Per fermare il declino io voto Oscar Giannino!

Non ho mai considerato Indro Montanelli un maitre a penser ed il concetto di votare turandosi il naso mi è sempre sembrato una gran stupidaggine.

Questo fine settimana quindi mi sono posto la questione di se e chi votare alle prossime elezioni.

La tentazione del SE era triste, ma fortissima, fino a quando non sono arrivato sul sito di Fare per fermare il declino.

Mi sono letto il manifesto e le 10 proposte, approfondimenti compresi. Quanto meno le proposte si basano su un’analisi reale della situazione e non su discussioni da bar. Ci sono quindi i presupposti perchè non siano ne promesse elettorali nè speranze illusorie. Non sto qui a sintetizzarle. Prendetevi un po’ di tempo e leggetele, non sarà comunque tempo perso.

So già che Fare per fermare il declino non raggiungerà percentuali di governo, ma credo che potrà dare un utile contributo di idee e proposte a chiunque dovrà formare il governo.

Ho seguito tutto il processo AIDA ed alla fine mi sono anche iscritto (sarà per l’esortazione di “Fare” che c’è nel nome del movimento?)

Nel dare l’adesione al manifesto di Fare per fermare il declino, viene proposto un questionario.
Tra le altre domande c’è anche “Cosa vorresti cambiare con la tua azione politica?”. Ecco le mie risposte:
- Migliorare la produttività, in primis della pubblica amministrazione.
- Premiare la competenza sull’appartenenza.
- Aumentare l’equità della distribuzione delle risorse e delle opportunità per aumentare il benessere collettivo.
- Vorrei che ci fossero regole da rispettare e non obblighi da osservare.

E poi, anche se non arriva i livelli di “I like Ike” con cui Eisenhower vinse le presidenziali americane del 1952, un buon positioning statement che si trasforma facilmente in uno slogan facile da ricordare non può lasciare indifferente l’appassionato di marketing che è in me.

Carosello Zonin, McDonalds, PD.

C’è chi a pranzo/cena fotografa i piatti e chi guarda le pubblicità sui giornali.
Tutti abbiamo le nostre perversioni.
L’altro giorno pranzavo (come spesso mi succede) da solo e sfogliando il giornale 2 pubblicità hanno colpito la mia attenzione:

ZONIN: DO YOU SPEACK PROSECCO?

ADV prosecco Zonin

Da alcuni anni Zonin realizza campagne stampa con questo annuncio verticale sui quotidiani. Quello che mi ha colpito questa volta è il testo in inglese.
Escludendo che si tratti di una campagna internazionale utilizzata tal quale per risparmiare i soldi di un nuovo impianto (la teconolgia digitale ha ridotto tempi e costi rispetto ai vecchi tempi delle “lastre”) o per difficoltà di traduzione (“Condividilo con chi ami“), ritengo si tratti di una scelta precisa.
Constato quindi che prosegue e si diffonde questa scelta strategica di rafforzamento del percepito qualitativo dei prodotti (alimentari) attraverso la sottolineatura della loro diffusione a livello internazionale. Funziona? I miei dubbi li ho già esposti a fine 2012 e nel caso del vino sono ancora più perplesso. Ma si tratta di dubbi reali e sinceri, sarei curioso di sapere se qualcuno ha approfondito l’argomento. Zonin intanto continuerà a veder cresecere le vendite sfruttando il deserto concorrenziale, visto che è una delle poche cantine ad avere da anni una strategia pubblicitaria costante.

GREENWASHING MCDONALDS

Qui non mi interessa entrare nelle polemiche della sincerità o meno del messaggio etico/ecologista/qualitativo di mcdonalds (dopo che uno chef come Ferran Adrià ha detto che lui non sarebbe in grado di fare di meglio a quel prezzo, cosa potrei mai aggiungere io?).

Quello che mi ha colpito è la totale assenza del rosso di McDonalds in tutta la pagina. Lo so che il verde di sfondo (è verde fidatevi) è assolutamente coerente con il messaggio, ma questo non impediva di mattere il logo tradizionale in unriquadro con sfondo rosso. La cosa secondo più notevole è che la doppia M ad arco mantiene intatta tutta la riconoscibilità, quindi il logo si e ridotto alla M gialla. Adesso sembrerà ovvio, ma solo un paio di anni fa non ci avrei scommessodov’è il rosso. La considerazione magari sembrerà banale, ma immagino che ne saranno contenti alla McDonalds perchè altrimenti gestire un marchio globale su sfondo rosso nei paesi anglosassoni, verde in Europa (Germania esclusa) e bianco in sudamerica+Germania sarebbe un bel rompicapo. Complimenti!

POVERA ITALIA
L’ultima pubblictà che ha attirato la mia attenzione recentemente non è un annuncio stampa, ma l’affissione del PD per la campagna elettorale.
Non ho fatto la foto del manifesto “L’Italia giusta – Vota PD”, se non l’avete visto lo trovate qui con una breve analisi comunicativa.
Mi ha colpito perchè è, finalmente, una campagna di comunicazione ben pensata e ben fatta. Parte da un posizionamento chiaro, sintetico e quindi forte, che si legge sui due livelli “L’Italia giusta – vota PD” contenendo in sè anche la “call to action”. La grafica mi è sembrata perfetta per coerenza con il messaggio.
Una campagna in grado di cogliere la domanda di serietà ed equità che proviene da ampi segmenti (trasversali) dell’elettorato e che nessun altro partito sembra avere la credibilità per soddisfare (il Monti che carica tutto quello che si muove distribuendo fendenti a destra e a manca della campagna elettorale ha dilapidato tutto il patrimonio di serietà ed ironia accumulato durante i mesi al governo ed il movimento 5 Stelle ha per il momento un deficit di serietà).
Purtroppo però mi ero sbagliato. Non si tratta di un posizionamento che sintetizza il programma di un partito, ma di uno slogan pubblicitario fine a se stesso che viene smentito giorno per giorno dalla comunicazione fatta sugli altri media (nei quali comprendo anche la “comunicazione diretta” dei comizi e le “PR” rappresentate da apparizioni radio, TV ed interviste).
Renzi dove sei?

(Quando) scoppierà la bolla enogastronomica 2.

Non so se avete avuto tempo di leggere l’articolo di Steven Poole con cui concludevo il post della scorsa settimana.

Riporto qui un breve pezzo che ne riassume, per quanto possibile il senso:
<.... Nathan Myhrvold ... nell'introduzione al suo libro in 6 volumi dall'inquietante titolo Modernist cuisine (venduto a 395 sterline) si chiede: "Se la musica è un'arte, perchè il cibo non può esserlo?" Dovrebbe essere evidente che una bistecca non è una sinfonia, una pizza rustica non è una passacaglia, il foie gras non è una fuga. E comporre un menù non è come comporre un requiem e il cuoco che prepara una pietanza in cucina e la presenta su un piatto non è l'equivalente artistico di Charlie Parker>.

Io personalmente oscillo tra l’evidenza che “l’arte culinaria” sia, sempre nelle parole di Poole “una più modesta attribuzione di abilità creativa (technè piuttosto che poesis) ad un’attività quotidiana” e non una “forma d’arte”, e l’evidenza del contrario pensando a certe cose che ho visto e, talvolta assaggiato, in tanti anni di lavoro nell’enogastronomia. Soprattutto pensando all’approccio, alla ricerca, alla creatività ed allo studio per l’affinamento delle proprie capacità che sono alla base dell’alta cucina. D’altra parte una delle mie più emozionanti esperienze gastronomiche di cui ricordo (lo so che con questi termini sto tornando nel territorio dell’ARTE, l’ho detto che oscillo) è una sopressa di un contadino vicentino mangiata tanti anni fa davanti al caminetto, di ritorno da una giornata sugli sci da fondo. Qui non c’era studio e consapevolezza ma solo la ripetizione di un saper fare creatosi attraverso generazioni che qualcuno chiama (giustamente?) arte della norcineria.

Al di là delle mie storie personali quello che è evidente è che la nicchia delle persone per cui la cucina (ed il vino) sono un’Arte è sostenuta da un numero sempre più ridotto di persone che conoscono, apprezzano e praticano l’arte culinaria. Sempre meno persone compreranno, e regaleranno, coltelli giapponesi di ceramica o sale rosa dell’Himalaya (concettualmente uno dei cibi più anti-ecologici che possa concepire).

Abbiamo già passato il punto di flessione se, come mi ha detto un’amica, sui canali RAI trasmettono servizi sul food design (era il dicembre 2010 quando nell’azienda in cui lavoravo ho ideato un concorso/evento sul food design insieme ad una rivista specializzata dell’alta ristorazione), Vissani riscopre le ricette della mamma (come ascoltare i Beatles suonati da un’orchestra sinfonica) e la Nutella si propone come ingrediente in cucina.

In “Si spengono le luci”, romanzo di Jay McInerney ambientato a New York nell’imminenza del crollo della borsa del 1987 uno dei personaggi ad una festa dice qualcosa tipo “Quando anche i baristi discutono del Dow Jones è il momento di vendere”. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che, sempre citando dallo stesso libro, “L’imperatore è nudo, però mostra un gran bel fisico” (sarà un caso che poi McInerney sia diventato anche un importante critico di vini?).

A questo punto che fare? Prepararsi ad un futuro in cui per la maggior parte delle persone l’interesse per l’enogastronomia in senso edonistico sarà marginale, i gusti si semplificheranno (basta guardare il banco dell’ortofrutta o del pesce di un qualsiasi supermecato, ma anche di un fruttivendolo o di una pescheria), si omogenizzeranno e si dedicherà sempre meno tempo alla cucina. L’implicazione è che si dedicheranno anche meno soldi alla spesa alimentare. Probabilmente il futuro me l’ha detto dieci anni fa la responsabile clienti di una grande agenzia pubblicitaria milanese, descrivendomi i “4 salti in padella” Findus come un’apice gastronomico. Tipo “quando sono di fretta mangio la prima cosa che capita, ma quando voglio mangiare bene SCELGO i “4 salti in padella”. confesso di non averli mai assaggiati, ma faccio fatica ad essere d’accordo. Però l’ho già detto prima che io non conto.

Chi ci potrà salvare (a noi che lavoriamo nell’alimentare)? Ci potrà salvare l’estero, per l’allargamento della nicchia dei foodies in nuovi paesi che passano dall’alimentazione di sostentamento a quella di gratificazione edonistica e sociale.

Basterà? E’ troppo tardi per pensarci. Quello che so è che già vent’anni fa la maggior parte del gorgonzola piccante, del provolone piccante e del grana con la crosta coperta di nerofumo si vendevano negli U.S.A. dove si erano cristallizati di generazione in generazione i gusti portati dai primi emigranti. Oppure adatteremo i prodotti e le preparazioni alle richieste ed ai gusti dei mercati.

In entrambi i casi prepariamoci a cambiare (stile o lavoro).

(Quando) scoppierà la bolla enogastronomica 1.

Ben ritrovati e buon 2013. Alcuni si attendevano, giustamente, il primo post del 2013 domenica scorsa, ma la fine anno è stata parecchio intensa (direi in linea con tutto il 2012), l’inizio precoce e quindi lo scorso fine settimana mi sono dedicato ad altro.
L’ultimo post previsto per il 2012 (quello sulle strategie promozionali dei pandori è stato un di più imprevisto) si intitolava “Quando scoppierà la bolla dell’eno-gastronomia?” Nel riprendere il discorso ho aggiunto una parentesi e tolto un punto di domanda perchè una bolla prima o poi è destinata a scoppiare, per quanto surfattante si aggiunga.
Quindi il concetto di base è che siamo in presenza di una bolla riguardante l’enogastronomia
Cos’è che mi porta a fare questa affermazione?
Una serie di segnali si sono andati accumulando nella mia percezione. Il primo, e quello che sembra ver fatto da catalizzatore, è il successo mediatico della trasmissione Masterchef, format importato dagli U.S.A. in cui è una TV show (le parole sono importanti) di successo dalla prima edizione del 2010, che in Italia ha per protagonisti uno chef italiano che lavora a Milano, uno italiano che lavora a Londra ed uno americano che possiede ristoranti italiani.
Le associazioni mentali seguite a questo considerazioni sono state:
- siamo di fronte ad un fenomeno globale. E’ una moda o una tendenza? Oppure è una tendenza oramai in fase calante da diventare moda generalista moda globale.
- il successo mediatico sembra quasi superiore a quello di pubblico. Detto in altre parole la trasmissione fa ascolti eccellenti nell’ambito della piattaforma digitale terrestre/satellitare ma che comunque si aggirano in assoluto tra i 500.000 ed il milione di spettatori (finale della prima edizione), ossia intorno al 3%. Però se ne parla molto sui media e sui social network. Sarà perchè ha un pubblico molto appassionato e/o la cucina è un argomento che attira il pubblico?
- negli ultimi vent’anni, ma potremmo dire anche dieci, il tempo medio dedicato alla preparazione dei pasti nelle famiglie italiane ha continuato a ridursi arrivando a meno di 40 minuti al giorno (direi probabilmente a pasto, come rilevava già nel 2009 GPF). L’atteggiamento nei confronti dell’eno-gastronomia si sta polarizzando? Da una parte un nicchia di appassionati che dedica tempo e denaro a cibo e vino e dall’altra la maggioranza che premia la praticità? Ma questa maggioranza è comunque appassionata dall’argomento in ricordo dei vecchi tempi oppure semplicemente la nicchia di minoranza è sufficientemente grande e militante da determinare la visibilità dell’argomento? Butto lì un dato: nel 1990 i McDonalds’ in Italia erano 8, nel 2010 400. Al di là di tutte le considerazioni etiche e socio-antrolopologiche che si possono fare, il dato di fatto è che la gente ci va dentro a mangiare (quando non compra addirittura al Mc Drive).
Avevo queste cose che mi frullavano per il cervello, quando sull’ “Internazionale” ho trovato l’articolo di Steven Pole del Guardian “La dittatura della polpetta” (scusate ma ho trovato solo il link alla versione inglese originale).
Ora questo articolo è impossibile da sintetizzare, un brevissimo estratto lo0 trovate su Scatti di Gusto. Vi consiglio di leggerlo e poi riprendiamo il discorso la prossima settimana

Melegatti batte Bauli 4 a 0 (almeno in quantità)

Lo so che avevo già fatto gli auguri e chiuso per ferie, ma poi sono andato a fare la spesa e vedere dal vivo le teorie messe in pratica mi affascina sempre.
Cosa ci fanno 4 pandori Bauli sull’espositore (si fa per dire) di quelli Melegatti?

Se aggiungo che nel piccolo supermercato Essepiù di Trieste – Roiano gli espositori di Bauli si trovavano vicino all’entrata, sono, con ogni probabilità, i pandori lasciati lì dai clienti che hanno cambiato la loro scelta di fronte all’espositore Melegatti che hanno trovato più avanti.

Sono i consumatori che hanno deciso che tra la marca Bauli a 3,49 euro/pezzo e la marca Melegatti a 2,49 euro/pezzo, la seconda era un’opzione migliore. Senza contare quei consumatori più diligenti (ci sono) che dopo aver cambiato scelta sono tornati a rimettere il pandoro Bauli al proprio posto.

I marketing delle due aziende a fine gennaio guarderanno i dati di vendita confrontando le rotazioni nei punti vendite dove erano presenti le due marche ai diversi livelli promozionali e vedranno se le loro strategie avranno raggiunto i risultati previsti. Magari saranno contente entrambe le aziende, Melegatti per l’aumento della quota di mercato e Bauli per la redditività (1 euro in più a questi livelli di prezzo non è poco).

Quello che a me è sembrato interessante è stato vedere nella pratica quanto gioca la tattica per prodotti fortemente stagionali come il pandoro. D’altra parte già quando lavoravo in Stock, i numeri della promozione natalizia di Limoncè dipendevano anche dal gradimento della grafica dell’astuccio di metallo realizzato per quell’anno (oggi, dopo un paio d’anni di astucci di cartoni, la bottiglia di Limoncè si presenta sullo scaffale “direttamente nuda”, ma questa è ancora un’altra storia).

Tornando a Bauli e Melegatti ed alla combinazione “immagine di marca+convenienza” vale anche la pena di ricordare le strategie pubblicitarie delle due aziende.
Bauli, che gode di un maggior “stock” di comunicazione dagli anni passati e dagli altri prodotti venduti nell’arco dell’anno continua ad utilizzare lo stesso spot da diversi anni, e se questo arriva a diventare argomento delle battute della Litizzetto a “Che tempo che fa” forse è arrivato il momento di chiedersi se non sia il caso di investire per rinnovare e rinforzare l’equity della marca (soprattutto se si vuole/deve sostenere un posizionamento di prezzo del 30% superiore ai concorrenti).
Melegatti invece propone un posizionamento completamente diverso con uno spot che mi ricorda quello di Illy a fine anni ’80 (quello di mio papa diceva qui si offre solo il meglio”. Anche in questo caso lo spot si svolge in una famiglia di italo-americani, allo stesso tempo custodi ed ambasciatori dell’eccellenza alimentare italiana.
Anche lo spot Melegatti non è nuovo, però appare sicuramente meno datato (anche in termini di messaggio) di quello di Bauli.
Che strategie ci attendono per l’anno prossimo? Bauli cercherà di recuperare quote investendo in comunicazione o in promozione? Melegatti cercherà di alzare il proprio posizionamento di prezzo sostenendolo con più pubblicità oppure tornando all’utilizzo del concorso a premi?
Magari si presenterà qualche nuovo competitor con un prodotto diverso.
Uno dei ricordi dei miei Natali bambino è quello del pandoro (Melegatti ovviamente, non c’era altro) portato apposta per me, unico a cui non piaceva il panettone per via di canditi ed uvette. Adesso è il contrario: quando e perchè c’è stato il sorpasso del pandoro sul panettone?

Mangiate quello che volete e passate un lieto Natale.

Quando scoppierà la bolla dell’eno-gastronomia?

Prima cosa: giù il cappello davanti alla Ferrero.
Ecco qui sotto l’espositore Nutella per il natale 2012.
Dopo le borse-scatola per farsi da soli le confezioni regalo e dopo i minibarattoli da appendere all’albero, in Ferrero continuano ad alimentare la marca con nuove iniziative che la fanno evolvere e crescere in termini di personalità. La prova provata che il concetto di ciclo di vita di prodotto è nella testa di chi lavora nelle aziende e non una verità naturale.
.

Ciò detto, considerando anche la popolarità che caratterizza la Nutella (mainstream sarebbe il termine più giusto, a cui la traduzione “nazionalpopolare” darebbe una sbagliata accezione negativa), trovarla associata alla cucina è un’ulteriore segnale per scrivere di un argomento che mi frulla in testa da un po’ di tempo: il crescere di una bolla (speculativa?) eno-gastronomica e gli effetti della sua (eventuale esplosione).

E’ un’idea che mi è venuta in mente qualche mese fa, da quando ho letto su Intravino della dichiarazione di Courtney Love “… I am not in wine porn at all” e che mi è stata rafforzata dall’articolo di Steven Poole sul Guardian (io l’ho letto sull’Internazionale n.972), citato anche da due recenti post apparsi su Dissapore (qui e qui).

Però non è un argomento che si possa trattare proprio prima delle abbuffate di fine anno.

Quindi lo rimando al 2013 (Maya permettendo) ed auguro a tutti di trovare la serenità per stare un po’ con voi stessi e con i vostri.

Buon Natale!

Ancora sul futuro delle agenzie pubblicitarie

Oggi due post (è festa).

In realtà questo era quello previsto ed è una specie di seguito di quello dello scorso 11 novembre (il tempo non corre, galoppa).

In qurl post c’erano due concetti che mi sembravano meritassero un approfondimento. Il primo è come opera il modello AIDA nell’attuale scenario di frammentazione dei mezzi di comunicazione e dei luoghi/occasioni di consumo/acquisto.

Mi chiedo se non ho liquidato troppo sbrigativamente la questione “tecnica” sull’altere della solidità teorica dei frlussi mentale attraverso i 4 stadi attenzione-interesse-desiderio-azione.

Riflettendoci in queste settimane ho l’impressione che gli attivatori dell’AIDA (i triggers per parlare come i profesionisti) derivino sempre meno dalla specifica attività pubblicitaria ed anche dalla comunicazione in generale. Questo probabilmente implica la necessità della presenza di un substrato di percezione della marca/prodotto su cui si innestino gli attivatori provenienti dall’ambiente. Ha un senso? Mi sto avvicinando all’idea dei persuasori occulti dopo aver passato anni a contestare le tesi di Packard?

L’altra concetto che credo meriti un’ulteriore riflessione è il rapporto tra marketing e vendite, anche perchè una definizione sintetica, semplice ed elegante del marketing è sempre utile.

Le strategie di marketing hanno l’obiettivo di far sì che sia il consumatore a comprare e non l’azienda a vendere.

Nuovamente persuasione occulta? Sicuramente una cosa diversa da quanto fanno oggi la grandissima magigoranza delle aziende.

Un’ultima considerazione dettata dai dati sul mercato pubblicitario in Italia usciti in queste settimane (li trovate riportati ed ottimamente commentati nel blog Il Giornalaio di Pier Luca Santoro): nel periodo gennaio-settembre 2012 gli investimenti pubblicitari in Italia sono calati di 720 milioni di euro. Questo significa circa 35 milioni in meno di fatturato delle agenzie.

Una cifra, che al di là di tutti i ragionamenti, deve spingere le agenzie di pubblicità a trovare nuove strade.

Renzi, che disdetta!

Questo post volevo scriverlo ieri, poi mi sono detto che rischio di diventare monotematico, poi però ho visto su facebook l’amaca di Michele Serra di oggi sulla dichiarazione del sottosegretario Polillo e allora ho voluto dire la mia. Almeno il post della scorsa settimana mi permette di non sembrare quello che parla con il senno di poi.

Rispettare ed accettare i risultati delle primarie del centro sinistra è doveroso, ma lasciatemi la libertà di non condividerli perchè:

- Bersani candidato Primo Ministro legittima, per quanto possibile, il ritorno di Berlusconi. Detta semplice: non è cambiato l’avversario e quindi è giusto che torni a confrontarmi.

- Soprattutto Bersani legittima la campagna, già iniziata, basata sul baratro a cui ci porterà un governo di estrema sinistra (il passato di Bersani+l’alleanza con Vendola bastano e avanzano). Aggiungeteci quello che permette di fare in termini di comunicazione un concetto malinconico come “l’usato sicuro” potete già immaginare cosa ci aspetta nei prossimi mesi.

- Al di là della propaganda berlusconiana Bersani, volente o nolente, è l’espressione di un establishment politico che non ha saputo (voluto) operare per rimediare all’esproprio della cosa pubblica operato dai partiti con tutte le patologie che ne conseguono. Quante persone conoscete che non hanno votato alle primarie del centrosinistra perchè troppo distanti dalla politica in generale e dall’”area” in particolare, ma che ritenevano Renzi l’opzione attualmente più credibile? Qualcuno vuole scommettere sulla percentuale di astenuti, bianche e nulle alle prosisme elezioni?

- Bersani prospetta una coalizione che va dall’UDC (per prendere i voti del centro in franchising, come diceva Renzi) a Vendola. Una volta di più la rappresentanza dei partiti in parlamento sarà decisa a priori a tavolino sul presunto seguito che hanno se non sulla loro capacità di pesare nella trattativa politica. Una volta di più l’azione del governo sarà determinata dal minimo comune multiplo tra posizioni (ideologiche) molto distanti invece che dal massimo comune denominatore di un piano programmatico.

Ok, l’ultima è una mia opinione squisitamente politica, però i primi tre punti riassumono il posizionamento in termini di marketing politico che ha attualmente il PD nei confronti degli elettori che alle scorse elezioni hanno votato altrimenti (o non hanno votato proprio).

Chissà se qualcuno nel partito si sta domandando come agire per modificarlo oppure se puntano a vincere con i soli voti dei fedeli simpatizzanti. L’ultima volta non sono bastati, ma adesso si può contare sull’autocombustione degli avversari.

Io spero solo che tra gli strateghi non ci sia Michele Serra.

Perchè, secondo me, Renzi ha ragione e torto allo stesso tempo.

Premessa doverosa: la settimana scorsa ho votato alle primarie del centrosinistra ed ho votato per Matteo Renzi. Completezza dell’informazione: turandomi un po’ il naso ho votato PD solamente alle ultime elezioni (pre – vedendo la sventura del governo Berlusconi), non ho mai votato Pdl e nemmeno, per chi ha l’età di ricordarseli, DC, PCI, PSI.

Al di là di quelli che siano stati i miei motivi, in nuce la proposta di Renzi si basa(va) su idee(ali) e strategie invece che su ideologie e tattiche.

Nello scenario competitivo della politica italiana si tratta di una proposta fortemente differenziante e che va a soddisfare la domanda di una ampia fascia di cittadini-elettori, probabilmente votanti alle passate elezioni sia della coalizione di centrodestra che di quella di centrosinistra e probabilmente delusi (la buona amministrazione, la meritocrazia vs. il clientelismo/nepotismo, ecc.. non sono nè di destra nè di sinistra).

Da qui, sintetizzando al massimo l’analisi, il bel risultato del primo turno (chi vuole approfondire la mia analisi del marketing politico può andare a leggere alcuni vecchi post qui, qui, qui e qui).

A quel punto però bisognava definire la strategia per cercare di recuperare lo svantaggio e la mia impressione è che la scelta sia stata tutta tattica.

Non so di che dati dispongano al comitato di Renzi per l’analisi dei flussi di voto, però è abbastanza presumibile la difficoltà di recuperare i voti mancanti sia da chi ha votato Vendola che da chi ha votato Bersani. Ecco quindi che la soluzione più logica, era far (ri)entrare nel voto elettori che non avevano votato al primo turno.

In questo senso Renzi ha ragione, ma ha contemporaneamente torto perchè con i macchiavellismi formali per riaprire le iscrizioni e la spegiudicatezza (violenza?) delle azioni per spingere a questa soluzione, snatura la distintività della propria proposta.

Soprattutto conferma le perplessità che poteva avere chi alle primarie aveva votato per altri candidati di essere un candidato costruito dal marketing, un “manipolatore di consenso” di cui diffidare.

Per vincere le elezioni partendo dalla minoranza bisogna convincere a votare per te anche parte degli elettori che prima avevano votato gli altri. Questo principio non è un obbrobrio etico, ma la base della democrazia. Renzi ha il grande merito di averlo capito chiaramente e non ha avuto paura a rivolgersi anche a chi votava Pdl, per convincerlo che la sua era la miglior proposta per il Paese.

Perchè non è andato fino in fondo, cercando di fare lo stesso nei confronti di chi alle primarie aveva votato Vendola o Bersani?

I suoi strateghi mi diranno che le analisi dimostravano la difficoltà (impossibilità) di spostare quei voti, eppure io sono convinto che se per Renzi c’era una possibilità di recuperare era in quel bacino, approfondendo ancora di più la discussione sui contenuti. Sindrome da Segolen Royal?
Potevo scrivere questo post lunedì, senza il rischio di essere smentito dai fatti, ma sarebbe stata disonestà intellettuale.

Comunque spero di sbagliarmi, non tanto perchè, come dice a ragione Renzi, con lui il Pd arriverebbe al 40%, ma perchè mi sembra l’unica possibilità per il necessario rinnovamento del sistema Paese.

E quindi domani torno a votare.

Non c’è 2 senza 3!

In settimana sono stati resi noti i risultati del concorso internazionale del packaging del Vinitaly 2012.

La nuova etichetta dei vini bianchi fermi “Bosco dei Cirmioli” ha vinto la medaglia di bronzo nella sua categoria.

Dopo la medaglia d’oro del 2009 e quella d’argento del 2010, la terza medaglia su tre partecipazioni. (nel 2011 in Santa Margherita non c’erano novità da presentare). Son soddisfazioni.

In realtà però oggi quello di cui sono più orgoglioso è che ho fatto la mia prima gara di salto ostacoli (ovviamente era la gara sociale del circolo dove faccio lezione): netto nella categoria 60 cm (con un tempo un po’ lungo perchè ad un certo punto sono andato a sinistra invece di andare a destra) ed un rifiuto nella categoria 80 cm.

Ecco spiegato perchè anche oggi molto bisco e pochissimo marketing.

Sulla famosa cabina di regia del vino italiano – biscomarketing nuovamente ospite di Vino al Vino

Devo ringraziare ancora una volta l’ospitalità di Franco Ziliani, che ha pubblicato sul suo noto blog “Vino al Vino” le mie riflessioni relativamente alla creazione di una “cabina di regia” del vino italiano.

Il post lo trovate qui.

Segnalo anche ai lettori di biscomarketing che queste riflesisoni sono in buona misura anche il seguito del mio vecchio post “C’è un sistema per fare sistema”, pubblicato lo scorso giugno.

Quale futuro per le agenzie pubblicitarie?

Dopo l’ennesimo intermezzo sul sistema del vino dello scorso 4 novembre, eccomi come promesso con il seguito del post sul futuro della pubblicità, pubblicato lo scorso 28 ottobre.

Salterò a piè pare l’interessante questione del futuro del giornalismo, buttata lì come nota di colore e che ha suscitato il commento di Diego. Opinioni ed informazioni più qualificate delle mie le potete trovare sul blog “Il Giornalaio” di Pier Luca Santoro e l’articolazione del il mio punto di vista l’ho data in un post del 2008 (non so perchè, ma ho come la sensazione di aver già scritto questa cosa da qualche parte).

Vado quindi all’argomento del futuro delle agenzie pubblicitarie in uno scenario di declino (dei consumi) di pubblicità, e lo faccio partendo dal modello AIDA (Attention-Interest-Desire-Action). Dopo aver letto il post un’amico (sempre lui) mi ha detto che nell’attuale contesto di frammentazione dell’uso dei mezzi di comunicazione il modello AIDA non vale più perchè gli stimoli che attivano i diversi livelli del processo non arrivano più alle persone in modo univoco e lineare. Io concordo con lui solo sull’ultima parte del ragionamento.
Dal punto di vista dei processi di comportamento continuo a credere che le persone debbano passare attraverso i livelli del modello AIDA quando fanno qualcosa e se abbiamo l’impressione che si tratti di un modello lineare ad imbuto è solo perchè nella pratica del marketing è stato applicato in tempi in cui gli scenari competitivi (la società) era più semplice e quindi le risposte agli stimoli più dirette.
Esempio 1: confeziono il formaggio Philadelphia Kraft in una scatolina di legno grezzo ed “automaticamente” aumento le vendite. La scatolina mi porta ad avere maggior visibilità sullo scaffale (attention), dare una percezione di genuinità (interest), farmi venir voglia di mangiarlo (desire) e comprarlo (action).
Questo però non significa che anche in passato il modello AIDA potesse realizzarsi anche in assenza di pubblicità, attraverso il passaparola, vedere una cosa per strada ecc.., con tempi indeterminati e magari circolari che tornavano ad attivare i diversi livelli AIDA rimasti sospesi.
E oggi? Oggi la norma sta diventando/è ricevere stimoli da fonti diverse su mezzi diversi ed è per questo che nel mio post precedente parlavo del fatto che la pubblicità non è più in grado di esaurire tutto il processo del modello AIDA, ma può svolgere un ruolo di attivatore (o ri-attivatore) dei vari livelli. Dovrà quindi articolarsi con gli altri (nuovi) strumenti.
Attenzione, ho detto “strumenti”, perchè i principi non cambiano. Ed analizzare la combinazione principi/strumenti è fondamentale per non fare errori.
Esempio 2: La pubblicità di un’azienda nella colonna di destra di facebook (ovvio che finivo lì) è una fonte diversa dal pensiero sullo stesso prodotto/servizio scritto da un nostro amico che appare di fianco. Allo stesso tempo però condividere lo stesso mezzo, dà a quella pubblicità un valore diverso rispetto ad un annuncio sul giornale, se non altro perchè mi permette immediatamente di approfondire il mio interesse per quello che viene pubblicizzato, aumentare il desiderio attraverso le informazioni che posso raccogliere e passare all’azione di acquisto tramite l’e-commerce.
E mi sono limitato solo ad un media del digitale, senza allargarmi a QR codes, Groupon e simili, Twitter, ecc…

Quindi la prima direttrice di sviluppo futuro/sopravvivenza per le agenzie è quello di passare dalla pubblicità alla COMUNICAZIONE. Ma questo non è nè nuovo, anche se non basta cambiare “Agenzia di pubblicità” con “Agenzia di comunicazione” per cambiare il servizio offerto ai clienti, nè sufficiente.

Proprio la frammentazione dei mezzi e la perdità di efficacia della pubblicità ha fatto crescere negli utlimi anni gli investimenti in attività di Pubbliche Relazioni, a loro volta frammentate su più mezzi. Ora faccio una domanda: la sponsorizzazione del lancio con paracadute dalla stratosfera da parte della Red Bull è pubblicità o sono pubbliche relazioni? Boh! La cosa importante è che è un’attività che rafforza il posizionamento perseguito dalla marca con diversi strumenti che, nel caso della Red Bull, vanno (a scendere) dagli sport estremissimi, a quelli estremi, a quelli avventuro/ludici, alla pubblicità.
In questo scenario, se l’agenzia di pubblicità si limita solo alla pubblicità sta perdendo buona parte del business potenziale.

L’altro giorno una persona mi ha detto una cosa che gli hanno insegnato ad un corso per venditori: tu incominci a vendere da quando il consumatore dice che non gli interessa il prodotto. Viceversa non sei tu che stai vendendo, è lui/lei che sta comprando. Ovvio, ma illuminante.

Tornando al modello AIDA, la pratica del marketing l’ha legato finora esclusivamente o soprattutto all’attività pubblicitaria e comunicazione, ma la capacità di un prodotto/servizio di attivare il ciclo Attenzione-Interesse-Desiderio-Azione risiede principalmente nei benefit che è in grado di promettere (e mantenere) ai consumatori. In altri termini nella capacità di rappresentare e sostenere un pozionamento. Che è poi lo scopo del marketing.

Utilizzando la terminologia del corso per venditori, il prodotto perfetto è quello che non viene venduto dall’azienda, ma comprato dal consumatore.

Ecco perchè secondo me il futuro delle agenzie di pubblicità è il ritorno al passato dell’agenzia a servizio completo. Quella che insieme al cliente (o da sola se il cliente non era in grado) realizzava l’analisi dello scenario competitivo, definiva l’identità di marca, il concetto di prodotto, coordinava l’attività di comunicazione e di acquisto dei mezzi in modo coerente (funzione che l’attuale frammentazione dovrebbe rendere oggi più importante che in passato), indicava le linee guida distributive e realizzava le attività promozionali.

Vedo questo futuro sia guardandolo dalla parte delle agenzie (o ritornano a coprire altri ambiti oltre a quello specifico della pubblicità oppure faticheranno ad uscire dalla crisi) si guardandolo dalla parte dei clienti, che non hanno la dimensione e/o le competenze e/o il tempo per sviluppare e gestire autonomamente le strategie di marketing.

A questo punto le questioni sono due: le agenzie pubblicitarie hanno le competenze e la cultura necessaria per (tornare ad) essere agenzie di marketing? I clienti sono disposti a pagare queste competenze come facevano in passato?

Viribus unitis – ancora sul sistema del vino italiano

Lo so che avevo promesso un post sul futuro delle agenzia pubblicitarie, ma inderogabili impegni di lavoro mi impediscono di svilupparlo adeguatamente (il post scorso è sembratoa qualcuno incompleto).

In più la rivista Il Mio vino ha anticipato i contenuti del prossimo numero dell’inserto professional e voglio mantenere la pubblicazione in contemporanea sul blog, per rspetto ai lettori di biscomarketing. L’articolo in realtà riprende molti dei concetti dei miei due post gentilmente ospitati dal blog “Vino al vino” di Franco Ziliani poche settimane fa.

Posticipo quindi il post sulle agenzie pubblicitarie e pubblico di seguito l’articolo che uscirà su Il Mio Vino.

La riduzione della produzione che ha caratterizzato le vendemmie 2011 e 2012 pone la questione del ridimensionamento del sistema del vino italiano.
Malgrado gli effetti congiunturali della siccità di quest’anno (ma siamo proprio sicuri che questo clima non sia la nuova normalità), il calo della produzione di uva da vino in Italia deriva in larga misura dalla riduzione del vigneto italiano. Secondo i dati presentati dall’esperto Maurizio Gily al convegno che ho organizzato al Vinitaly di quest’anno, negli ultimi 5 anni si sono persi 60.000 ha di vigneto (più della superficie a vigneto dell’intera Toscana) , con una perdita del potenziale produttivo in hl stimabile tra il 10 ed il 14%.
Considerando che le estirpazioni a premio finanziate dalla PAC hanno riguardato solo la metà circa degli ettari persi, si può prevedere che questa tendenza all’abbandono dei vigneti continuerà anche in futuro, seppur a ritmi più ridotti a causa del ridotto ricambio generazionale.
Al’’interno del sistema del vino italiano c’è una corrente di pensiero che vedono positivamente questa riduzione perché riequilibria il rapporto domanda-offerta, che negli ultimi anni è stato caratterizzato da un eccesso di produzione a fronte del declino dei consumi nazionali, permettendo di tornare ad una remunerazione delle uve che rende economicamente interessante la viticoltura.
Una personalità autorevole come Angelo Gaja da due anni sprona il sistema vinicolo italiano ad approfittare dell’aumento del costo della materia prima per valorizzare meglio il prodotto, sostenendo che non è un problema il rallentamento dell’export del vino italiano perché determinato dal calo dello sfuso, svenduto a prezzi non remunerativi.
Si tratta di un’analisi che non condivido, innanzitutto perché non trova riscontro nella realtà dei fatti.
I dati relativi alle esportazioni del 1° semestre 2012dei principali Paesi produttori sono i seguenti (Fonte: elaborazione dell’autore su dati Corriere Vinicolo):
Export totale 1° semestre 2012
Paese Euro/litro Litri % vs. 1° sem. 2011 Indice litri (Italia=100)
FRANCIA 5,09 700.700.000 6% 72%
USA 2,30 104.065.000 -9% 11%
ITALIA 2,14 973.482.317 -11% 100%
AUSTRALIA 2,00 337.816.607 4% 35%
CILE 1,90 343.114.261 17% 35%
ARGENTINA 1,80 228.854.341 30% 24%
SPAGNA 1,06 1.073.467.721 3% 110%
SUD AFRICA 181.500.118 10% 19%

Nota: per la Francia il dato riguarda solamente il vino in bottiglia e per il Sud Africa è disponibile il prezzi medio solo per il vino sfuso. Si è preferito quindi omettere il dato.

La situazione mi pare talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti. Siccome però le medie spesso e volentieri ingannano, se analizzano i soli vini da tavola esportati in bottiglia il prezzo medio per l’Italia è di 1,37 €/litro, contro lo 0,89 della Spagna e l’1,01 della Francia.
C’è però un altro motivo, strategico, per cui non condivido la valutazione positiva di una riduzione della produzione di vino nelle fasce di prezzo più basse ed è la struttura a sistema del vino italiano. Senza voler qui entrare in discussioni dottrinali sulla teoria economica aziendale dei distretti/reti/cluster, il fatto che il vino italiano sia un sistema significa che i diversi elementi che lo compongono sono connessi funzionalmente ed organicamente a formare un tutto unitario. Quanto meglio connessi in termini organici e funzionali, ma anche quanto competitivamente più forti i singoli elementi, e tanto più solido l’intero sistema.
Spesso riferendosi al settore del vino italiano in termini qualitativi si fa riferimento al modello della piramide. Adottando questo modello per raffigurare il sistema del vino italiano, dove gli strati inferiori sono anche i più grandi in termini quantitativi, potremmo dire che una riduzione della base d’appoggio porterà, nel medio termine, ad una maggior instabilità anche agli strati superiori, su su fino al vertice.
Il rischio di indebolimento dell’intero sistema è dovuto a fattori operativi che riguardano sia la domanda (estera) che l’offerta.
Dal lato della domanda dobbiamo ricordare che il valore attribuito da un consumatore ad un vino è scarsamente legato ai sui costi di produzione. Conseguentemente un’impennata del costi del vino da tavola come quella che si sta verificando con la vendemmia 2012, a fronte di una qualità del prodotto sostanzialmente equivalente, rischia di far uscire i vini italiani dal paniere di scelte della fasce di consumatori che l’hanno acquistato fino ad oggi. D’altra parte la domanda di vini con quel livello di prezzo e di qualità continuerà ad esistere, indipendentemente dalla nostra riduzione di disponibilità e conseguente aumento dei prezzi all’origine, e, in nostra assenza, sarà soddisfatta dai nostri concorrenti internazionali.
Inoltre la capacità di un offerta che copra le diverse fasce di mercato è un importante fattore competitivo nei rapporti con importatori e distributori, sia per iniziare che per sviluppare i rapporti commerciali. Detto in parole povere se comincio a servire un importatore cinese con un container di vino da tavola, poi potrò mandargli anche una campionatura di vino IGT e/o DOC. Se non sono competitivo con il vino da tavola, ed il container lo manda una cantina spagnola, ecco che la campionatura successiva sarà di Tempranillo. Sempre che la fornitura non si sia persa in partenza perché il cliente cinese voleva da subito sia il vino da tavola che quello di livello superiore.
L’alternativa che rimane alle cantine per non perdere le posizioni conquistate e continuare a sviluppare nuovi affari in grado di compensare il calo sul (colpevolmente trascurato) mercato nazionale, è quella di ridurre i margini (come sembra confermare un’analisi di Baccaglio sul suo blog “I numeri del Vino”). Alla il valore aggiunto del sistema vitivinicolo rischia di rimanere invariato nel breve periodo, con un rischio di indebolimento competitivo nel periodo medio-lungo.
Il calo della produzione vitivinicola italiana implica degli svantaggi competitivi anche sul fronte dell’offerta, perché riduce le economie di scala e le curve di apprendimento dell’intero settore.
E’ evidente che ad una minore produzione consegue un minor sfruttamento degli impianti e quindi un minore ammortamento degli investimenti.
Meno ovvio, ma altrettanto vero, che una riduzione della dimensione del sistema rischi di rendere meno competitivi in termini di costi e produttività tutti i servizi, nel senso ampio del termine, utilizzati nelle diverse fasi della filiera. Dalle professionalità a tutti i livelli, dagli operai in vendemmia, agli agronomi, agli enologi, ecc.., ai macchinari ed i prodotti per l’enologia e l’imbottigliamento si tratta di comparti in cui l’Italia è ai massimi livelli mondiali e che quindi giocano un ruolo chiave per la competitività delle nostre aziende. Tanto per le grandi come per le piccole, per quelle di eccellenza e per quelle di massa.
Che l’aumento del costo delle uve determini una miglior valorizzazione globale del vino italiano è un’ipotesi con deboli fondamenti analitici e tutta da dimostrare nella realtà. Ma se anche fosse, perseguire un aumento del valore unitario delle esportazioni attraverso una riduzione della produzione quando lo scenario mondiale è di crescita dei consumi di vino, significa, in un’ottica di sistema, pianificare il proprio declino.
La valorizzazione del vino italiano va perseguita invece attraverso la definizione e l’affermazione di un suo posizionamento chiaro, specifico e differenziante, che faccia da ombrello alla pluralità dell’enologia italiana.

Quale futuro per la pubblicità?

L’altro giorno mi hanno detto che sembro/sono presuntuoso. Storia vecchia. La cosa curiosa per me è che in ambito lavorativo questa valutazione (negativa) mi è stata data spesso da chi stava a livelli gerarchici superiori al mio, raramente da chi si trovava allo stesso livello e quasi mai da chi rispondeva a me più o meno direttamente (intendo sia colleghi che agenzie e consulenti).
Questa valutazione non derivava dal millantare del credito, bensì dall’atteggiamento professorale nella convinzione/certezza delle mie competenze, che ostacolava i rapporti con i colleghi. La conseguenza era un invito ad essere più terra-terra per rendermi più accessibile. E questa per me è la cosa più curiosa perchè non riesco ad immaginare niente di più presuntuoso e poco rispettoso delle persone che accondiscendere a semplificare il proprio comportamento per “abbassarsi” (lo metto tra virgolette perchè non condivido il concetto in assoluto) al loro livello.
Cosa c’entra questa (auto)analisi da dilettanti con il futuro della pubblicità? E’ che mi è successo troppe volte di vedere scartare delle campagne pubblicitarie con il giudizio: “E’ bella, ma il consumatore non la capirebbe” da non pensare che la pubblicità dovrebbe essere meno presuntuosa nel giudicare il proprio pubblico.
Metto un attimo da parte questo concetto, per riprenderlo dopo aver inserito il secondo spunto di queste mie riflessioni. L’altro giorno (è stato un giorno intenso) stavo parlando con un amico importante dirigente di un’importante agenzia italiana, parte di un importante gruppo pubblicitario multinazionale che ha fatto, sintetizzanto, questa riflessione:
“se la pubblicità lavora sull’orientamento delle preferenze rispetto alla scelte fatte dal consumatore ad un livello superiore in termini decisionali (vero n.d.a.) qual’è il suo ruolo in una scenario di drastica riduzione dei consumi?”.
Detto in altre parole più semplici (più vicine a quelle che ha usato lui) se lo scopo della pubblicità è quello di orientare le scelte dei consumatori verso l’automobile B piuttosto che all’automobile A, quale diventa il suo ruolo quando le persone smettono di acquistare le automobili?
E’ opinione comune che viviamo in tempi di cambiamento (l’aveva già detto Eraclito) e, secondo me, il modo migliore per affrontarli è tornare ai fondametali. E nel marketing i fondamentali resta Philip Kotler, il suo libro Marketing Management e le famose 4P.
Nell’impostazione kotleriana la pubblicità rientra nella “P” di promotion. Forse si è trattato di una scelta dettata dall’eleganza della solida coerenza insita nel concetto “4P” (“4P + 1A” di avertising non avrebbe avuto onestamente la stessa efficacia comunicativa) però credo che l’eleganza non sia mai casuale e l’estetica costruisca (almeno in parte) la propria etica.
Quindi parto dalla funzione di promotion, che Kotler divide in due macro strategie: quelle che forniscono incentivi all’aquisto e quelle che forniscono ragioni all’acquisto. Il tecnicismo di ricondurre gli incentivi all’acquisto alle attività di promozioni di vendita e le ragioni all’acquisto alle attività di comunicazione, ossia pubblicità, pubbliche relazioni ed argomentazioni di vendita utilizzate da un venditore nella vendita diretta ad un consumatore, non modifica le due funzioni che il concetto di “promotion” svolge nei confronti dei consumatori.
Il futuro della pubblicità quindi, secondo me, sta nell’assolvere l’una o l’altra funzione, fornire sia incentivi che ragioni all’acquisto, sempre secondo il classico paradigma del processo A.I.D.A.: attention-interest-desire-action
L’esempio tipico della pubblicità che fornisce incentivo all’acquisto sono gli spot di LIDL trasmessi la domenica per annunciare le promozioni in corso da lunedì. In questi casi i meccanismi sono piuttosto semplici e diretti perchè gli elementi di attenzione-interesse-desiderio-azione risiedono in grandissima parte sull’attrattività dell’offerta.
Fornire con successo ragioni all’acquisto è diventato invece sempre più difficile, sia perchè dal lato dell’offerta aumenta la sostituibilità tra prodotti di marche diverse (riduzione del contenuto innovativo), sia perchè la proliferazione dei media rende neccessario l’utilizzo di un sistema di comunicazione articolato su più fonti. Si è passati da una situazione in cui la pubblicità poteva tranquillamente esaurire tutta la strategia di comunicazione ad una in cui ne è, sempre più spesso, solo l’attivatore.
Ecco che in questo contesto l’eccessiva ricerca di semplificazione, per presunzione nei confronti del consumatore di cui sopra, rischia facilmente di trasformarsi in banalizzazione e quindi di non ottenere l’attenzione o di non suscitare poi l’interesse.
Come il futuro dei giornali di carta a poco a che vedere con il futuro del giornalismo, così il futuro della pubblicità ha poco a che vedere con il futuro delle agenzie pubblicitarie.
Ma per oggi carne al fuoco ce n’è a sufficienza e quindi lascio questo argomento per la prossima volta.

WOW! EFFECT

Valutare la creatività non è mai una cosa semplice.
Il rischio di perseguire l’originalità e l’estetica fini a se stesse, senza veri contenuti e valori distintivi, è sempre in agguato. Con l’aggravante che proposte vacue, proprio per la loro mancanza di sostanza, si prestano ad essere razionalizzate come si vuole a posteriori in modo da (auto)convincersi che si tratta della trovata del secolo (vedi il mio post della scorsa settimana).
Anni fa una delle grandi agenzie pubblicitarie italiane venne in azienda a presentare le proposte per la nuova campagna pubblicitaria di una delle nostre marche più importanti. Dopo un quaranta minuti buoni di presentazione delle 3 proposte io espressi i miei dubbi perchè mi sembrava che non centrassero gli obiettivi della comunicazione, erano intrinsecamente poco coerenti, confuse e, soprattutto, artificiali e farraginose.
Il direttore clienti che guidava il gruppo, non potendo dire che ero scemo, disse di non preoccuparmi, che tutte le perplessità si sarebbero risolte quando avremmo effettivamente prodotto lo spot e che il problema era solo dovuto al fatto che, ricordo ancora le parole, “.. la lingua italiana non ha abbastanza parole per esprimere con chiarezza i concetti delle proposte”. Risultato: non fatta la campagna e cambiato agenzia.
Eppure è questo il modo più diffuso di presentare e valutare la creatività: sintesi degli obiettivi, spiegazione del ragionamento fatto dall’agenzia per lo sviluppo delle proposte, presentazione delle proposte, razionalizzazione di come le proposte rispondono agli obiettivi da cui si è partiti. Vale per le campagne pubblicitarie, quelle promozionali, il design dei prodotti, degli stand alle fiere, ecc…). I rischio di perdersi nel puro ragionamento o, peggio, nella soggettività sono altissimi.
Io da anni uso un’altro metodo che nel tempo è diventato quasi un segreto professionale, visto quanto poco è diffuso. Lo condivido volentieri sul blog, convinto della bontà della co-opetizione e sperando che il detto “you get what you give” sia vero.
Anche perchè anch’io l’ho imparato da qualcuno. Esattamente da un designer venuto, un paio di mesi dopo l’agenzia di pubblicità, a presentare le proposte per un nuovo packaging che gli avevo affidato.
Invece di cominciare a spiegare cosa ci avrebbe mostrato, cominciò a mostrarci (c’era ovviamente tutto l’ufficio marketing) le diverse proposte (5 o 6 se non ricordo male) per un paio di minuti senza dire niente.
Aspettava di vedere quale etichetta avrebbe suscitato il WOW! effect. Erano tutte valide, ma per un paio la reazione del gruppo era stata un (silenzioso) WOW.
Solo dopo siamo passati all’analisi “tecnica” di tutte le proposte, identificati i punti di forza e di debolezza e deciso su quali andare avanti per un affinamento.
Giustamente l’etichetta finalizzata presentava delle differenze (miglioramenti) rispetto alla prima proposta, mantenendo però il concetto che ci aveva fatto dire WOW!.
Da quella volta io evito sempre (se possibile) di analizzare il processo prima di vedere il risultato, e mi affido al WOW effect.
Potrebbe sembrare soggettivo, ma non lo è. Una proposta fondamentalmente valida, che coglie ed interpreta nel modo giusto gli obiettivi valorizzandoli anche se è in nuce, suscita un convinzione immediata nella grandissima maggioranza delle persone (consiglio sempre di fare queste cose in un gruppo di lavoro).
E’ un metodo che consiglio, con l’avvertenza che richiede disciplina ed è molto darwinistico nel valutare le idee: se non c’è nessun WOW, bisogna ricominciare daccapo (oppure cambiare agenzia).