Drink Prosecco and smile!

drinkproseccoandsmileHo fatto la maglietta.

Perchè il Prosecco non si attacca al lavoro del mio dentista. Quanto meno non più di tante altre altre bevande gassate, birra compresa (che personalente non mi piace).

Perchè il prosecco è l’archetipo di quelli che io chiamo i “vini del sorriso”, la mia personale terminologia per il concetto di “vinini” definito da Angelo Peretti.

Perchè quando una persona beve un sorso di Prosecco gli viene da sorridere di piacere spontanemamente, senza bisogno di pensare, concentrarsi, degustare, speculare. Anche se non è un esperto/appassionato. Senza dover fare un grande sacrificio economico per permetterselo.

Perchè il Prosecco in tutte le sue declinazioni, frizzante/spumante, DOC, DOC Treviso, DOC Trieste, Asolo Superiore DOCG, Conegliano Superiore DOCG, Valdobbiadene Superiore DOCG, è sempre in vino inclusivo, non esclusivo.

E io spero che rimanga sempre così.

Un grazie a Diego Illetterati ed all’agenzia AQUATTRO per la grafica della maglietta.

Il pericoloso paradosso del leader: seguire i propri followers.

presentazione iPhone X

L’argomento del post di oggi mi frullava per la testa da qualche settimana per almeno due ragioni:

-          È controintuitivo e quindi automaticamente interessante/rilevante.

-          Riguarda una situazione che ho vissuto, o rischiato di vivere, varie volte personalmente nel corso della mia attività professionale e quindi mi appare chiarissima.

Però per una questione di riservatezza e buon gusto non volevo citare le mie esperienze personali e quando ho cercato di trovare altri esempi semplicemente osservandoli dall’esterno, non ho trovato niente che mi convincesse. Tanto che sono arrivato a pensare che i “miei” casi fossero delle eccezioni e non indicatori di una regola (il che era strano, vista la loro numerosità).

Poi oggi sul “El Pais” ho letto un articolo che si intitolava “Apple, il leader che raggiunge i suoi inseguitori” e tutto mi è diventato più chiaro. A parte lo stupore che mi provoca sempre imbattermi in coincidenze tali da non poter credere che siano del tutto casuali, quello della tecnologia è un settore che nella mia osservazione avevo escluso a priori perché consideravo, sbagliando, che l’innovatività fosse legata alle competenze tecnologiche e non alla visione della gestione.

Il paradigma teorico del concetto è il seguente:

Mettiamo che voi sviluppiate una marca/prodotto con una promessa/proposta fortemente innovativa rispetto a quella attuale della categoria in cui si colloca. Una proposta con delle caratteristiche e valori che forniscono benefits (servizi) in grado di intercettare i bisogni e desideri delle persone tanto da allargare i confini e lo scopo che la categoria aveva in precedenza. Così tanto da arrivare perfino a creare una categoria, o sotto categoria, a sé.

Una marca prodotto che definisce un prima e un dopo della categoria/segmento di mercato e che grazie a questo ne diventa leader. Attenzione che l’innovazione non significa necessariamente modernità, ma può essere basata anche sulla affermazione della tradizione (esempio: Harley Davidson).

Man mano che aumenta la vostra quota di mercato, diminuirà quella dei concorrenti, di cui alcuni probabilmente spariranno.

Quelli che sopravvivono hanno sostanzialmente due opzioni strategiche:

-          Cambiare la propria proposta imitando quella del nuovo leader e diventando quindi dei “me-too” che competono sul prezzo

-          Migliorare la propria proposta agendo negli ambiti “classici” della categoria.

Attenzione quest’ultima scelta non è determinata dal fatto che gli ambiti “classici” siano preferiti dalle persone (consumatori) rispetto a quelli nuovi che avete portato/creato voi. E’ invece una scelta obbligata verso gli unici spazi che sono lasciati liberi dal leader.

Cosa succede normalmente nell’arco di un po’ di anni (diciamo da 5 a 10)?

La quota di mercato del leader comincia a venire leggermente erosa dai concorrenti. Perché si tratta di una cosa normale (che non significa inevitabile):

-          Perché se avete una quota di mercato che va dal 30% al 50% del totale, a chi volete che porti via vendite l’attività dei concorrenti?

-          Perché l’intuizione / visione che aveva creato lo spirito della vostra marca/prodotto tende ad affievolirsi nel tempo (e magari anche gli investimenti di marketing).

-          Perché cambiano le persone (consumatori) e voi non siete in grado di mantenere attuale la vostra promessa con lo spirito originario (vedi punto precedente).

-          Perché i concorrenti hanno comunque migliorato la loro proposta spinti dalla competizione con voi.

In questa situazione al leader si presentano sempre due tentazioni:

-          Ridurre il prezzo per fronteggiare la competizione degli imitatori.

-          Normalizzare la propria proposta verso i valori “classici” della categoria che stanno funzionando per i concorrenti.

Cadere nella prima significa ridurre la marginalità della marca/prodotto, e quindi nel tempo ridurre le risorse disponibili per alimentare le strategie che hanno creato la leadership.

Cadere nella seconda è ancora più pericoloso perché significa ridurre la differenza della proposta della marca/prodotto leader rispetto ai suoi inseguitori, e quindi nel tempo minare l’essenza stessa della proposta alla base della leadership. Ergo mettere a repentaglio la leadership.

A qualcuno suona famigliare? Spererei per voi di no, ma credo di sì.

L’esempio dell’iPhone è sorprendentemente paradigmatico.

Che sia stato il game changer che ha sostanzialmente creato la categoria “smartphone” è assodato. Come ricorda l’articolo de El Pais, l’ha fatto grazie ad un mix unico ed integrato di design, software e hardware che forniva alle persone un’esperienza (di utilizzo) che andava oltre l’immaginabile. L’ i-phone non faceva meglio quello che facevano già gli altri telefoni, lo faceva in modo diverso e grazie a questa visione ha cambiato i confini delle cose che si possono fare con un telefono.

L’articolo ricorda come Steve Jobs si fosse sempre negato a produrre un pennino per l’iPad, fedele all’idea originaria del dito come “periferica” più semplice ed imemdiata possibile.

Allo stesso modo si resisteva ad ingrandire lo schermo dell’iPhone, malgrado le tendenze di mercato premiassero i concorrenti che l’avevano fatto.

Egoisticamente e presuntuosamente Steve Jobs puntava più all’”empowerent” delle persone che a soddisfarne “semplicemente” i desideri. (anche) grazie a questa visione nel 2011 Apple presento Siri, un’innovazione concettuale prima che tecnologica che sarà poi imitata da tutti i concorrenti.

Poco importa se c’è gente (come me) che non ha mai usato né Siri né Cortana. Il punto è mantenere la visione che ha generato la leadership viva e focalizzata, all’interno dell’azienda ancor prima che sul mercato, in modo che sia in grado di rinnovarsi per mantenere coerentemente la propria distintività e prevalenza sui concorrenti.

Per farlo occorre forza morale ancora prima che economica.

C’è questa visione nell’iPhone X? Sepre citando l’articolo del “El Pais”, le sue principali novità sono versioni migliorate di tecnologie già presenti in telefoni dei concorrenti con sistema operativo Android.

Certo le prime impressioni sull’iPhone X sono molto positive, soprattutto ha colpito la qualità dello schermo che pare porti la tecnologia OLED ad un altro livello rispetto agli attuali concorrenti.

Quindi detto (un po’ provocatoriamente) in altro modo, l’iPhone X è forse il miglior smartphone Android mai realizzato?

Se il vostro obiettivo è soddisfare tutti i desideri dei vostri consumatori, come farete a sorprenderli superando le loro aspettative?

DEDICA

Il post di oggi è dedicato a mia nipote (fan della Apple) che domani comincia a studiare Economia e Management all’Università di Trento.

Il che mi ricorda la massima di Lupo Alberto in una delle cartoline regalatemi per la laurea: “Più studi più sai. Più sai più dimentichi. Più dimentichi meno sai. MA ALLORA CHI TE LO FA FARE?!!

Dopodichè ho studiato altri sei anni tra specializzazioni, master e dottorato.

In bocca al lupo Anna.

Il ruolo del positioning nel fondamentale equilibrio tra awareness e reputazione.

equilibrio balla

Nel mio posto del giugno 2016 “Sul web si crea la reputazione, non la conoscenza di marca” , ho pubblicato questa matrice, che sviluppai nel lontano 1993 quando mi dedicavo all’inquadramento teorico del marketing dei prodotti tipici a denominazione d’origine, senza spiegarla.

Credo però che meriti un approfondimento per l’utilità che ha il suo utilizzo nell’analisi della situazione della marca e nella definizione delle relative strategie.

Come esempio concreto prendo la recente campagna pubblicitaria del Buondì Motta, approfittando del fatto che la grande attenzione ricevuta rende i ragionamenti che seguono più facilmente comprensibili.

La campagna Buondì aveva l’obiettivo dichiarato di rilanciare una marca/prodotto un po’ appannata ed ha generato grande aumento della sua awareness (sicuramente a breve termine, sul medio è da vedere).

Però era proprio l’awareness il punto debole su cui bisognava intervenire? Dipende.

Se la marca si trovava nel quadrante buono, e quindi l’appannamento dipendeva dalla bassa awareness in presenza di una buona reputazione, evidentemente la strategia della campagna era quella giusta.

Se però l’appannamento della marca dipendeva da un basso livello sia di awareness che di reputazione, quadrante potenziale, investire sull’aumento di awareness sposta la marca nel quadrante pessimo (affossandola definitivamente).

Ovviamente la rappresentazione di confini netti tra i vari quadranti della matrice è una semplificazione per esprimere il concetto con maggior chiarezza. Nella realtà operativa lo spostamento delle marche sugli assi è un continuum.

Altrettanto è evidentemente che l’aumento di reputazione implica sempre un certo aumento di awareness, se non altro per il passaparola.

Attenzione però che non è vero il contrario, ossia ci può essere aumento di awareness senza aumento di reputazione. Oppure, ed è il caso peggiore, ci può essere un aumento di awareness innescato da un calo di reputazione, come nel caso di Carpisa di questi giorni.

Dal punto di vista delle strategie aziendali, quello che lega awareness e reputazione è il positioning, inteso come la definizione da parte dell’azienda di cosa la marca vuole rappresentare per la sua audience e le successive azioni messe in atto per realizzare questa rappresentazione sul mercato.

In altre parole dal punto di vista aziendale il positioning è l’insieme della definizione della reputazione che dovrebbe avere la marca della marca e le strategie realizzate per trasferirla sul mercato. Attenzione che il trasferimento del positioning non riguarda solamente la politiche di comunicazione (che non a caso io definisco di “percezione” nella mia visione del Marketing Totale), ma anche quelle di prodotto, prezzo e distribuzione (che io definisco “presenza” nella mia visione del Marketing Totale)

Nella matrice invece l’asse della reputazione rappresenta la reputazione effettiva della marca sul mercato.

Le due reputazioni, quella pianificata dall’azienda e quella percepita dal mercato, non corrispondono quasi mai per le distorsioni che il messaggio subisce nel processo di comunicazione tra l’emittente ed il ricevente. Anche se non siete degli esperti di teoria della comunicazione, semiotica, ecc.., basta che da bambini abbiate giocato una volta al telefono senza fili per sapere cosa intendo.

Più il positioning aziendale è chiaro, forte, preciso e dettagliato e meno distorsioni subirà nel trasferimento al mercato.

Qual’era la posizione della marca Buondì sulla matrice awareness-comunicazione prima della campagna pubblicitaria? Qual’ è il positioning che vuole comunicare? E’ definito chiaramente? E’ quello che viene trasmesso/recepito dalla campagna?

Vista tutta la discussione che ha generato nei media analogici, digitali e social credo che sarebbe una bella azione di content marketing se Buondì rendesse pubblici i risultati della campagna pubblicitaria in termini di variazione dell’awarness, reputazione e vendite.

Il marketing della controversia.

beach_body

Tipicamente e storicamente le marche evitano le controversie. Anche quando prendono posizioni su temi sociali lo fanno in termini positivi, PER qualcosa e non CONTRO qualcosa.

Più che pusillanimità è una questione di rispetto: chi sono io marca per giudicare i comportamenti delle persone?

Anche portando avanti i miei valori di marca, credo sia giusto lasciare a chiunque il diritto di scegliermi, ossia comprarmi (escluso ovviamente l’utilizzo illegale dei prodotti).

In sintesi è il concetto de “il cliente ha sempre ragione”, in parte anche quando non ce l’ha perché un po’ se la compra pagando il prezzo del prodotto/servizio.

Nell’era digitale però il rapporto tra marche e persone passa da essere un rapporto asimmetrico ad uno rapporto tra pari (personificazione delle marche e brandizzazione delle persone), creando uno spazio per l’utilizzo della controversia come strumento di marketing.

Un esempio eclatante è quello della campagna “Are you beach body ready” realizzata nel 2015 dall’azienda inglese Protein World.

La campagna ha scatenato a suo tempo una reazione di sdegno sia nel Regno unito che negli Stati Uniti, accusata di promuovere un’immagine falsa della bellezza femminile, un’immagine che colpevolizzava la normalità del fisico delle donne.

Praticamente l’opposto della campagna “Real buty” di Dove (mi tolgo il cappello davanti al copy che ha scritto il claim “Every body is beautiful”).

A fronte di questa polemica, che ha data alla campagna una visibilità amplissima, Protein World invece di ridimensionare la polemica, l’ha rilanciata definendo i critici come “pigri e deboli”, affermando che “(il Regno Unito) è una nazione che simpatizza per i grassi” e lanciando due ashtag: “#fitshaming” in contrapposizione a quello “#bodyshaming” lanciato dai suoi critici e “#GrowUpHarriet” in risposta ad una donna che aveva chiesto pubblicamente se poteva essere ammessa in spiaggia.

La cosa interessante è che la presa di posizione dell’azienda ha attivato la discussione tra chi si sentiva discriminato dal messaggio e chi invece condivideva l’esortazione ad avere un fisico più in forma (e quindi più sano?).

Attraverso la publicity generata dalla campagna, la marca ha quindi aumentato la sua conoscenza e guadagnato simpatizzanti, migliorando il proprio posizionamento nel target fitness/salutista.

La contrapposizione dei due concetti “fitshaming” vs. “bodyshaming”, al di là dei toni, era una discussione focalizzata, strutturata e costruttiva.

Giocare con il fuoco però è pericoloso per definizione e Protein World ha cominciato a bruciarsi quando tra i propri supporter nella discussione sono entrati il Daily Mail e Breitbart ed altri opinion leaders conservatori (per usare un eufemismo), che hanno spostato il focus dal “fitness” al “politicamente corretto” e coinvolto i propri seguaci nella discussione.

Dopo una settimana nella discussione si è arrivati alle minacce di violenza sessuale e Protein World ha lasciato cadere l’ashtag “#GrowUpHarriet”.

A completamento della storia va ricordato che al termine delle 3 settimane di affissione nella metropolitana di Londra, la campagna è stata proibita dall’autodisciplina della pubblicità inglese perché potenzialmente ingannevole rispetto al messaggio di perdita di peso grazie all’utilizzo dei prodotti Protein World.

Se adesso andate sul sito della Protein World o sui suoi profili twitter ed Instagram, non trovate nessun riferimento a “Are you beach body ready”, ma su twitter ci sono ancora oggi post relativi alla campagna ed è un riferimento, negativo quando si discute degli stereotipi di genere nella pubblicità, ma anche positivo in ambito fitness.

Un esempio ancor più interessante, perché ruspante, di gestione attiva delle critiche viene dalla responsabile della pensione “La Ferroviaria” di Saragozza (Spagna), che offre stanze a 15-20 euro a persona a notte.

Milagros Aguirre, la signora responsabile della pensione, risponde a tutti i commenti relativi alla pensione su booking perché ritiene che tutti i clienti meritino una risposta.

Di seguito quelle che si è meritato qualcuno:

Commento: “positivo il parking gratuito; negativo: dormire da solo”

Risposta: “Ok, la prossima volta invitiamo a quelli di “Apriti Sesamo” così non ti senti solo o meglio ancora andiamo allo stadio ed annunciamo per il megafono che ti senti solo, sicuro che ti cantano qualche coro degli ultras. Bye.”

Commento: “positivo: il personale; negativo: le pareti sono troppo sottili”.

Risposta: “Caro Tizio, lamentarsi per lamentarsi non ha senso, per il resto una pensione non ha l’obbligo di insonorizzare niente, la prossima volta il convento delle Carmelitane Scalze ti darà la pace necessaria, amen. Grazie”

Commento: “positivo: ottima posizione; negativo: il personale è sgradevole e maleducato. Non hanno voluto darmi un altro asciugamano per il viso malgrado la doccia sia separata dal bagno.”

Risposta: “Mi aspettavo questo commento. Se per 25 eurini vuoi portarti il tuo amichetto, meglio che lo lasci a casa tua e lo tieni nascosto. Se per non poter fare quello che vuoi siamo maleducati e sgradevoli. In più enti ed esageri, ma noi continuiamo ad essere affabili”

Qui mi fermo, ma nell’articolo de “El Pais” ne trovate molti altri

Da notare che la signora Aguirre risponde anche a molti commenti su tripadvisor, ma non a tutti perché qui può mettere i commenti anche chi non è stato alla pensione e la cosa le sembra veramente orribile (concordo).

Sicuramente con questi commenti La Ferroviaria ha perso alcuni clienti (immagino con piacere) ma probabilmente ne ha guadagnati altri (ha molti fan su twitter pur non avendo un account). Soprattutto ha trattato tutti i clienti con coerenza e soprattutto ha comunicato/chiarito/difeso quella che è la sua proposta/promessa.

Come sempre nell’era digitale sono l’autenticità e l’onestà che fanno la differenza.

“Advertising is not dead”, cosa ho visto e sentito al workshop organizzato lo scorso 4 luglio a Padova dalle agenzie AQUATTRO e sitebysite. Terza (e ultima) puntata: la creatività è una questione di metodo.

“La creatività è una questione di metodo” era il titolo della relazione di Diego Illetterati, Direttore dell’agenzia di pubblicità  e comunicazione Aquattro (con cui collaboro, disclaimer).

Affermazione provocatoria per sua stessa ammissione e per comune sentire. Io direi sorprendentemente provocatoria, considerando che (quasi) tutti conoscono la frase di Edison “Il genio è 1% ispirazione e 99% traspirazione” (io aggiungerei anche una certa dose di inspirazione perchè ci vuole pazienza…), Hemigway (per citarne uno) sottolineava la necessità  di scrivere tutti i giorni ed un lungo eccetera di evidenze da parte di artisti che si sono dedicati alla creatività  “pura”.

Figuriamoci quindi se la necessità  del metodo non si ritrovi anche nell’ attività  di pubblicità  e comunicazione, che si dedica alla creatività  “applicata” (la terminologia ed il significato di “creatività  pura” e “creatività  applicata” è mutuato da quello di “scienze pure” e “scienze applicate”).

Ciononostante la richiesta di un metodo e di una organizzazione nello sviluppo di strategie di comunicazione viene visto come limitativo rispetto alla bellezza (mitizzata) dell’intuizione. Taglio la testa al toro della discussione con un’altra citazione, stavolta di David Ogilvy (uno dei padri fondatori della pubblicità ): if it doesn’t sell, it isn’t creative

A supporto della sua affermazione Diego Illetterati ha portato l’esempio di una banale (questa volta ad essere provocatorio sono io) campagna di successo sviluppata recentemente dalla sua agenzia: la campagna per i climatizzatori Fujitsu.

Banalmente per impostare la strategia di comunicazione hanno fatto una ricerca di mercato con la quale hanno identificato che il plus dei climatizzatori Fujitsu è di essere considerati più affidabili e resistenti negli anni rispetto ai concorrenti.

Il trattamento creativo di questa informazione ha portato al claim/positioning/headline (chiamatelo come volete) “Più forti nel tempo”. Promessa sostanziata da una garanzia di 6 anni sui prodotti.

Poi banalmente hanno condiviso con il cliente l’obiettivo della campagna nella notorietà  di marca. Non aumento di vendite, non amento di marginalità , non aumento di numerica, non aumento di rotazioni. Notorietà  di marca. Confesso che io preferisco una definizione degli obiettivi gerarchizzata (questa la spiego un’altra volta), ma comunque apprezzo la focalizzazione.

Di conseguenza hanno scelto un testimone, raggiungendo il picco di banalità  identificando Franco Baresi come un ottimo esempio di affidabilità  e resistenza.

La pianificazione dei media è stata così banale da utilizzare il web in modo marginale, concentrandosi invece su quotidiani ed affissione nelle stazioni ferroviarie.

Qui permettetemi una digressione sull’utilizzo dell’affissione. Secondo me per molto tempo è stato un mezzo snobbato dai centri media per la difficoltà  di misurarlo/stimarlo in termini di GRP confrontabili con gli altri mezzi (TV, radio, stampa) e dalla difficolta (impossibilità) di dirigere il messaggio ad un segmento specifico di persone. E’ una visione che io non ho mai condiviso le cose esistono indipendentemente dalla nostra capacità  di misurarle ed il fatto di esporre alla mia comunicazione un segmento più ampio di popolazione non è un problema se il costo-contatto nel mio target principale è corretto. Detto in altre parole, per gli stessi soldi ottengo di più, raggiungendo anche un target allargato. In realtà  il problema vero dell’affissione è che era costosa quando si basava esclusivamente su materiali analogici (leggi manifesti). Non so se adesso con l’utilizzo di materiali digitali (schermi) sia diventata più economica, ma lo dubito. Anche perché nei contesti di maggior impatto e negli spazi aperti i manifesti sono ancora preponderanti (quando non imprescindibili). Sono però sicuro di una cosa: con l’aumento del “nomadismo locale“ sarà  un mezzo sempre più efficace ed impattante.

Tornando alla banalità  della strategia di comunicazione di Aquattro per Fujitsu, questa ha riguardato anche la forza vendite (quanto ci vorrà  perchè le forze vendite vengano rese superflue dal web?) con materiali ed attività  di comunicazione dedicati e perfino il trade, con materiali punto vendita e la possibilità  di personalizzare il “codino” degli spot radiofonici trasmessi sulle emittenti locali.

Banalmente i risultati della campagna sono stati superiori agli obiettivi non solo in termini di notorietà , ma anche di vendite perchè, evidentemente, le due cose sono collegate (ecco la ragione per cui a me piace definire la gerarchia degli obiettivi, identificandone le relazioni).

Da travet del marketing concludo con il motto che si trova sulla mia carta intestata:

Il marketing di successo è fatto di strategie nate dall’immaginazione più sfrenata, realizzate con disciplina maniacale.

Ci rivediamo a settembre, fate delle ottime vacanze.

“Advertising is not dead”, cosa ho visto e sentito al workshop organizzato lo scorso 4 luglio a Padova dalle agenzie AQUATTRO e sitebysite. Seconda puntata: la relazione dell’agenzia digital sitebysite.

“Nessuno siamo perfetti, ciascuno abbiamo i suoi difetti” era il titolo del primo album di Andrea Mingardi, uscito nel 1974. Uno dei miei vizi, o vezzi, nell’ambito del marketing è di affibbiare la qualifica “tecnicismi” ad una serie di attività operative.

Cosciente che è un aggettivo spesso eccessivamente tranchant, lo utilizzo per compensare il rischio di un’eccessiva attenzione agli strumenti, sottovalutando l’importanza della strategia.

Una delle tipiche questioni che liquido come “tecnicismo” è la differenza/contrapposizione tra gli strumenti di marketing analogici e quelli digitali.

Si tratta però sicuramente di una delle questioni dove la tecnica ha un peso rilevante, date le potenzialità e la complessità del web marketing.

Un’idea dell’una e delle altre la dà un estratto dell’interessante articolo dello sviluppo del turismo portoghese grazie ad una strategia di Turismo de Portugal centrata sul web pubblicato recentemente su l’Internazionale:

“Così l’ente ha cominciato a monitorare tutte le ricerche degli stranieri sul Portogallo partendo dall’ip dei loro computer. “Sapevamo quando qualcuno stava per decidere dove andare in vacanza, perché la frequenza delle visite ai siti è diversa rispetto alla fase preliminare della ricerca. A 48-72 ore dalla scelta riuscivamo a inviare un messaggio più incisivo. Per esempio, facevamo in modo che una svedese di 35 anni appassionata di golf trovasse su facebook e nei siti che stava consultando immagini fantastiche di donne che giocano a golf in Portogallo. Questo può fare la differenza.”

Vorrei portare la vostra attenzione su due parole di questo estratto: TUTTE riferito alle ricerche web monitorate per individuare i comportamenti delle persone durante i loro percorsi di acquisto ed UNA per indicare il livello di targetizzazione del messaggio.

Sarà perché io non sono un tecnico di queste cose, ma a me queste due parole trasmettono una grande complessità operativa.

Da qui l’interesse con cui ho seguito la presentazione di sitebysite sull’attività sviluppata con e per “Cuoieria Fiorentina”.

La cosa forse più significativa è stata l’ultima diapositiva che presentava i risultati ottenuti, non tanto per i risultati in sé (stupefacente la crescita di visite al sito del 155% puntando sulla ricerca organica su Google), quanto perché il confronto era tra il primo semestre 2017 ed il primo semestre 2014.

Diapositiva1In un momento in cui l’orizzonte di lungo periodo su cui le aziende valutano i risultati di un’attività sembra siano diventati i sei mesi, anche a causa della velocità del digitale, fa piacere vedere che c’è chi si ricorda come una strategia che punta a modificare strutturalmente la conoscenza e la percezione della marca richieda anni per portare i suoi frutti.

Nel definire il percorso di acquisto sitebysite propone (e utilizza) un modello “ad imbuto” (funnel) che passa attraverso 4 stadi: Awareness-Consideration-Intent-Decision. Mi sembra parecchio simile, semantica a parte, al classico AIDA: Attention-Interest-Desire-Action. A voi la scelta di quello che vi piace di più.

In realtà alcuni anni fa per gli acquisti on line è stato formulato un altro modello: Informarsi-Confrontare-Scegliere che contesta la linearità degli approcci ad imbuto rispetto ad una circolarità nei comportamenti di acquisto on line, con le persone che possono andare avanti e indietro tra le diverse fasi per verificare la bontà delle proprie scelte/valutazioni.

Io, che continuo ad essere un sostenitore del modello AIDA, non mi sono mai preoccupato della sua unidirezionalità o meno quanto della correttezza della sequenza logica delle diverse fasi: non si può suscitare l’attenzione se prima non si è ottenuta l’attenzione, non può sorgere desiderio senza che prima ci sia stato interesse e non ci può essere azione se non sotto la spinta del desiderio. Questi indipendentemente da quante volte le persone tornino sui loro passi prima di chiudere una delle fasi, anche perché è molto probabile che le fasi non si chiudano mai e che il successo invece sia conseguenza dell’attivazione e mantenimento di un ciclo continuo.

Sitebysite ha proposto anche uno schema che suddivise l’utilizzo dei vari strumenti digitali nelle varie fasi del percorso d’acquisto. Si sa che io non sono amico dei modelli direttivi / deterministici perché credo limitino la capacità di rispondere adeguatamente a situazioni diverse per le caratteristiche della marca, del mercato, ecc… Inoltre non è che con la vendita (on-line) ad un determinato consumatore l’azienda smetta di operare nei confronti di quella persona, oppure di altre.

Nondimeno lo schema può essere utile per orientarsi nella vera giungla delle possibilità offerte dal marketing digitale.

Diapositiva1Alla fine l’opinione che mi sono fatto è di dimenticare la distinzione tra on-line ed off line dal punto di vista strategico, perché le persone visitano un sito come una show room aziendale, leggono un blog come un giornale e vanno in un e-shop come in un negozio fisico (e viceversa ovviamente).

Dopodichè studiare il favoloso mondo del marketing digitale in modo da poter interloquire con i professionisti indispensabili per realizzare con successo le strategie di cui sopra.

“Advertising is not dead”, cosa ho visto e sentito al workshop organizzato lo scorso 4 luglio a Padova dalle agenzie AQUATTRO e sitebysite. Prima puntata: la relazione del centro media phd.

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Il 4 luglio scorso presso la sede padovana dell’agenzia di pubblicità AQUATTRO, con cui collaboro, è stato organizzato il workshop dal titolo “Advertising is not dead”, titolo coraggioso visto dal lato delle agenzie che negli ultimi 10 anni hanno visto ridursi drasticamente sia budget investiti che i compensi.

Un po’ più ovvio visto dal lato del consumatore, che si trova sempre più perseguitato dai messaggi delle marche (basta pensare al re-marketing).

In linea generale su quello che è stato detto al seminario ho emozioni contrastanti che oscillano tra “meno male che si sta prendendo coscienza che il mondo è cambiato e come” e “Dio mio davvero tra professionisti abbiamo ancora bisogno di sottolineare l’importanza e la diffusione raggiunta che i media digitali (ad esempio)?”

Da vecchio marxista lato Groucho, mi è spesso venuta in mente la battuta “Questo lo capirebbe anche un bambino di 5 anni” – “Presto vammi a cercare un bambino di 5 anni perché non ci capisco nulla.

Ho trovato anche parecchie conferme a concetti, visioni e previsioni espresse su questo blog, e questo comunque rassicura dal sentirsi troppo alieno rispetto al proprio intorno (sarà che coltivo il fanciullino di 5 anni che è in me).

Ecco di seguito la mia sintesi, le presentazioni integrali dei relatori le trovate qui  (ma perché le relazioni erano disponibili solo una settimana dopo il seminario e non subito?)

Il primo intervento (no, non lo chiamo speech) è stato quello di Paola Aureli ed Umberto Mannucci del centro media phd Italy.

In apertura dell’intervento Paola Aureli ha sottolineato come l’acquisto dei mezzi, in passato attività ragionieristica, possa e debba diventare un’attività creativa. Qui mi sono trattenuto dal fare 10 minuti di applausi visto che ho sempre cercato di lavorare con agenzie che avessero l’ufficio media interno, per avere appunto il massimo coordinamento tra account, creativi ed acquisto media, e quando non è stato più possibile perché tutte le agenzie hanno esternalizzato pianificazione ed acquisto media a centri media esterni, ho sempre voluto che il centro media fosse coinvolto almeno in una riunione creativa.

Non solo, ho sempre contestato l’impostazione dei centri media di comprare i GRP (gross rating point) un tanto al kg, a qualunque ora del giorno e della notte, su qualunque emittente e su qualsiasi programma. Motivo per cui sono sempre entrato nell’affinamento della pianificazione, sia come spazi che come prezzi.

Sinceramente non ho mai creduto che l’ascesa dei centri media fosse dovuta all’aumento di complessità del mercato, sostanzialmente l’entrata nell’offerta dei mezzi della televisioni e radio private nazionali, quanto dal potere contrattuale di questi centri media che, hai tempi belli, sviluppavano il 50% del proprio fatturato con le commissioni applicate ai clienti e l’altro 50% con i diritti di intermediazione ricevuti dalle concessionarie dei mezzi (ossia dai soggetti con cui dovevano trattare i prezzi per conto dei clienti).

Un sistema, eticamente discutibile, che non esiste più, costringendo quindi anche i centri media a dare maggiore importanza agli aspetti qualitativi del loro lavoro/ruolo.

All’inizio della presentazione di phd trovate una seria di dati che inquadrano il contesto in cui si muove la pubblicità in Italia:

-          In termini di andamento del PIL siamo tra i paesi messi peggio in Europa.

-          Il totale del mercato pubblicitario nel 2016 è stato di 7,7 miliardi di euro, in crescita del 2,5% rispetto al 2015, ma ancora distante dai 10,5 miliardi del 2007. Aggiungo che l’Italia è un paese con una propensione relativamente bassa ad investire in pubblicità visto che il mercato pubblicitario italiano decimo è solo il decimo al mondo, dietro a paesi come Canada Brasile ed Australia (Fonte: elaborazione DataMediaHub su dati IDC).

-          In termini di fruizione la televisione assorbe ancora il 50% degli investimenti, seguita dal web nelle sue varie forme al 26%, stampa al 13,5%, affissione al 5,5%, radio al 4,8% e cinema con lo 0,3%

-          La TV sembra stabilizzarsi in termini di audience complessiva, ma si è frammentata con l’esplosione delle varie “testate” presenti nella TV satellitare.

-          E’ cambiata quindi anche la fruizione con, ad esempio, “The Young Pope” i cui episodi della prima serie è stato visto in differita da una quota di spettatori oscillante tra il 54% ed il 65%. Basta che pensiate a come guardate la televisione voi, per non essere molto stupiti del dato.

-          Il digitale è importante perché: il 42,7% degli italiani si collega on line nel giorno medio, la copertura di internet supera quella della TV nella fascia di popolazione 18-34 anni, in cui prevale il collegamento (anche esclusivo) da smartphone e/o tablet, l’89% del tempo passato sul web da smartphone è attraverso app, è c’è la tendenza ad essere sempre connessi (always on). Nell presentazione non si fa riferimento al fenomeno del secondo e/o terzo schermo, ma mi pare se ne sia parlato. Ad ogni modo la ricordo io perché sempre più importante nella pianificazione creativa dei mezzi: si tratta dell’utilizzare smartphone e/o tablet in contemporanea alla visione del programma TV per approfondire i contenuti del programma, interagire con il programma (anche in maniera un po’ più ricca, ergo coinvolgente, dei semplici commenti via twitter), ma anche fare i fatti propri.

Secondo l’analisi di phd questo contesto porta alla necessità di una pianificazione strategica per percorrere (o far percorrere) con maggior efficacia il percorso che porta le persone all’acquisto (io direi meglio all’azione, perché non è detto che l’obiettivo di una campagna di comunicazione debba essere sempre e direttamente l’acquisto).

Ergo è necessario sviluppare un contenuto impattante, diffonderlo con un modello di distribuzione efficace grazie all’affinità ed all’empatia, con un piano di amplificazione ben orchestrato che ne faciliti la viralità, per fare questo ci vuole un brand/cliente coraggioso che sia disposto ad affrontare una certa dose di ignoto.

Qui confesso che sono un po’ perplesso, nel senso che, come spesso mi è successo lavorando con le agenzie di comunicazione, stiamo camminando sullo scivoloso terreno della tautologia (una volta il gruppo di account di una grande agenzia a cui esprimevo le mie perplessità per le basi strategiche della campagna che avevano presentato mi ha rassicurato dicendomi che in realtà eravamo assolutamente allineati solo che la lingua italiana non aveva le parole per esprimere effettivamente quello che l’agenzia aveva pensato. Io al momento non potevo avere alternative, la campagna è stata abbastanza scadente nel raggiungimento dei risultati previsti e poi ho cambiato agenzia).

Interessante comunque l’enfasi sull’importanza dell’impatto perché nella definizione del GRP che ho studiato nel 1989 sul Kotler c’era scritto che GRP= Reach (audience raggiunta) x Frequency (numero di volte in cui viene esposta alla campagna) x Impact (impatto). Quando ho commissionato la pianificazione della mia prima campagna TV nel 1995 ed ho chiesto perché non c’era alcuna indicazione/valutazione dell’impatto, l’agenzia mi ha risposto che un GRP (calcolato RxF) è una misura assoluta, ossia “un GRP è un GRP”. “Allora perché il costo di unitario del GRP in TV in prima serata è più alto di quello notturno?”

Phd indica una serie di elementi che determinano l’impatto di un branded content e sono d’accordo che dipende dall’equilibrio di molti fattori, meno sul fatto che ci possa essere una ricetta e sicuramente uno dei fattori chiave è l’AUTENCITA’, che phd non cita, anche se cita la “coerenza”. Poi c’è la questione della nebulosità del confine tra branded content e pubblicità per raggiungere gli obiettivi di comunicazione stabiliti, nel senso che la pubblicità è in un certo senso la massima espressione del branded content, se la amrca è chiaramente riconoscibile e memorabile (sembrerà strano, ma non sempre è così) ed il contenuto è chiaro e rilevante. Ma sono cose di cui ho già scritto e quindi non mi dilungo oltre.

L’empatia e l’affinità sono altre due cose che sembrerebbero ovvie, ma non lo sono visto che quando ho chiesto di pianificare la pubblicità di un marchio di vino all’interno della trasmissione radiofonica “Decanter” ho scoperto che non esisteva nemmeno un listino perché normalmente dopo le 20:00 sulle Radio Rai non si faceva pubblicità. Eppure questo è l’oggi. Per il futuro ci sono già esempi di campagne di comunicazione digitali basate sul conflitto più che sul normale approccio di inclusione che tende a smussare gli angoli.

Sulla viralità e sulla conseguente necessità di avere un cliente coraggioso, sono al tempo stesso in accordo ed in disaccordo. Sono d’accordo perché spesso mi sono trovato a stimolare l’agenzia di comunicazione a esplorare percorsi diversi ed a dover “lottare” all’interno dell’azienda per far passare strategie eterodosse (nel 2003 ad esempio non mi hanno lasciato fare un test per una campagna che utilizzava i messaggini inviati via cellulare, niente smartphone né app ai tempi).

Sono in disaccordo perché non credo ci sia una ricetta per garantire il successo virale dei contenuti, come non c’è per garantire la creazione di un tormentone pubblicitario, ed alla fine il cerino rimane sempre in mano a me cliente. Quindi è vero che le aziende italiane tendono ad essere conformiste (normale, visto il conformismo della società), ma anche le agenzie hanno fatto poco per portare i clienti su questa strada. Ogni volta che io proponevo di esplorare stili, metodi e mezzi di comunicazione alternativi, le risposte erano sempre vaghe e le valutazioni negative. I tempi non erano maturi o quei mezzi non generavano abbastanza profitto per i centri media?

Concludo con le interessanti case history riportate da phd riguardanti IKEA in Germania, Lidl in Svezia, Coop Italia e Girella Motta.

Vi lascio alla presentazione per i dettagli. Io voglio solo sottolineare che si tratta di attività di comunicazione più che di pubblicità. Ed è giusto così perché, da mò, dovendoci finalmente preoccupare dei contenuti che creiamo, siamo tutti nel business dell’editoria, indipendentemente dal settore merceologico in cui operiamo.

 

P.S. Giustamente il mio amico Federico mi segnala che spesso nei miei post ci sono errori di ortografia che stonano con la qualità dei contenuti. Lui ha ragione, ma questi post sono scritti principalmente la domenica sera e quindi confesso che non ho né il tempo né la voglia di rileggerli. Mi rimetto al buon cuore dei lettori.

Dalla raccolta alla cura dei contenuti, ovvero come le marche dovrebbero parlare meno e pensare di più.

Knowledge speaks wisdom listens

Per stimolarmi ed indirizzarmi nella realizzazione di questo blog un amico mi regalò il libro “blog” di D. Kline e D. Burstein (prefazione di Beppe Grillo!). Adesso sembra parecchio strano leggere un libro per imparare a scrivere un blog, ma era il 2006.

Che le abbia lette lì oppure da qualche altra parte, sinceramente non ricordo, ci sono due regole auree che ho cercato di seguire in questi oltre 10 anni di blogging:

1)      scrivi solo quando senti di aver qualcosa da dire.

2)      Scrivi regolarmente (e possibilmente con una cadenza precisa).

L’implicazione di queste due regole è di sentire regolarmente di aver qualcosa da dire. Non succede sempre e questa è la ragione principale per cui ogni tanto salto la mia scadenza di pubblicazione domenicale (che poi in teoria non è considerato un giorno particolarmente buono per pubblicare posts).

Sono regole che credo valgano per tutti, persone fisiche, fittizie e marche, e idealmente per tutte qualsiasi testata (poi è ovvio che se avete un quotidiano da far uscire tutti i giorni entrano in gioco anche altri fattori, ma non sono qui oggi per parlare di editoria).

Ecco perché sono convinto che le marche sui social tendenzialmente parlino troppo.

La necessità della frequenza nella comunicazione sui facebook, twitter, instagram, ecc… che sottolineerà, giustamente, ogni esperto/consulente/agenzia porta spesso a pubblicare “qualcosa”, malgrado non ci sia davvero niente da dire.

Un’altra regola rispetto al web/social che ho sempre cercato di seguire in azienda è quella di considerarli principalmente un canale di ascolto e solo secondariamente un mezzo per far parlare la marca/azienda.

Probabilmente per questo sono sempre stato convinto dell’opportunità che la content curation rappresenta per la comunicazione social delle aziende/marche: selezionando i contenuti che ho “ascoltato”, cosa che farei comunque per mantenermi informato su quello che succede, riesco sempre ad avere regolarmente qualcosa di rilevante da dire.

Dove “rilevante” nasce dal punto di vista definito dal mio posizionamento/identità/personalità dell’azienda/marca prima ancora che dagli interessi dei segmenti-obiettivo. Ergo, se non avete definito il vostro posizionamento/identità/personalità, o l’avete definito male, avete un problema.

Sarà per tutto quanto ho esposto sopra che ho trovato particolarmente interessante l’articolo di David Krejicek “From Data Collection to Curation” pubblicato sul numero di aprile/maggio della rivista “Marketing News” dell’American Marketing Association”?

Oppure è perché oggi ero a corto di idee e quindi mi dedico al data curation?

Comunque sia, ecco cosa ha scritto Krajicek, sintetizzato e mescolato alle mie considerazioni.

 

Definisci l’obiettivo dall’inizio.

Sembra ovvio, però è dal 1989 che lo sento ripetere nei vari corsi/articoli/seminari di marketing (strategico) e nella pratica aziendale vedo realizzare progetti e attività partendo da obiettivi vaghi, quando non assenti.

Come sempre parlando di obiettivi, quanto più specifici e dettagliati, tanto meglio.

In questo modo sarà più facile separare le informazioni veramente utili da quelle semplicemente disponibili. L’opportunismo va bene, a non deve essere il principio guida altrimenti le informazioni estranee agli obiettivi, ma disponibili, creeranno un rumore di fondo che rende meno fruibile ed interessante il contenuto.

 

Adottate un punto di vista ampio partendo dal vostro posizionamento (in moda da mantenere la coerenza).

Non selezionate i contenuti basandovi sul settore in cui operate, ma piuttosto in base al posizionamento ossia a quello che l’azienda/marca vuole rappresentare nella mente delle persone.

Se penso ad esempio al #realbeauty di Dove, nella selezione di contenuti non mi limiterei semplicemente alla vera bellezza di persone vere opposte alla bellezza “irreale” proposta dal sistema della moda, ma coinvolgerei la bellezza reale in tutti i suoi ambiti ed espressioni (graffiti di strada, gesti e chi più ne ha più ne metta, creativamente parlando c’è solo l’imbarazzo della scelta).

Questo indipendentemente dal fatto che la creazione di contenuti realizzata da Dove focalizzata sulla bellezza vera di donne vere sia abbondantemente efficace, perché quanto più una marca è capace di trascendere dal suo nocciolo senza perdere la propria essenza e tanto più diventerà forte.

Per inciso, ahimè, non ho nessun rapporto professionale con Dove.

 

Siate direttivi, non dogmatici.

La selezione di contenuti è sempre legata a degli obiettivi e ad una visione che creano il valore aggiunto grazie ai quali il totale della cura dei contenuti è più della somma delle parti. Se però vogliamo che la cura dei contenuti sia uno strumento di dialogo dobbiamo essere onestamente aperti e quindi eliminare il più possibile i preconcetti. Detto in altre parole non evitare di selezionare contenuti rilevanti solo perché non sono allineati con la nostra visione.

 

Siate aggiuntivi non duplicativi.

Aggiungete considerazioni ai contenuti selezionati, collegateli tra di loro secondo i vostri obiettivi e la vostra visione. E’ questo che vi fa passare dalla raccolta di contenuti alla selezione, con il relativo auemnto di valore aggiunto.

 

Siate di una trasparenza cristallina.

Nei principi e negli scopi che vi guidano, nel perché delle scelte, nelle fonti da cui attingete (e magari fate un po’ più di fact checking di quello che fanno normalmente i giornali italiani), nel citare e dare credito dei contenuti a chi li ha prodotti.

 

Siate agnostici.

I contenuti coerenti/rilevanti/interessanti rispetto ai vostri obiettivi ed alla vostra visione possono trovarsi ovunque. Tenete occhi e orecchie aperte senza avere (troppe) idee predeterminate sull’origine dei contenuti; state ai fatti.

 

L’atto di selezione implica sempre un atto di comunicazione.

Questo mi sembra talmente ovvio che se provo a spiegarlo sicuro che mi ingarbuglio. Quindi lo lascio così.

 

N.d.A.: rileggendo l’articolo di Krajicek per scrivere questo post mi sono reso conto che trattava la cura dei dati e non dei contenuti (non a caso è Chief Commercial Officer di GfK Consumer Experience. Quindi il contenuto del post è principalmente farina del mio sacco e poco citazione/traduzione di quanto ha scritto lui. Quello che ho mantenuto integralmente uguale all’articolo originale sono i titoli dei paragrafi, a dimostrazione che i principi della curation vs. collection sono simili, che si tratti di dati o di contenuti.  

Raccontare le aziende del Vino: lo Storytelling Digitale e Personale.

Il 30 giugno a Firenze presso lo IED si terrà questo seminario organizzato da WineJob, società di ricerca e formazione del personale che, tra le altre cose, organizza il Corso di Alta Specializzazione in Marketing Internazionale del Vino in cui ho insegnato nelle ultime due edizioni.

Io non riesco ad andare perchè torno dall’estero pochi giorni prima ed ho già degli appuntamenti a Milano, però potessi ci andrei.

Voi che potete andateci e poi mi raccontate

 

Quanto vale un fan su Facebook?

Syncapse-Value_of_a_Fan_Report_2013-Average-SpendPoco, secondo un articolo pubblicato sul numero aprile/maggio 2017 di Marketing News.

La ricerca ha analizzato (qui trovate l’articolo originale, e qui la ricerca da cui è tratto) i cambiamenti del comportamento dei consumatori sia diretti (chi diventa fan di una pagina) che indiretti (gli “amici” di chi diventa fan di una pagina).

Il risultato è che non ci sono cambiamenti nel comportamento d’acquisto di chi diventa fan, mette like, ecc… Queste azioni sono semplicemente il sintomo di un preesistente rapporto/attaccamento/propensione (fondness nell’originale inglese) verso la marca.

L’idea affascinante, e se vogliamo logica, per cui avere nuovi seguaci sui social media si traduca in risultati di marketing quali aumento delle vendite e/o dei clienti e/o dell’atteggiamento nei confronti della marca della marca non trova alcun supporto concreto. Né nella ricerca in questione, né in un’altra che ha coinvolto i Direttori Marketing (CMO) delle 500 maggiori aziende USA secondo la rivista Fortune (le cosiddette Fortune 500): l’87% degli intervistati non aveva evidenza documentabile che la loro attività sui social media portasse a nuovi consumatori.

La conseguenza, secondo l’autrice dell’articolo di Marketing News (nonchè co-autrice della ricerca originaria), è che vanno riletti gli studi che collegano positivamente i comportamenti digitali con quelli di acquisto dei marchi (come ad esempio il grafico in apertura di questo post).

L’articolo cita l’esempio di uno studio di Starbucks che rilevava come i fan della pagina facebook della marca fossero dei clienti più frequenti e con una spesa media più alta rispetto ai non-fan.

Tesi sostenuta sostanzialmente anche da Martina Masullo su Ninjamarketing in base ad una ricerca condotta dalla piattaforma Sprout Social (mi permetto di segnalare che 1.000 casi NON è un campione “non molto ampio” dal punto di vista dell’errore campionario).

In queste interpretazioni dei comportamenti delle persone c’è un problema di confusione tra causa ed effetto poichè seguire una marca sui social ed esserne un consumatore fedele sono due fenomeni autocorrelati: entrambi indicano una predisposizione positiva nei confronti della marca.

La correlazione che sitrova nei dati quindi NON è espressione di un legame di dipendenza dei comportamenti di acquisto delle persone dall’essere o meno seguaci di un marca sui social.

Personalmente non saprei se il concetto è intuitivo o controintuitivo, ma direi che il grafico riportante  le ragioni per cui le persone seguono una marca sui social media riportato dal post su Ninjamarketing sembra confermare che le persone seguono marchi con cui hanno già un rapporto di familiarità/interesse.

Considerato l’ammontare degli investimenti che le marche destinando alla gestione della propria presenza sui social media (advertising, content marketing, ecc…)  la domanda cruciale è quanta CAUSALITA’ (leggete bene, mi raccomando) c’è tra seguire una marca sui social ed i comportamenti off-line delle persone?

Se questa causalità non esiste, oppure è limitata, dovrebbero essere limitate le risorse destinate ad acquisire nuovi seguaci (follower per parlare come quelli veri) perché sarebbe irrealistico pensare di migliorare le vendite attraverso questa strategia.

I social media sarebbero quindi principalmente un mezzo da utilizzare per permettere ai nostri migliori consumatori/clienti di trovarci.

Fin qui il riassunto dell’articolo.

Concordo molto con la conclusione perché sostanzialmente conferma uno dei presupposti su cui si fonda il mio concetto di marketing totale: nell’era digitale non sono più le marche che cercano le persone/clienti/consumatori, ma sono loro che trovano le marche.

Mi sorgono però alcune riflessioni.

  1. Asimmetria: guadagnare seguaci sui social non fa guadagnare (molti) clienti, però i comportamenti sui social me li fanno perdere. E’ lo stesso principio per cui uno cerca di andare a lavorare in una determinata posto per (come la percepisce) l’azienda mentre si licenzia sempre per (come lo gestisce) il suo responsabile (capo, se preferite).
  2. Il mix di comunicazione è fondamentale per la conoscenza e la percezione delle marche; difficilmente un marchio diventerà un grande marchio se si concentra su un solo mezzo ed una sola strategie (pubblicità, PR, content marketing, influencer, ecc…).
  3. Sharing is caring. Personalmente resto convinto che i marchi si preoccupano troppo poco di incentivare la condivisione dei propri contenuti, sia preoccupandosi della loro rilevanza e condivisibilità, sia offrendo incentivi diretti.
  4. Rilevanza intrinseca delle marche sui social media. Anni fa credo di aver letto che di tutto il tempo che le persone passano sui social solamente una minima parte (5%?) è dedicato ai marchi. Nello scrivere questo post ho fatto un po’ di ricerche sul web per verificare o aggiornare questo dato, ma non ho trovato niente. Parecchie informazioni su quanto tempo le persone passano sui diversi social, che tipo di contenuti producono guardano e condividono, che strumenti/servizi utilizzano di più ecc…(qui un esempio). Proprio considerata la quantità ed il dettaglio delle informazioni non credo che sia difficile misurare anche “quantità e qualità” di interazione con le marche. Quindi mi chiedo: non è che il re sia nudo, ma nessuno vuole dirlo?

InspiringPR 2017: cosa ho visto, cosa mi è piaciuto, cosa no e cosa mi ha lasciato perplesso.

InspiringPR 2017

Lo scorso sabato 20 maggio si è svolta a Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, la IV edizione di inspiringPr, “Un momento di incontro e d’ispirazione aperto ai comunicatori e a tutti coloro che operano nelle e per le organizzazioni, pubbliche o private, ma anche a chi, seppur non del settore, influenza sensibilmente la professione.”

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La Brand Equity è come l’Araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa.

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Il concetto di “Brand Equity” è considerato, giustamente, uno dei più importanti in ambito aziendale perché descrive il valore il valore di una marca. La frequenza e l’enfasi con cui viene usato farebbe presupporre l’esistenza di una sua definizione chiara e, soprattutto, condivisa.

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Il neuromarketing produce packaging orientati al “clickbaiting” più che al coinvolgimento?

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Premessa: questo post si preannuncia un po’ confuso e astratto perché nasce più da sensazioni che da fatti conclamati (quelli bravi avrebbero detto “segnali deboli”), sensazioni che mi hanno stimolato ragionamenti ancora in divenire ed anche piuttosto astratti.

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