Il valore della parsimonia: Ravelli Zero philosophy.

 

Oggi biscomarketing è listato a lutto in omaggio alle vittime degli attentati di Parigi e di tutte le vittime del terrorismo.

 

Il 31 agosto del 2014 nel post “Il marketing nel 2024 secondo me (biscomarketing) 3: le politiche di prodotto” segnalavo la tendenza alla “parsimonia” e scrivevo “La competizione che spinge a contenere i costi e l’attenzione alla eco-compatibilità da parte delle persone, premierà le aziende che sapranno operare con parsimonia.”

Sono andato a riguardarmelo l’altro giorno dopo che ho sul giornale ho trovato questa pubblicità della ditta Ravelli incentrata sulla “Zero philosophy”.
ravelli o philisophy

Mi è sembrato un segnale ed una conferma interessante di un atendenza che sento tanto forte come nuova ed alquanto disruptiva rispetto al passato.

Anche se ovviamente declinata nei benefit positivi “Zero limiti, infinite possibilità”, “Zero manutenzione, infinito tempo libero”, “Zero rumore, infinito silenzio” (qui i creativi erano un po’ a fine turno), non deve sfuggire la peculiarità della valorizzazione della marca basta su un concetto per cui “meno è più”.

La storia dello sviluppo economico degli ultimi 100 anni, ma potrebbero bastare anche gli ultimi 50, è una storia di conquista dell’abbondanza in cui il “più è più.

il valore dello zero rappresenta una vera e propria inversione culturale: “km 0″, “0 emissioni”, “0 solfiti” (nel vino), “Coca Cola 0″ (nel trend c’entrerà anche Zerocalcare?).

Una tendenza più che una moda, visto che sta proseguendo anche dopo la crisi economica che ha riportato in auge il lusso da un parte ed i concorsi a premio più imeediati e semplici dall’altra.

Mi è già capitato in una cosnulenza di sottolineare la parsimonia e chiedere all’azienda quale assenza era in grado di fornire al mercato.

Mi viene in mente una vecchissima, sciocca battuta: “Siate parchi, come il Parco Nazionale dell’Abruzzo”

Fino a quando continuerà ad esistere la pubblicità nell’era del marketing totale?

white noise

L’altra domenica Pier Luca Santoro nel suo gruppo pubblico di facebook “I giornali del futuro il futuro dei giornali” ha inserito il collegamento all’articolo di Luca De Biase “La partita della pubblicità è tecnologica” dove l’autore sostiene la tesi che “l’editoria ha biso­gno di ridi­ven­tare un busi­ness fon­da­men­tal­mente tec­no­lo­gico. Inno­va­ti­va­mente tecnologico.”, chiedendo al gruppo cosa ne pensava.

Confesso che normalmente non non entro in questo tipo di discussioni su fb, perchè non mi sembra una piattaforma adatta a confrontarsi in modo articolato. Però questa volta, un po’ per la stima nei confronti di Pier Luca, un po’ per l’interessante del tema (le due cose sono collegate), ho commentato andando un po’ oltre al tema dell’articolo e della domanda, chiedendomi (e chiedendo) se la pubblicità continuerà ad esistere strutturalmente, indipendentemente dalle soluzioni di media e/o di tecnologia che si possono inventare.

Non ho approfondito il concetto perchè sono partiti alcuni commenti (semi-ideologici) sull’ineluttabilità della pubblicità, sulla pubblicità buona e quella cattiva (non esiste pubblicità cattiva, esiste solo pubblicità indisposta, come ci ha insegnato la pubblicità della Dolce Euchessina.

L’argomento però continuava a ronzarmi nella testa ed è stato di nuovo Pier Luca a riportarlo in superfice ieri con questa considerazione su adbloking e dintorni: “È una que­stione di lin­guaggi, di modo di por­gere e di rispetto nei con­fronti delle per­sone, in anti­tesi all’attuale inva­si­vità anche della pub­bli­cità online. O, come dicevo, l’advertising ces­serà di essere ciò che inter­rompe gli inte­ressi della gente per diven­tare il più pos­si­bile quel che gli inte­ressa oppure le imprese ricer­che­ranno auto­no­ma­mente, come già avviene con il brand jour­na­lism, nuove forme, nuovi for­mat di comu­ni­ca­zione e di rela­zione con i pro­pri pub­blici di rife­ri­mento. Non c’è scelta.“.

Condivido “O l’advertising cesserà di essere ciò che interrompe gli interessi delle persone per diventare quello che gli interessa oppure non sarà.“, quindi sostengo che “non sarà”.

Attenzione, non ne faccio una questione ideologica (da professionista del marketing ci mancherebbe altro) e voglio sottolineare che la comunicazione delle aziende e/o dei marchi è cosa ben diversa dalla pubblicità.

Dico che la pubblicità, intesa come “ogni forma di presentazione e/o promozione non personale di idee, beni o servizi realizzata a pagamento da uno sponsor chiaramente identificabile.” (mia traduzione dal Kotler, Marketing Management) è strutturalmente destinata ad interrompere gli interessi delle persone. Non c’è tecnologia o contenuto che tenga.

Già nel 2008 scrivevo come la pubblicità fosse già il rumore di fondo della nostra vita e quindi fatalmente destinata all’irrilevanza. Credo che ci siamo arrivati molto vicini.

Mi guardo intorno e mi sembra evidente che le persone hanno sviluppato una sorta di “adblocking mentale” per cui nè vedono nè sentono la pubblicità, meno che meno le marche che la realizzano. Le persone non hanno più interesse nel ricevere (questo tipo) di informazioni non richieste perchè si sono abituate che le informazioni le cercano e le trovano autonomamente quando gli servono ed interessano.

Forse in questo scenario l’unica pubblicità che si salva è l’affissione, perchè spesso non interrompe nessun interesse specifico delle persone che la vedono, e la comunicazione di promozione/offerte speciali, meglio se fatte al momento e nel posto giusto sul cellulare tramite la geolocalizzazione.

Nell’ottobre 2012 mi chiedevo quale sarebbe stato il futuro della pubblicità in termini di modalità. Oggi ho l’impressione (convinzione?) che la pubblicità manchi di un futuro tout court.

Sarà per questo che fino dall’inizio della mia carriera in azienda nel 1994 ho sempre considerato le Pubbliche Relazioni e la pubblicità specializzata B2B come le componenti minime ed irrinunciabili del mio budget di comunicazione?

Il crisis management ai tempi del marketing totale.

Più di una volta ho dichiarato che volevo evitare che biscomarketing diventasse un blog di marketing del vino (anche se sono i post che storicamente mi hanno portato il traffico maggiore).

Ho mantenuto l’intenzione e quindi ho cominciato a pubblicare i post di argomento enologico sulla piattaforma Vinix.

Non c’è motivo però perchè gli affezionati lettori di biscomarketing ne siano esclusi e quindi ecco qui il link.

Ferrero “Bontà E’ Bellezza”: può il marketing basarsi sull’etica dell’estetica?

Capita abbastanza spesso che su questo blog parli di cosa fa Ferrero, quasi sempre con una punta di invidia, non tanto perchè sono grandi, ma perchè sono svegli e riescono a realizzare cose che io avevo solo immaginato.

Questo è uno di quei casi perchè è partita da un po’ la campagna premio certo con il claim “Bontà è Bellezza”.

E’ una campagna con almeno deu elementi interessanti. Il primo è la spinta promozionale data dalla certezza della vincita, fatta però attraverso premi di valore aggiunto. Quindi non c’è un appiattimento della marca sul prezzo / sconto e si riesce a dare al consumatore qualcosa che per lui vale più di quanto costi all’azienda.

Volendo parlare tecnicamente, la Ferrero crea un surplus di valore che trasferisce al consumatore.

In più collegandosi a degustazioni di specialità alimentari italiane, la promozione si inserisce nel filone ancora molto attivo dell’enogastronomia (leggi foodporn) e permette di trasferire sui prodotti Ferrero promozionati l’alone di qualità dei prodotti tipici italiani.

Potrà sembrare un’idea banale, ma realizzare una promozione di tipo così aperto nella scelta e fruizione del premio richiede un’organizzazione non da poco.

Questa promozione utilizza e realizza in pieno due concetti che ho espresso tempo addietro: il crescente interesse dei consuatori alle promozioni in seguito alla crisi economica (il post del marzo 2013 lo trovate qui) e la necessità che nell’era del marketing totale le strategie siano tattiche e le tattiche strategiche.

Ma quello che mi intriga di più della campagna è il claim che collega direttamente la bonà alla bellezza. Questo perchè nella mia carriera ho tentato varie volte di posizionare esplicitamente una marca / prodotto sulla base della bellezza come proxy della qualità e non ci sono mai riuscito (leggi non me l’hanno mai lasciato fare).

Gli esempi si specano, basta pensare al ri-lancio della Fiat 500, però la domanda rimane: c’è un’etica nell’estetica? il fatto che un prodotto sia bello lo fa anche automaticamente buono, in senso esteso?

Questa enfasi sulla bellezza, non rischia di diventare un posizionamento classista? Vale più il meccanismo per cui acquisto i cioccolatini Ferrero per appropriarmi della loro bellezza (indipendentemente dalla loro bontà) oppure di rifiuto di ridurre tutto all’estetica. Mi ricordo che quando ero a piccolo a Venezia i panifici avevano i biscotti “brutti, ma boni”, che si posizionavano in modo totalmente contrario.

Ma soprattutto la domanda definitiva è Ferrero Rocher, Mon Cheri e Pocket Coffee sono belli o sono brutti? E se sono brutti, automaticamente diventano anche cattivi?

Voi che ne dite?

Snapchat e le strategie social media marketing (delle marche).

logo snapchat
Snapchat è un’applicazione che mi è sempre stata simpatica per almeno due motivi:

1. Grazie a snapchat due anni fa (o era l’anno scorso) sono riuscito a fare la figura dello zio al passo con i tempi con la mia nipote teen-ager. Parlavamo di applicazioni quando gli ho chiesto se aveva Snapchat e non sapeva nemmeno cosa fosse. Ovviamente nel giro di 1 mese lei sapeva tutto ed io no (per inciso nella stessa conversazione mi ha anche detto di non capire proprio il senso di twitter, di usarlo quindi non se ne parlava neppure.

2. Da qualche parte ho letto che l’archiviazione di tutte le futilità che vengono pubblicate su internet richiede un costo energetico pari (o forse superiore?) a quello che era neccesario per la carta stampata prima dell’avvento di internet. In altre parole pare che con il suo abuso, ci siamo giocati il vantaggio ambientale dell’uso del digitale. Benvenga quindi un’applicazione che non conserva quello che facciamo, fosse solo per la parsimonia dell’uso dei server.

Per quelli che magari non lo sanno, snapchat è un’applicazione che permette di inviare tramite smartphone immagini, video e chat che si cancellano automaticamente dopo un tempo che va da 1 a 10 secondi. Qui trovate il link al sito che vi spiega un po’ tutto sull’uso di Snapchat come utente e come investitore di pubblicità.

Qui invece trovate il link al post “Ora spiego anche ai non quindicenni cos’è Snapchat (e a che serve)” del sito www.consumatrici.it per una infarinatura di come funziona (grazie a Pamela Guerra per la segnalazione.

Io snapchat l’ho scaricato un paio di settimane fa (no quando ne parlavo con mia nipote non l’avevo fatto, che ho un’età e non posso riempirmo lo smartphone di stupidaggini), perchè l’ho trovato tra i link social di un sito di una società americana che stavo guardando l’altro giorno.

Mi ha incuriosito che una marca avesse anche Snapchat di fianco di facebook, twitter, pinterest e quindi ho creato il mio profilo Snapchat (l’unico modo per capire veramente come funziona una app è entrarci ed usarla).

Così ho imparato che Snapachat negli USA è una delle app (o l’app) con il maggior numero di utenti attivi nella fascia 13-34 anni. L’informazione viene dal sito di Snapchat e non l’ho verificata, però mi fido dell’accuratezza di www.Datamediahub.it che in un post dello scorso 9 settembre riportava numeri notevoli per questa applicazione.

In Italia la diffusione non è ancora così ampia però ci sono dei segnali che potrà crescere rapidamente, come l’utilizzo di Snapchat da parte di X-Factor per l’interazione social della prossima stagione (il concetto e “double screen” nella fruizione della TV, ed io direi anche “Triple screen”).

Comunque già adesso io quando sono entrato per la prima volta in Snapchat con il mio account nuovo di zecca, sono rimasto stupito della quantità di marche già presenti. Utilizzano la funzione storie, per cui creano una storia per immagini che rimane visibile per 24 ore. Se, oramai assuefatti all’eterntà di internet, vi sembra poco, ricordatevi che è la vita media di un quotidiano. Il che implice avere storie (interessanti) da raccontare tutti i giorni, nel bene e nel male.

Confesso che non ci ho ancora giocato abbastanza da capire come si usa adesso e come si potrebbe usare in futuro. Ho già qualche idea, però sono solo abbozzi, di utilizzo strategico come quello attuale, ma anche tattico. D’altra parte è vero o non è vero che nel marketing totale le strategie devono (anche) essere tattiche e le tattiche (anche) strategiche?

Forse però la ragione la ragione più profonda, quasi inconscia, che mi ha portato a dedicare attenzione a Snapshot è che ci ho visto un chiaro collegamento al concetto di mobile moment di cui leggevo un anno fa su Marketing News.

Cos’è un mobile moment? E’ un punto nel tempo e nello spazio (potremmo dire nello spazio tempo? La fisica continua a tornare, sovrapponendosi all’economia) in cui qualcuno prende uno smartphone o un tablet per ottenere immediatamente quello che vuole. La corretta identificazione dei mobile moments è la base per costruire strategie mobile di successo, specialmente per sviluppare applicazioni che non vengano ignorate (nel migliore dei casi) o causino frustrazione e malcontento nei potenziali utilizzatori (nel caso peggiore).

Caso mai prossimamente dedicherò un post a questo concetto sviluppato da Josh Bernoff, ma adesso, riguardo a Snapchat, cosa c’è di più adatto al “momento” di una applicazione che dura un attimo?

E nei (corto) circuiti mentali che girano nella mia testa questo mi riporta ad un bellissimo vecchio claim dello Stock 84: “La felicità è un attimo, dividila con Stock 84″.

Nuovamente ritorna la fisica (e la filosofia, che in nuce, non sono poi così diverse) se penso che un istante si può sempre dividere in due istanti più piccoli e così all’infinito, per cui in realtà dividendo l’istante lo moltiplico. Ecco che, racchiudendo la felicità in un attimo, il consumatore che la divide con Stock 84, la moltiplica.

….. dopo la lettura questo post si autodistruggerà ……

Generali trasferisce l’ufficio comunicazione a Milano ed io mi chiedo: ha senso delocalizzare il lavoro intellettuale? E che ne è del genius loci?

genius loci

Qualche giorno fa Assicurazioni Generali ha deciso di spostare da Trieste a Milano parte dell’ufficio che si occupa della comunicazione interna ed esterna della holding.

La cosa a Trieste ha giustamente destato una certa preoccupazione perchè segna un ulteriore depauperamento di una città che ha avuto l’occasione di essere al centro dell’Europa e non è riuscita a sfruttarla per limiti (o vincoli) storico-culturali. Perchè, come cantava Fossati, i muri più difficili da abbattere sono quelli che abbiamo in testa.

Io invece mi sono chiesto che senso abbia oggi spostare fisicamente delle persone perchè siano fisicamente più vicine alle strutture con cui devono collobarare. E’ evidente che il grosso dei media si trovano a Milano, ma nell’utilità della vicinanza geografica tra questi e l’ufficio comunicazione delle Generali io vedo un’impostazione del lavoro un po’novecentesca.

Soprattutto mi chiedo se nel prendere questa decisione si è valutata solamente l’efficienza oppure anche l’influenza che avrà a lungo termine sulla comunicazione dell’identità della marca. Il genius loci non è indifferente nella definizione e percezione della propria personalità.

In altre parole il “sentire” dei dipendenti Generali che si occupano della comunicazione aziendale sarà diverso quando guardando fuori dalla finestra vedranno Piazzale Cordusio (Milano) rispetto ad oggi che vedono il golfo di Trieste.

Nell’era del marketing totale l’identità è uno dei principali fattori competitivi, anche perchè è quello meno replicabile dai concorrenti. Chissà se quella delle Generali di diventare/apparire meno triestine e più milanesi è una scelta oppure sarà una “semplice” conseguenza della ricerca di efficenza (con soluzioni superate dai tempi)?

Ma questa pubblicita’ Lavazza e’ adeguata all audience de “L’Internazionale”?

adv Lavazza Italia

Oggi pubblico da smartphone, quindi saro’ breve per forza.

Venerdi’ su l’ultimo numero de “L’Internazionale” c’era questa pubblicita’ delle capsule Lavazza (spero che voi la vediate dritta, perche’ io la vedo storta). Realizzata come sempre da Armando Testa.

La cosa che mi ha colpito e’, giustamente, l’immagine centrale che comunica con chiarezza e forza il concetto di italianita’.

Tanto forte che partendo dal pattriottismo puo’ arrivare al militarismo, passando per il nazionalismo.

Per questo mi e’ venuto da chiedermi: questa creativita’ e’ adatta alla audience de “L’Internazionale”?.

Nell’era del marketing totale, vedi i vari post dei mesi scorsi, dove i prodotti di massa personalizzano le etichette per i singoli consumatori e’ corretto NON porsi la questione di realizzare una creativita’ adeguata per ogni mezzo utilizzato. Fatta salva ovviamente l’identita’ della marca?

Paranoie da fanatici del marketing?

 

Perchè è necessario pianificare.

In questo periodo sto preparando il piano marketing 2016 per un cliente.

Dopo aver validato le linee guida strategiche, la prima cosa che ho fatto è stato, ovviamente, scrivere il GANTT.

Il diagramma di GANTT è un documento dove sono elencate le varie attività previste/necessarie per la realizzazione di un progetto,con la loro data di inizio, la loro durata e le relazioni operative tra loro.

In pratica è uno schema che elenca cosa si deve fare, quando ed in quale sequenze. Non è l’unico schema utilizzabile per la pianificazioni di un progetto, ma è sicuramente il più diffuso e, secondo me, è molto comodo perchè evidenzia chiaramente che se state facendo una casa e siete in ritardo con i muri sarete in ritardo anche nel fare l’impianto elettrico, potrete comunque piantare le piante del giardino.

L’altro giorno parlavo con il cliente per fissare una data per vederci, ma non riuscivamo a far combaciare le agende quindi io ho detto: “Non  importa anche se non ci vediamo di persona, fissiamo un appunatmento per telefono che comunque con il GANNT davanti possiamo seguire facilmente l’effetto delle varie opzioni strategiche”.

Lui mi ha risposto “Si e no, perchè se il fornitore X non ci conferma i tempi, allora slitta anche la realizzazione dell’attività Z e rischiamo di trovarci in ritardo con Y”.

Già. Ma è proprio grazie al fatto che abbiamo il GANTT che siamo in grado di sapere se rischiamo di ritardare. E di conseguenza prendere le azioni correttive necessarie.

In quel momento mi si tornate in mente tutte le volte in cui in azienda avevo dovuto insistere per formalizzare la pianificazione dettagliata dei progetti. Molte di più quelle in cui io ho comunque formalizzato la pianificazione, ma non l’ho condivisa con i colleghi delle altre funzioni perchè “non avevano tempo”, “era troppo complicato”, ecc ….

Siccome però la responsabilità del progetto era mia e ne dovevo gestire diversi contemporaneamente i continuavo a fare i miei bei GANTT per non essere sommerso dagli eventi.

Mi sembra che ci siano una serie di atteggiamenti per me strani nei confronti della pianificazione.

Quello più sorprendente è la delusione/frustrazione/disaffezione la progetto se il piano non si realizza secondo il percorso previsto. L’obiettivo di un progetto in sintesi è sempre raggiungere i risultati necessari nei tempi previsti e pianificare significa costruirsi il metro con cui misuro come e dove sto andando.

Voglio dire che il piano non è un binario da cui non ci si può scostare, è una rotta su una mappa. Se le condizioni previste cambiano e quindi devo cambiare rotta per arrivare in tempo al punto previsto, questo è possibile (o molto più facile) GRAZIE al fatto che avevo un piano, non MALGRADO il piano.

Sembra, ed in effetti è, ovvio. Ma se non si ha la consapevolezza dell’utilità del piano sia se le cose vanno come previsto che, ancor di più, quando sorgono problemi/intoppi (ossia sempre), si farà sempre fatica a sfuggire alla pressione dell’operatività quotidiana e trovare il tempo per pianificare e prevedere le soluzioni alternative.

Detto in altre parole per pensare prima di fare.

Dimenticate cervello destro e cervello sinistro: adesso ci sono il cervello alto e quello basso.

cervelloQuesto è un post di riserva.

Oggi pomeriggio infatti mi ero messo di buzzo buono per scrivere un post riguardante il “caso Sauvignon” in Friuli.

Però man mano che scrivevo mi rendevo conto che ne usciva un post pedante ed inconcludente.

Allora ho deciso di cambiare tutto e lasciare il post sui “furbetti del pirazino”, come li ha definiti splendidamente un mio amico che aveva previsto il trambusto di questi giorni con mesi di anticipo, a quando si sarà chiarita la situazione.

Per il momento indico un po’ di link con cui quelli di voi più interessati a quanto accade nel mondo del vino possono farsi un’idea della questione.  Il Piccolo 1, Il Piccolo 2 Il Messaggero Veneto 1 Il Messaggero Veneto 2(che malgrado il nome è il quotidiano di Udine), IntravinoIl Fatto Quotidiano, L’Espresso, e Dagospia (che per rafgioni che mi sfuggono ultimamente sta dedicando una particolare attenzione al vino).

E dove mi ha portato a parare il cambiamento?

Al libro che ho comprato circa un mese fa, bighellonando in libreria (cosa che non succedeva da anni, nelle librerie on-line non so bighellonare, sarà l’età): “Cervello alto e cervello basso: perchè pensiamo ciò che pensiamo”, Stephen M. Kosslyn e G. Wayne Miller, Bollati Boringhieri, 2015.

Utilizzando (anche) le moderne tecniche della mappatura per immagini delle funzioni cerebrali all’interno del classico approccio analisi/verifica, gli autori propongono una nuova teoria per cui il cervello funziona per SISTEMI  e non dicotomie.

Soprattutto questi sistemi non seguono la conosciuta suddivisione in emisfero sinistro, logico e analitico, ed emisfero destro, artistico ed intuitivo. Bensì cervello basso (lobi occipitale, temporale e parte inferiore del frontale) e cervello alto (lobi parietale e parte superiore del frontale).

Il cervello basso è largamente coinvolto nell’elaborare gli imput provenienti dai sensi e nell’utilizzarli per attivare i ricordi appropriati relativi a specifici oggetti ed eventi, mentre il campo d’azione per eccellenza del cervello alto è concepire e portare avanti dei piani.

Ovviamente tutti utilizziamo costantemente entrambe i sistemi, però tutti abbiamo una tendenza ad utilizzare un sistema rispetto all’altro incaso di utilizzo opzionale e non “situazionale”. Cos’è l’utilizzo opzionale? Gli autori fanno l’esempio tra il camminare, azione dettata principalmente dalla situazione (voglio andare da A a B e quindi devo camminare) ed il ballare (difficilmente mi troverò nella situazione di dover assolutamente ballare, però se mi piace ballare approffiterò di tutte le occasioni/opzioni che ho ho per farlo).

Dalla combinazione della nostra attitudine ad utilizzare in diversa misura i due sistemi si generano 4 modalità cognitive:

1. Cervello basso molto utilizzato+cervello alto molto utilizzato: modalità dinamica.

2.Cervello basso poco utilizzato+ cervello alto molto utilizzato: modalità stimolativa.

3. Cervello basso poco utilizzato+cervello alto poco utilizzato: modalità adattiva.

4. Cervello basso molto utilizzato+cervello alto poco utilizzato: modalità percettiva.

 

E’ bene sottolineare come l’intesità di utilizzo dei due sistemi sia un continuum e non si realizzi invece per gradi discreti come lo schema qui sopra sembra suggerire. La schematizzazione però è utile per la comprensione.

A questo punto mi sono sopreso a trovare una similitudine tra questa teoria e quella degli stili di apprendimento di Peter Honey in cui mi sono imbattuto più di 10 anni fa durante un corso di formazione del managemente del gruppo Eckes-Stock (bei tempi). Questa teoria identifica 4 ruoli fondamentali che le persone tendono a prendere all’interno di un gruppo: leaders, realizzatori (doers), pensatori (thinkers), accuditori (carers).

A questo punto istintivamente mi è venuto da azzardare queste corrispondenze:

  • modalità dinamica = leader.
  • modalità stimolativa = realizzatore.
  • modalità adattiva = accuditore.
  • modalità percettiva = pensatore.

E sono solo a pagina 42 …….

Buonanotte (e non Federico, non ho riletto quello che ho scritto, anche perchè domattina la sveglia suona prima dell’alba che vado a Bologna a SANA, la fiera del biologico).

E’ vero che il brainstorming non funziona (più)? Secondo me no.

Brainstorming rules

Oggi mi prendo una pausa dagli argomenti viti-vinicoli per non far diventare questo blog troppo monocorde.

Lo faccio riflettendo su un articolo di Kevin Ashton (quello che ha inventato il termine “internet delle cose” mica pizza e fichi, che poi la pizza bianca con i fichi è buonissima) apparso lo scorso giugno su L’internazionle con il titolo “Il brainstorming è solo uno spreco di tempo”. L’articolo in italiano NON è disponibile on-line sul sito de L’Internazionale, però è disponibile l’originale inglese pubblicato dall’Observer.

L’uscita dell’articolo ha generato alcuni interventi tra i quali segnalo quelli di Annamaria Testa (pubblicitaria), Jacopo Fo (autore, attore e scrittore) e Ciro Esposito (professionista di comunicazione digitale, ho detto bene?). consiglio di leggerli tutti e tre, perchè portano punti di vista e contenuti diversi, che aiutano ad avere un’idea più chiara e completa della questione (come fosse unng  brainstorming).

Questi tre interventi sono più o meno d’accordo con Ashton con riserva. Nel senso che dipende da cosa si intende con il termine “brainstorming”.

“Brainstorming” è uno dei termini di marketing / gestione aziendale più abusati. Praticamente in ogni contesto aziendale (e non solo) ogni volta che si fanno delle chiacchere più o meno in libertà su un argomento qualcuno alla fine dice “abbiamo fatto un brainstorming”.

Non è così.

In estrema sintesi un brainstorming è una sessione di lavoro di gruppo, durante la quale un gruppo di persone si riunisce in un posto e sputa fuori tutte le idee che gli vengono in mente rispetto ad un determinato argomento.

Detto così, ci sta dentro di tutto. Ed infatti il mio sospetto è che l’inefficacia venga proprio dalla mancanza di regole, che non significa maggiore libertà (intelletuale), e di omogeneità nell’applicazione formale di questa tecnica.

La mia esperienza personale è che i brainstorming funzionano. Forse dipende da come ne ho fissato gli obiettivo e le modalità di realizzazione.

Lo scopo di un brainstorming è quello di generare idee (spunti), non di svilupparle o definirle, ed in questo è estramemente più efficace del lavoro individuale (sia in termini di tempo in assoluto che di rapporto idee/tempo).

Per ottenere questa efficenza bisogna adottare delle tecniche / pratiche / regole che lo differenziano dal cazzeggio. Queste sono le mie:

  • Il posto dove si svolge il brainstorming deve essere diverso dal solito ambiente di lavoro, possibilmente però evitare anche “la stanza del brainstorming”, perchè altrimenti si rischia di ricadere comunque in una routine.
  • No cellulari che squillano, nè che vibrano nè in silenzioso.
  • Tendenzialmente no a computer, sicuramente no a partecipanti che rispondono alle mail o fanno i fatti loro con il portatile.
  • Dimensione massima del gruppo:  10 persone (i sacri testi dicono 8, però, non si sa come, si aggiunge sempre qualcuno).
  • Composizione del gruppo: il più interdisciplinare / interfunzionale possibile (non sai mai da dove possono arrivare gli spunti).
  • Durata massima: 20′ (tanto poi sforerete a 30′).
  • Tra i componenti ci deve essere un facilitatore / moderatore che interviene, se necessario, per garantire il rispetto delle regole e la partecipazione di tutti.
  • Quantità e non qualità delle idee.
  • Tutte le idee contano.
  • La pazzia è positiva.
  • Quello che viene detto non si giudica, critica o discute, neanche da se stessi (quindi no autocritica nè autocensura).
  • Non sottovalutare, e quindi non esprimere, quello che appare ovvio (ad essere rigorosi questo rientrava nel punto precedente, ma il rischio è così forte da richiedere una sottolineatura).
  • (Se si vuole) usare figure / disegni / grafica per visualizzare le idee.
  • Rendere tutte le idee visibili a tutti in ogni momento utilizzando lavagne a fogli mobili, muri, etc. (non valgono presentazione powerpoint).
  • Le idee dei componenti del gruppo stimolano altre idee (effetto “valanga”).
  • Numerare le idee.
  • Riscaldare il cervello (sono quei 5′ / 10′ che vi fanno arrivare alla mezz’ora).
  • Fatene una sessione di lavoro divertente.

Alcune considerazioni per realizzare meglio queste regole e migliorare l’efficacia del brainstorming:

- Riscaldamento mentale: ci possono essere varie tecniche. Quella che seguo io praticamente sempre è chiedere ai partecipanti del gruppo di pensare da soli almeno mezz’ora alla questione che verrà trattata nel brainstorming. Meglio se lo fanno il giorno prima e non giusto prima dell’inizio della sessione. Si tratta di far lavorare la mente per “associazioni libere”, in una specie di “”brainstorming individuale”.

- Problemi di “prevaricazione” da parte delle persone più estroverse: questo è probabilmente il problema più spinoso perchè è quelloc he crea le maggiori distorsioni e limiti alla capacità da parte di tutto il gruppo di “aprire la scatola” come fosse una mente unica. Io l’ho risolto da diversi anni adottando una tecnica di brainstorming che mi hanno insegnato come brainstomp e funziona così: ogni partecipante scrive le proprie idee con un pennarella su un cartoncino man mano che gli vengono e le lasciano sul tavolo che si colloca al centro della stanza in cui si svolge il brainstorming. I partecipanti camminano lentamente intorno al tavolo, perchè il movimento aiuta. Nella stanza si mette un sottofondo musicale, possibilmente vivace / energetico. Al centro del tavolo si accende una candela, che aiuta i partecipanti a riprendere la concentrazione quando la perdono. Dopo dieci minuti si cambia il senso di rotazione intorno al tavolo.

Potete sorridere, o anche ridere (io ho visto di quelle facce ….), di questi accorgimenti che però hanno lo scopo di creare una distonia fisica dalla normale routine e quindi stimolare la distonia mentale alla base della creatività.

Questa tecnica presenta anche importanti vantaggi operativi:

- evita l’interazione diretta tra le persone e quindi il crearsi di “blocchi di comunicazione”, malumori, ecc…

- permette una eccellente partecipazione di persone che non hanno dimestichezza con il brainstorming perchè le regole sono facili da capire, seguire e controllare.

- permette al “facilitatore” della sessione di gestirla senza interventi distorsivi. In pratica deve solo ricordare la regola del silenzio per evitare il dibattito/giudizio delle idee e regolare il ritmo del lavoro con la velocità della sua camminata.

- tutti i partecipanti possono sempre vedere tutte le idee generate dagli altri e quindi si favorisce l’effetto “valanga”.

 

Clusterizzazione delle idee: conclusa la sessione di braistorming / brainstomp fate una breve pausa. Non più di 10 minuti e nessuno deve dedicarsi ad attività “esterne” alla sessione. Poi il gruppo lavora per raggruppare le idee in diversi clusters / categorie. Non esiste un numero predefinito di clusters nè categorie predefinite a priori. I diversi clusters verranno identificati sulla base della similitudine / sovrapposizione delle idee generate.

A questo punto ringraziate e rimandate tutti a loro lavoro normale …. dando appuntamento per domani o dopodomani.

 

Selezione (darwiniana) delle idee/spunti generati: il giorno dopo la sessione di brainstorming (o al massimo due), a mente fredda e fresca il gruppo di lavoro si riunisce di nuovo e seleziona le idee suddivise in clusters. A me tendenzialmente piace metterle in ordine dalla prima all’ultima, per non buttare via niente (il mio quarto di sangue furlano), voi se volete sulle idee pessime (che saranno la maggior parte) potete anche metterci una pietra sopra. La logica è quella della tecnica di braintrust utilizzata dalla Pixar e descritta dal post di Ciro Esposito.

Se avete bisogno di fare un brainstorming e non vi fidate di me come consulente (reprobi ingrati!), vi segnalo che le regole riportate nell’immagine che apre questo post (che sono solo ALCUNE delle regole che io utilizzo) le ho imparata in un seminario organizzato dall’Istituto per la Creatività Applicata.

Se invece volete fare un’analisi Delphi come quella citata da Annamaria Testa…., beh la prima che ho fatto era nel 1993 sulle prospettive della pastorizia, ossia i miei opinion leaders erano pastori; uno dei progetti di ricerca più divertenti che ricordi.

Com’è e come sarà il consumatore americano di vino.

Continuo ad occuparmi di vino con una sintesi ragionata del profilo del consumatore U.S.A. di vino, basata sull’articolo di Larry Walker apparso sul numero di giugno di Meininger’s Wine Business International (rivista a cui consiglio vivamente di abbonarsi).

 

1. Quanti sono i consumatori di vino americani?

Secondo l’indagine del Wine Market Council nel 2014 in USA il 40% dei 230 milioni di americani adulti consumava vino, il che significa 92 milioni di consumatori di vino. 30,4 milioni di americani bevevano vino più di una volta a settimana (consumatori abituali), mentre 61,6 milioni bevevano meno di una volta a settimana (consumatori occasionali).

 

2. Quanto pesano i consumatori abituali sul totale dei consumi?

I consumatori abituali sono quindi il 33% del totale dei consumatori di vino, però bevono l’81% di tutto il vino consumato negli USA.

 

3. Come si suddividono in termini di gruppi demografici (e quindi, in parte, anche per atteggiamenti di consumo) i 30,4 milioni di consumatori abituali?

Sono per il 38% Baby Boomers (nati tra il 1946 ed il 1964),

per il 30% sono Millennials (nati tra il 1982 ed il 2004),

per il 19% sono Generation X (nati tra il 1964 ed il 1982)

e per il 13% sono consumatori oltre i 69 anni di età.

Nota bene: nell’analizzare i mercati io consiglio sempre di guardare (più) ai numeri assoluti oltre che alle %. Lascio a voi l’incombenza di fare i calcoli.

 

4. Cosa stanno bevendo i consumatori americani?

Secondo i dati Nielsen, che rileva sia le vendite dai dati scanner dei supermercati che quelle da alimentari (convenience) e liquor store, la tendenza più rilevante è la crescita degli uvaggi a scapito dei vini varietali. Questa tendenza coinvolge principalmente i vini rossi rispetto ai vini bianchi. Negli ultimi due anni il 41% dei nuovi vini apparsi sul mercato USA erano uvaggi, 31% erano uvaggi di vino rosso ed il 10% erano uvaggi di vini bianchi. Il varietale che più di tutti ha subito la sostituzione con gli vaggi è stato il Merlot.

 

5. Chi saranno consumatori di vino americani nel prossimo futuro?

5.1. Presumibilmente (il perchè del presumibilmente lo spiego dopo) soprattutto da quelli che oggi sono consumatori occasionali. I consumatori abituali sono vicini al massimo del consumo pro-capite (se non l’hanno già raggiunto). Il consumo di vino negli USA è ancora un fenomeno abbastanza recente da permettere l’acquisizione di nuovi consumatori che attualmente bevono altri tipi di bevande alcoliche. Per i Generation X ad esempio si è assistito ad un fenomeno di spostamento dalla birra al vino. Soprattutto per i Millenials (di cui non tutti hanno ancora raggiunto i 21 anni dell’età legale per bere alcolici) c’è ancora spazio nella crescita dei consumi pro-capite. Ricordiamoci che si tratta della prima generazione cresciuta in una società dove il consumo di vino era una cosa normale (nei media, nei film ed in TV, nelle recensioni sui giornali, ecc…). Ricordiamoci anche che si tratta di una generazione che è ancora agli inizi dello sviluppo del proprio livello economico e quindi è molto probabile che al crescere di questo cresca anche la disponibilità a spendere di più per bere vini migliori. Queste considerazioni, unite al fatto che la il totale della popolazione adulta negli USA continuerà a crescere, porta a prevedere che il consumo di vino negli USa continuerà a crescere nel medio periodo (il perchè ho scritto potenziale lo spiego più avanti).

5.2. Pronti per la iGeneration? L’altro grande aggregato dei futuri consumatori americani di vino del futuro è (sempre presumibilmente) la iGeneration, ovvero i “giovani Millennials” nati tra la metà ed il finire degli anni ’90. Sono la generazione in assoluto più “connessa”, quelli per cui il web e l’utilizzo multischermo in contemporanea (TV, tablet, smartphone) è la regola, analogico e digitiale sono aspetti di una unica realtà personale e si fondono per cercare di ottener il massimo in termini esperienziali (massimo di semplicità, profondità, rapidità, ecc…).

E’ una generazione da cui aspettaresi il costante uso di internet nel decidere le proprie scelte, quindi massima trasparenza e condivisione delle informazioni, massima capacità e voglia di sperimentare le marche (che implica potenzialmente la minima fedeltà alla marca), massima ricerca/richiesta di autenticità.

Stiamo parlando di 60 milioni di consumatori, che raggiungeranno l’età legale per bere alcolici nel 2016. Secondo i vari esperti, se questo gruppo demografico “abbraccerà” il consumo di vino, i consumi di vino negli USA decolleranno (ulteriormente aggiungo io).

Alcune mie note a margine su punti precedenti:

Punto 4:

nel 2012 la cantina dove lavoravo ha presentato una nuova linea pensata anche per il mercato USA composta da tre vini DOC: 1 bianco, 1 rosso ed 1 rosè spumante. Per il rosso invece di utilizzare un varietale abbiamo scelto di fare un uvaggio è di chiamare il vino solamente “Rosso”, seguito dalla denominazione. Fortuna o giudizio?

 

 

Punto 5:

la ragione per cui ho utilizzato il termine “presumibilmente” è perchè i settori delle altre bevande non stanno fermi a guardare la perdita di volumi e/o fatturati e/o quote di mercato. Rispetto alle generazioni precedenti, i consumatori più giovani (quelli appena più vecchi della i-Generation) si sono spostati verso vino e spirits a scapito della birra. La risposta del settore della birra è stata una intensificazione delle attività di marketing, anche relativamente allo sviluppo di nuovi prodotti, soprattutto da parte dei produttori di birre artigianli e da parte delle marche importate.  Suona famigliare? In aggiunta metteteci anche il sidro, che ha un buon legame culturale con il target anglosassone. La partita, o la battaglia se preferite, per conquistare i consumi della iGeneration si giocherà sull’intrattenimento, in tutti i significati e le modalità che volete dare alla parola. Da “divertimento” ad “approfondimento”, tanto per citarne un paio.

Quello che è sicuro è che per vincerla, la partita (o la battaglia) bisognerà giocarla. Ovvero la comunicazione al consumatore è un processo continuo che costantemente rinnova e rafforza le basi sui cui i consumatori scelgono noi rispetto agli altri. Dove “noi” e gli “altri” rappresentano sia le diverse categorie merceologiche che le diverse marche, a seconda del contesto settoriale oppure aziendale in cui si opera.

 

Punto 5.1:

Nel 2011 durante una riunione un mio illuminato collega non di marketing ha detto più o meno così “Io vedo mio figlio utilizzare la tecnologia digitale e mi convinco che per interagire con questa generazione dovremmo riuscire a digitalizzare il gusto“. E’ da quattro anni che ho in mente questa bellissima riflessione (grazie Josef) e forse sono sulla strada per arrivarci, almeno in parte.