sul fronte della tessera (nel mio caso “Coop Alleanza 3.0″ ed il gioco è fatto.

Se invece anche all’interno di Coop Alleanza 3.0 il mio codice potrebbe non essere univoco, beh allora di strada da fare ne avete molta e la cosa un po’ anche mi preoccupa.

Continuo ad essere sconcertato di quante risorse e sforzi le aziende dedichino ad instaurare una relazione con i propri consumatori e quanta poca attenzione mettano nel gestirla, seguendo un approccio che non solo non è di servizio (alla fin fine il cliente sono io, e nel caso di Coop sono anche “proprietario”), ma nemmeno paritetico. E’ invece di “superiorità”.

E stiamo parlando di due aziende “brave”, che più di una volta ho segnalato su questo blog per le loro strategie interessanti ed efficaci.

Figuriamoci le altre.

 

Le relazioni nascono dagli argomenti, non dagli strumenti. Imparare da Farmina.

Per vari motivi sto approfondendo l’area del marketing relazionale.

Avevo cominciato ad esplorarla un paio di anni fa ed ero rimasto perplesso. Man ano che approfondisco, aumentano le mie perplessità.

Ho la netta impressione che la visione prevalente si basi soprattutto su tecnicismi, che si contrappongono alla visione altrettanto tecnicistica del marketing transazionale.

Si tratta di concetti che in realtà poco hanno a che vedere con il marketing strategico ed alla sua pianificazione e gestione efficace ed efficiente.

Mi rendo conto che detta così la cosa suona presuntuosa e forse un tantino nihilista, però sono troppo stanco per sviscerare questa impressione oggi. Dico solo che mi sembra siano come “above the line” e “below the line”, due concetti di pubblicità che venivano dati per scontati e che per e non sono mai esistiti nello sviluppo di una strategia di comunicazione fin da quando faccio marketing per professione, ossia del 1994. Non solo perché non ne faceva menzione Kotler nell’edizione canadese di Marketing Management che ho studiato io, ma soprattutto perché si tratta di una classificazione slegata al comportamento del consumatore che quindi rischia di generare strategie inefficaci. Non è così che le persone si rapportano alle diverse forme di comunicazione. Se poi le agenzie di pubblicità / centri media devono fare i loro traffici con le concessionarie, si organizzino come meglio credono senza confondermi le idee invece di aiutarmi (ne scrivevo in maniera più estesa ed organica qui nel 2014).

Buona parte del marketing relazionale è concentrato sugli strumenti (digitali) per attivare e gestire le relazioni. Che poi all’atto pratico si riducono nell’ottenere i dati per aprire canali di comunicazione diretti con le persone e poter bersagliarli in modo più preciso con strategie di push che neanche il peggior approccio di vendita.

Oggi invece ho vissuto in prima persona un bell’esempio di marketing relazionale (che io normalmente avrei chiamato semplicemente di marketing) da parte della ditta di alimenti per cani e gatti “Farmina”.

Stavo attraversando Piazza Unità a Trieste con i miei due cani al guinzaglio (cosa che sarà capitata 3 volte in 12 anni) quando mi ha avvicinato una gentile signorina chiedendomi se poteva regalarmi dei bocconcini omaggio per i miei cani.

Ovviamente ho detto di sì. Mentre me li dava mi chiesto se poteva farmi un paio di domande e come potevo dire di no?

Mi ha chiesto come si chiamavano, di che sesso erano, che età avevano.

Poi mi ha chiesto se volevo dargli la mia mail per ricevere altri buoni sconto sui prodotti Farmina (uno era già nella borsetta con dentro i bocconcini omaggio) ed io gliel’ho dato. La finalità promozionale è trasparente e l’accetto volentieri.

Hanno attivato una relazione attraverso un rapporto personale, non digitale.

Se saranno bravi e mi disturberanno via mail per dirmi/offrirmi cose interessanti la relazione continuerà, altrimenti finiranno nello spam (non perdo neanche il tempo di cancellarmi dalla mailing list).

Prima di salutarmi mi ha chiesto se poteva fare una foro ai miei cani. E’ rimasta un po’ sorpresa quando le ho chiesto il motivo, ma da quando Diva e Donna mi ha paparazzato i cani prendendo una foto da questo blog per il giornale sono più sensibile alla privacy.

Mi ha risposto che è per pubblicare la foto sul loro profilo Instagram, ma che se non ero d’accordo non c’era problema. Quando le ho detto sì, mi ha chiesto se potevo far entrare nel campo visivo anche la borsetta con il logo Farmina.

Kali ha guardato in macchina, mentre quel vecchio brontolone di Fly si è girato dall’altra parte.

In sintesi:

- targettizzazione perfetta: tutti quelli che hanno un cane e solo quelli che hanno un cane.

- attivazione della relazione tramite un approccio personale emotivo (… a i cani ed i padroni dei cani) in cui l’azienda si spende nei confronti del target.

- integrazione dell’analogico con il digitale (e-mail)

- rafforzamento del rapporto personale con gli strumenti digitali (“guarda mamma il nostro cane è su Istagram”, vuoi non cliccare sul cuoricino?)

Se la borsetta fosse stata in plastica biodegradabile gli avrei dato 10!

Price is what you pay, value is what you get. L’esempio dell’hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia.

Qualche anno fa Michael Krauss, Presidente della società Market Strategy Group di Chicago ha detto “Se lo fai migliore, più economico e più divertente potresti avere successo.”.

Sembra una ovvia tautologia, ma in realtà non lo è perché la visione secondo cui migliore e più economico sono concetti contrapposti è ancora estremamente diffusa tra i produttori e fornitori di beni/servizi ed in parte anche tra i consumatori.

La dimensione “divertimento” poi è raramente considerata dai produttori e fornitori di beni/servizi, malgrado sia invece molto apprezzata dai clienti (tanti anni fa ho spiegato in un post su questo blog che le persone coprano sempre servizi, incorporati o meno in un bene tangibile, quindi da qui in avanti utilizzerò solamente il termine “servizi” per indicare sia i beni tangibili che gli intangibili).

Eppure le aziende che operano con l’approccio low cost in tutti settori hanno dimostrato che farlo migliore, più economico e più divertente è possibile.

Per riuscirsi è fondamentale capire e distinguere le differenze tra “migliore”, concetto legato al valore per il cliente/consumatore, “economico”, concetto legato ai costi, e “divertente”, che dipende solo dallo sforzo creativo che uno vuole mettere nel disegnare i propri servizi.

Con queste differenze ben chiare in testa è possibile ridisegnare il proprio servizio massimizzando il valore eliminando tutti i costi non necessari. Si tratta di identificare cosa determina plusvalore, cosa disvalori e cosa è considerato come neutro.

Il 3 di gennaio ho pernottato all’Hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia al costo di 35 euro (stanza doppia uso singola, prenotata attraverso il call center della catena, prenotazione non rimborsabile) dove la teoria mi è sembrata messa perfettamente in pratica. Mi spiego per punti.

 

Targeting:

In tutti i libri di marketing l’individuazione del proprio mercato obiettivo è indicata con il primo passo fondamentale per iniziare lo sviluppo di una strategia. Nella pratica, quando viene realizzata, è spesso un’attività svolta superficialmente, soprattutto nelle piccole e medie imprese. I segmenti vengono definiti in modo ampio e generico, non solo per mancanza di risorse da destinare a questa analisi ma anche per una inconfessata preoccupazione che una definizione più precisa porti alla perdita di potenziali clienti/consumatori. Per ovviare a questo problema io personalmente cerco di individuare sia il segmento centrale (core target) che quelli allargati o secondari.

Senza una definizione chiara dei benefici che le persone ricercano nella fruizione del nostro servizio sarà impossibile individuare con precisione quali sono i fattori che generano valore e quindi come operare per ridurre i costi.

Sinteticamente si può dire che il target dell’Hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia sono i viaggiatori che arrivano e partono. L’aeroporto di Valencia è un aeroporto in cui operano prevalentemente compagnie low cost (Raynair la principale), quindi il target dell’hotel sarà sovrapponibile a quello delle aerolinee che volano sull’aeroporto di Valencia.

Attenzione, non si tratta di gente che semplicemente vuole spendere poco. La differenza si capirà con gli esempi dei vari reparti dell’hotel che seguono.

Vi invito mentalmente a confrontarli con i classici hotel economici a tre stelle che ci sono in Italia o, peggio ancora in Francia, che sono organizzati come quelli da quattro o cinque, solo molto più miseri e tristi.

 

Location, location, location.

Il Presidente della catena di supermercati Loblows, una tra le prime ad inserire nel proprio assortimento prodotti generici come le scatole di piselli con scritto sopra “piselli” senza neanche il marchio dell’insegna oppure prodotti gourmet a marchio dell’insegna (oltre a tutta quella che è diventata gamma di prodotti a marchio privato dell’insegna la classica per tutte le insegna) diceva che il successo nella veendita al dettaglio si basava su tre “L”: location, location, location.

L’hotel Travelodge dell’Aeroporto di Valencia si trova a Manresa nel quartiere industriale dell’aerporto. In pratica un quartiere di condomini e capannoni alla periferia di una grande città.

E’ di fronte alla fermata della metropolitana, ad una stazione di distanza dall’aeroporto. L’aeroporto si può raggiungere anche a piedi in circa 15’, ma lo sconsiglio anche se avete solo il bagaglio a mano perché vi troverete a camminare ai bordi di una superstrada.

Per chi arriva o deve partire con l’aereo la posizione è perfetta, soprattutto arriva la sera tardi o parte il mattino presto.

La vicinanza con la stazione comunque lo rende interessante anche per chi vuole fermarsi qualche giorno a Valencia spendendo poco.

Se già fosse a stato a 500 m dalla stazione della metropolitana, il valore ricevuto dal cliente sarebbe stato inferiore. Quindi non so se e quanto l’edificio in cui si trova l’hotel costi in più di quelli più distanti dalla metropolitana, però è un elemento su cui vale la pena investire visto il valore che porta.

Il valore della location è ulteriormente incrementato dal fatto che di fianco si trova un superstore della catena Mercadona, la più grande catena di supermercati spagnola, aperto fino alle 21:30. Così i clienti dell’hotel che si sono dimenticati qualcosa, tipo io lo spazzolino da denti, oppure che vogliono mangiare qualcosa senza spendere troppo o che vogliono comprare gli ultimi souvenir alimentari senza pagare i prezzi elevati dei negozi dell’aeroporto, lo possono fare.

Un “servizio” implicito dell’hotel, senza che questo debba sostenere nessun costo aggiuntivo.

 

L’estetica generale dell’albergo.

Trovandosi in un quartiere non particolarmente bello, è importante che l’albergo invece risulti immediatamente accogliente.

Al Travelodge dell’Aeroporto di Valencia l’hanno ottenuto con un design semplice e lineare che definirei “Ikea caldo”: molto bianco, un po’ di blu e legno chiaro (più sotto vedrete le foto delle camere).

Anche gli arredi delle zone comuni, hall, ristornate-zona colazione e bar, richiamano la linearità del design nordico senza rischiare di sembrare copie economiche di mobili “belli”.

Un’atmosfera neutra un po’ famigliare a tutti e solo leggermente anonima, senza arrivare al gelo del design spinto che io personalmente, sarà l’età, trovo sempre più affaticante anche nelle sue versioni costose.

Wi-fi.

Trattare il wi-fi come un punto specifico può sembrare un assurdo, ma non lo è considerando che negli hotel a 4 e 5 stelle fino ad un paio di anni fa (recentemente non li ho più frequentati) per il wi-fi in camera si pagava un prezzo extra. Su un costo della camera che era già sopra i 100 euro a notte. Oramai per tutti, ma ancora di più per il tipo di clientela iper-connessa che vola low cost, il wi-fi in stanza è imprescindibile, quindi ha un forte valore aggiunto, quindi è un vantaggio competitivo rilevante (o svantaggio, se mancasse).

E’ parlando di “costo” e “valore” si tratta di un servizio che per l’hotel non ha alcun costo aggiuntivo.

Reception.

Reception Travelodge Valencia

La reception è aperta sostanzialmente 24 ore su 24 (salvo imprevisti), anche grazie al fatto che richiede una sola persona perché deve occuparsi solamente del check perché il check out si riduce alla restituzione della chiave dal momento che le stanze non hanno frigo bar.

Visto che non ci possono essere spese aggiuntive rispetto al prezzo della stanza, si paga all’arrivo e non alla partenza. Questo quindi evita di dover fare fila, anche solo per restituire la chiave, alla partenza. Che tra l’altro è un momento in cui si può avere più fretta rispetto a quando si arriva, soprattutto se si deve prendere un aereo la mattina presto. Aggiungeteci che spesso le partenze dei voli low cost per le diverse tratte in questi aeroporti “periferici” spesso si concentrano in fasce orarie relativamente ristrette, e di conseguenza anche le partenze dagli hotel dei passeggeri.

Il valore del frigo bar in camera per le persone in questa situazione di viaggio è relativamente basso (si viaggerà in aerei con servizio di ristoro a pagamento) e il “disservizio” è mitigato dalla vicinanza del supermercato già citata, da un distributore automatico di bevande nella hall e dal bar dell’albergo (vedi sotto).

 

Ristorante e bar.

Si potrebbe pensare che avere il ristorante in un hotel low cost sia un lusso inutile, invece si tratta di un servizio che da all’hotel un vantaggio competitivo differenziante generando profitti.

Nel quartiere vicino all’hotel ci sono solo un bar ed un bar ristorante gestito da cinesi e di livello medio basso, d’altra parte chi arriva la sera per pernottare e ripartire il giorno dopo deve pur mangiare, quindi il tasso di riempimento della struttura è mediamente buono, sicuramente superiore a quello dei ristoranti di albergo classici.

La sera che ci sono stato io nell’ora tra le 20:30 e le 21:30 ha fatto circa 15 coperti.

La scelta del menù era limitata a tre/quattro primi ed altrettanti secondi (ovviamente non potevano mancare pasta ed hamburgher) con un’offerta del giorno che prevede il bere in omaggio con un primo.

Io mi sono arrischiato a prendere il risotto con i funghi (a Valencia comunque il riso sanno cucinarlo) con il bere in omaggio per 7,50 euro in tutto.

Di negativo c’è stato che ho dovuto aspettare mezz’ora prima che me lo portassero (anche perché giusto pria di me aveva ordinato tutto altro un gruppo di 8 persone) però devo dire che era buono e quindi il tempo di attesa non è stato solo ritardo, ma anche cottura.

L’altro vantaggio di avere il ristorante è quello di servire anche la colazione, particolarmente importante per la clientela del nord Europa e a maggior ragione se deve andare a prendere un areo dove non gli daranno niente gratis.

Da notare gli ospiti che partivano dalle 5:00 alle 7:00, l’ora in cui cominciava ad essere servita la colazione, potevano richiedere una breakfast box da asporto.

Avendo la struttura del ristorante con il bar e la colazione servita a buffet, quelli come me che la mattina mangiano poco possono prendersi un caffè e una brioche spendendo 2 euro come in qualsiasi bar.

E i costi di personale? Un’unica cameriera fa il servizio del bar e del ristorante. In cucina non so quante persone ci fossero, ma vista il menù ridotto potrebbe essere stata anche una al massimo 2.

Negli orari in cui il ristorante è chiuso (non so se funziona anche a pranzo) il servizio del bar viene svolto dalla persona che è alla reception.

 

Le stanze.

Le stanze sono probabilmente il posto dove si apprezza di più come sia possibile fornire più valore ai clienti abbassando i costi ripensando quello che è il modo “normale” di fare le cose.

Tutte le stanze hanno i letti a due piazze, quindi anche chi è alto 193 cm e viaggia da solo non rischia di trovarsi in minuscoli letti singoli (successo non molti mesi fa a Milano e Firenze) oppure di dover pagare un “sovraprezzo statura”. Anche qui ritorno al targeting e ricordo l’aumento della statura media degli europei negli ultimi anni.

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Il pavimento è di parquet di legno chiaro che trasmette calore all’ambiente ed il letto ha una “testiera attrezzata” ed è senza pediera. In questo modo il letto risulta comunque “vestito”, ma si guadagna spazio vivibile nella stanza (ricordo una decina di anni fa un hotel a Parigi St. Denis, quindi neanche in centro, dove tra il letto e la parete dovevo passare di profilo).

La testiera aveva una profondità di circa 15 cm nella quale di fianco al letto erano ricavate due nicchie dove potevano starci tranquillamente un libro o un tablet o il telefono, l’orologio ecc…

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Se bisognava appoggiare altre cose, si poteva usare la parte superiore della testiera, che nella zona centrale all’interno aveva una lampada che accesa creava una luce soffusa in tutta la stanza.

Ancora una volta guadagno di spazio utile grazie all’assenza di comodini. Che poi quanti di voi hanno mai usato i cassetti dei comodini degli alberghi? E quanti si sono dimenticati quello che avevano messo dentro?

Avete presente il problema di quanto arrivate in albergo e c’è una unica presa elettrica, normalmente posizionata scomodamente sotto il tavolo o dietro il frigo bar? E il cellulare, il computer, il tablet, la batteria esterna (power bank, come dicono quelli veri) dove li attacco? Qui a sotto ad ogni nicchia c’era la sua bella presa. Altre due si trovavano comodamente sulla parete della scrivania a penisola (nuovamente risparmio di spazio senza sacrificare di niente la fruibilità).

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Il bagno con doccia aveva lo specchio a tutta parete, comodo, ma soprattutto il pavimento in materiale antiscivolo, ossia sicurezza.

Secondo me però la soluzione più furba era l’armadio … che non c’era. Al suo posto un “appendiabiti attrezzato” con due ripiani dove tutte le cose che ci metto sono sempre bene in vista e quindi è più difficile che me le dimentichi.

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Ossia più servizio ad un costo inferiore di quello di un armadio da pochi soldi, che sicuramente sarebbe costato di più, avrebbe fatto “tristezza” ed avrebbe anche occupato più spazio.

In sintesi la prossima volta che state pensando a sviluppare/rinnovare/migliorare la vostra proposta, qualsiasi bene o servizio producete/vendete, prima di dire che per dare più valore ai vostri clienti bisogna alzare i prezzi vi consiglio di pensare bene al vostro target e di analizzare bene cosa potete fare di diverso per renderli più contenti. Poi preoccupatevi del come, e magari potreste scoprire che riuscite persino a risparmiare.

Fatelo voi, prima che lo facciano i vostri concorrenti.

(bando alle ciance) La questione dei sacchetti di plastica vista secondo l’approccio di marketing.

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Come primo post del 2018 avevo in mentre due argomenti diversi, però da quando il 4 gennaio sono rientrato in Italia l’argomento “sacchetti di plastica” mi ha sopraffatto.
All’inizio l’ho sostanzialmente ignorato, anche per l’oggettivo ridotto peso economico della questione, però poi la quantità di spazio che continua ad occupare su tutti i mezzi di comunicazione (formali ed informali, digitali ed analogici) gli conferisce un indubbio peso sociale.
Quindi mi è venuta voglia di approfondire tutte le mezze informazioni, nessuna risolutiva o completamente esatta, per cui spesso contrastanti tra loro, in cui mi sono imbattuto, anche perché giovedì sono andato a fare la spesa. Ho potuto così osservare quali potrebbero essere i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto indotti dalla nuova legge e le relative opportunità e minacce sui diversi mercati.
Quella che segue quindi è un’analisi della situazione secondo un approccio (integrato, ovviamente) di marketing, libera da valutazioni politiche e/o demagogiche.
Per facilitarne l’esecuzione e la comprensione l’ho divisa in 3 parti: definizione del quadro normativo, analisi dei possibili/probabili cambiamenti dei comportamenti di mercato, brevi considerazioni sulla comunicazione politica. La parte principale è la seconda, ma non si poteva svolgere senza la prima, perché la legislazione definisce i confini entro cui ci si può muovere. La terza non sarebbe necessaria ai fini dello scopo di questo post, però deriva direttamente dalla seconda e, già che c’ero, mi sembrava un peccato “buttarla via”.

Il quadro normativo.
Alla luce delle informazioni parziali e contradditorie relativamente al quadro normativo che trovavo sui vari mezzi di informazione a cui accennavo in precedenza, sono andato alla fonte e mi sono letto tutti provvedimenti coinvolti (grazie internet per permettere di trovarli e di spulciarli senza doverli stampare: più comodo e più ecologico). Nel testo trovate tutti i link.
La legge 123 del 03-08-17 che prevede che dal primo gennaio 2018 non possano più essere utilizzate buste di plastica con meno del 40% di materia prima rinnovabile (percentuale che salirà progressivamente fino al 60% dal 1° gennaio 2021), ottempera a quanto previsto dalla Direttiva UE 2015/70 che a sua volta modificava la Direttiva 94/62/CE per quanto riguarda la riduzione dell’utilizzo di borse in plastica in materiale leggero (definito come quello con spessore inferiore ai 50 micron).
La legge 123 a sua volta è la conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91 recante disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno. Se vi chiedete cosa diavolo c’entrino le borse in plastica con le “disposizioni urgenti per la crescita economica del Mezzogiorno”, la risposta è niente. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quanto le leggi italiane sia scritte male sia come impianto strutturale sia come redazione. Un giurista mi ha detto che il problema è noto, la sua soluzione è costantemente all’ordine del giorno, ma non se ne esce probabilmente perché deriva dai regolamenti parlamentari. E’ un problema non da poco, ma ha poco a vedere con l’argomento di questo post e quindi lo lascio perdere.
In realtà il DL 20-06-17 n.91 riguardo ai sacchetti di plastica non dice sostanzialmente niente. Li tratta all’articolo 9, che consta di un solo comma. E’ talmente breve che vale la pena di riportarlo integralmente:

Art. 9

Misure urgenti ambientali in materia di classificazione dei rifiuti

1. I numeri da 1 a 7 della parte premessa all’introduzione
dell’allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006,
n. 152, sono sostituiti dal seguente: «1. La classificazione dei
rifiuti e’ effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente
codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione
2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione,
del 18 dicembre 2014».

La legge 123 del 03-08-17 conferma quanto sopra (con una minima modifica formale) ed aggiunge l’articolo 9-bis che, nei suoi numerosi commi, disciplina la commercializzazione delle borse di plastica in materiale leggero ed ultraleggero (definito come quello con spessore inferiore ai 15 micron), sua con disposizioni ex-novo che modificando articoli del Capo V del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”.
Fatto un minimo di ordine nell’intrico dei provvedimenti che si riferiscono alla questione (prometto che non ne ti tiro fuori altri), andiamo a vedere le cose salienti che dicono partendo dalla Direttiva UE 2015/70. Vale la pena spiegare per i meno avvezzi alla legislazione comunitaria che la Direttiva è un provvedimento con cui la UE sostanzialmente definisce un obiettivo, lasciando ampia libertà agli Stati Membri su come raggiungerlo (viceversa il Regolamento Comunitario è un provvedimento legislativo che dice a tutti gli Stati Membri quello che devono fare con limitata, o nulla, libertà riguardo alle modalità di recepimento).
In altre parole si sapeva che “ce l’ha chiesto l’Europa” era probabilmente una bugia senza nemmeno leggere la Direttiva (che poi è solo di 5 pagine e quindi si legge anche in fretta).
La Direttiva comunque contiene ovviamente cose importanti. Secondo me il principio più importante è quello enunciato al punto 9 delle considerazioni iniziali (il grassetto è mio):
“Inoltre, è provato che le informazioni ai consumatori svolgono un ruolo decisivo nel raggiungimento degli obiettivi di riduzione dell’utilizzo di borse di plastica. Pertanto, è necessario impegnarsi a livello istituzionale per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti sull’ambiente delle borse di plastica e liberarsi dall’idea ancora diffusa che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso“.
A cui aggiungerei subito dopo il punto 15 delle considerazioni iniziali:
“I programmi di sensibilizzazione per i consumatori in generale e i programmi educativi per i bambini possono svolgere un ruolo importante nella riduzione dell’utilizzo di borse di plastica.”
Dal punto di vista operativo invece la cosa più importante contenuta dalla Direttiva è che lascia libertà agli Stati Membri sulle misure da adottare per raggiungere una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero. Queste misure però devono includere una delle seguenti opzioni, oppure entrambe (copie e incollo, il grassetto come sempre è mio):
“Le misure adottate dagli Stati membri includono l’una o l’altra delle seguente opzioni o entrambe:
a) adozione di misure atte ad assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse dagli obiettivi di utilizzo nazionali;
b) adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure“.
Come vedete viene esplicitato che le borse in plastica in materiale ultraleggero, quelle usate per frutta e verdura per capirsi, possono essere escluse dalle misure di riduzione dell’utilizzo di borse in plastica (i più attenti di voi l’avevano già capito dal fatto che la norma si riferisce sempre alla “borse in plastica di materiale leggero”. Per di più la direttiva richiede che il pagamento delle borse in plastica venga fatto entro il 31 dicembre 2018.
Quindi è stato il Parlamento Italiano a decidere di far pagare anche le borse in plastica di materiale ultraleggero e di farle pagare dal 1 gennaio 2018 e non, per esempio dal 30 dicembre 2018.
Chiarisco subito che io sono personalmente d’accordissimo con questa decisione.
L’altra considerazione è che tutto il can-can che si sta facendo in questi giorni su giornali e social è in ritardo 5 mesi, perché il 3 di agosto 2017 si sapeva già che dal 1 gennaio 2018 tutte le borse di plastica avrebbero dovuto avere almeno il 40% di materia prima rinnovabile e sarebbero stati a pagamento. Il che ha come corollario una certa disonestà intellettuale da parte delle forze sociali (partiti politici e non solo) che oggi si stracciano le vesti.

Opportunità e minacce del nuovo quadro di mercato.
Secondo quanto riporta un articolo del mensile della Coop “Con: consumatori e responsabilità”, in Italia venivano utilizzati attualmente 8.000.000.000 di sacchetti di polietilene ultraleggeri all’anno.
Considerando un prezzo di vendita medio di 0,03 euro (sto largo), significa un maggior fatturato da parte della distribuzione alimentare piccola e grande (soprattutto) di 240.000.000 di euro. Quindi maggiori introiti dello stato tramite l’IVA di 52.800.000 euro. Un po’ pochi rispetto al bilancio dello stato per pensare che l’obiettivo principale della scelta del Governo sia stata quella di fare cassa (per dare un’idea il debito del Comune di Roma è di 17.000.000.000 di euro).
Per le entrate delle tasse sul reddito d’impresa è difficile fare delle previsioni perché dipendono dall’effettivo aumento dei guadagni da parte delle aziende del dettaglio alimentare. Se il prezzo di cessione dei nuovi sacchetti corrisponde alla differenza di costo tra quelli vecchi e quelli nuovi non ci sarà aumento del reddito d’impresa, se invece il prezzo di cessione supera questa differenza ci sarà un aumento dei guadagni mentre se le aziende distributive decidono di investire e vendono i nuovi sacchetti ad un prezzo che non copre la differenza di costo rispetto ai vecchi, il reddito d’impresa diminuirà e di conseguenza anche le tasse pagate dalle aziende. Il tutto ovviamente in una situazione di ceteris paribus, ossia con le tutte le altre variabili immutate.
In sintesi comunque le cifre in gioco sono piccole sia a livello unitario, 0,02 / 0,03 euro a sacchetto – 5 / 10 euro a famiglia all’anno, che a livello complessivo.
Più significativi invece appaiono i cambiamenti nei comportamenti di vendita e di acquisto ed ancora di più le opportunità strategiche per le catene della GDO, che al momento paiono essersi limitate a soddisfare i requisiti minimi di legge.
In termini del comportamento del consumatore bisogna tenere conto della combinazione di due fattori.
Da una parte l’imposizione di far pagare i sacchetti di plastica ultraleggeri sembra sia stata vissuta da ampie fasce di popolazione come un balzello (quanto questo sia stata spontaneo e quanto alimentato da strategie politiche populiste e demagogiche, qui poco importa) mentre dall’altra è noto, provato, consolidato e generalizzato l’interesse delle persone nei confronti dell’ambiente se questo non comporta (eccessivi) costi monetari o “comportamentali”.
Per questo quindi dubito fortemente che il pagamento dei sacchetti per frutta e verdura sposti gli acquisti delle persone sui prodotti cosiddetti di IV gamma, ossia l’ortofrutta già preparata per il consumo e confezionata in buste di plastica, come hanno suggerito alcuni esperti.
Osservando le persone al supermercato ho notato piuttosto un interesse per la frutta e verdura fresca già confezionata in rete di plastica e per quella venduta a cassetta intera.
Se io fossi il Direttore Marketing di una catena della GDO osserverei con attenzione il dato del peso medio dell’acquisto per atto di acquisto per vedere se cresce e quello della frequenza di acquisto per vedere se cala. Nel caso in cui crescesse il primo e rimanesse invariato il secondo significherebbe che le persone stanno comprando più frutta e verdura. Se ne stanno anche mangiando di più dipende da quanta ne buttano via (spero nell’umido) perché è andata a male.
Farei anche un’altra cosa: comincerei ad inserire nell’assortimento frutta e verdura fresca confezionata in rete in formati più piccoli di quelli attuali e vedere come ruotano. Oltre ad offrire al consumatore il vantaggio di una confezione più ecologica (meno plastica) e che a lui non costa, miglioro tutta l’organizzazione del reparto riducendo l’utilizzo delle bilance (tempo per pesare, inceppamenti, manutenzione, sostituzione rotoli etichette) e le conseguenti perdite di tempo alle casse (sacchetti non pesati e prezzati, codici EAN illeggibili). In sintesi fornisco più valore ai consumatori ed abbasso i miei costi: meglio di così, impossibile.
Queste le prime due cose che mi vengono in mente e che si possono realizzare da subito.
Il comportamento del consumatore però apre prospettive su cui potrebbe essere interessante investire, sia per fidelizzare gli attuali che per attirarne di nuovi.
In questo senso l’avviso nel supermercato Coop della foto che apre questo post è deludente da tutti i punti di vista.
E’ deludente la forma: un foglio A4 stampato al computer ed attaccato con il nastro adesivo. Si poteva fare di meglio su un argomento al quale le persone stanno dando così tanta attenzione e che quindi diventa un’opportunità di comunicazione rilevante.
E’ deludente nel contenuto: COOP semplicemente si adegua alla normativa e comunica che il prezzo di 2 centesimi al sacchetto copre solo in parte i costi. Quindi con i 2 centesimi in realtà Coop sta assorbendo parte dei costi che altrimenti avrei dovuto pagare io? E quanti costi assorbe? Visto che anche altre catene di supermercati li fanno pagare 2 centesimi all’uno anche loro coprono parte dei costi che sarebbero stati a carico del consumatore, oppure no? Se veramente Coop si sta impegnando per me mi piacerebbe sapere come e quanto, instillare dubbi di credibilità nella mente dei propri clienti credo sia la cosa peggiore che un negoziante possa fare.
In comunicazione ci si sforza tanto per poter attirare l’attenzione delle persone e poi quando ce la danno spontaneamente la sprechiamo così.
Nel frattempo leggo sul giornale che Coop annuncia che “presenterà a breve soluzioni e materiali di confezionamento sulla merce fresca e sfusa che siano effettivamente riutilizzabili a bassissimo costo per i consumatori e di maggior vantaggio per l’ambiente”.
Si poteva fare di più e meglio per differenziarsi? Credo proprio di sì e continuo con l’esempio di Coop perché la rivista “Con” riporta che durante l’iter legislativo si era opposta al pagamento dei sacchetti da parte dei consumatori, quindi aveva previsto di sopportare i costi aggiuntivi per i 350.000.000 di sacchetti che utilizza ogni anno.
Si poteva far pagare i sacchetti 0,01 euro l’uno, si potevano utilizzare sacchetti con il 100% di materia prima rinnovabile, si potevano usare sacchetti di carta.

Attenzione, non è che ce l’ho con la Coop, di cui sono affezionato cliente: sono tutte cose che potevano fare anche le altre catene di supermercati.

La carta è la strada che la stessa Coop ha preso nel reparto pescheria e mi sembra la strada che sta prendendo il piccolo dettaglio indipendente, per il quale far pagare i sacchetti è un po’ più complesso in termini operativi e soprattutto è molto più difficile in termini di rapporto con la clientela.

Quindi la nuova norma crea una situazione evidentemente favorevole per i produttori di bioplastica, a attenzione anche ai produttori di sacchetti di carta.
Ecco perché sono d’accordo con la scelta del Parlamento di far pagare anche i sacchetti ultraleggeri: la norma sta spingendo verso una riduzione dell’uso della plastica al di là degli obblighi di legge e sta contribuendo a smontare l’idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso.
Se poi avessero destinato l’introito IVA a campagne di sensibilizzazione sulla visione degli imballaggi secondo la regola delle 3R – Ridurre, Riusare, Riciclare in questo ordine di priorità – sarebbe stato ancora meglio, ma per il momento mi accontento.

La comunicazione del PD sulla questione del pagamento che sacchetti di plastica ultraleggeri.
Il post è già lungo, quindi sarò estremamente sintetico.
Sul pagamento dei sacchetti di plastica per l’ortofrutta il PD a tre mesi dalle elezioni ha fatto la figura del Governo gabelliere che ruba ai poveri per dare agli amici ricchi.
Questo anche perché alle accuse populiste e demagogiche si è risposto con altrettanta confusione ed imprecisione (per non dire bugie “E’ una norma europea”).
La materia in realtà era chiara e conosciuta, il governo del Pd ha fatto una scelta precisa nel recepimento della direttiva che immagino (e voglio sperare) non era casuale, a basata su precise valutazioni.
Valutazioni che probabilmente porteranno a risultati apprezzati da ampie face di elettori fedeli e potenziali.
Anche nell’attuale frammentazione della comunicazione non avrebbe fatto male una presa di posizione ufficiale da parte del PD che ne spiegasse le ragioni, anche perché magari sarebbe stato un indirizzo e riferimento per tutti i rappresentanti del Partito, gli attivisti ed i simpatizzanti che sui social hanno condiviso posizioni sbagliate e contradditorie che alla fine fanno il gioco degli avversari.
Populista è chi populista fa e rispondere al populismo con il populismo sullo stesso argomento non funziona. Se proprio si vuole percorrere questa strada comunicativa (tutto da vedere se è nelle corde del proprio target elettorale, a questa è un’altra storia) bisogna usarlo per distrarre l’attenzione da questo argomento per portarla su altri.
Detto in altre parole, il meme della cugina di terzo grado di Renzi funziona solo per chi si rende conto che è un meme e comunque continua a rimestare l’argomento togliendo attenzione a quello del miglioramento dei dati sui musei.
Ricordo Prodi che, sbeffeggiato come “Mortadella”, arrivava ai dibattiti con il suo plico di carte e l’aria da professore (in teoria quanto di peggio si poteva immaginare per la raccolta del consenso) e le elezioni le vinceva, anche con tutte le televisioni contro.