El #26J Espana no ha ido a derecha, es que el centro-izquierda se quedò en casa!

Una rapida analisis de los flujos electorales de las elecciones generales espanola del 26J segun los datos oficiales publicados en el sito del El Pais creo demuestra claramante lo que pasò.

Estas las diferencias de votos en miles por lo principales partidos respecto a las eleccciones generales del 20 D:

PP 574
PSOE -174
CIUDADANOS -429
UNIDOS PODEMOS -1.142

La suma algebrica de estos numeros es – 1.171.000 votos.

La diferencia de abstenciones+votos en blanco entre el 26J y el 20D es de – 1.146.281 votos.

Ipotizando que los votos perdidos de Ciudadanos hayan ido todos al PP por el voto util, se quedan fuera de este recuento 170.000 votos (necedades).

O sea que la major razon del exito relativo del PP parece ser la abstencion de los epanoles che el 20D votaron al centro izquierda (sobre todo Podemos y Izquierda Unida que se juntaron en Unido Podemos).

Nota del Autor: las faltas de ortografia se deben principalmente al hecho que este post se escribiò con un teclado italiano y secundariamente al hecho que yo mismo soy italiano.

Suerte!

 

 

 

 

Marketing is global, business is local; ovvero location-based marketing is here to stay.

La prima frase del titolo l’ho sentita dire da nonmi ricordo più chi ad un convegno al Cibus del 1992. Alcune ere geologiche digitali fa. E per un bel pezzo “glocal” è stato uno dei termini di modi nella comunicazione e gestione aziendale.

L’effettivo avvento della società digitale sta riportando il marketing ai suoi aspetti fondamentali, dando la possibilità di realizzare con un’immediatezza raramente vista prima gli enunciati di principio.

Se la creazione e gestione dei contenuti, fatta in gran parte sui media digitali, è alla base dell’immagine (reputazione) della marca, il location-based marketing è quello che permette di utilizzare gli stessi media per monetizzarla.

Cos’è il location-based marketing?

Da definizione di wikipedia si tratta di una nuova forma di comunicazione (pubblicità in originale, N.d.A.) che integra la comunicazione su dispositivi portatili con servizi/prodotti su base locale. La tecnologia è utilizzata per identificare dove si trova il (potenziale N.d.A.) consumatore e fornirgli comunicazioni legate specificatammente al luogo in cui si trova sui sui dispositivi portatili (smartphone per farla breve N.d.A.).

Secondo Bruner e Kummar (2007) ” location-based marketing si riferisce ad informazioni controllate dall’azienda e disegnate specificatamente per il luogo in cui gli utenti accedono ad un mezzo di comunicazione.”

Questa la definizione, che come vedete risale a quasi 10 anni fa, ma quali sono le tendenze?

Un articolo di Mireya Prado nel numero primaverile di Marketing Insights, rivista dell’American Marketing Association, indica queste come le principali.

1. La facilità d’uso su smartphone (e tablet) è cruciale.

La diffusione della navigazione da smartphone ha portato i motori di ricerca ad adottare nuove tecnologie per migliorare l’esperienza di utilizzo. Google ad esempio ha spinto sulle Accellerated Mobile Pages (in sintesi una tecnologia che permette di caricare più velocemente le pagine su smartphone ed ha effettuato vari aggiornamenti dell’algoritmo per migliorare la ricerca locale da dispositivi mobili.

Anche per il 2016 è prevedibile che gli aggiornamenti continuino ed una delle direzione in cui si svilupperanno è quella di utilizzare gli “structured data” come elemento di dterminaazione del ranking nelle ricerche (se sapessi cosa significa, lo spiegherei. al momento l’ho solo intuito leggendo la spiegazione che ne fa google search)

La sintesi di tutto questo è che nel 2016, per avere successo nelle ricerche su base locale bisognerà disegnare i nostri media digitali con un approccio “mobile first” in modo da fornire agli utenti la miglior esperienza di navigazione possibile per semplicità e completezza.

 

2. Capire che le persone (consumatori) usano i social come vogliono loro, non come l’azienda vorrebbe che li usassero.

Sulla diffusione dei social creo ci sia poco da dire, perchè la viviamo tutti in prima persona. Come in prima persona viviamo la diffusione del loro utilizzo da cellullare (i direi quasi che il secondo ha favorito il primo).

Questo ha creato la proliferazione di messaggi/contenuti in tempo reale a livello globale.

La conseguenza per i messaggi di contenuti locali è la necessità di comunicare direttamente con il consumatore e quindi di creare un coinvolgimento (dimenticatevi likes e follower: sono solo scalpi, al limite, decorativi).

Oggi i consumatori si aspettano una risposta diretta da una marca in meno di un’ora (io qualche anno fa avevo fissato come obiettivo del mio dipartimento di rispondere entro un giorno. Ognuno pensi ai tempi di risposta che riceve dalle marche, quando le riceve).

Perchè allora fare la fatica di accontentare questi tempi di risposta? Perchè una connessione rilevante con la marca aumenta di 7 volte la probabilità che un consumatore risponda positivamente ad una promozione.

 

3. Beacons e mobile wallet non sono una moda.

L’adozione di beacons e mobile wallet è ancora marginale perchè queste tecnologie non hanno ancora portato chiari vantaggi per le persone (consumatori). Nel momento in cui le marche saranno in grado di offrire esperienze (di acquisto) in grado di rispondere alla domanda del consumatore “A me cosa me ne viene?”, l’adozione sarà rapida.

La marca Sephora nel 2015 ha fatto dei test integrando beacons e mobile wallet nella ricerca dei punti vendita ed all’interno del punto vendita. In questo modo è possibile ottenre informazini riguardo a cosa e/o come porta i consumatori ad effettuare un acquisto e sviluppare le proprie strategie di conseguenza.

 

4. La cura della privacy non è un’opzione.

Il location-based marketing ha per sua natura un rischio intrinseco di diventare spam agli occhi del consumatore.

Quello che evita questo rischio è la rilevanza dei messaggi che la marca invia relativamente al contesto in cui si trovano le persone.

Secondo uno studio realizzato da Accenture negli USA, il 49% dei consumatori non hanno problemi a condividere i propri dati con una marca, se questa fornisce informazioni per loro rilevanti. Viceversa preparatevi ad essere nella lista dei loro adblockers.

Alla rilevanza nei confronti dei consumatori, vanno aggiunte trasperenza e chiarezza su come, quando e perchè la marca utilizzerà i loro dati.

 

5. La crescente importanza del location-based marketing richiede una sua gestione da parte delle aziende.

Si prevede la creazioen di una nuova figura all’interno dlele aziende: il Chief Location Officer, responsabile di gestire la comunicazione tra le varie funzioni aziendali per creare una miglior relazione con il cliente / consumatorea livello di esperienza locale.

 

Concludo con tre considerazioni mie:

a) molti dei concetti del location-based marketing mi sembrano collegati a quelli del (mio) marketing totale. La gestione però appare estremamente complessa.

b) leggendo l’articolo su Marketing Insights e scrivendo questo post mi sono sentito molto vecchio e affaticato.

c) i miei post hanno fama di essere complessi e non di facile comprensione. molte delle cose che ho scritto in questo post non sono chiare nemmmeno a me (vedi punto precedente). Se qualcuno me le volesse spiegare è il benevenuto.

 

Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca.

 

Diapositiva1Avverto che questo è un post scritto con un approccio manicheo, bianco o nero, con considerazioni tagliate con l’accetta piuttosto che cesellate con il bulino.

Dietro non c’è nemmeno granchè di ricerche, piuttosto un po’ di pensiero speculativo, un po’ di esperienze dirette, un po’ di annusare l’aria e scambio di idee con un paio di amici.

Se trovate qualcosa che vi sembra utile bene, viceversa avrete perso un po’ di tempo (almeno sarà yn post corto).

Veniamo al dunque.

Continuo ad imbattermi in persone/aziende insoddisfatte dei risultati delle loro strategie web (basate principalmente sui social networks). Però continuo ad imbattermi anche in persone/aziende che continuano a credere che le strategie web (basate principalmente sui social networks) siano la pietra filosofale, capace di trasformare il ferro in oro.

Di entrambe le cose hanno una buona dose di responsabilità i professionisti della comunicazione e/o gli opinion leaders che appaiono sui mezzi di comunicazione specializzati e generalisti, che continuano a dipingere il web come il futuro (radioso) ed invece è il presente (ricco di opportunità per le persone, ma complesso).

Ai tempi della comunicazione “classica”, diciamo vent’anni fa, si insegnava che i diversi mezzi dovevavo essere utilizzati in modo da sfruttare in pieno le loro caratteristiche specifiche. Quindi evitare di pianificare sulla radio una campagna per un concetto di comunicazione/marca/prodotto basato sul visuale (se vi sembra ovvio, non avete idea di quante ne ho viste fare con la scusa che non c’era budget per fare la campagna in TV) oppure pianificare le campagne di esterna (leggi cartellonistica stradale) nei mesi estivi che hanno più ore di luce (sempre che non dobbiate fare la campagna dei pandori).

Se guardo a come si muovono tante aziende, ma recentemente anche i partiti ed i candidati in campagna elettorale, sembra che nessuno si sia preoccupato di capire quale sia la specificità del web come mezzo di comunicazione.

Bene, io sono parecchio convinto che il web per sua natura sia il mezzo ideale per costruire reputazione/immagine di marca e sia piuttosto debole se si vuole ottenere conoscenza di marca (o awareness se volete parlare come i veri esperti di comunicazione).

Questo perchè sul web, come al bar, la persone ci vanno per informarsi, divertirsi ed interagire con altre persone.

Se quando siete a bere un aperitivo con i vostri amici e quando questi vi stanno raccontando cosa gli è successo o cosa faranno, ogni tanto si intromettesse uno che vi dice di comprare la marca X, voi cosa fareste? Se l’esempio vi sembra surreale, beh è esattamente quello che succede con i post sponsorizzati che appaiono nella vostra timeline di facebook. E quello che fate voi, come tutti (adblockers a parte) e non fare attenzione all’intruso.

Stesso discorso, anche peggio, per i banner.

Viceversa essere citati nelle conversazioni oppure essere ricercati per i contenuti dà una credibilità ed una forza di immagine che nessuna pubblictà può eguagliare.

E’ quello che in inglese si chiama leadership di pensiero (thought leadership). Per acquisirla bisogna avere delle cose interessanti da dire, dirle bene e dirle con continuità.

Se siete fortunati da esser una marca di nicchia, ma nicchia nicchia, la conoscenza che viene come conseguenza della visibilità data dalla creazione di reputazione potrà bastare.

Se invece ricadete nella grandissima maggioranza dei casi, dovrete costruire la conoscenza dell’azienda/marca/prodotto con della pubblicità, in larga misura classica.

Rispetto ad una volta magari meno televisione e stampa e più esterna e presenza del marchio sul territorio (eventi, sponsorizzazioni, ecc…). Però sempre pubblicità.

Unica (?) eccezione, secondo me, gli spot in apertura ai video su youtube. E’ come la buona vecchia pubblicità televisiva, con in più il “vantaggio” che non posso cambiare canale, almeno per un bel po’ di secondi. Non a caso è un mezzo costoso.

Perchè questa è l’altra amara verità: ottenere conoscenza di marca è costoso.

Tutto come una volta quindi, come se la rivoluzione digitale non fosse esistita.

Non proprio. E’ possibile rendere più efficiente l’investimento, quindi ottenere un livello più alto di conoscenza con lo stesso più budget oppure lo stesso livello di conoscenza con un budget più basso, affinando la targetizzazione.

Però quante aziende hanno una definizione precisa e dettagliata del loro target principale e di quelli allargati in termini di comportamenti, atteggiamenti nei confronti della categoria di prodotto e della marca e di caratteristiche socio-demografiche.

A poco mi serve avere un cannocchiale più potente se non so dove puntarlo.

L’importanza della focalizzazione per costruire e consolidare marchi di successo: l’esempio di Campari.

adv campari 2016

Questa è la pubblicità di Campari che si trova sulla rivista Millemiglia di Alitalia. volendo ci sarebbe molto da scrivere in termini di comunicazione.

A me però quello che ha colpito di più è una cosa che deriva (suppongo) da una scelta strategica più a monte: l’indicazione tra gli ingredienti del Negroni di un generico “Red Vermouth”.

Il Campari è (ri)diventato un prodotto iconico grazie alle campagne di comunicazione dei primi anni 2000.

E’ sostanzialmente un prodotto-marchio, nel senso che il marchio si identifica sostanzialmente al 100% con l’apertivo Campari riprodotto nella pubblicità, ed è l’unico prodotto-marchio tra gli ingredienti originale ufficiali del cocktail Negroni.

Intendo dire che il manuale dei cocktails a e long drinks classici IBA (International Bartenders Association) nella ricetta del Negroni riporta proprio il Campari e non un “aperitivo italiano” generico. Di conseguenza tutte le volte che trovate descritta la ricetta del Negroni, in qualsiasi pubblicazione off line oppure on-line troverete indicato il Campari e chiunque stia dietro il bancone di un bar sa che il Negroni si fa con il Campari.

Quindi se mettiamo insieme l’immagine della marca con la sua imprenscindibilità per la realizzazione di uno dei cocktail più famosi e di moda, ne viene fuori una posizione piuttosto forte.

Perchè allora non sfruttarla ed indicare tra gli ingredienti del Negroni nella proprio pagina pubblicitaria il Vermouth Cinzano, di proprità del Gruppo Campari?

In fin dei conti Cinzano è comunque un marchio importante ed è il secondo vermouth più venduto a livello mondiale (a dirla tutta Campari ha anche un gin, il Bankes London Dry Gin).

Si creerebbe una sinergia sia in termini economici di ottimizzazione del budget pubblicitario che di traino del Vermouth Cinzano (e volendo anche dal Bankes Londo Dry Gin) da parte del Campari.

Però io concordo (per quello che vale) con la scelta dei signori di Campari Group di non inquinare l’immagine, pur forte, del Campari Aperitivo.

Per mantenere ed incrementare la forza di un marchio la sua imamgine va concentrata, non diluita.

Io però voglio credere che dietro a questa strategia ci sia una considerazione più sottile: il rispetto per il bartender come primo cliente e testimonial del Campari.

Evitando di suggerire ai consumatori i propri marchi per gli altri ingredienti, Campari rispetta la professionalità e lo stile di ogni singolo bartender e li tratta come pari.

Illusioni di marketing? Forse, però la stessa strategia è adottata anche nella comunicazione dell’Aperol spritz (altro marchio del Gruppo Campari) dove viene citato il “prosecco” generico e non il Prosecco Cinzano.

 

 

Native advertising: gli esempi di “One” sul sito di “El Pais” e di “Ulisse” di Alitalia.

“Native advertising” è uno dei recenti termini di moda nell’ambito della comunicazione e quindi di (parte) del marketing.

Cos’è il native advertising? Copio e incollo da Wikipedia.

Native advertising è una forma di advertising online che assume l’aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata, cercando di generare interesse negli utenti. L’obiettivo è riprodurre l’esperienza utente del contesto in cui è posizionata, sia nell’aspetto che nel contenuto. Al contrario della pubblicità tradizionale che distrae il lettore dal contenuto per comunicare un messaggio di marketing, il native advertising cala completamente la pubblicità all’interno di un contesto senza interrompere l’attività degli utenti, poiché assume le medesime sembianze del contenuto, diventandone parte, amplificandone il significato e catturando l’attenzione del consumatore.

Nello specifico, il Native Advertising è un metodo pubblicitario contestuale che ibrida contenuti e annunci pubblicitari all’interno del contesto editoriale dove essi vengono posizionati (sia dal punto di vista grafico sia dal punto di vista della linea editoriale), indicando chiaramente chi è l’inserzionista che ‘sponsorizza’ tale contenuto. È distante dal Pubbliredazionale, che invece cerca di mascherare contenuti pubblicitari come articoli editoriali su prodotti o servizi.

In un articolo sulla prestigiosa Harvard Business Review, l’esperto di marketing Mitch Joelha definito la Native Advertising come “un formato pubblicitario creato specificatamente per un determinato media sia dal punto di vista del formato tecnico sia dal punto di vista del contenuto (la creatività)”. L’obiettivo finale è quello di rendere l’annuncio pubblicitario meno intrusivo in modo che non interrompa la fruizione del contenuto che l’utente sta guardando, così da aumentare la percentuale di click e interazioni sull’annuncio

I formati più noti di Native Advertising sono probabilmente i cosiddetti In-Feed Units quali i promoted tweets di Twitter o i promoted posts di Facebook.

Ora io non so se è la definizione di Wikipedia ad essere imprecisa oppure è solo un termine più smart (espressione che non sopporto per come è normalmente adottata nei discorsi in italiano) per indicare qualcosa che concettualmente è sostanzialmente identico ad un pubbliredazionale (le eventuali differenze pratiche sono solo tecnicismi di poca o nulla importanza strategica).

Pubbliredazionali che strutturalmente hanno la stessa scarsa efficacia dei promoted tweets di Twitter o dei promoted post di Facebook.

Qui la differenza tecnica permette di generare sui mezzi social un maggiore bombardamento di messaggi a costi più bassi rispetto ai vecchi pubbliredazionli, però secondo me impostare la propria strategia di comunicazione sull apressione dei messaggi i sembra una strategia sorpassata e che le persone (consumatori) stanno già eludendo attraverso i propri comportamenti cognitivi e/o strumenti informatici (un approfondimento di come vedo la questione lo trovate sul post dello scorso 31 gennaio “L’ANTIMARKETING: bloccare gli ad blockers”).

Ci sono invece delle attività che (alcune) aziende  stanno realizzando partendo dalla consapevolezza che qualsiasi attività economica oggi si muove nel campo dell’editoria e che l’interesse per un messaggio risiede dalla rilevanza dei contenuti e dalla credibilità della fonte rispetto all’audience a cui si rivolge.

Rilevanza e credibilità dei contenuti non sono mai stati appannaggio esclusivo dei mezzi di comunicazine istituzionali, ma oggi lo sono ancora meno (analizzare i motivi di questa tendenza sarebbe interessante, ma troppo lungo ed esula dall’obiettivo di questo post).

In un continuum che va dalle Pubbliche Relazioni alla marca che si fa editore tout-court si trovano quelle attività che io, sbagliando, chiamerei native advertising e che mi piacerebbe avessero un nome.

L’altro giorno ho trovato due esempi interessanti sul numero di maggio di “Ulisse”, la rivista di bordo dell’Alitalia.

Ulisse maggio 2016

Nelle interviste a Roberto Bolle e Jude Law si dava uno spazio rilevante alla loro attività di testimonial per due marche, rispettivamente Acqua di Parma per Bolle e Lexus per Law. Le domande relativa ai due marchi erano 2 o 3 e lo spazio era circa 1/5 di tutta l’intervista. Quindi non così lungo da trasformare l’intervista in un pubbliredazionale, ma nemmeno così piccolo da passare inosservato o poter essere saltato durante la lettura.

Anche perchè non era la marca a parlare direttamente per bocca del giornalista, ma la voce arrivava dal testimonial attraverso le domande del giornalista. Secondo me in questo modo le dichiarazioni del testimonial, che al di là del compenso ha scelto di collaborare con una marca piuttosto di un’altra per i valori che condivide, acquistavano più credibilità proprio perchè mediate.

Ai professionisti di comunicazione più smaliziati non sorprenderà che Acqua di Parma e Lexus fossero presenti sul quel numero di Ulisse anche con una pagina pubblicitaria (e presumo lo saranno anche nei prossimi).

Ancora più vicino al concetto di marca come editore che non parla direttamente di sè ma si fa creatore e/o curatore di contenuti affini alla propria immagine è la sezione di “One” sul sito della versione on line del quotidiano spagnolo “El Pais” (non non c’è la colonna di destra con gattini e freaks vari).

Screenshot 2016-05-22 16.03.02

Sbaglierò, ma nel futuro della comunicazione io vedo ancora la pubblicità classica come generatore della conoscenza della marca abbinata alla creazione (editoriale) dei contenuti per rafforzarne la reputazione.

Del native advertising come è inteso adesso, non saprei cosa farmene.

L’importanza della gestione del prezzo dei prodotti “loss leader” della distribuzione da parte dei produttori.

Loss Leaders TagQuesto post si prospetta particolarmente tecnico, anche per gli standard di biscomarketing.

Quindi cercherò di essere particolarmente chiaro, in modo da renderlo comprensibile anche a quei lettori che non sono dei professionisti del marketing (so che ce ne sono, bontà loro).

Innanzitutto cos’è un prodotto “loss leader“.

Si definiscono “loss leader” quei prodotti che le catene della Grande Distribuzione Organizzata (super e ipermercati per capirsi) vendono a prezzi particolarmente bassi, riducendo o annullando il proprio margine di profitto.

L’estremo della strategia “loss leader” è la vendita sottocosto, quando il supermercato vende il prodotto ad un prezzo inferiore di quello a cui l’ha acquistato dal fornitore. In Italia, come in molti altri Paesi, la vendita sottocosto è regolamentata, quindi va dichiarata sul punto vendita e deve essere limitata ad un determinato periodo di tempo e/o determinato numero di pezzi.

I prodotti “loss leader” quindi non sono venduti a prezzi bassi perchè hanno un basso prezzo all’origine, ma per una decisione autonoma ed indipendente del negoziante (una catena di supermercati in essenza è un negoziante) che rinuncia in tutto o in parte al suo guadagno (se vende sottocosto sostiene addirittura una perdita).

Perchè una catena di supermercati decide di adottare questa strategia? Per attirare clienti. L’ipotesi di base infatti è che l’aumento di vendite complessive generato dal maggior numero di clienti generi un margine aggiuntivo superiore a quello perso sui singoli prodotti loss leader.

Quindi la catena di supermercati aumenta le proprie vendite e guadagni ed il produttore del prodotto loss leader pure, per cui tutti contenti. Non proprio.

Ci sono almeno 3 ragioni per cui un produttore deve preoccuparsi della gestione del prezzo a scaffale dei suoi prodotti che i supermercati usano come loss leader:

1. il posizionamento di prezzo influenza l’immagine (di qualità) percepita del prodotto. I prodotti scelti come loss leader sono normalmente prodotti di immagine medio alta all’interno della loro categoria merceologica perchè è proprio questa immagine superiore che crea “l’affare” per il consumatore. Trovare spesso il prodotto/marca ad un prezzo (più) basso sullo scaffale può indebolirne l’immagine nel medio lungo periodo.

2. il posizionamento di prezzo a scaffale come loss leader genera un aumento di vendite “anomalo”. Il rischio è che l’azienda si strutturi per produrre volumi di vendita “fragili” perchè basati sulla scelta dei supermercati di vendere ad un prezzo incoerente con il valore del prodotto (e con il suo costo di acquisto).

3. nel caso in cui a consuntivo la catena di supermercati abbia una marginalità inferiore a quella prevista, chiederà ai produttori di coprire (almeno in parte) i mancati guadagni. Le dinamiche commerciali sono fatte (anche) di rapporti di forza, quindi non mi metto neanche a discutere se la cosa sia giusta o meno: è un dato di fatto.

Ricordo il mio stupore quando per la prima volta in Stock ho visto i miei colleghi delle vendite calcolare la marginalità lorda che i vari clienti della GDO ottenevano ai diversi livelli di prezzo a scaffale del Limoncè (ai tempi tipico prodotto loss leader natalizio). Calcoli che poi condividevano con i loro interlocutori delle catene di supermercati. Per me era una questione che riguardava i buyers e category manager, in cui mi sembrava improprio ingerire.

In realtà però la cultura aziendale della distribuzione è spesso focalizzata sul fatturato, di cui la marginalità è conseguenza. Regola valida in termini generali, ma che può subire importanti eccezzioni quando il fatturato viene generato da prodotti loss leader.

Tutto questo mi è tornato in mente l’altro giorno, quando ho scritto su Vinix.it un post sulle vendite di Prosecco nel Regno Unito. In quel post segnalavo che il Prosecco DOC spumante in UK oggi è utilizzato come loss leader da quasi tutte le catene inglesi. Nei commenti c’è stato chi ha detto “…. che problema c’è se i supermercati vendono a prezzi bassi, se tanto il prezzo all’origine (in cantina) continua a crescere?”. Beh il problema è che la frenata potrebbe essere molto brusca. Tenete le cinture ben allacciate.

La fondamentale differenza tra artefici ed esecutori.

“… la nostra prima priorità dovrebbero essere le persone che lavorano per l’azienda, poi i clienti, poi gli azionisti. Perchè se i dipendenti sono motivati, i clienti saranno contenti e quindi gli azionisti guadagneranno attraverso il successo dell’azienda.”
- Richard Branson, Chairman, Virgin

Tempo fa quando sono uscito dopo aver visitato un’azienda mi è venuta in mente questa frase di Richard Branson.

E’ un’azienda che fa risultati, organizzata bene, ma mentre ero lì avevo la sensazione che c’era qualcosa che non mi convinceva del tutto. Andando via ho capito che era la mancanza di energia. Non si percepiva dalle persone nessuna tensione, nessuna spinta nel fare al meglio il proprio lavoro.

Non che ci fossero degli scansafatiche che cercavano di evitare di fare il loro lavoro. E’ che per la maggior parte dei dipendenti il lavoro non era il “loro”, era qeullo che l’azienda gli chiedeva di fare. Erano degli esecutori che aspettavano che qualcuno gli dicesse cosa dovevano fare, per farlo al meglio delle proprie competenze.

Più passano gli anni e più mi convinco che il siccesso duraturo delle organizzazioni passa (anche) dal generare artefici invece che esecutori.

Dico generare perchè il modo e lo stile di gestione hanno un’influenza determinante nel creare le condizioni per cui le persone si comportino come artefici oppure come esecutori.

Cosa intendo per artefice? Una persona che ha la consapevolezza delle sua posizione nell’organizzazione e quindi delle responsabilità che implica. Dalla responsabilità consegue l’autonomia nello svolgere il proprio lavoro e l’autonomia richiede un adeguato livello di informazione, strumenti e formazione.

Io personalmente tendo ad allargare l’informazione oltre al livello necessario per l’autonomia legata alla respondabilità perchè di base sono convinto che se le persone capiscono meglio il contesto in cui operano lavorano meglio, sia a livello di attività che di performances.

La gerarchia delle organizzazioni (dovrebbe) essere strutturata per responsabilità. Io ho sempre posto molta attenzione che non mi venissero assegnate (troppe) resposnsabilità che esulavano dalla mia posizione e dalle mie mansioni e che non me ne venisse tolta nessuna di quelle previste dalla mia posizione e dalle mie mansioni. Di conseguenza esigevo autonomia ed informazioni coerentemente alle responsabilità.

Se le responsabilità (e mansioni) che oltreppasavano il mio ruolo diventavano troppe e/o si prolungavano per troppo tempo, era giunto il momento di parlare di inquadramento e di stipendio.

Tutta questa lunga spiegazione in inglese si sintetizza con il termine di “empowerment“, ossia di dare al personale il potere per poter svolgere al meglio il proprio lavoro. Tra l’altro il termine inglese implica che il potere viene dato (o ceduto) da chi si trova a livelli più alti di responsabilità nell’organizzazione.

In questo modo le persone diventano artefici del proprio lavoro. Gli obiettivi aziendali diventano i loro obiettivi, o meglio vedono come gli obiettivi del loro lavoro giocano sugli obiettivi aziendali.

Attenzione che se l’empowerment, che è molto di moda, viene solo dichiarato e poi rimane nelle buone intenzioni dell’azienda, si trasforma in un boomerang perchè le persone si sentono prese in giro / truffate.

Cosa significa fare l’empowerent sul serio?

Significa creare un ambiente di lavoro basato sul rispetto e la trasparenza nei rapporti personali.

Significa garantire la libertà di parola (d’altra parte è un principio costituzionale) senza che questa venga usata contro chi ha parlato.

Significa dare alle persone la tranquillità di imparare dai propri errori.

Significa seguirle per evitare che le conseguenze degli errori siano troppo gravi (buttare le persone in acqua per vedere se e come sanno nuotare NON è empowerment).

Significa fare prendere coscienza alle persone che sono i primi responsabili della propria mansione, del modo in cui viene svolta e dei risultati ottenuti.

Ci sono alcune frase che dico sempre quando inizio a (dover) gestire un gruppo di persone:

La gerarchia è nell’organizzazione, non nell’attitudine“. Intendo che un’organizzazione funziona bene se c’è una gerarchia (piatta) basata sulle responsabilità e la capacità di utilizzare tutte le conoscenze e competenze delle persone che la compongono. Come si sul dire, non esistono domande stupide (se sono fatte in buona fede).

Non sono io che devo dirvi cosa fare, sei voi che dovete chiedermi quello che vi serve per fare bene il vostro lavoro

Il fatto che io sia responsabile anche del vostro lavoro, non vi solleva dall responsabilità di quello che fate e come lo fate” (vedi punti precedenti). Esempio: il fatto che ci sia un correttore di bozze non esime chi scrive da fare attenzione agli errori di ortografia e grammatica perchè un testo zeppo di errori costringerà il collega ad un maggior lavoro (mancanza di rispetto, vedi sopra) ed aumenta il rischio che qualche errore sfugga (peggioramento della perfomance).

Era il 1983 quando facendo il corso caporali ho scoperto che la consegna è “precisa, coincisa, tassativa”.

Oramai perfino negli eserciti hanno attenuato questi principi per migliorare efficacia ed efficienza.

Dispace vedere aziende che di fondo operano ancora con principi ottocenteschi, per di più con con consegne confuse, prolisse ed aleatorie.

 

Grande e bella notizia: l’Assemblea dei soci del Consorzio del Prosecco DOC ha approvato l’impianto di nuovi vigneti per 3.000 ettari entro luglio 2017.

Primo maggio di lavoro (ed era pure domenica, meno male che faceva un tempo da lupi), quindi non sono riuscito a fare il mio usuale post domenicale anche perchè ho “dovuto” fare un post sulle novità del Prosecco DOC per stare sulla notizia.

La pubblicazione è avvenuta come oramai consuetidine per gli argomenti vinicoli su Vinix e lo trovate qui.

Buona lettura lettori di biscomarketing

E’ la strategia che fa il messaggio, non il mezzo: l’esempio di #EcorNaturasì su L’@Internazionale.

Quota post ha una base fattuale inusualmente imprecisa.

Ma non importa, perchè anche se quello su cui si basano i ragionamenti non fosse vero (e lo è), sarebbe comunque reale. E questo rende i ragionamenti comunque validi ed interessanti. Diciamo che è un post di ispirazione Malapartiana, intesa come Curzio

Questa premessa solo perchè dal servizio abbonati del L’Internazionale non mi hanno risposto su come recuperare i pdf dei vecchi numeri e quindi non ho potuto verificare se, come ricordo, in un numero di due/tre mesi fa tutte (o quasi) le pagine pubblicitarie avevano annunci di Ecor Naturasì.

Visto che il mio ricordo è piuttosto chiaro, prendiamolo per buono perchè nell’era digitale in cui viviamo, fornisce un ottimo esempio di utilizzo strategico di un mezzo analogico nella comunicazione di un marchio emergente.

Il mio ricordo è piuttosto chiaro anche perchè quando ho letto quel numero de L’Internazionale mi è tornato in mente che nel 1990 in Canada avevo visto il caso della strategie applicata da (forse) IBM o Pepsi Cola che avevano coperto tutta la pubblicità del numero di Time (o era Newsweek?) uscito in occasione dell’elezione di George Bush (o era il secondo mandato Reagan?).

Dettagli a parte è una strategia che da quella volta mi èsempre rimasta nel fondo della memoria perchè prima o poi avrei voluto utilizzarla anch’io. E ad oggi purtroppo non ci sono ancora riuscito.

Quindi quando l’ho trovata realizzata da Ecor Naturasì su L’Internazionale, mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente.

Per chi non lo sapesse Ecor Naturasì è la più grande catena italiana di negozi e supermercati di prodotti biologici e biodinamici.

Il settore è in crescita ed Ecor Naturasì è in una fase di espansione della rete dei negozi, che sta portando il marchio in zone nuove (la catena è originaria del Veneto) e quindi a toccare nuovi potenziali consumatori.

L’acquisto di tutta la pubblicità del L’Internazionale mi è sembrata una mossa particolarmente intelligente perchè:;

- garantisce che il marchio sarà visto dai i lettori perchè la sua ripetizione pagina dopo pagina rende impossibile non notarlo prima della fine del giornale.

- permette di comunicare l’ampiezza dell’assortimento biologico e biodinamico dei negozi Ecor Naturasì. Per la strategia di comunicazione questo implica vantaggi tattici e strategici.

Tatticamente mostra a quelli che sono già consumatori di prodotti biologici che attualmente acquistano in piccoli negozi la comodità rappresentata dai supermercati Ecor Naturasì. Inoltre può intercettare consumatori potenziali, inclini ad acquistare prodotti biologici, ma non ancora acquirenti (o acquirenti sporadici) grazie all’interesse suscitato da una specifica categoria merceologica di cui sono forti consumatori (o a cui sono particolarmente interessati). Se pensate, come succedeva a me, che i prodotti biologici coprano solo alcune categorie merceologiche vi sbagliate. In un supermercato biologico ci sono esattamente le stesse che trovate un un supermercato tradizionale, dai soft drinks alle merendine.

Strategicamente poter presentare l’assortimento permette allo stesso tempo di evitare la “monotonia comunicative” e di ribadire marchio e posizionamento. La varietà del contenuto deriva dalla presentazioen di prodotti diversi, che però si inseriscono in una grafica costante e coerente che veicola il marchio ed il posizionamento.

- fornisce rilevanza e credibilità al marchio. Indipendentemente dall’efficacia delle pagine pubblicitarie realizzate, l’acquisto di tutta la pubblicità di un numero di una rivista comunica e posiziona di per sè la marca come forte, credibile e rilevante.

Aggiungeteci che il target dei lettori de L’Internazionale è probabilmente perfettamente allineato (io i dati di readership non li ho, ma Ecor Naturasì, sì) con clienti attualie potenziali di Ecor Naturasì e l’operazione appare ancora più … perfetta.

Aggiungeteci ancora che il numero tutto Ecor Naturasì è stato precedeto e seguito da alcuni numeri dove counque la presenza pubblicitaria della marca era piuttosto massiccia, quindi aumentando e prolungando l’effetto dl numero “evento” e … ho finito gli aggettivi.

A me quello che ha colpito è soprattutto che dimostra come degli obiettivi ed una strategia chiara, realizzata bene permettano di fare dell’ottimo marketing al di fuori delle pianificazioni classiche (la “paginetta” pubblicitaria su un certo numero di riviste per due/ tre mesi, magari ripetendo la campagna due volte all’anno) o delle mode di chi pensa che oggi si possa/debba pianificare solo sul web.

Invece le regole classiche della pubblicità valgono ancora ed una di queste insegna che la pubblicità efficace va pensata e realizzata in modo da sfruttare pienamente il mezzo, qualunque esso sia.

Magari se ne ricordassero tutti quelli che pianificano comunicazione sul web in un approccio di push.

 

 

Lo sviluppo di nuovo prodotto: ecco le scuse con cui le aziende bocciano le buone idee.

In qualsiasi ambito quando ci si trova a dover prendere una decisione predittiva binaria, ossia che preveda due possibilità, ci si trova di fronte al rischio di commmettere due tipo di errori: l’errore di primo tipo e l’errore di secondo tipo (tautoligia).

Detto con una terinologia più chiara, si può comettere un errore di falso positivo quando si sceglie (o accetta) l’ipotesi sbagliata, oppure di falso negativo quando si scarta (o rifiiuta) l’ipotesi giusta.

In azienda quando si intraprende un progetto di sviluppo di nuovo prodotto l’errore di falso positivo porta a sostenere costi inutili, che saranno tanto più alti quanto più si avanza nel progetto fino al lancio sul mercato.

E’ questa la ragione per cui lo scrutinio dei concetti di marca/prodotto deve essere il più rigoroso possibile, in modo da scartare già nelle fasi iniziale le idee destinate al fallimento.

fasi sviluppo nuovo prodotto

Nella figura a fianco i grafici mostrano chiaramente il rapporto inverso tra la mortalità dei progetti di sviluppo di nuovo prodotto man mano che il processo avanza attraverso le diverse fasi ed i costi sostenuti dall’azienda.

Però non ci si può preoccupare solo dei falsi positivi (costi); bisogna anche tenere in conto del rischio di falso negativo perchè questo implica il mancato sviluppo dell’azienda/marca (in diensione, fatturato, immagine, posizionamento e profitto).

Purtroppo però l’animo umano è naturalmente avverso ai cambiamenti, per cui, come cantava Battisti “troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante”. Ecco quindi che gli argomenti (scuse) che vengono utilizzati in azienda per scartare le idee/progetti (che potrebbero avere successo) sono sempre gli stessi, generali e generici trasversalmente ai settori, alle dimensioni, al tipo di proprietà, ecc….

A me li hanno insegnati durante il master di marketing dei prodotti agro-alimentari allo IAMZ di Saragozza nel 1992. Eccoli:

- l’abbiamo già provato in passato (e non ha funzionato).

- non funzionerà per noi.

- non funzionerà adesso.

- è troppo costoso.

- non è coerente con la nostra azienda/marca/immagine.

 

C’è qualcosa che vi suona famigliare? Siete in buona compagnia perchè è dal 1994, ossia da quando ho cominciato a lavorare in azienda che quando si è trattato di bloccare dei progetti (miei o di altri) spesso mi è venuto da sorridere perchè “indovinavo” quello che sarebbe stato detto.

Però ricordatevi sempre che l’importante non è quante idee vi possono bocciare, ma di continuare ad averne sempre di nuove.

Quelle buone prima o poi troveranno la loro strada.

 

 

Le persone (consumatori) totopotenti.

Tra gite malattie e Pasque, senza neanche accorgermi ho lasciato silente biscomarketing per quasi un mese.

Una di queste gite è stata a Madrid, dove ho fatto una cosa piuttosto banale oggigiorno: arrivato in aeroporto ho preso la macchina a noleggio che avevo prenotato, ho inserito su goggle maps l’indirizzo di casa di mia nipote e dopo circa 20 minuti di guida lineare parcheggiavo in una strada laterale a 200 m da casa sua.

Solo per avere uno smartphone ed un collegamento ad internet, due cose economicaente piuttosto accessibili, adesso posso arrivare in un posto (sostanzialmente) sconosciuto ed avere la capacità di fare quello (sostanzialmente) quello che voglio.

La cosa è talmente troppo facile che ci fa dimenticare l’enormità del cambiamento rispetto a 5 anni fa, per non parlare di 25.

Sarà per questo che continuo ancora ad imbattermi in dichiarazioni di guru (oggi va più di moda dire influencer) del marketing e comunicazione che sottolineano come l’approccio “hard sell” debba essere sostituito dall’enfasi ed attenzione sui contenuti. L’ultima volta è stata una serie di interviste sul futuro della pubblicità nel 2016 che ho letto sul numero di gennaio di Marketing News, rivista dell’american Marketing Association.

Ma è così difficile accettare che, nelle economie sviluppate, le persone sono oramai sostanzialmente in grado di fare quello che vogliono, quando vogliono? Probabilmente sì, perchè per molti professionisti con ruoli di rilievo nelle loro organizzazioni significa rendersi conto della sostanziale irrelevanza delle proprie competenze ed esperienza rispetto all’attuale contesto sociale.

Un’altra “gita” di questo mese è stata al Prowein di Dusseldorf, dove una mia ex collega mi ha chiesto consiglio su come auentare l’efficacia della comunicazione della sua marca sui social network. Al di là di inserire nel gruppo di lavoro un professionista del tema (che normalmente aiuta non poco), le ho ricordato che, ovviaente, le persone sui social network parlano di loro stessi, dei loro amici e parenti ed interagiscono principalmente con le altre persone (amici, parenti, conoscenti). Delle marche gli ne frega poco. A parte alcune che per rilevanza, messaggio, atteggiamento diventano parte della vita loro, dei loro amici, dei loro parenti.

Come succedeva prima dei social network, e succede ancora, nei rapporti analogici.

E’ dal 1990 che ho imparato che la pubblicità ha la funzione di fornire RAGIONI per l’acquisto, mentre le promozioni hanno la funzione di fornire incentivi all’acquisto e l’ho imparato come altre centinaia di migliaia di persone studiando “Marketing Management” del Kotler.

Forse sarà il caso di mettersi al passo con i tempi, che hanno appena cominciato a cambiare (continuamente) come dimostra anche l’articolo “Citta Intelligenti” di Jessica Braun pubblicato sul n. 1144 dell’ 11/17 marzo 2016 de “l’internazionale” (qui il link all’articolo originale in tedesco, che la traduzione italiana sul web non c’è).

Magari saranno questi i tempi nuovi chiesti da “El Roto” nella sua vignetta pubblicata sul “El Pais” dello scorso 30 marzo.

El Roto 30-03-16

 

 

 

Segmentare, targhettizzare, posizionare ai tempi del marketing totale.

Giovedì e venerdì ho tenuto due lezioni su “L’impostazione del brand” al Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino organizzato a Firenze da Wine Job.

Siccome in questo ultimo paio d’anni mi sono reso conto che ho la tendenza ad affrontare le tematiche di marketing sempre da un punto di partenza piuttosto avanzato, nel preparare le lezioni sono andato a riprendere gli appunti del primo corso di gestione del marketing che ho insegnato nel lontanissimo 1992 (24 anni fa! Brividi!).

La cosa è stata utile ed anche interessante: mi sono reso conto che in questi anni ho acquistato in esperienza, e forse, in profondità, ma ho perso in chiarezza e rigore.

Ad ogni modo le lezioni mi sembra siano andate bene (poi diranno gli allievi con la loro valutazione). Quindi ho fatto un salto sulla sedia quando oggi leggendo Marketing News ho trovato l’articolo dove l’emerito professor Schultz dichiarava sorpassato il modello STP, ovvero Segmenting, Targeting e Positioning.

Roba vecchia secondo lui, innanzitutto perché si tratta di concetti definiti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso (maledetti rottamatori, continuano a venir fuori dove meno te li aspetti).

Ohibò, mi sono detto, vuoi vedere che ho insegnato delle cose che valgono più? Proprio io, che mi sono inventato il concetto del Marketing Totale proprio per avere un quadro teorico per guidare la gestione di marketing nell’era digitale?

Poi ho continuato a leggere e mi sono reso conto che io ed il Prof. Schultz diciamo cose molto simili, solo che io continuo ad usare i vecchi termini (reintepretati) mentre lui ne usa di nuovi.

Poco importante in questo caso, mentre importa quello che diciamo. Ecco quindi quello che dico io (se volete leggere quello che dice lui iscrivetevi all’American Marketing Association, o almeno registratevi nel sito).

 

Il positioning oggi viene cronologicamente prima del segmenting e del targeting.

Il posizionamento di una marca era, è e rimarrà quello che la marca rappresenta nella testa delle persone.

Quello che è cambiato rispetto agli anni ’70 è che si è passati da un mercato in cui le marche andavano alla ricerca dei consumatori ad un mercato, oggi, in cui sono i consumatori a trovare le marche.

Allora la definizione del posizionamento da parte dell’azienda (operativamente la definizione del positioning statement) non si fa dopo positioning e targeting sulla base delle aspettative (presunte) dei mercati obiettivo, ma si fa PRIMA sulla base dell’identità aziendale.

L’autenticità infatti è cruciale per farsi trovare dalle persone nei posti e nei momenti giusti” ed ancor di più per soddisfare in modo credibile e quindi durevole.

Però, come mi ha chiesto uno studente, se il posizionamento reale è quello che dà il consumatore, perché parlo della necessità da parte dell’azienda di definire il proprio posizionamento come DEL pilastro su cui poggia tutta l’attività di marketing?

Perché l’obiettivo ideale, e quindi mai realizzato al 100%, è quello che la percezione della marca che abbiamo noi azienda che la marca la “facciamo” e quella che hanno le persone che la usano, corrispondano.

 

La segmentazione per essere efficace DEVE partire sempre dal comportamento delle persone, idealmente dai benefits (servizi) che cercano nell’uso dei prodotti.

Le persone consumano sempre servizi, più o meno incorporati in prodotti fisici.

Sono i desideri/bisogni che vogliono soddisfare a determinare i servizi che ricercano in un prodotto e quindi quali sono i prodotti concorrenti.

Dai benefici attesi deriveranno in larga misura le occasioni, le modalità, i livelli d’uso e l’atteggiamento nei confronti della marca/prodotto.

Sarà quindi il grado di omogeneità nei confronti di uno o più di questi parametri a costituire la base su cui definire un segmento.

Bisognerà poi vedere se oltre alla volontà di acquistare/consumare, i segmenti individuati posseggono anche la capacità, innanzitutto economica, di consumare. In altri termini se hanno una rilevanza economica sufficiente rispetto alla struttura ed agli obiettivi aziendali.

Se c’è questa rilevanza economica, per rendere operativo il segmento passando al targeting è necessario trovare i modi per accedervi in termini di comunicazione e/o vendita. E l’accessibilità di un segmento viene ancora determinata in buona parte dalle caratteristiche geografiche, demografiche e psicografiche delle persone che lo compongono.

 

Il targeting oggi riguarda principalmente i modi con cui ci si rivolge ai segmenti, mentre i contenuti (di fondo) sono legati all’identità della marca (e quindi al positioning a priori).

Il targeting è la globalità delle azioni con cui la marca si rivolge ai segmenti individuati. Per questo da un po’ di tempo io preferisco utilizzare il termine audiences invece di target markets

Il complesso di azioni riguarda tutto le attività del marketing mix: prodotto, prezzo, presenza (accezione che prende la P di Place nell’approccio del Marketing Totale) e percezione (accezione che prende la P di Promotion nell’approccio del Marketing Totale).

Non commettiamo ancora il classico errore di considerare marketing=comunicazione (o peggio ancora pubblicità).

Perché il targeting sia efficace, le strategie devono riuscire a far comprendere l’identità della marca alle audiences alle quali si vuole rivolgere.

La realizzazione delle strategie riguarderà quindi soprattutto le modalità verbali, visuali o reali con cui la marca si rivolge (o si fa trovare, è quasi la stessa cosa) alle audiences.

Viceversa riguarderà solo limitatamente i contenuti fondanti del concetto della marca. Al massimo potrà selezionare tra i diversi contenuti che la definiscono quali sono più interessanti / comprensibili per le diverse audiences.

Sempre avendo ben presente il rischio di incoerenza oppure di banalizzazione, che porta alla perdita di credibilità.

E’ per questo che le marche sono tanto più solide quanto più larga è la loro personalità.

 

Qui mi fermo perché il post è già abbastanza lungo e, soprattutto, è già abbastanza tardi. Se qualche concetto non vi è chiaro perché non è stato sviscerato abbastanza, cercate nel blog e troverete almeno un post specifico dedicato alla maggior parte degli argomenti di oggi.