Alle falde del Kilimangiaro: New York e Londra in meno di un mese.

In meno di un mese sono stato 5 giorni a New Yor e 5 giorni a Londra.

Per deformazione professionale, trovandomi in due delle principali metropoli mondiali, ho cercato di carpire qualche nuova tendenza di fondo, non necessariamente nell’ambito alimentari e bevande, che anticipasse i comportamenti futuri delle persone/consumatori.

Quelli che seguono quindi NON SONO impressioni di viaggio, cosa che lascio al programma di Licià Colò, ma sono le osservazoni che mi sono sembrate rilevanti in una logica di strategie aziendali future.

New York: confesso che non ho visto/vissuto nessuna novità che mi abbia colpito l’attenzione. Forse perchè lo cercavo e quindi non avevo lapertura mentale (serendipity) necessaria? Ad ogni modo l’impressione generale è di ritorno/attaccamento al passato come fonte di sicurezza e di solidità. In realtà l’interesse per il settore alimentarie e bevande appare ancora in fortissima crescita, con il proliferare di locali/catene di ristorazione che propongono cibi sani, naturali e quindi (implicitamente) di qualità. In questa tendenza si inserisce il successo di Eatily New York, che è diventato uno dei punti di riferimento anche dal puto di vista turistico. Ancora una volta giù il cappello davanti a Farinetti che ha esportato sostanzialmente immutato il modello di Eatily Torino in termini di comunicazione, struttura del punto vendita ed assortimenti (a New York c’è qualche grande marca italiana in più, ma questo con cambia la struttura della proposta). L’ennesima dimostrazione che si tratta di un concetto estremamente forte, chiaro ed universale.
Forse il ritorno al passato può essere una nuova tandenza negli USA, ma qui è da molto tempo che i Mulini sono tornati Bianchi e Slow Food ha recuperato i prodotti tipici del territorio con i suoi presidi.

Londra: qui non cercavo di capire le tendenze, anche perchè non mi aspettavo di trovarne. Viceversa ho trovato un’atmosfera molto più varia e dinamica di quella di New York, forse perchè tra poco più di un mese cominceranno le Olimpiadi? Molti operatori con cui ho parlato infatti dicono che fuori Londra la crisi si vede eccome.
A Londra invece i locali sono pieni, o meglio i marciapiedi davanti ai locali sono pieni della gente più varia perchè sono tutti fuori con i loro drink come in Italia o Spagna, che però hanno un clima che favorisce un bel po’ di più la vita all’aria aperta. Non so se è dovuto al divieto di fumare all’interno, ma rispetto alla cultura del pub che ho conosciuto 25 anni fa ed ho trovato ancora 10 anni fa è un bel cambio.
Per quanto riguarda le tendenze di alimentari e bevande, pensando ad un decennio fa (ma volendo anche a 5 anni fa) colpisce la presenza del vino ovunque (e questo vale anche per New York) ed il posizionamento della ristorazione indiana come cucina di qualità. Non è detto che una rondine faccia primavera, ma come sintesi delle tendenze future mi ha colpito un ristorante che proponeva esclusivamente “indian tapas”, ossia cucina indiana presentata in piccole porzioni.
A Londra la crescente influenza dell’Asia si percepisce chiaramente. O magari è perchè sono stato un pomeriggio con un nostro nuovo grossista, arrivato dall’India a Londra per fare l’Università, a 22 anni ha chiesto un prestiuto in banca ed ha messo in piedi un’azienda di forniture a pub e ristorante che dopo dieci anni fattura circa 15 milioni di euro ed ha una ventina di dipendenti, tutti indiani e parte i venditori.
Mi ha colpito (e qui divento un po’ Licia Colò) quello che mi ha detto a cena: “Se ripenso a quello che ho fatto in questi dieci anni, mi rendo conto che se dovessi farlo adesso, non ci riuscirei, perchè la forza che hai a 22 anni non è quella che hai a 32.” E’ una considerazione che condivido da quando mi sono reso che il mio picco psicofisico è cominciato sui 25 anni, e quinbdi da lì è inizato il declino.
Mi è venuto spontaneo quindi pensare alla situazione italiana dove la maggioranza delle persone comincia a lavorare intorno ai 25 e, soprattutto, fino ai 30 viene trattato praticamente da ragazzo di bottega. Che spreco di energie.

La forza delle abitudini: riassunto e commento.

Come annunciato ecco le riflessioni che mi ha suscitato l’articolo “La forza delle abitudini” riportato nei due post precedenti a questo (se volete approfondire, l’autore dell’articolo ha anche scritto un libro sull’argomento).

Per compensare la lunghezza dei post 1 e 2, cercherò di essere sintetico con questo, limitandomi solo agli spunti più intensi.

X Factor. Mi ha colpito scoprire una volta di più l’importanza data dalle aziende americane alla ricerca ed all’analisi per la produzioni di informazioni rilevanti allo sviluppo dell’attività. Mi ha colpito soprattutto per il confronto con la realtà italiana, che continua ad essere pervasa da una cultura umanista basata sulla logica e sul ragionamento speculativo, dove la quantificazione riguarda quasi esclusivamente i risultati (di vendita, di reddività) e raramente i diversi aspetti che detrminano quei risultati.
Non credo che il problema sia la disponibilità dei dati, perchè oramai anche in Italia le azienda della grande distribuzione (e non solo) dispongono di carte fedeltà, programmi di fidelizzazione eccetera. Però non riescono a trasformare i dati in informazioni perchè non investono in persone come Andrew Pole, con forti competenza, ma, magari, non altrettanto forte personalità.
In genere nelle aziende italiane, a tutti i livelli, l’intraprendenza viene considerata l’X-factor sulla competenza. Secondo me invece ci sono livelli, ruoli e posizioni dove l’intraprendenza non è fondamentale, purchè le competenze siano valorizzate dall’imprenditore (o dalla figura imprenditoriale). Cosa sarebbero le imprese italiane se alla creatività, diciamo pure all’inventiva, si aggiungesse l’analisi?

Il grande fratello non abita qui. Le scelte del consumatore sono sempre soggettivamente razionali, ma quel “soggettivamente” implica che non c’è una linearità nei comportamenti delle persone e l’esempio dello sviluppo e lancio di Febreze è illuminante su questo aspetto: le persone non acquisteranno un prodotto che non gli interessa, nemmeno con una campagna pubblicitaria fatta dalla Procter and Gamble. Spesso chi fa marketing se ne dimentica, ancor più se dispone dei grandi mezzi delle multinazionali.
In realtà l’esempio di Febreze interessa anche l’annosa questione dell’eticità delle attività di marketing, perchè alla fine non ha dato consumatori quello che gli serviva (un prodotto per eliminari gli odori), bensì quello che volevano (un deodorante per la casa che lasciava un buon odore). Sembra tanto persuasione occulta.
Però mi chiedo: trattando di persone adulte chi ha il diritto di decidere se quello che vogliono non è quello che gli serve? Si tratta come minimo di paternalismo, che rischia di essere un sinonimo di dittatura.
E questa considerazione vale anche per le campagne di mailing della Target, che non stimolano richieste ma le intercettano.

Dinamite. Tanti anni fa ho letto la biografia a fumetti di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite, mi è rimasto impresso il concetto (autoassolutorio come la mia riflessione qui sopra?) che la dinamite non è buona o cattiva di per sè, dipende dall’uso che ne fanno le persone. Allo stesso modo le tecniche di analisi del comportamento umano non sono buone o cattive di per sè dipende dall’uso che se ne fa.
Dopo tanti anni di azienda credo che sia normale chiedersi perchè non destinare tutte quelle risorse umane ed economiche a scopi più ampi di benessere pubblico.
Ecco quindi che pensare di utilizzare la “scienza delle abitudini” per determinare comportamenti di utilità sociale la mette in tutt’altra luce rispetto al suo utilizzo da parte delle imprese. Oppure ne fa il vero grande fratello?

La forza delle abitudini 2

Ecco la seconda, ed ultima, tranche dell’articolo La forza delle abitudini Charles Duhigg, The New York Times Magazine. E’ un po’ (poco) più corta della prima.

Nell’ultima puntata, le mie impressioni.

Buona lettura.

Acquisti per eventi speciali
Andrew Pole era stato assunto dalla Target per aumentare le vendite usando lo stesso tipo di studio sulle abitudini dei consumatori. Doveva analizzare tutti i cicli stimoloroutine-gratificazione e aiutare l’azienda a capire come poteva sfruttarli. Il compito del suo reparto era piuttosto semplice: trovare i clienti che avevano dei bambini per mandargli il catalogo dei giocattoli prima di Natale; cercare le persone che di solito in aprile comprano un costume da bagno per mandargli buoni per l’acquisto di creme solari a luglio e la pubblicità di libri sulle diete a dicembre. Ma il compito più importante di Pole era individuare quei momenti unici nella vita delle persone in cui le abitudini di spesa diventano particolarmente flessibili e la pubblicità o il buono sconto giusto possono spingerle a modificare le abitudini di acquisto.
Negli anni ottanta un gruppo di ricercatori guidati da un professore dell’università della California a Los Angeles di nome Alan Andreasen condusse uno studio sugli acquisti più comuni, come il sapone, il dentifricio, i sacchetti della spazzatura e la carta igienica. Scoprirono che la maggior parte delle persone non prestava quasi nessuna attenzione a quegli acquisti, erano un’abitudine che non richiedeva decisioni complicate.
Questo signiicava che, nonostante i buoni e le promozioni, era difficile convincerle la gente a cambiare.
Ma quando nella vita di qualcuno c’era un evento speciale, come una laurea, un nuovo lavoro o il trasferimento in un’altra città, le abitudini d’acquisto diventavano più flessibili e prevedibili, trasformando quei clienti in potenziali miniere d’oro per i venditori. Dallo studio emerse che quando una persona si sposa è più probabile che cambi marca di caffè. Quando una coppia si trasferisce in una nuova casa, è più disposta a cambiare tipo di cereali per la colazione.
Quando divorzia, ci sono più probabilità che cominci a comprare una marca di birra diversa. I consumatori che attraversano una fase particolare della loro vita spesso non si accorgono che le loro abitudini d’acquisto sono cambiate, ma per i rivenditori è importante.
Dal punto di vista delle aziende, il più significativo di questi eventi speciali è l’arrivo di un bambino. Quando nasce un figlio,le abitudini dei genitori sono più flessibili che in qualsiasi altro periodo della vita di un adulto. Se le aziende riescono a individuare le donne che aspettano un bambino possono guadagnare milioni.
Ma individuarle è più diicile di quanto si possa immaginare. La Target ha un registro delle baby shower, le feste in cui si portano dei regali alle future mamme, e Pole cominciò da lì. Osservò come cambiavano le abitudini d’acquisto delle donne dell’elenco via via che si avvicinavano al parto, in base ai racconti che loro stesse avevano fornito all’azienda. Condusse un test dopo l’altro, analizzò i dati e dopo un po’ cominciarono a essere evidenti alcuni schemi. Per esempio, molte persone comprano creme per il corpo, ma un suo collega aveva notato che le donne incinte comprano più creme senza profumo dopo il terzo mese di gravidanza. Un altro analista si era accorto che durante i primi cinque mesi, le donne incinte compravano più integratori alimentari a base di calcio, magnesio e zinco.
Molte persone acquistano saponi e ovatta, ma quando una donna comincia a comprare saponi senza profumo e buste giganti di batuffoli di cotone, disinfettanti per le mani e asciugamani nuovi, significa che si sta avvicinando il momento del parto.
Quando i computer ebbero elaborato i dati, Pole riuscì a individuare circa venticinque prodotti che, messi insieme, gli permettevano di attribuire a ogni donna un “punteggio gravidanza”. Ma soprattutto, poteva calcolare la data del parto con una buona approssimazione, per permettere alla Target di mandare alla futura mamma i buoni relativi alle diverse fasi della gravidanza.
Pole applicò il suo programma a tutte le clienti abituali del database nazionale dell’azienda e ben presto ebbe una lista di
decine di migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino. Se riuscivano a convincere quelle donne o i loro mariti ad andare nei loro negozi e comprare prodotti per neonati, con il sistema stimoloroutine-gratiicazione potevano spingerli a comprare anche prodotti alimentari, costumi da bagno, giocattoli e vestiti. Quando Pole presentò la sua lista, gli esperti di marketing rimasero estasiati. Cominciarono a invitarlo a tutte le riunioni importanti. E alla fine gli aumentarono lo stipendio.
Ma a quel punto qualcuno si chiese: come reagiranno le donne quando capiranno quante cose sappiamo di loro?
“Se si vede arrivare un catalogo con la scritta: ‘Congratulazioni per il suo primo figlio!’ e non ci ha mai detto di essere incinta, qualcuna si insospettirà”, mi ha raccontato Pole. “Siamo molto attenti alle norme sulla privacy. Ma anche se rispetti la legge certe cose mettono in guardia le persone”.
Circa un anno dopo che Pole aveva creato il suo modello per prevedere le gravidanze, un uomo entrò in un negozio Target alla periferia di Minneapolis e chiese di vedere il direttore. Aveva in mano dei buoni che erano stati mandati a sua figlia e, secondo un impiegato che aveva assistito alla conversazione, era molto arrabbiato. “Questi sono arrivati per posta a mia figlia!”, disse. “È ancora alle superiori e le mandate buoni per comprare abbigliamento da neonato e culle? State cercando di incoraggiarla a rimanere incinta?”.
Il direttore non aveva idea di cosa fosse successo. Guardò la busta, senza dubbio era indirizzata alla figlia dell’uomo e conteneva la pubblicità di abiti premaman, mobili per la stanza dei bambini e foto di bimbi sorridenti. Si scusò e qualche giorno dopo lo richiamò per scusarsi ancora.
Ma al telefono il padre sembrava imbarazzato.
“Ho parlato con mia figlia”, disse. “Ho scoperto qualcosa di cui non ero al corrente. Partorirà in agosto. Sono io che devo
scusarmi”.
Quando mi sono rivolto alla Target per discutere il lavoro di Pole, i rappresentanti dell’azienda si sono rifiutati di parlare con me. “Il nostro obiettivo è fare dei magazzini Target la destinazione preferita dei nostri clienti garantendo loro prodotti validi, innovazione continua e un’esperienza d’acquisto eccezionale”, mi hanno scritto. “Abbiamo creato una serie di strumenti di ricerca che ci consentono di capire meglio le tendenze e le preferenze di vari segmenti demografici della popolazione”. Quando gli ho mandato una sintesi del mio articolo, la risposta è stata più lapidaria: “Quasi tutte le sue affermazioni si basano su notizie inesatte e la loro pubblicazione sarebbe fuorviante.
Non intendiamo discuterle punto per punto”. L’azienda si rifiutava di specificare quali fossero le inesattezze, ma aggiungeva che “la Target rispetta tutte le leggi statali e federali, comprese quelle sulla segretezza delle informazioni sanitarie”.
Quando mi sono offerto di andare da loro per discutere le cose che li preoccupavano, una portavoce dell’azienda mi ha
scritto un’email dicendo che nessuno mi avrebbe ricevuto. Ci sono andato lo stesso, e mi hanno comunicato che ero nella lista dei visitatori indesiderati. “Ho ricevuto l’ordine di non farla entrare e di chiederle di andarsene”, mi ha detto un gentile agente di sicurezza di nome Alex.
Poco dopo che Pole aveva perfezionato il suo modello, la Target si era resa conto che usare i dati in suo possesso per scoprire una gravidanza sarebbe stato disastroso per i suoi rapporti con il pubblico. Quindi il problema era diventato: come far arrivare le pubblicità alle donne incinte senza che si sentano spiate? Come sfruttare le abitudini di qualcuno senza fargli capire che state studiando la sua vita?

Decifrare la sequenza
Prima di incontrare Andrew Pole, prima ancora di decidere di scrivere un libro sulla teoria della formazione delle abitudini, avevo un altro obiettivo: volevo perdere peso. Avevo preso la brutta abitudine di andare ogni pomeriggio alla caffetteria del giornale e di mangiare un dolce al cioccolato, così avevo preso qualche chilo. Quattro, per essere precisi. Avevo incollato un foglietto sul mio computer con scritto: “Niente più dolci”. Ma tutti i pomeriggi riuscivo in qualche modo a ignorarlo, entravo nella caffetteria e mangiavo un dolce parlando con i colleghi. Domani, mi dicevo sempre, troverò la forza di resistere.
E il giorno dopo ne mangiavo un altro.
Quando ho cominciato a intervistare gli esperti di formazione delle abitudini, concludevo ogni intervista chiedendo cosa dovevo fare. La prima cosa, mi dicevano, era capire come funziona la sequenza. La routine era semplice: tutti i pomeriggi entravo nella caffetteria, compravo un dolce e lo mangiavo chiacchierando con gli amici. Poi sono arrivate le domande meno ovvie. Qual’era lo stimolo: la fame, la noia, un calo della glicemia? E qual era la gratificazione: il sapore del dolce, la distrazione dal lavoro, la possibilità di socializzare con i colleghi? Le gratificazioni sono importanti perché soddisfano sempre un nostro desiderio, ma spesso non sappiamo qual è il bisogno che dà origine a un’abitudine. Perciò un giorno, quando ho sentito il desiderio del dolce, ho deciso invece di andare a fare una passeggiata. Il giorno dopo sono andato alla caffetteria e ho preso un caffè. Quello successivo ho comprato una mela e l’ho mangiata parlando con gli amici. È chiaro, no? Volevo verificare qual era la gratificazione che cercavo. Se avevo fame, la mela avrebbe dovuto funzionare. Avevo bisogno di una carica di energia? Allora bastava il cafè. Oppure, come avrei scoperto alla fine, dopo tante ore di concentrazione sul lavoro volevo socializzare, essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi dell’ufficio, e il dolce era solo una scusa. Mi bastava avvicinarmi alla scrivania di un collega e fare due chiacchiere con lui per non sentire più il bisogno del dolce. Ora dovevo capire qual era lo stimolo. Ma decifrare gli stimoli è molto difficile.
Spesso nella nostra vita ci sono troppe informazioni per permetterci di capire cosa scatena un particolare comportamento.
Facciamo colazione a una certa ora perché abbiamo fame? O perché è cominciato il tg della mattina? O perché mangiano i nostri figli? Alcuni esperimenti hanno dimostrato che quasi tutti gli stimoli rientrano in cinque categorie: luogo, tempo, stato emotivo, presenza di altre persone o azioni immediatamente precedenti. Quindi per capire cosa scatenava il mio desiderio di dolce, nel momento in cui ne sentivo il bisogno ho cominciato a rispondere a queste cinque domande.
Dove sei? (Seduto alla mia scrivania).
Che ore sono? (Le 15.36).
Qual è il tuo stato emotivo? (Sono annoiato).
Chi c’è con te? (Nessuno).
Cosa hai fatto prima? (Ho risposto a un’email).
Il giorno dopo l’ho fatto di nuovo. E anche quello successivo. Dopo un po’ ho capito qual era lo stimolo: sentivo sempre il bisogno di mangiare qualcosa intorno alle tre e mezzo del pomeriggio. Una volta individuata la sequenza, sembrava piuttosto facile cambiare abitudine.
Ma gli psicologi e i neuroscienziati mi hanno avvertito che per modificare il mio comportamento dovevo basarmi sullo stesso principio che aveva permesso alla Procter & Gamble di vendere Febreze. Per cambiare la routine – cioè socializzare invece che mangiare un dolce – dovevo sfruttare un’abitudine già esistente. Perciò ora, tutti i giorni intorno alle tre e mezza, mi alzo, mi guardo intorno per vedere se in redazione c’è qualcuno con cui chiacchierare, passo una decina di minuti a scambiare pettegolezzi e poi torno alla mia scrivania. Lo stimolo e la gratificazione sono rimasti gli stessi. È cambiata solo la routine. Non mi sembrava di aver preso una decisione più di quanto i topi dell’Mit avessero deciso di correre attraverso il loro labirinto. È diventata un’abitudine, e da allora ho perso dieci chili (metà dei quali eliminando il rituale del dolce).

Tosaerba e pannolini
Dopo che Andrew Pole aveva perfezionato il suo modello e individuato migliaia di donne che probabilmente aspettavano un bambino, dopo che qualcuno aveva pensato che forse alcune di quelle donne sarebbero rimaste turbate ricevendo una pubblicità dalla quale si capiva chiaramente che la Target spiava il loro comportamento riproduttivo, tutti decisero di allentare la pressione.
Il reparto marketing condusse alcuni test scegliendo un piccolo campione a caso di donne dalla lista di Pole e mandando loro varie combinazioni di pubblicità per vedere come reagivano. “Siamo in grado di mandare a ogni cliente un opuscolo pubblicitario studiato specificamente per lui o per lei che dice: ‘Queste sono le cose che ha comprato la settimana scorsa e un buono per ricomprarle’”, mi ha spiegato uno dei dirigenti dell’azienda. “Per i prodotti alimentari lo facciamo sempre”. Ma con le donne in attesa, l’obiettivo della Target era vendere prodotti per neonati dei quali non sapevano ancora di aver bisogno.
“Con i prodotti per la gravidanza, però, abbiamo scoperto che alcune donne reagiscono veramente male”, ha continuato il dirigente. “Perciò abbiamo cominciato ad aggiungere la pubblicità di prodotti che una donna incinta non comprerebbe mai per far sembrare casuale la nostra scelta. Mettevamo la pubblicità di un tosaerba accanto a quella dei pannolini. Quella di un vino accanto a quella dell’abbigliamento per neonati. Così sembrava che tutti i prodotti fossero stati scelti a caso. E abbiamo scoperto che se una donna incinta non pensa di essere spiata, alla fine usa i buoni. Immagina semplicemente che tutti nel suo palazzo abbiano ricevuto lo stesso opuscolo, così non si spaventa e il sistema funziona”.
In altre parole, sfruttando le abitudini già esistenti – gli stessi stimoli e le stesse gratificazioni che già spingevano i clienti a comprare detersivi o calzini – la Target poteva creare una nuova routine e spingerli a omprare prodotti per neonati. Lo stimolo è “Guarda, un buono per una cosa che mi serve!”, la routine è “Compra, compra, compra” e la gratificazione è “Così posso risparmiare”. Poi, una volta che la persona entra nel negozio, trova altri stimoli e gratificazioni che la spingono a mettere nel carrello tutto quello che normalmente compra altrove. Quando la Target riuscì a dare l’impressione che tutto rientrasse nella norma, la sua pubblicità funzionò.
Poco dopo l’inizio della nuova campagna, le vendite di prodotti per neonati salirono alle stelle. L’azienda non rende note le cifre relative a settori specifici, ma tra il 2002 – anno in cui assunse Pole – e il 2010, i suoi incassi sono passati da 44 a 67 miliardi.
Nel 2005 il presidente della Target, GreggSteinhafel, si è vantato con gli investitori della “maggiore attenzione della sua azienda per i prodotti che interessano particolari categorie di consumatori come le mamme e i bambini”.
Pole è stato promosso e invitato a parlare ai convegni. “Non avrei mai pensato che diventasse una cosa così importante”, mi ha detto l’ultima volta che gli ho parlato.
Qualche settimana prima che questo articolo venisse pubblicato, sono andato a Minneapolis per cercare di parlarne con lui ancora una volta. Era più di un anno che non ci sentivamo. Quando eravamo ancora amici gli avevo detto che mia moglie era incinta di sette mesi. Anche lei fa la spesa alla Target, gli avevo detto, e gli avevo lasciato il nostro indirizzo per ricevere i buoni. Man mano che la gravidanza di mia moglie procedeva, avevo notato un leggero aumento delle pubblicità di pannolini e abbigliamento per neonati che arrivavano a casa.
Quando sono arrivato a Minneapolis, Pole non ha risposto né alle mie email né alle mie telefonate. Sono andato a casa sua, in un bel quartiere, ma nessuno mi ha aperto. Mentre tornavo in albergo, mi sono fermato in un grande magazzino Target perché mi serviva un deodorante e ho comprato anche una maglietta e un gel per i capelli. Poi mi è venuto in mente di aggiungerci qualche ciuccio per vedere come reagivano i computer. Ormai nostro figlio ha nove mesi
e i ciucci non bastano mai.
Quando sono andato a pagare, con mia grande delusione, non mi hanno offerto nessun buono per i pannolini o il latte in
polvere. D’altra parte era comprensibile, ero in una città dove non ero mai stato prima, alle dieci di sera di un giorno feriale e avevo comprato tutte cose diverse. Stavo usando una carta di credito aziendale e, a parte i ciucci, non avevo comprato nulla di quello che di solito serve a chi ha un bambino.
I computer avevano capito benissimo che ero in viaggio di lavoro. Il calcolatore di Pole mi aveva dato un’occhiata e aveva deciso di aspettare un momento più opportuno.
Una volta tornato a casa, le offerte sarebbero arrivate. Come mi aveva detto Pole l’ultima volta: “Aspetta. E vedrai che ti manderemo i buoni per le cose che vuoi prima ancora che tu sappia di volerle”.

La forza delle abitudini 1

Interessantissimo articolo del New York Time Magazine pubblicato sull’Internazionale. Lo pubblico a puntate perchè (purtoppo) è veramente troppo lungo per il web; limiti del digitale (come quelli che mi dicono “L’i-pad è troppo comodo per leggere il giornale la mattina”, però con l’i-pad non leggi il giornale, lo guardi e non è la stessa cosa).

Forse sto facendo una violazione del copyright, ma se Zuckerberg dice (probabilmente a ragione) che la privacy è un concetto superato, spero che citare la fonte basti a farmi perdonare.

Poi finite le puntate probabilmente farò un post sulle riflessioni stimolate da questo articolo, nel frattempo se volete mandare le vostre ….. Mettetivi comodi e cominciate

La forza delle abitudini
Charles Duhigg, The New York Times Magazine,Stati Uniti.

Condizionano la nostra vita ogni giorno, da quando ci laviamo i denti a quando guidiamo la macchina. Da vent’anni gli scienziati cercano di capire come nascono le abitudini. Ora le loro ricerche hanno un nuovo campo di applicazione: il marketing.

Nel 2002 Andrew Pole era appena entrato a lavorare come esperto di statistica alla catena di grandi magazzini Target, quando due colleghi del reparto marketing si fermarono accanto alla sua scrivania per fargli una strana domanda: “Siamo in grado di scoprire se una cliente è incinta, anche se lei non vuole farcelo sapere?”. Pole ha un master in statistica e uno in economia e si è occupato per tutta la vita dell’incrocio tra i dati e il comportamento umano. I suoi genitori insegnavano nel North Dakota, e mentre gli altri ragazzi andavano in campeggio, Pole studiava algebra e scriveva programmi per computer. “Lo stereotipo del nerd della matematica non è un mito”, mi ha detto quando ho parlato con lui l’anno scorso. “Mi piace andare in giro a diffondere il vangelo dell’analisi”. Come gli spiegarono gli esperti di marketing – e come lui stesso ha spiegato a me prima che la Target gli proibisse di parlarmi – le persone che hanno appena avuto un figlio sono una miniera d’oro. La maggior parte della gente non compra in un unico posto tutto quello che le serve. Fa la spesa nei negozi di alimentari, compra i giocattoli nei negozi di giocattoli e va alla Target solo quando ha bisogno di certe cose che
associa ai grandi magazzini, come i detersivi, i calzini o la carta igienica. Ma la Target vende di tutto, dal latte agli orsacchiotti di peluche, dai mobili da giardino all’elettronica, perciò uno dei suoi obiettivi principali è convincere i clienti che l’unico negozio di cui hanno bisogno è il suo. Ma questo è un messaggio difficile da trasmettere, anche con le campagne pubblicitarie più ingegnose, perché non è facile far cambiare abitudini alla gente. Tuttavia, ci sono alcuni periodi della vita in cui una persona è costretta a modificare la sua routine e le abitudini d’acquisto sono più fluide. Uno di questi momenti, anzi il principale, è quando nasce un bambino, perché i genitori sono esausti e soprafatti dal nuovo impegno e più disposti a cambiare abitudini d’acquisto. Ma come spiegarono a Pole i colleghi del marketing, il tempismo è fondamentale. Dato che i registri delle nascite sono pubblici, quando una coppia ha un figlio viene immediatamente tempestata di offerte e pubblicità da aziende di ogni tipo. Perciò è decisivo riuscire a conquistare quella famiglia prima che chiunque altro scopra che è in arrivo un bambino. In particolare, i colleghi di Pole volevano mandare pubblicità mirate alle donne che avevano superato i primi tre mesi di gravidanza, perché quello è il periodo in cui la maggior parte delle mamme in attesa comincia a comprare cose come le vitamine e l’abbigliamento premaman. “Sapevamo che se fossimo riusciti a conquistare le future mamme in quel periodo, sarebbero rimaste nostre clienti per anni”, mi ha spiegato Pole. “Se cominciano a comprare i pannolini da noi, poi comprano anche tutto il resto”. Naturalmente, questo desiderio di
raccogliere informazioni sui clienti non è una novità né per la Target né per le altre catene di distribuzione. Sono decenni che la Target accumula dati sulle persone che entrano regolarmente nei suoi negozi. Quando è possibile, assegna a ognuna di loro un codice, che chiama numero di identificazione del cliente, grazie al quale controlla tutto quello che compra. “Se qualcuno usa la carta di credito o un buono sconto, risponde a un questionario, chiede un rimborso, chiama il nostro servizio clienti, apre l’email che gli abbiamo mandato o visita il nostro sito, noi registriamo l’operazione e la colleghiamo al codice”, spiega Pole. “Vogliamo più informazioni possibile”. Collegate al numero di identificazione del cliente sono anche tutte le informazioni di tipo demografico: l’età, se una persona è sposata, se ha figli, in quale zona della città vive, quanto tempo ci mette a raggiungere il negozio, approssimativamente quanto guadagna, se ha cambiato casa di recente, che carte di credito ha e quali siti visita. La Target può comprare anche i dati sull’origine etnica, sui lavori che una persona ha fatto, su quali riviste legge, se ha mai dichiarato fallimento o ha divorziato, in che anno ha comprato (o perso) la casa, se è andata all’università, di cosa parla online, se preferisce una certa marca di caffè, di tovaglioli di carta, di cereali o di succo di mela, qual è il suo orientamento politico e il suo genere letterario preferito, se fa donazioni e quante auto possiede. Tutte queste informazioni però sono inutili se non c’è qualcuno che le analizza e gli dà un senso. Era proprio questo il compito di Andrew Pole e dei suoi colleghi dell’ufficio Guest marketing analytics Quasi tutti i grandi rivenditori, dalle catene di prodotti alimentari alle banche di investimento, hanno un reparto “analisi predittive” che si occupa di scoprire non solo le abitudini d’acquisto dei consumatori, ma anche le abitudini personali, per poter arrivare a loro più facilmente. “La Target è sempre stata una delle migliori in questo campo”, dice Eric Siegel, un consulente che presiede una conferenza del settore chiamata Predictive analytics world. “Siamo nell’epoca d’oro della ricerca sui comportamenti. È incredibile quante cose possiamo sapere oggi su cosa pensano le persone”. Il motivo per cui la Target può ficcare il naso nelle nostre abitudini d’acquisto è che, negli ultimi vent’anni, la scienza della formazione delle abitudini è diventata uno dei maggiori campi di ricerca degli istituti di neurologia e di psicologia di centinaia di centri medici e di università, per non parlare dei ricchi laboratori delle aziende. “Accaparrarsi gli statistici più in gamba ormai è una specie di corsa agli armamenti”, dice Andreas Weigend, l’ex capo scienziato di Amazon. “I matematici sono improvvisamente diventati molto ricercati”. L’analisi dei dati è sempre più sofisticata, e il desiderio di capire come le abitudini quotidiane influiscono sulle nostre decisioni è uno dei temi più appassionanti della ricerca, anche se la maggior parte di noi non si rende conto di essere schiava di certi schemi. Secondo uno studio condotto dalla Duke university, sono le abitudini più che le decisioni coscienti a condizionare il 45 per cento delle scelte che facciamo ogni giorno. Le ultime scoperte stanno cambiando completamente il modo di vedere molte cose, da come concepiamo una dieta a come
i medici stabiliscono le cure per l’ansia, la depressione e le dipendenze. I ricercatori hanno scoperto come impedire a qualcuno di mangiare troppo o di rosicchiarsi le unghie. Sono in grado di spiegare perché alcuni di noi ogni mattina vanno a correre e sono più efficienti nel loro lavoro, mentre altri non riescono ad alzarsi dal letto e perdono tempo. A quanto sembra, esiste una formula per controllare i nostri desideri inconsci. Il processo grazie al quale il cervello trasforma una sequenza di azioni in una routine automatica è chiamato chunking. Ogni giorno ripetiamo decine, se non centinaia, di comportamenti di questo tipo. Alcuni sono semplici, per esempio mettere il dentifricio sullo spazzolino prima di spazzolare i denti. Altri, come preparare il pranzo per i figli, sono un po’ più complicati. Altri ancora sono così complessi che il fatto che siano diventati abitudini ci sembra incredibile. Prendiamo, per esempio, uscire dal garage di casa a marcia indietro. Quando abbiamo imparato a guidare, questa manovra richiedeva, giustamente, una buona dose di concentrazione, perché bisogna guardare nello specchietto retrovisore e in quelli laterali per vedere se ci sono ostacoli, spingere con un piede il pedale della frizione, ingranare la retromarcia, togliere il piede dalla frizione, calcolare la distanza tra il garage e la strada, mantenere dritte le ruote, calcolare come le immagini che vediamo negli specchietti si traducono in distanze reali, e regolare la pressione sull’acceleratore e sul freno. Ora facciamo tutte queste cose ogni volta che usciamo, senza pensarci troppo. Il nostro cervello ha trasformato in routine una buona parte di questi gesti. Se lo lasciamo fare, il cervello cerca di trasformare tutti i comportamenti ripetuti in abitudini, perché così si sforza di meno. Ma questa tendenza a conservare l’energia mentale può essere pericolosa, perché se il nostro cervello va in automatico nel momento sbagliato, potremmo non accorgerci di qualcosa di importante, come un bambino che attraversa la strada in bici o una macchina che arriva a tutta velocità. Perciò abbiamo inventato un sistema per decidere quando possiamo agire automaticamente. È qualcosa che scatta all’inizio e alla fine di un segmento di comportamento, e ci aiuta a capire perché, anche con le migliori intenzioni, è così difficile cambiare un’abitudine.

Cambiare si può
Il processo di formazione delle abitudini è formato da tre fasi. Prima di tutto c’è uno stimolo che dice al nostro cervello che può andare in automatico e quale sequenza deve usare. Poi c’è la routine, che può essere fisica, mentale o emotiva. Infine c’è la gratificazione, che aiuta il cervello a capire se vale la pena di ricordare quella sequenza in futuro. Nel corso del tempo, questo ciclo – stimolo, routine, gratificazione, stimolo, routine, gratificazione – diventa sempre più automatico. Livello neurologico, lo stimolo e la gratificazione si legano strettamente tra loro fino a quando non si instaura il desiderio. L’aspetto particolare di questo meccanismo è che gli stimoli e le gratificazioni possono essere molto sottili. Alcuni studi neurologici hanno dimostrato che certi stimoli durano solo qualche millesimo di secondo. E le gratificazioni possono andare dalle più ovvie (come l’innalzamento del livello glicemico provocato dalla ciambella che mangiamo al mattino) alle più insignificanti (come il senso di sollievo impercettibile, ma misurabile, che proviamo quando usciamo dal garage). Nella maggior parte dei casi tutto succede così rapidamente che non ce ne rendiamo conto. Ma il nostro sistema neurale se ne accorge e usa queste sequenze per costruire comportamenti automatici. Le abitudini non sono immutabili. Possono essere ignorate, modificate o sostituite. Ma quando abbiamo issato una sequenza e acquisito un’abitudine, il cervello smette di intervenire nelle decisioni. Perciò, a meno che non decidiamo di combattere quell’abitudine, cioè di trovare una nuova sequenza, la vecchia si ripeterà automaticamente. “Abbiamo condotto alcuni esperimenti con i ratti, addestrandoli a percorrere un labirinto fino a quando per loro non è diventata un’abitudine. Poi abbiamo modificato l’abitudine spostando la ricompensa finale”, racconta Ann Graybel, una neuro scienziata del Massachusetts institute of technology. “Un giorno abbiamo rimesso il premio dov’era prima e la vecchia abitudine, incredibilmente, è riemersa. Le abitudini non scompaiono mai del tutto”. Fortunatamente, capire come funzionano le abitudini le rende più facili da controllare. Prendiamo per esempio una serie di studi condotti qualche anno fa alla Columbia university e all’università di Alberta. I ricercatori volevano capire come si instaura l’abitudine di fare esercizio fisico. Il programma prevedeva che 256 persone con un’assicurazione sulla salute frequentassero un corso in cui si dava molta importanza all’esercizio fisico. Metà dei partecipanti assisteva a una lezione in più su come si formano le abitudini e in seguito doveva individuare gli stimoli e le gratificazioni che avrebbe potuto usare per prendere abitudini più sane. Il risultato fu sorprendente. Nel corso dei quattro mesi successivi, le persone che avevano imparato a individuare la sequenza facevano il doppio dell’attività fisica di quelle che non avevano imparato a farlo. Altri studi hanno prodotto risultati simili. Secondo un recente studio, se vogliamo cominciare a correre tutte le mattine, è essenziale scegliere uno stimolo semplice (come mettere sempre le scarpe da ginnastica prima di colazione o preparare la tuta vicino al letto) e una gratificazione chiara (come un dolcetto a mezzogiorno o la soddisfazione che dà registrare i chilometri percorsi in un diario). Dopo un po’ di tempo il cervello comincia ad aspettarsi la gratificazione – a desiderare il dolce o quel senso di soddisfazione – e produrrà un impulso neurologico a infilarci le scarpe da ginnastica ogni mattina. Il nostro rapporto con la posta elettronica funziona nello stesso modo. Quando il computer o il cellulare segnalano che c’è un nuovo messaggio, il cervello comincia ad anticipare il “piacere” che (anche se non lo riconosce) gli provoca cliccarci sopra e leggerlo. Se non viene soddisfatta, questa aspettativa può crescere fino a farci impazzire all’idea che c’è un messaggio non letto, anche se a livello razionale sappiamo che probabilmente non è niente di importante. Se rimuoviamo lo stimolo togliendo la vibrazione al telefono o il volume al computer, il desiderio non si scatena, e riusciamo a lavorare tranquillamente senza controllare di continuo la posta in arrivo.

Piccoli riti
In questo campo, alcuni degli esperimenti più ambiziosi sono stati condotti dalle aziende private. Per capire perché i manager sono così affascinati da questa scienza, pensate che una delle più grandi aziende del mondo, la Procter & Gamble, ha usato la teoria delle abitudini per trasformare un flop in uno dei suoi prodotti più venduti. Questo colosso produce una gamma vastissima di articoli, dagli ammorbidenti per il bucato agli asciugamani di carta, dalle batterie a decine di prodotti per la casa. A metà degli anni novanta i manager della Procter & Gamble avviarono un progetto segreto per la creazione di un nuovo prodotto in grado di eliminare i cattivi odori. L’azienda spese milioni di dollari per creare un liquido incolore e poco costoso che si poteva spruzzare su una camicetta impregnata di fumo, su un divano puzzolente, su una vecchia giacca o sulla tappezzeria macchiata di un’automobile e far sparire ogni odore. Per lanciare sul mercato il prodotto, che si chiamava Febreze, la società creò una squadra formata da un ex matematico di Wall street di nome Drake Stimson e da alcuni studiosi della teoria delle abitudini. Il loro compito era garantire che gli spot televisivi, trasmessi in via sperimentale a Phoenix, Salt Lake City e Boise, nell’Idaho, sottolineassero nel modo giusto gli stimoli e le gratificazioni del prodotto. Nel primo spot c’era una donna che si lamentava della zona fumatori di un ristorante. Ogni volta che mangiava lì, diceva, la sua giacca si impregnava di fumo. Un’amica le faceva notare che con Febreze avrebbe potuto eliminare quell’odore. Lo stimolo era chiaro: l’odore acre del fumo di sigaretta. E anche la gratificazione: la scomparsa di quell’odore dai vestiti. Nel secondo spot c’era una donna preoccupata per il fatto che la sua cagnetta Sophie saliva sempre sul divano. “Sophie avrà sempre il suo odore”, diceva, ma con Febreze, “non ce l’hanno più i miei mobili”. Gli spot furono mandati in onda a rotazione e i pubblicitari cominciarono a pregustare i loro premi. Passò una settimana. Un mese. Due mesi. Le vendite erano sempre più basse. Febreze era un lop. In preda al panico, la squadra di esperti condusse una serie di interviste approfondite tra i consumatori per capire cosa non andava. Il primo sospetto lo ebbero quando andarono a intervistare una donna alla periferia di Phoenix. La sua casa era pulita e ben organizzata. Lei stessa si definiva una maniaca della pulizia. Ma quando i ricercatori della Procter & Gamble entrarono nel salotto, dove i suoi nove gatti passavano la maggior parte del tempo, l’odore era così forte che uno di loro ebbe un conato di vomito. Stimson ricorda che un suo collega chiese alla donna: “Cosa fa per l’odore dei gatti?”. “Di solito non è un problema”, disse lei. “Non lo sente?”. “No”, rispose la donna. “Non è meraviglioso? Non puzzano affatto!”. La stessa scena si ripeté in decine di altre case. Il motivo per cui Febreze non vendeva era che la gente non sentiva i cattivi odori. Se vivi con nove gatti, non ti accorgi più che puzzano. Se fumi, dopo un po’ non senti più l’odore di fumo. Quando l’esposizione è costante, non sentiamo più neanche gli odori più forti. Lo stimolo che avrebbe dovuto far scattare il bisogno di usare Febreze tutti i giorni non veniva recepito. E la gratiicazione, una casa senza odori, non aveva senso per chi non li sentiva. La Procter & Gamble chiese a un professore della Harvard business school di analizzare la campagna di marketing del prodotto. I ricercatori raccolsero ore e ore di filmati di persone che pulivano la casa per cercare qualche indizio che potesse aiutarli a collegare Febreze alle abitudini quotidiane delle persone. Non scoprirono nulla e decisero di fare altre interviste. La svolta avvenne quando andarono a trovare una donna sulla quarantina con quattro figli che viveva alla periferia di Scottsdale, in Arizona. La casa era pulita, anche se non perfettamente ordinata, e non sembrava avere alcun odore, non c’erano animali né fumatori. Con grande sorpresa di tutti, lei adorava Febreze.
“Lo uso tutti i giorni”, disse. “Quali odori cerca di eliminare?”, le chiese un ricercatore. “Non devo eliminare nessun odore specifico”, disse la donna. “Lo uso durante le pulizie, un paio di spruzzi quando ho finito una stanza”. I ricercatori la seguirono mentre riordinava la casa. In camera da letto, rifaceva il letto, tirava bene le lenzuola e poi spruzzava Febreze sulla trapunta. In soggiorno, passava l’aspirapolvere, raccoglieva le scarpe dei bambini, rimetteva a posto il tavolino e poi
spruzzava Febreze sul tappeto appena pulito.
“È piacevole, no?”, disse. “È un piccolo rito per concludere la pulizia di una stanza”. A quel ritmo, calcolarono i ricercatori, avrebbe finito un flacone in due settimane. Quando tornarono nel loro ufficio, gli esperti riguardarono i filmati. Ora sapevano cosa cercare e videro gli errori scena dopo scena. Chi pulisce ha già delle abitudini.
In uno dei video, una donna entrava in una stanza sporca (stimolo), cominciava a spazzare e a raccogliere giocattoli (routine), poi riguardava la stanza e sorrideva (gratificazione).
In un altro, una donna guardava il letto disfatto (stimolo), aggiustava le lenzuola e le coperte (routine) e poi sospirava mentre passava la mano sui cuscini appena sbattuti (gratificazione). Con Febreze la Procter & Gamble aveva cercato di creare una nuova abitudine, ma la mossa vincente era sfruttare quelle già esistenti. Doveva presentare il prodotto come il momento conclusivo del rituale delle pulizie, come una gratificazione piuttosto che come una nuova routine.
L’azienda preparò nuovi cartelloni pubblicitari in cui si vedevano finestre aperte dalle quali entrava aria fresca. Venne aggiunto più profumo a Febreze, così invece di eliminare gli odori lo spray ne aveva uno tutto suo. Nei nuovi spot televisivi le donne, dopo aver finito di pulire, lo spruzzavano sui letti appena fatti e sulla biancheria fresca di bucato. Le pubblicità si basavano su abitudini già esistenti: quando vedi una stanza appena pulita (stimolo), tira fuori Febreze (routine) e goditi il profumo che ti conferma di aver fatto un buon lavoro (gratificazione).
Quando inisci di rifare il letto (stimolo), spruzza Febreze e tira un sospiro di soddisfazione (gratificazione). Febreze, lasciavano intendere gli annunci, era un piacere in più, non un modo per ricordarti che la tua casa puzza.
E così un prodotto che in origine era stato concepito come un sistema rivoluzionario per eliminare gli odori diventò un deodorante per la casa che si usava dopo aver pulito. Tutto questo successe nell’estate del 1998. Nel giro di due mesi, le vendite raddoppiarono. Un anno dopo, Febreze fece incassare all’azienda 230 milioni di dollari. Da allora è nata tutta una serie di prodotti collaterali – deodoranti, candele e detersivi per il bucato – le cui vendite hanno raggiunto un miliardo di dollari l’anno. In seguito la Procter & Gamble ha cominciato a dire ai suoi clienti che, oltre ad avere un buon profumo, Febreze eliminava anche i cattivi odori. Oggi è uno dei prodotti più venduti nel mondo.

Aria fritta

Alcune settimane fa Marisa di Radio DJ ha detto in onda una cosa del tipo “Ieri mi sono fatta una frittura, così, come se non ci fosse un domani.”

La frase mi ha colpito perchè la mia idea (le mie fantasie) di fare qualcosa senza pensare alle conseguenze è legata a cose un po’ più definitive che non un po’ di odore di fritto.

Ma mi ha colpito anche perchè mi ha ricordato tutti gli amici e conoscenti, direi la maggioranza, che non fanno mai una frittura perchè “la casa si impregna di odore”, non perchè non gli piaccia.

Sarà perchè ho (voluto) che la cucina fosse una stanza a parte, e quindi basta chiudere una porta e l’odore di fritto se ne va per la porta finestra, ma mi è sempre sembrato un modo artificiale di vivere la casa. Ci si sta sempre meno, ma si ha anche molto meno tempo da dedicarci e allora la si tiene in ordine “usandola” il meno possibile. Non so neanche bene perchè la si voglia così perfetta, visto che nel concetto di usarla il minimo indispensabile rientra probabilmente anche il fatto di ricevere sempre meno visite.

Il mio stupore poi sta anche nella temporaneità, e quindi limitatezza del problema, rispetto al grande vantaggio di mangiarsi una bella frittura di pesce (doppia puzza).

Al di là delle mie gratuite e superficiali valutazioni, resta la grande influenza che l’approccio nei confronti della casa (comprese le mode ddi dislocazione delle stanze e/o arredamento) ha sui consumi alimentari. Non ho, ovviamente, dei dati ma posso azzardare che il consumo di cavolo negli ultimi vent’anni sia crollato; questione di gusto o di odore?

Che ruolo ha giocato nel calo dei consumi di liquori e distillati la sparizione del mobile bar, “obbligatorio” in tutte le case degli anni ’70?

Procter & Gamble realizza già da anni studi antropologici sull’utilizzo dei suoi prodotti e delle categorie a cui appartengono, credo però che analizzare le tendenze dell’arredamento e dell’architettura domestica potrebbe permettere di anticipare alcune tendenze di fondo dei consumi alimentari.

L’anno prossimo vado al Salone del Mobile. Oggi intanto mi sono una frittura di alici e totani che era uno spettacolo!

Ancora sul Vinitaly 2012

Ho in canna un paio di post su altri argomenti ma i commenti di Lizzy alle mie impressioni di Vinitaly mi hanno suscitato una serie di riflessioni che sarebbero state strette in un semplice commento al commento.
Continuo ad essere preoccupato del rischio che questo blog prenda un’eccessiva deriva enologica, ma spero che le considerazioni di metodo di marketing, oltre che di merito sulla fiera, siano sufficenti a fugare il pericolo.
Per mettere in pari anche chi non si occupa di vino una breve premessa.ta
Il Vintaly è la principale fiera del vino in Italia ed una delle più importanti a livello europeo e mondiale. Oramai da anni soffre di enormi problemi di viabilità e parcheggio (diciamo un paio d’ore per arrivare in fiera e quasi altrettante per andare via), di affollamento (code chilometriche ai bagni, per citare un problema che tocca tutti), di tipologia di pubblico (i grandi operatori del vino a fianco dei piccoli a fianco del semplice appassionato, tutti cercando di non inciampare sui giovani alticci che non riebtrano in nessuna delel precedenti categorie). Da circa 3 anni si è aggiunto anche il problema del collasso delle reti telefoniche per cui dalle 10:00 alle 17:00 telefonare con un cellulare o connettersi al web con un collegamento wireless è sostanzialmente impossibile.
Per l’edizione 2012, con l’obiettivo di professionalizzare maggiormente la manifestazione (nel senso di renderla più business e meno consumer) l’ente fiera ha preso la decisione di modificare le date e quindi vinitaly 2012 si è svolto dalla domenica al mercoledì invece che dal giovedì al lunedì, come gli anni scorsi. Decisione che definirei coraggiosa, se non altro sapendo quello che significa in termini di indotto per la città un giorno in meno, e su cui, forse giustamente, non tutti erano d’accordo (adesso tutti sono saltati sul carro dei vincitori, ma non tutti sono sinceri).
Il risultato è andato oltre ogni aspettativa, nel senso che il numero di visitatori è rimasto sostanzialmente quello delle edizioni precedenti, con una certa riduzione degli ubriaconi (riduzione non eliminazione si badi bene), malgrado la riduzione di un giorno per di più semi-festivo come il sabato. La conseguenza è che tutti i problemi legati al sovraffollamento sono rimasti, come hanno sottolineato un po’ tutti i commenti che potete trovare sul web e sulla stampa off line (colgo l’occasione per riconoscere in ritardo il dovuto omaggio a Filippo Ronco per i suoi commenti in versi).
Orbene se uno dei grandi vantaggi del web è quello di poter essere un mezzo di condivisione, discussione e confronto, rimane comunque necessario definire correttamente i termini del problema. Viceversa le eventuali soluzioni che si applicheranno non riusciranno a risolverlo. Detto in altri termini, con le parole del mio docente di marketing all’Università di Guelph “Un problema mal risolto è un problema mal definito”.
Per definire i problemi correttamente uno dei modi migliori rimane quello di mettere in fila i numeri, nel nostro caso qeullo delle principali fiere europee dedicate al vino:
- Prowein 2012: 3.635 espositori, 39.034 visitatori. Si svolge a Dusseldorf che con 586.000 abitanti è la settimana città della Germania.
- Vinexpo 2011 (fiera biennale): 2.400 espositori, 48.122 visitatori. Si svolge a Bordeaux, 240.522 abitanti nel comune, ma 1.204.846 abitanti nell’area metropolitana che ne fanno la quarta citta di Francia.
- Vinitaly 2012: 4.321 espositori, 140.000 visitatori. Si svolge a Verona, 264.354 abitanti, dodicesima città italiana.

Mi sembra evidente che i problemi che presenta il Vinitaly non sono problemi di organizzazione della fiera quanto piuttosto problemi di struttura della città (ed in questo includo anche l’adeguatezza o meno del quartiere fieristico).
La domanda corretta da porsi è: Verona è ancora in grado di ospitare una manifestazione della portata del Vinitaly?
Visto il successo di quest’anno, la risposta affermativa potrebbe essere automatica e d’altra parte i tentativi da parte di altri enti fieristici di creare fiere alternative fino ad oggi sono falliti.
Allora cambio la domanda: Verona vuole mettersi in grado di ospitare una manifestazione del livello (a cui è riuscita a portare) il Vinitaly? Secondo me qualsiasi altro modo, limitato alla sola fiera, di focalizzare il problema porterà a soluzioni altrettanto limitate, destinate a venire travolte dal successo dell’evento.
E così arriviamo all’altra possibile soluzione: se i problemi sorgono dal sovraffollamento, perchè non puntare sulla decrescita? Credo ci fosse anche questa intenzione nella scelta di cambiare le date e sono convinto che nemmeno il più ottimista degli organizzatori si aspettasse il picco di pubblico che si è avuto lunedì.
Però il Vinitaly, come tutti i marchi, ha una sua propria personalità che è solo parzialmente controllabile da chi lo gestisce. Lizzy commentando il mio post dice “Concordo. Vinitaly è la festa del vino italiano, e come tale andrebbe vissuta e frequentata. Ad una festa trovi gli amici che vogliono solo divertirsi (e bere) ,e quelli a cui non dispiacerebbe ottimizzare la propria presenza e combinare qualcosa di buono.
Ora che finalmente abbiamo chiarito la mission di questo circo, vediamo di spiegarla anche a chi affronta trasvolate oceaniche nella convinzione di andare a un evento professionale, diciamo la versione italiana di Vinexpo, o della London Fair.”
Ma io dicendo che si tratta di una “Kermesse debordante” intendevo una cosa un po’ diversa rispetto al concetto di mission (ci arrivo in un attimo), intendevo che la personalità del Vinitaly, il suo modo di essere, è talmente forte da rimanere sostanzialmente immutato anche di fronte ad un radicale cambiamento organizzativo, come la cancellazione del venrdì e del sabato. Volendo si può provare a snaturare il Vinitaly per renderlo una fiera professionale come le altre, basta essere coscienti che ci vorrà (molto) tempo e che non ci sono garanzie di successo. Più o meno lo stesso tempo e le stesse garanzie di successo che ci sono per l’adeguamento della città.
Concludo con una considerazione sul concetto di mission.
La mission serve per orientare/guidare le aspettative delle persone nei confronti dell’azienda/organizzazione. Grazie alla mission le persone esterne sanno cosa devono/possono attendersi dall’azienda/organizzazione e le persone interne all’azienda/organizzaizone sanno in quali direzioni è giusto muoversi ed in quali no. Per questo la mission deve essere una sintetica formalizzazione reale ed ispirata della personalità dell’azienda/organizzazione.
E’ necessario che sia reale perchè altrimenti le persone non ci si riconosceranno e quindi la mission non riceverà la credibilità necessaria per svolgere la funzione dinamica di guida contenuta nella componente ispirata.
Per tornare al caso del Vinitaly e del commento di Lizzy, non basterà cambiare l’enunciato della mission per cambiare la realtà della fiera.
L’ultimo affascinante tema che mi ha fatto venire in mente il commento di Lizzy è quello del target: chi è il target principale del Vinitaly? E quanti sono quelli secondari? Gli espositori che pagano gli spazi o i visitatori che pagano il biglietto? Quali segmenti di visitatori (vista al loro eterogeneità) e quali segmenti di visitatori (altrettanto eteregenei)? Oppure i media che trattano/rendono il Vinitaly un evento mediatico di portata nazionale.
Ormai però questo post è già troppo lungo e la, pur piovosa, domenica mi reclama ad altre faccende.
Grazie Lizzy.

Pescatori di uomini.

Indipendentemente dagli eventuali illeciti, la presenza del Trota in politica era un clamoroso obbrobrio per come si era determinata e per la palese incompetenza della persona, il cui unico “merito” era il cognome. Indipendentemente dalla fede politica di ognuno.
Eppure, una volta di piu’, si conferma la bestialita’ che il riferimento della compatibilita’ dei comportamenti in politica e’ il codice penale.
Grazie Di Pietro.
Intanto i partiti si danno un codice etico per cui si impegnano a non candidare chi e’ stato condannato.
E io che pensavo che non li candidassero per non perdere i voti.
Alla faccia del marketing delle idee (politiche).

Avviso da subito che questo post non ha niente a che vedere con il marketing.

Malati di Marketing

Questo post lo stavo scrivendo la sera prima del Vinitaly, quando un viros mi ha bloccato il computer per i 4 giorni successivi.

Poco male perchè, malgrado i commenti al Vinitaly 2012 di giovedì scorso, il blog continua ad essere abbastanza slegato dall’attualità.

Tutto nasce da questa pagina pubblicitaria del nostro Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG “Vini dei Cardinali”, uscita lunedì 26 marzo sullo speciale del Corriere della Sera dedicato al Vinitaly.

La settimana prima della pubblicazione ho mostrato la bozza ad un giovane ex stagista passato a collega per una sostituzione maternità, chiedendogli cosa ne pensava.
Matteo: “Peccato di gola, sì suona bene, ma perchè?”
Lorenzo: “Perchè si collega a Vini dei Cardinali”
Matteo: “Aahh”
Lorenzo: “Sì forse è un claim un po’ troppo alimentare, però secondo me ci sta”

Andiamo avanti a parlare di altre cose e dopo 5 minuti Matteo mi fa “No scusa è che davvero non ho capito il senso della pagina pubblicitaria, perchè Peccato di gola?”
Lorenzo: “In contrapposizione/associazione al concetto di Vino dei Cardinali, talmente buono da far commettere peccato di gola”
Matteo: “Ah, ok. Allora vado. Ciao…”
il resto della frase non l’ha detto ma l’espressione era del tipo “io vado così possono entrare i signori in camice che ti danno le goccine e ti portano via. Io preferisco non essereci, perchè non vorrei restarci in mezzo e poi sono scene brutte da vedere.”

La sera tornando a casa raccontavo l’episodio ad un amico, managing director di una nota agenzia milanese e mentre gli raccontavo la pagina diceva “Peccato di gola? Giochino un po’ ovvio, però ci può stare. Ha anche un po’ di sapore di trasgressione per il target dai 40 anni in su, cresciuto comunque in una cultura cattoolica del peccato (e del perdono).

Se non altro quando gli ho raccontato la fine della storia, almeno ci siamo preoccupati entrambi della nostre distorsioni mentali. Temo però che ormai la sindrome sia cronica.

Impressioni di Vinitaly

Primo Vinitaly da Direttore Generale, quindi con meno tempo per andare in giro, ma anche con le mani molto più in pasta nella parte commerciale e organizzativa vista la dimensione della mia azienda. Ecco le mie impressioni.

BULIMIA Il cambio delle date è stata una scommessa vinta da chi in Veronafiere ci ha creduto. Forse anche perchè è nel DNA del Vinitaly quello di essere una kermesse debordante. Ogni momento una contemporaneità di convegni, dibattiti, degustazioni, eventi, manifestazioni, sezioni speciali, ecc… per soddisfare/intrattenere/incuriosire decine di migliaia di persone in giro I paragoni con Prowein o Vinexpo non hanno senso semplicemente perchè quelle sono delle fiere di settore mentre questa è una festa del vino. Una vaga idea si potrebbe avere moltiplicando per tutti i giorni della fiera e per tutti i padiglioni quello che succede al Prowein nel solo padiglione tedesco solo la domenica. Come mi ha detto l’anno scorso il giornalista inglese Robert Joseph: “amo venire al Vinitaly perchè è la festa del vino italiano”. Forse ha ragione Fiorenzo Sartore su Intravino a dire che sbagliano gli appassionati che si “ingrugnano” perchè una fiera per gli addetti ai lavori non può essere adatta a loro, ma secondo me sbagliano anche i professionisti ad ingrugnirsi per il Vinitaly è ancora una fiera fatta per gli appassionati, anche nelle intenzioni e nell’approccio di migliaia di piccoli e medi espositori.

DISASTRO Qualche mese la scossa di terremoto a Verona in orario di scuole ed uffici aperti ha fatto collassare le reti cellulari della città. Il “terremoto” del Vinitaly (soprattutto lunedì) ha avuto lo stesso effetto con grandissimi disagi per i professionisti della comunicazione, forti disagi per chi era in fiera per fare affari e (credo) limitati disagi per chi era in fiera per assaggiare i vini. L’hanno detto tutti e sono d’accordo è un problema che va risolto, secondo me dalla città, prima per se stessa che per il Vinitaly. Il problema delle telecomunicazioni è stato talmente sentito (a me un virus ha messo ko il computer sabato sera, per cui non mi è cambiato molto) che ha fatto passare in secondo quello, cronico dell’accesso e dei parcheggi, come se essere in coda da Desenzano possa rientrare nell’accettabile normalità.

CORTESIA dovendomi occupare direttamente dell’organizzazione dello stand e del convegno, quest’anno ho avuto l’occasione di vedere un po’ più da vicino la complessità dell’organizzazione di una cosa come il Vinitaly. L’ho già scritto in un tweet: i miei complimenti a tutto lo staff non solo per come funzionano le cose ma soprattutto per la disponibilità sempre e comunque (forse è per questo che funzionano?). Provate ad andare ad un banco informazioni del Prowein, ci metteranno più tempo per darvi informazioni meno precise e vi tratteranno tendenzialmente come un idiota.

COINCIDENZE quest’anno Ferrari, la più prestigiosa azienda spumantistica italiana festeggiava il 110° anniversario e per l’occasione ha rinnovato lo stand, disegnato dallo studio Robilant Associati. Il primo è il logo realizzato per l’occasione
Il secondo invece è stato realizzato lo scorso anno da un’altra agenzia per il 50° anniversario del Pinot Grigio Santa Margherita (se andate sul sito trovate anche la versioni a colori in oro e rosso):.
Ora, io dico spesso che le idee che girano in un determinato periodo sono grosso modo condivise in una specie di intelligenza collettiva, però mi è sembrata una coincidenza poco elegante. Detto in altro modo la mia valutazione del caso è la stessa che ho fatto di George W. Bush/Blair/Aznar/Berlusconi quando in occasione della guerra all’Iraq ha dichiarato: “Abbiamo fatto guerra all’Iraq perchè aveva armi di distruzione di massa”. Quando poi queste armi non si trovano (come dicevano gli ispettori ONU) i casi sono due: o eri in malafede o sei un incapace nel tuo lavoro. In ogni caso devi andartene.
Ecco io non voglio accusare nessuno di malafede gratuitamente, però un’agenzia importante come Robilant non può non aver visto l’anno scorso il logo di Santa Margherita e sceglie, anche in buona fede, di utilizzarne uno molto simile a distanza di un anno per un’azienda dello stesso settore nello stesso contesto non mi sembra il massimo dal punto di vista della comunicazione. O magari la scelta è stata del cliente; cambia la responsabilità (questione che nè mi riguarda nè mi interessa), non la mia valutazione dell’operazione. Comunque questo è un blog, non carta stampata e quindi come tale sempre aperto a chiarimenti/precisazioni/contestazioni su quello che dico.

VIGNE VECCHIE sono rimasto abbastanza sconcertato nel leggere l’intervento di Angelo Gaja sul numero del Corriere Vinicolo uscito in occasione del Vinitaly, dove sosteneva che il calo della vendemmia 2011 è dovuto (anche) al mancato rinnovo dei vigneti di cinquant’anni, Confesso che non vivo il vigneto così da vicino come lui, ma credo che la perdita di 60.000 ha di vigneto negli ultimi 5 anni stimata da Maurizio Gily nella sua relazione al nostro convegno abbia giocato un ruolo non secondario. Ad ogni modo tra Angelo Gaja che vuole il rinnovo dei vignati ed il mio amico Loris Vazzoler che dice che il problema non sono i vigneti di cinquant’anni, ma le fallanze nei vigneti di cinquant’anni io scelgo Marco Simonit quando dice che l’origine dell’originalità (o se volete l’originalità dell’origine) stra nella fusione della vite nell’ambiente. E questo avviene nel corso del tempo grazie ai sistemi di allevamento/domesticazione che tipici che permettono alla vite di durare. In altre parole le vigne vanno allevate in modo che possano diventare vecchie e le vigne vecchie valorizzate.

COPPA AMERICA Mauro Pellaschier è un velista italiano di fama e livello internazionale. Timoniere su Azzurra nella prima sfida italiana alla Coppa America ha poi partecipato a successive edizioni ed a numerosissime regate su tutti i mari del mondo. Mi ricordo di aver letto una sua intervista tanti anni fa (credo che fosse su “Bolina” ai tempi del Moro di Venezia) ed alla domanda di cosa ne pensasse di tutta l’attenzione mediatica che si era creata sul mondo della vela diventato rapidamente di moda rispose lapidario “Consiglio di parlare meno e navigare di più”. Questa frase mi è tornata in mente dopo aver vissuto 4 giorni dentro al circo (inteso anche come arena) del Vinitaly perchè alla fine tanto l’appassionato come il professionista non si ricorderà il vino dell’azienda che ha le hostess con le tute più attillate (secondo le hostess di Astoria le vestono con il sottovuoto) o lo stand più sontuoso o lo schermo più grande (il mio occupava mezza parete dello stand). Si ricorderà, e soprattutto comprerà e farà comprare, semplicemente il vino che gli è piaciuto di più.

ARRIVEDERCI AL PROSSIMO VINITALY: 7-10 APRILE 2013

“IL VINO SI FA CON L’UVA”: ecco la scaletta dei temi del convegno al Vinitaly.

Come già annunciato da un post precedente, il prossimo martedì 27 marzo si terrà al Vinitaly il convegno promosso da Vi.V.O. – Cantine Viticoltori Veneti d’Origine e Vinitaly sul ruolo del viticoltore nella filiera vitivinicola italiana.
Il convegno ha il titolo “Il vino si fa con l’uva: valorizzare il viticoltore per valorizzare il vino italiano”.

Il convegno si terrà presso la Sala Salieri del Palaexpo alle 10:30.

Ricordo che i partecipanti sono:
- Maurizio Gily – Direttore Responsabile Millevigne.
- Adriano Orsi – Presidente Comitato Vitivinicolo Fedagri.
- Lucio Mastroberardino – Presidente Unione Italiana Vini.
- Stefano Graziani – Presidente Med&A.
- Marco Simonit – cofondatore della Scuola Italiana di Potatura della Vite

Come moderatore (ed in buona parte organizzatore) posso anticipare i temi in programma:
- la riduzione della superficie vitata e del potenziale produttivo in Italia;
- il valore del prodotto e la sua distribuzione lungo la filiera;
- la valorizzazione della qualità nella cooperazione;
- contratti interprofessionali: pregi e difetti. L’esperienza dell’Asti;
- la gestione del potenziale viticolo attraverso i Consorzi di tutela e gli albi DOP;
- filiera lunga e filiera corta: il ruolo dell’intermediazione nei rapporti tra viticulturi e cantine

Questi sono i temi previsti, però il convegno è organizzato in modo da favorire l’interzione con la platea quindi vi aspetto numerosi e pieni di idee.

Auguro un grande Vinitaly a tutti!

Couponing!

E’ da un po’ di tempo che in questo mio blog non parlo di marketing puro e semplice.

Lo spunto per tornare su questo argomento me lo dà un comunicato stampa inviatomi da Michela Spocci di Doveconviene.it (ho fatto il mio dovere di redattore di Biscomarketing citando tutte le fonti).

Il comunicato riguarda il fenomeno dei volantini promozionali on line (settore a cui si dedica Doveconviene.it), ma cita anche una recente ricerca di Nielsen sulla realtà dei volantini promozionali cartacei.

Ora dalla ricerca Nielsen risulta che la spesa per la stampa e distribuzione dei volantini promozionali in Italia raggiunge la strabiliante cifra di 1 miliardo di euro per 12 miliardi di volantini stampati ogni anno. Secondo il comunicato sono numeri che dimostrano “che il volantino rappresenta ancora il mezzo più efficace per sviluppare traffico e quindi fatturato sul punto vendita, senza dimenticare che è uno strumento molto apprezzato anche dal consumatore che, soprattutto in questo contesto economico, è sempre a caccia di buone offerte”.

L’affermazione implica che i consumatori scelgano il punto vendita in cui fare la spesa avvenga in base alla valutazione del confronto tra le offerte dei diversi volantini. Viceversa il volantino si ridurrebbe sostanzialmente ad un servizio con cui i negozi (le insegne) aiutano i prorpi clienti a pianificare la spesa ed in un enorme spreco di carta. Dagli atti del convegno che trovate qui pare che sia proprio questo il caso, specialmente per il settore grocery (la spesa di tutti i giorni, o meglio di tutte le settimane, per capirsi), mentre la situazione è diversa per acquisti non routinari, come elettronica ed elettrodomestici.

Le varie relazioni del convegno però sono troppo concentrate sul problema e sul come risolverlo da vederne le effettive cause, mentre il motivo per cui i volantini NON POSSONO ESSERE un generatore di traffico sono in realtà abbastanza ovvi:
1) poichè la realizzazione di volantini (che nella trattazione vengono spesso assimilati ai buoni sconto, diffusissimi nell’esperienza U.S.A., mentre sono un’altra cosa) è un’attività fatta da tutte le catene della grande distribuzione organizzata, per definizione non può essere una strategia differenziante e quindi in grado di aumentare il traffico nel punto vendita.
2) le ragioni di scelta di un punto vendita rispetto ad un’altro sono molteplici ed oltre alla convenienza giocano un ruolo importante la sua localizzazione, la comodità in termini di accessibilità (parcheggi, collegamenti con mezzi pubblici o privati, orari), la qualità dell’assortimento (varietà, profondità, introduzione di novità) e di servizio (in particolar modo ai banchi della vendita assistita delle diverse merceologie. In sintesi la soddisfazione o insoddisfazione riguardo al super/iper mercato dove si fa la spesa è data dalla rispondenza del mix di qualità intrinseca, servizio in senso esteso e prezzo del paniere o “carrello” normalmente acquistato alle aspettative/desideri/obiettivi di ciascun cliente/consumatore. Il quale comunque dovrà trovare il miglior compromesso tra quello che vuole e quello che trova in termini di offerta.
3) Lo spostamento dei consumatori da un punto di vendita all’altro sulla base dei volantini implica un confronto tra le diverse offerte su piazza. Oltre a richiedere il presupposto che ognuno riceva più volantini da diversi negozi, questo implica un vero e proprio lavoro di confronto, reso ancor più difficile dalla non corrispondenza tra le offerte nello stesso momento (in una determinata categoria è probabile che una catena promozioni la marca A ed un’altra la marca B). Inoltre va considerato lo sforzo e la perdita di tempo che implica fare la spesa in un nuovo super/iper mercato, dove la disposizione dei prodotti non è quella conosciuta dal consumatore. Credo che questi “costi transazionali” sia abbastanza elevata da portare la maggioranza delle persone ad una certa “fedeltà inerziale” nei confronti del “loro” punto vendita.

D’altra parte non credo che ci sia un vero interesse nel sistema a verificare l’opportunità o meno della realizzazione dei volantini. Per le catene della GDO non sono un costo in quanto vengono finanziati dai contributi dei fornitori e per i fornitori sono un potente mezzo di sviluppo di vendita, che con l’aumentare della frequenza e dell’intensità delle promozioni è diventato sì meno efficace, ma ancor più irrinunciabile. Più il consumatore acquista il prodotto in promozione all’interno di un suo paniere di riferimento di alcune marche e più essere esclusi dalle promozioni ha un impatto negativo sulle vendite.

A ben guardare però secondo si potrebbero eliminare, o ridurre, i volantini e trovare un utilizzo più efficace per quel miliardo di euro speso annualmente.
Innazitutto le promozioni si potrebbero fare lo stesso, come si fanno anche oggi segnalandole sul punto vendita, tanto più che buona parte delle decisioni di acquisto viene ancora presa direttamente sul punto vendita davanti allo scaffale.
Poi le catene della GDO potrebbero impiegare quel budget in attività veramente posizionanti e differenzianti, in grado di conquistare e fidelizzare clientela. Tenete presente che oggi gli investimenti pubblicitri della GDO ammontano a circa 200 milioni di euro annui, questo dà l’idea dell’impatto che avrebbe un trasferimento di risorse dai volantini all pubblicità. Sarà un caso che Lidl fa pubblicità televisiva comunicando le promozioni della settimana?
Il problema è che malgrado l’”editore” siano le catene, i soldi arrivano dai fornitori. Se per un fornitore dare un contributo per avere visibilità su un volantino promozionale può aver senso, darlo perchè l’insegna della GDO faccia una sua campagna pubblicitaria ne ha molto meno. Ma anche visto da questo punto di vista, i volantini restano una costosa inefficenza considerando che gli investimenti per l’acquisto di spazi pubblicitari dell’industria del largo consumo sono pari a 2 miliardi di euro all’anno. Aggiungere a questo investimento il miliardo di euro tolto ai volantini, mantenendo le promozioni sul punto vendita, porterebbe comunque ad un beneficio complessivo della filiera industria-distribuzione (e forse anche al consumatore). Oppure si potrebbe semplicemente risparmiarlo.

Un’ultima considerazione per chiudere: in nessuno degli interventi del convegno si è fatto il minimo accenno ad iniziative come Groupon e simili. I volantini verranno spazzati via per l’ennesimo caso di miopia di marketing?

Esci da quel corpo!

Dal giuramento di Ippocrate ” …di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ….”

E come diceva il mio professore di Igiene Veterinaria (un veterinario, quindi un medico) con tono serio ed un po’: “se la scienza si coltiva di giorno, la coscienza si interroga di notte”.

Se a scienza e coscienza aggiungete l’esperienza, il risultato che ottenete è la competenza. Volendo si potrebbe inserire anche l’allenamento, ma, oltre a non finire per -enza, in realtà è un misto di scienza ed esperienza. Quello dell’allenamento è però un concetto interessante che mi mi frulla nella testa da un po’ e magari ci torno sopra in uno dei prossimi post.

Quanta consapevolezza c’è nella competenza? Credo che sia da militare che ho sentito definire la cultura come quello che rimane dopo che ci siamo dimenticati tutte le nozioni.

In modo un po’ vago e raccogliticcio queste cose mi sono tornate alla mente quando l’altro giorno sull’ultimo numero dell’Internazionale ho letto l’articolo “La mente in stato di grazia”, sottotitolo “Per ottenere grandi prestazioni, serve un alto livello di calma e concentrazione, che si raggiunge dopo anni di esercizio (ecco l’allenamento N.d.A.). Alcuni ricercatori cercano di capire come arrivarci più rapidamente”.

In sintesi si è osservato che quando le persone realizzano prestazioni eccezzionali nei diversi campi hanno in comune uno stato rilassatezza, calma e concentrazione deifinito empiricamente (e vagamente) come flusso. Gli studi hanno identificato 4 caratterisctiche fondamentali del flusso:
- una concentrazione totale che fa perdere il senso del tempo (faccio notare che è un concetto contrario al multitasking così elogiato oggigiorno).
- l’autotelicità, ossia la sensazione che l’attività in cui siamo impegnati sia gratificante in sé.
- la sicurezza che le nostre capacità sono perfettamente adeguate
al compito e quindi non proviamo né frustrazione né noia.
- infine, quello che caratterizza più di tutto il flusso è l’automaticità, per esempio la sensazione che il pianoforte stia “suonando da solo”.
Dal punto di vista della fisiologia cerebrale (credo si possa dire così) nello stato di flusso si rileva una minore attività nella corteccia prefrontale, di solito associata a
processi cognitivi superiori come la memoria di lavoro e l’espressione verbale. Può
sembrare controintuitivo, ma mettendo a tacere l’autocritica forse si lascia più spazio ai processi automatici, che a loro volta producono la sensazione di naturalezza del flusso. A me ricorda un po’ anche il concetto di serendipity.
Osservando gli atleti (l’allenamento torna fuori ogni due per tre) si è osservato che si può facilitare lo stato di flusso concentrando l’attenzione su un punto esterno al proprio corpo (che è poi una delle tecniche per la meditazione).
Per completezza, ma è la parte in un certo senso per me meno interessante, si stanno sviluppando tecniche di accellerazione all’apprendimento (e quindi raggiungimento dello stato di flusso) tramite la stimolazione elettrica transcranica stimolando con degli elettrodi determinate zone del cervello.

Al di là di essere un argomento affascinante in sè, mi è piaciuto trovare conferme scentifiche alla mia percezione empirica che le persone lavorano meglio quando si sentono serene. Una volta alla domanda “Quale deve essere la principale caratteristica di un leader?” ho risposto “Dare serenità alle persone che dipendono da lui.”

L’altra cosa apparentemente ovvia, perchè tutti l’abbiamo provata prima o poi, ma in realtà estremamente curiosa, è la sensazione di automatismo.
E’ curiosa perchè altri studi basati sulla risonanza magnetica cerebrale (o forse qualche altra nuova tecnica) letti recentemente da qualche altra parte (credo su “TTL” della Stampa) hanno dimostrato che l’attivazione dell’ area deputata al movimento della mano avviene prima (tempo infinitesimale, ma prima) dell’attivazione dell’area deputata alla decisione di muovere la mano.

Un filone che potrebbe mettere in dubbio gli studi sui meccanismi motivazionali, basati fino ad oggi su osservazioni empiriche del tipo azione-reazione (e quindi vere di per se stesse) perchè pone un punto di domanda su cosa ci fa fare una determinata azione.
In realtà a pensarci bene, se l’impulso di muovere la mano parte prima della decisione di farlo, la domanda non è tanto cosa ci fa faare una certa azione, ma CHI ce la fa fare.

E siamo tornati alla (in)coscienza del giuramento di Ippocrate.

Concludo con un collegamento con un altro concetto, che forse non alcun merito a parte quello di sembrare elegante: osservando la cosa da una prospettiva diversa, il DNA è un parassita e l’organismo non è altro che l’ospite di cui si serve per riprodursi e perpetuarsi.

So che è di moda un approccio olistico, new age ed antiscientifico (che in buona parte mi appartiene), però le scoperte sul funzionamento del cervello che si stanno facendo grazie alle nuove tecniche mi fanno venir voglia di cambiare mestiere.

O sarebbe forse solo un cambio di specializzazione?

BRICS o neuroscienza?

Il blog era fermo da un po’ per una serie di motivi:
- sensazione di aver già detto tutto e di potersi solo ripetere,
- mancanza di tempo per leggere i nuovi numeri di “Marketing Management” e “Marketing News” che danno sempre qualche stimolo (sono indietro di 8-9 mesi),
- la voglio di uscire da questo cul de sac di interventi densi, ricchi e strategicamente pregnanti, senza riuscirci (sono anche sparite le frasi del giorno dell’AMA che alleggerivano sia la lettura che la scrittura del blog),
- l’ovvia mancanza di tempo legata all’impegno del lavoro (chi passa al Vinitaly traverà parecchie novità sia in termini di packaging che di nuovi prodotti)
- un paio di viaggi di lavoro che mi hanno portato nel giro di una settimana a passare dai +30 di Rio de Janeiro ai -30 di Mosca. Due dei famosi paesi brics.

Poichè qualche mese fa segnalavo che porbabilmente il marketing del futuro sarà quello che si fa nei paesi in crescita, oggi voglio raccogliere le idee e riportare le mie impressioni su Brasile e Russia. Ero però in dubbio se affrontare questo argomento oppure se parlare di neuroscenze perchè ho letto alcuni articoli sugli affascinanti sviluppi che sta facendo questa disciplina. Se non mi dimentico i punti salienti (visto che non ho conservato copia), magari ne parlo la prossima volta.

Veniamo al marketing in Brasile e Russia.

In realtà non ho visto niente che mi abbia colpito in modo particolare, nessun “wow effect”. E questo un po’ mi preoccupa perchè temo che sia dovuto più alla mia pigrizia (stanchezza) mentale, che all’effettiva mancanza di novità.
Però soffermandosi ad analizzare le cose alcune peculiarità forse ci sono:
- naturale utilizzo del web per ridurre i costi. In Russia tutti hanno l’account skype sul biglietto da visita. Non c’è l’ossessione alla sicurezza dei dati che si trova nelle aziende italiane (superficalità o consapevolezza che non esiste più niente di segreto), quindi massimo utilizzo di tutte le possibilità gratuite offerte dal web.
- velocità nella gestione. Questo probabilmente è legato al quanto detto sopra ma è possibile soprattutto perchè le persone hanno potere e/o capacità decisionale sulle questioni di cui parlano. Non ho mai sentito il concetto di “analizziamo e poi ci risentiamo”, ho hanno fatto l’analisi prima oppure preferiscono comunque il learning by doing al cincischiare. Dico cincischiare perchè spesso nelle nostre aziende (cosa comune al nuovo mondo) quello che manca non è tanto una definizione del quadro della situazione quanto la volontà/capacità di decidere. C’è sempre qualcuno ad un livello superiore con cui bisogna confrontarsi o riferire. In Brasile e Russia la velocità nasce innanzitutto dall’empowerment delle persone ai diversi livelli gerarchici. Dopodichè se non rispondete entro un giorno è probabile che vi arrivi un sollecito (o peggio che vi considerino troppo lenti).
- elevato livello di servizio. Tanto a Rio come a Mosca è assolutamente normale che i negozi (non solo supermercati) abbiano lunghi orari di apertura, le 24 non sono una cosa così strana, come pure i ristoranti permettono di mangiare sostanzialmente ad ogni ora. Le attività sono sostanzialmente organizzate in funzione dei clienti che ne usufruiscono (o possono usufruire). Magari sarà dovuto al fatto che il cle nuove costo del lavoro è basso, però questo è possibile anche per il numero elevato di dipendenti rispetto agli standard dei paesi occidentali e quindi la limitata automatizzazione dei rapporti interpersonali.
- la semplictà della comunicazione pubblicitaria, basata su elementi tangibili o di status evidenti. Potrebbe ricondursi ad un società più giovane ed “ingenua” rispetto ai meccanismi della comunicazione di massa, però prima di liquidarla così sarei curioso di capire cosa si può imparare dalle scoperte sul funzionamento del cervello.

Altre impressioni più di colore, ma con le loro belle implicazioni di marketing:
- il costo della vita, almeno nelle due metropoli dove sono stato io, è a livelli europei. Il mio personale indicatore del costo della vita a Rio è il prezzo del coco gelado comprato in spiaggia. Dal costo di 1 real del 2005 si è passati ai 4 di oggi, aggiungeteci che il cambio è passato da 3 real per 1 euro a 2 real per un euro ….
- il traffico è a livelli statunitensi con due implicazioni: lo smog e le lunghe ore passate in macchina. Credo quindi si possa prevedere un aumento della domanda di prodotti e/o soluzioni ecologiche, modalità organizzative che riducano la necessità di spostarsi fisicamente (dalla periferia al centro della città, tanto a Rio come a Mosca, si calcola 1 – 1:30 ore) ed una crescente efficacia della radio tra i mezzi di comunicazione.
- lo stile italiano nel design, moda ed agroalimentare continua ad essere ammirato ed ad entrare sempre più nel quotidiano. Speriamo solo che a furia di guardare in maniera preponderante all’estero non perdiamo la nostra identità, che è proprio quello che ci rende interessanti.

Chiudo con una nota demografica: la popolazione del Brasile è 190 milioni di abitanti, quella russa è 143 milioni di abitanti e quella italiana è di 60 milioni di abtanti.
La percentuale di quelli che hanno 0-14 anni in Brasile è il 27%, in Russia il 15% ed in Italia il 13,5%.
La percentuale di quelli che hanno più di 65 anni è il 6% in Brasile, il 13% in Russia ed il 20% in Italia.

Sarà per questo che a Mosca quando non si trova un taxi, uno alza la mano e nel giro di un minuto si ferma qualche privato cittadino disposto a farti da taxista (i più sgamati definiscono il prezzo prima di arrivare a destinazione). Dal punto di vista legale non sarà il massimo e sconsigliano di farlo se si è da soli, non si sa mai dove ti possono portare, però per uno che viene dall’Italia, unico paese al mondo dove i taxi non circolano, è uno sconvolgente indicatore di dinamicità ed intraprendenza.

“IL VINO SI FA CON L’UVA: valorizzare il viticoltore per valorizzare il vino italiano.” Convegno al prossimo Vinitaly.

Come blogger ogni tanto mi arrivano dalle agenzie di digital PR segnalazioni di diverse iniziative. La forma è simpatica e colloquiale, come se ci conoscessimo, cosa che non è quasi mai, ma la sostanza non differisce molto da quella di un comunicato stampa.
Questa volta il comunicato stampa me lo sono mandato da me, visto che per il prossimo Vinitaly sto seguendo l’organizzazione operativa di un convegno promosso dalla Cooperativa Vi.V.O., proprietaria dell’azienda per cui lavoro, e Vinitaly.
Credo che l’argomento possa interessare almeno una parte dei lettori di questo blog. Di seguito il testo integrale del comunicato stampa. Se vi sembra una modalità troppo arida, fate finta che sia bare bone marketing.

“IL VINO SI FA CON L’UVA: valorizzare il viticoltore per valorizzare il vino italiano.” Cantine Viticoltori Veneto Orientale e Vinitaly per discutere del ruolo della viticoltura nel sistema viti-vinicolo italiano.
La produzione dell’uva è evidentemente alla base del sistema viti-vinicolo, eppure negli ultimi anni il coinvolgimento del comparto viticolo nelle discussioni per definire le strategie di sviluppo del vino italiano è stato marginale.
Il rischio di non tenere conto delle esigenze di chi lavora in vigneto è quello trovarsi di con un settore del vino italiano che da una parte conquista quote crescenti del mercato mondiale e dall’altra vede una riduzione della disponibilità di uva. L’ultima vendemmia, quantitativamente la più bassa degli ultimi 60 anni, è sicuramente un campanello d’allarme in questo senso.
Per discutere del ruolo dei viticultori, il contributo che devono dare e le risposte che possono ricevere dagli altri comparti del sistema viti-vinicolo, Cantine Viticoltori Veneto Orientale e Vinitaly hanno organizzato un convegno in occasione del prossimo appuntamento veronese.
Martedì 27 marzo alle ore 10:30 presso la Sala Salieri del Palaexpo della Fiera si terrà il convegno dal titolo:
“IL VINO SI FA CON L’UVA: valorizzare la figura del viticoltore per migliorare la competitività del vino italiano.”
Il convegno, moderato da Lorenzo Biscontin, Direttore Generale della cantina Bosco Viticultori, vedrà la partecipazione di importanti personalità, espressione dell’intero sistema viti-vinicolo italiano:
- Maurizio Gily – Direttore Responsabile Millevigne.
- Adriano Orsi – Presidente Comitato Vitivinicolo Fedagri.
- Lucio Mastroberardino – Presidente Unione Italiana Vini.
- Stefano Graziani – Presidente Med&A.
- Marco Simonit – cofondatore della Scuola Italiana di Potatura della Vite

Cantine Viticoltori Veneto Orientale (Vi.V.O. s.a.c.) è la nuova realtà nata dalla fusione tra la Cantina di Campodipietra e la Cantine Produttori Riuniti del Veneto Orientale.
Con ben otto stabilimenti produttivi e un fatturato aggregato superiore a 30 milioni di euro, Cantine Viticoltori Veneto Orientale ha una base sociale di 2.120 soci, attivi su oltre 3.200 ettari di vigneto per un totale di oltre mezzo milione di quintali di uve prodotte annualmente.
Rappresenta quindi una delle principali cooperative vitivinicole italiane e punta a rafforzare la posizione delle cantine partecipanti nel panorama enologico nazionale ed europeo.
Cantine Viticoltori Veneto Orientale controlla anche Gruvit srl e Bosco Viticultori srl, presente in Italia ed oltre 20 mercati esteri con le etichette Vini dei Cardinali, Bosco dei Cirmioli e Villa Chiara.
Il fatturato complessivo del gruppo che fa capo a Vi.V.O. ha superato nel 2011 i 50 milioni di euro, con una crescita di oltre il 10% rispetto all’anno precedente.

L’infedeltà delle aziende: i due esempi, a caso, di Alitalia e Vodafone

Cercando di gestire il cambio di fuso, sfrutto la rete wireless della hall dell’albergo di Rio de Janeiro per scrivere questo post in modo da far passare il tempo negessario a digerire il chirrasco e poter andare a fare il bagno.
Ieri sono arrivato a Rio ed ho viaggiato Alitalia per sfruttare il diretto Roma -Rio. Anche se ai tempi sono inorridito sul concetto di salvataggio dell’Alitalia come atto di orgoglio nazionale perchè ha fatto pagare i debiti ai contribuenti invece che ad Air France ed ha ricreato il monopolio su numerose tratte, non ho mai avuto problemi a viaggiare Alitalia. Mi è sempre sembrata nella media come servizio e come puntualità, però l’esperienza di questo viaggio mi ha fatto riflettere sul concetto di fedeltà delle azinede ai loro clienti.
Lo so che di solito si parla sempre del contrario, però credo sia difficile per le aziende ottenere la fedeltà dai clienti se sono loro le prime a mettergli le corna.
Inoltre ho la sensazione che ampie fasce della popolazione abbiano sviluppato una tendenza alla fedeltà alle marche per non complicarsi una vita già molto compressa e complicata, fatte salve differenze molto nette di prezzo o servizio. Detto in altri termini credo che la percezione dei costi transazionali sia aumentata.
Dovrebbe quindi essere più facile per le aziende mantenere i propri clienti se si organizzasero di conseguenza.
Ma veniamo al caso di specie. Per vari motivi ho prenotato il viaggio in economy. Siccome essere alti 1,93 m e fare un volo di 12 ore in economy per essere poi pronti a lavorare il giorno dopo sono concetti che non stanno troppo bene insieme, ho pensato di fare l’upgrade utilizzando le miglia che ho accumulato nelgi anni.
Vado quindi sul sito Alitalia e scopro che questa operazione non si può fare on line, ma solo contattando il call center del servizio clienti. Evito di dilungarmi sulla frustrazione che genera nelle persone passare le decine di minuti al telefono seguendo le istruzione dei risponditori automatici, perchè esiste già un’ampia letteratura e tutti lo sappiamo per esperienza.
Quando riesco a aprlare con una gentile assistente, questa mi dice che non ci sono posti disponibili. Stupito penso che forse il nostro ex premier aveva ragione a dire che la crisi non è poi così grave e mi riprometto di riprovare l’operazione al momento dell’imbarco, sicuro che qualche posto si sarà liberato.
Quando arrivo al banco transiti di Fiumicino la gentile hostess di terra mi spiega che posti ce ne sono in assoluto, ma per prenotarli attraverso le miglia la disponibilità è limitata. Ad ogni modo lei non può farlo e mi dice di chiedere alla sua collega all’imbarco.
E qui incomincio a sentirmi trattato più da frequent mona che da frequent flyer. Capisco benissimo il concetto monetario cha sta alla basa di limitare la disponibilità dei biglietti premio, evitop il rischio di non poter vendere biglietti a prezzo pieno per esaurimento di posti, però in termini di rapporto con i propri clienti mi sembra un’ impostazione alquanto vampiresca. Alla fin fine le miglia me le sono guadagnate viaggiando con Alitalia secondo i termini che loro hanno stabilito, non è che mi stiano facendo un favore. Per di più a due ore dalla partenza del volo, con tutti i biglietti venduti, anche l’eventuale rischio di perdere un biglietto a prezzo pieno è oramai superato.
Vado quindi all’imbarco parto con l’ennesima gentile signorina che mi dice che è impossibile fare l’upgrade perchè loro non sono in grado di fare il conteggio delle miglia dal terminale che hanno al gate. Ma chi costruisce le piattaforme informatiche in Alitalia? E’ tanto complicato impostare una piattaforma web based che permetta operare da tutti i terminali con una connesione internet. Tra l’altro questo mi ricorda che quando ho parlato con il call center avevo chiesto di prenotarmi almeno l’uscita di emergenza e la signorina mi aveva risposto che non poteva perchè non riusciva a vedere a terminale la disposizione dell’aereo.
Quello che mi fa impazzire di tutto questo è che potevamo essere tutti contenti se solo ci fosse stato un diverso approccio culturale e organizzativo, nel senso che io sarei stato contento di spendere le mie miglia per avere il mio posto (posti liberi in business ce n’erano a iosa) e Alitalia sarebbe stata (avrebbe dovuto essere) contenta che io riducessi il mio saldo di miglia nonchè di aver soddisfatto una mia richiesta. Il tutto non avrebbe comportato alcun costo aggiuntivo.
Avrebbe forse anche evitato che il mio stato d’animo mi facesse notare un paio di cose:
- annunciano che l’aeromobile è dotata di telecamere esterne per seguire le fasi di rullaggioe di decollo. Peccato che attivino i sistemi di intrattenimento a bordo almeno 15 minuti dopo il decollo. Underdelivering la propria overpromise, delle serie stata zitti che fate più bella figura.
- io mi stavo tranquillamente ascoltando la radio quando mi hanno sparato 10 minuti di pubblicità+descrizione dei servizi di bordo (non sicurezza si noti bene) che non potevo nè spegnere nè abbassare il volume. Della serie benvenuti a bordo.
- alla fine della descrizione delle procedure di sicurezza è apparso il messaggio che le cinture di sicurezza in classe Magnifica sono dotate di un airbag automatico che si gonfia se necessario. Io ho guardato la mia normale cintura di sicurezza ed ho pensato che fin che si tratta di pagare di più per la comodità siamo nell’ambito delle libere scelte e/o possibilità, ma quando il prezzo del biglietto implica differenze sugli standard di sicurezza è un segnale che forse siamo andati troppo oltre con il turbo capitalismo.
La storia che relativa a Vodafone non riguarda me direttamente, mi è stata raccontata, ma è veramente incredibile. Il Natale scorso una persona che aveva già un abbonamento vodafone decide di passare ad un’altra tariffa, nel negozio vodafone le consigliano di disdire l’abbonamento e prendersi una prepagata di un’altro gestore per poter usufruire delle offerte dedicate ai nuovi clienti. Lei lo fa, ma l’organizzazione per attivare il nuovo abbonamento non è delle migliori ed il risultato è che sta ancora andando avanti con la prepagata dell’altro gestore. Il risultato è che l’utente è scontento perchè sta utilizzando una tariffa che non risponde alle sue asigenze e deve stare lì ogni momento a ricaricare e vodafone a perso fatturato. Tutto per una cultura che non dà la giusta importanza ai prorpi clienti e per cattiva organizzazione.
Tanti anni fa sono stato ad un seminario organizzato da Centromarco dove interveniva un professore americano che aveva appena pubblicato un libro “Loyalty” ed era rimasto stupito a scoprire che nessuno aveva ancora pubblicato un libro con questo titolo (un po’ come Leo Buscaglia con “Love”).
Nella sua ricerca aveva trovato che una delle cose che i clienti di una marca trovavano più odiose erano le offerte speciali rivolte esclusivamente ai clienti delle marche concorrenti. Loro che costituivano la base dell’esistenza della marca, trovavano ingiusto di essere trattati peggio degli “estranei”.
Alquanto logico, ma avete presente l’ultima campagna delle poste?
Domani torno domani – per quello li chiamano viaggio di lavoro – e prometto tornerò anche a a fare dei post più seri (ma un po’ di cazzeggio ogni tanto ci vuole).