La vita è tutta un budget (nel caso vi foste persi la pubblicazione su fb)

Ringrazio per l’ennesiam volta Pamela che mi ha rimesso in piedi il blog e pubblico il post scritto la settimana scorsa ed uscito sul mio profilo facebook per motivi tecnici

Prendo a prestito l’aggiornamento di stato della mia ex collega Elisa (uno delle persone che ho più stimato nella mia attività professionale) per alcune considerazione su come sono/dovrebbero essere cambiate le logiche di costruzione e gestione del budget di marketing al tempo della turbocompetizione e del big data.

La turbocompetizione ha aumentato l’incertezza e la velocità del cambiamento degli scenari relativi a fornitori, concorrenti e clienti/consumatori.

Big data (wikipedia in italiano non spiega molto) offre la possibilità di misurare quasi tutto, praticamente in tempo reale.

Questi due fattori dovrebbero portare ad un cambiamento sostanziale nella costruzione e gestione del budget marketing nella direzione della flessibilità.

Nella classica costruzione del budget si ipotizzano le attività necessarie alla realizzazione delle strategie, gli assegna una priorità strategica, se ne stima il costo e quindi si allocano le risorse. Se il conto economico di previsione, i cui ricavi sono basati sul budget di vendita, è in linea con gli obiettivi della proprietà dell’azienda (qualunque sia la forma societaria il discorso non cambia) il budget ha buone probabilità di venire approvato, viceversa viene ridotto. giusto o sbagliato che sia infatti, le risorse per far quadrare il bilancio vengono attinte (quasi) sempre dal budget di marketing. Piccolo inciso: anche quando i budget di vendita e di marketing sono preceduto da un confronto tra le due funzioni (e non sempre avviene, oppure il confronto è superficiale per mere questioni di tempo) la logica prudenziale che deve, giustamente, guidare un budget porta calcolare il bilancio di previsione sulla base dell’ipotesi di vendita minima e di spese di marketing massime. Il conseguente rischio di inutile riduzione delle spese di marketing con conseguente minor sostegno alle vendite ad al brand/corporate equity (circolo vizioso), sono evidenti. Specialmente nella turbocompetizione di cui si diceva poco sopra.

La soluzione è la costruzione di un budget che alloca alle diverse attività solo una parte delle risorse complessive, per andare man mano ad allocarle su quelle azioni che, grazie all’uso del big data, si dimostrano più efficaci ed efficienti rispetto agli obiettivi, eventualmente anche eliminando attività già previste, ma che si dimostrano invece fallimentari (o inferiori alle aspettative).

Uovo di Colombo? Più o meno. Questa soluzione implica alcune cose (partendo da valle e andando a monte:
1) la capacità aziendale di acquisire ed analizzare i dati dall’ambiente (parlare di mercato rischia oggi di essere riduttivo);
2) la presenza in azienda di un sistema informativo/controllo di gestione in grado di trasmettere le informazioni ottenute dall’analisi a tutte le funzioni/persone responsabili della realizzazione del budget, con una frequenza maggiore rispetto al classico Revised di giugno e Forecast di settembre (è risaputo che nel controllo di gestione si parla inglese);
3) l’identificazione dei diversi aspetti e passaggi della strategia in modo da identificare i parametri che indicano il livello di efficenza ed efficiacia delle diverse attività, con le relative metriche. Non basta dire dove vogliamo arrivare, ma serve anche definire il percorso per poter verificare se siamo sulla strada giusta.

Lascio ad ognuno valutare quale di queste cose è la più difficile nella sua realtà.

Ricordo solo che è meglio un budget approssimativo che nessun budget perchè, come dimostrava una ricerca che ho letto nel 1994, per raggiungere i propri obiettivi bisogna innanzitutto definirli.

Scusate lo sfogo e la volgarità, ma il PD oggi è proprio un partito di m….

……. governa come prestanome di fatto di Berlusconi. Invece di usare i tagli (eventuali) della spesa pubblica per ridurre le imposte sul reddito di persone/imprese (e così ripristinare un livello di pressione fiscale ante-IMU) o riacquistare debito pubblico (a detta di tutti IL GRANDE problema del Sistema Paese) o quanto meno per scongiurare l’aumento dell’IVA (imposta non progressiva, che pesa proporzionalmente di più sui redditi più bassi e che genera una crescita più che proporzionale del costo della vita) li usa per eliminare l’IMU, tassa che si è dimostrata progressiva ai redditi dei contribuenti e che, essendo sul patrimonio, colpisce, almeno in parte l’immensa evasione fiscale (che la copertura si siatrovata anche tagliando i fondi per combattere l’evasione fiscale è la giusta nemesi, visto che l’ispiratore dell’operazione è il Berlusconi conclamato evasore). E oltre a farsi sburattinare continuano ad atteggiarsi a fini strateghi della politica ……, mentre è partita la campagna di Berlusconi “Abolizione dell’Imu promessa mantenuta” e la notizia della sua cancellazione è già sparita dalle prime pagine e dalle home page di tutti i quotidiani.
Ecco mi sono messo anch’io nell’inutile canaio della protesta virale (e questo NON è un post di marketing).

Learning from the leaders: AIA dakota e mangiata!

E’ da un po’ che ho in testa un post sulle campagne a cui sono stati fatti piccoli aggiustamenti per cercare di ovviera alla loro debolezza strutturale, ma che continuano a non potersi vedere/sentire ed in più hanno perso il piccolo vantaggio della ripetitività.
Però più passano gli anni e più mi viene da pensare al mio karma, quindi lascio da parte le negatività (per la cronaca le campagane che ho in mente sono conad, Negroni Negronetto, Poltrone e Sofà e Citroen) e scriverò invece di una strategia fatta bene: il lancio della slasiccia Dakota di AIA.

Conviene ricordare che AIA con Wudy ha creato il segmento del wurstel di pollo, riuscendo ad avere spesso un doppio display, sia nel reparto pollame che nel reparto wurstel. A conferma che l’innovazione quando è sostanziale riesce sempre a trovare un suo spazio (non solo metaforico).

Questo per dire che l’azienda ha una solida esperienza e competenza di innovazione di successo, che si conferma con il lancio da manuale della nuova salsiccia Dakota:

Dakota AIA

dakota AIA 2

Target (presunto): ovviemente non posso conoscere i piani di AIA, ma considerando che con Wudy già presidiano il target dei bambini e visto il resto della strategia, immagino che l’obiettivo fosse quello di rafforzarsi nel target maschile più adulto, diciamo dagli adolescenti in su.

Prodotto: tecnicamente la salsiccia è un wurstel macinato più grosso (ricetta a parte). Però la salsiccia è anche un prodotto tipico della salumeria di tutte le regioni italiane (cosa che non vale per il wurstel), quindi ha un vissuto più genuino, vero e tipico. In una parola più adulto.

Nome e claim: anche se il claim della campagna non appare sulla confezione (e questo è forse l’unico, piccolo, errore della strategia), credo sia giusto trattarli insieme, vista la pressione pubblicitaria. Dakota rimanda all’America, quindi nuovamente ad un mondo di particolare appeal per quel target adolescente raffigurato anche nello spot (c’è di meglio, ma non l’ho trovato). Un’analisi più approfondita dal punto di vista semantico (che condivido solo in parte, ma non mi rovinerò il karma proprio adesso) la trovate nel blog di Linda Liguori. Aggiungo solo che dai tempi di Keglevich una ricerca fatta con la Naming dimostrava la forza iconica (ossia semiotica) oltre che semnatica della lettera “K” e che la cosa più intelligente mi sembra il collegamento nel claim al “Cotto e Mangiato” diventato familiare ai consumatori grazie/a causa di Benedetta Parodi. L’utilizzo di concetto che rientrano nel frame of reference delle persone si dimostra sempre efficiace quando, come in questo caso, si evita la scopiazzatura.

Packaging: fin dal 1999 le ricerche dicevano che, soprattutto nell’alimentare i consumatori vogliono vedere il prodotto (questo stesso concetto è quello che ha portato le cucine a vista nella ristorazione di alto livello). Il packaging di Dakota porta questo concetto all’estremo mettendo il marchio sul lato trasparente della confezione ed utilizzando la parte colortata per le informazioni nutrizionali e di utilizzo del prodotto. in pratica hanno capovolto la confezione. Qeullo che si perde in attrattività (il marchio appare meno ricco) si guadagna in autenticità e credibilità, già elevata grazie alla garanzia della firma AIA. Da sottolineare anche l’evidenziazione del bnefit “Novità”, soprattutto considerando il target presunto, e qualità premium, che si rivolge al target degli acquirenti, mamme, piuttosto che a quello dei consumatori.
Sull’altro lato una grafica scarna e chiara spiega come preparare la salsiccia con i diversi “strumenti” di cottura, informazioni oramai fondamentali per la gran parte dei consumatori e indispensabili nel caso la mamma non sia in casa. L’aggettivo “scarna” per la grafica non va letto in senso negativo: a me sembra un eccellente esempio di barebone marketing che trasmette un percepito di concretezza e risparmio.

Campagna pubblicitaria: visto che non trova in rete i vari spot non mi dilungo. Sottolineo l’intelligenza dello spot da 10 secondi che si concentra sul benefit principale della cottura in 2 minuti (manca il claim, peccato). Negli spot più lunghi il benefit della rapidità rimane centrale, aggiungendo però la presenza del target di consumo, ragazzi, e di acquisto/preparazione, mamma. Anche se non si vede la mamma è comunque un elemento chiave dello spot, viene quindi coinvolta nelle scelte alimentari della sua famiglia, anzi è lei che cucina. Questo significa (auto)rassicurazione e gratificazione.

Prezzo: la prima volta che si acquista un prodotto è la fase in cui un cosumatore pone la massima attenzione al prezzo. AIA ha laforza di controllare il prezzo a scaffale dei suoi prodotti e quindi è stata in grado di seguire la classica strategia del prezzo di lancio, che favorisce la prova senza sposizionare il prodotto. Oltre al merito di saper comunque tenere la barra a dritta, all’azienda va anche il merito di adottare uno sconto del 50%, immagino in considerazione della difficile situazione economica di una ampia fascia di consumatori. Sarà interessante vedere se dopo la fase di lancio riusciranno a consolidare il (presunto) prezzo normale.

E la comunicazione social: 3.625 mi piace su fb sono un po’ pochi (anche se fossero tutti veri), però mi chiedo: ha un ruolo così importante per il lancio/successo di un prodotto come questo?

illywords mi ha lasciato senza parole

Premetto il rammarico con cui scrivo questo post. illywords e la rivista grazie alla quale ho scoperto la co-opetition, e questo basterebbe già a garantire la mia riconoscenza imperitura.
A questo si aggiunge che illywords è la dimostrazione che il marketing basato sui contenuti NON è qualcosa legato al mezzo (WEB), ma dipende dalle idee e dalla capacità di metterle in pratica (e su quest’ultimo aspetto il MEZZO web sicuramente aiuta). Chiedo scusa a McLuhan, ma il mezzo NON è il messaggio, i cui contenuti rimangono centrali nel risultato della comunicazione (anche nel caso della loro eventuale incoerenza con il mezzo). Il primo numero di illywords è del 2002, quando il web 2.0 non era nemmeno un’ipotesi.
Infine il rammarico deriva anche dall’ammirazione per quello che illy in termini di gestione aziendale e marketing.
Per tutte queste ragioni è stato un grosso dispiacere quando lo scorso giugno ho ricevuto il n. 34 di illywords ed il titolo/tema della rivista era “coffetelling”.
Ma come? illy che ha dato al caffè un’etica ed un’estetica di dimensioni mai immaginate prima? La prima reazione è stata di non togliere nemmeno il cellophane e cestinarlo così come stava.
Poi per le ragioni dette prima (e per la necessità di separare i materiali per la raccolta differenziata) l’ho aperto e sfogliato, ma non sono riuscito a leggere gli articoli. Non so se riesco a spiegarmi, perchè sono un po’ arrugginito dopo la pausa estiva, ma non mi interessa che illy mi parli del caffè coma una Lavazza qualsiasi. Non mi interessa perchè Illy è stato capace di trasmettermi un mondo di valori di eccellenza che nasce, ed allo stesso tempo trascende, dal prodotto. E’ l’eccellenza del design delle tazzine (l’eccelenza della forma prima ancora della grafica), l’eccellenza dei reportage di Salgado sul percorso del caffè fin dalle origini, l’eccellenza ottenuta pagando equamente i produttori, l’eccellenza dei corsi per preparare un espresso perfetto (perchè costa così poco (di più) che non ha senso accontentarsi di meno).
Spiegare queste cose non aggiunge niente, anzi avvicina illy a tutti gli altri caffè. Basta guardare gli altri numeri di illywords per capire cosa intendo.
Pensa che ti ripensa mi è venuto in mente un pensiero che quasi mi vergogno a dire: illy è rimasta (sta rimanendo) una marca degli anni ’90, che non riesce ad evolvere su/da quei valori che l’hanno portata al successo mondiale di cui gode, e che merita. Eccessivo? Forse, però poi girando per il sito illywords si trovano sezioni vuote (nella versione in italiano la sezione Magazine e quella People ad esempio) articoli diversi tra la versione in inglese e quella in italiano (dove comunque la maggior parte degli articoli è in inglese e allora che senso ha?), profili di persone vuoti, tipo Riccardo Illy, ecc..
Allora il dubbio che illy non sia più in grado di cogliere/interpretare/rappresentare lo zeitgeist come ha fatto in questi anni si fà più forte.
Dove guardare per trovare lo spirito del tempo? Io consiglio l’ultimo video di Katy Perry (magari da un tablet, così alla fine vengono fuori in automatico i mini video con le autocitazioni ai video precedenti).
Sempre sul tema del peso del successo, magari la prossima settimana parlo dello spot radio di Negroni, che continua a rifarsi alle pubblicità di cinquant’anni fa (non si può sentire).

Palinsesto estivo.

Ho un po’ di argomenti per i nuovi post, ma è giusto che tutti ci prendiamo una pausa (estiva). Spero di non dimenticarmeli da qui a fine agosto. Se proprio non riuscite a stare senza il marketing, consiglio di rileggere i vecchi post più strategici. Come dire che potete guardare le repliche. Buone ferie.

Coca Cola: l’avanguardia sempre e comunque.

Nella mia carriera professionale non ho mai voluto creare un reparto/funzione di trade marketing autonomo, separato dal brand management come ho spiegato molto sinteticamente in questo vecchio post.

Ieri al supermercato ho visto che Coca-Cola ha realizzato una bellissima strategia che conferma e allo stesso tempo smentisce questa mia scelta. Ecco le foto.

Espositore Coca Cola ortofrutta
Espositore Coca Cola gastronomia
buon appetito con Coca Cola

La realiazzazione della strategie risponde alla difficoltà che incontrano tutte le aziende (persino la Coca Cola) quando si tratta di avere del display fuori scaffale nei punti vendita di (relativamente) piccole dimensioni, come i supermercati. Se si considera che il supermercato è comunque la tipologia di negozio più importante a livello sia di numerosità che di vendite e che perde meno dell’ipermercato (dove invece lo spazio abbonda) si capisce l’interesse delle aziende a superare il problema.

Coca Cola l’ha fatto offrendo un servizio che risolve (o quantomeno riduce) il vincolo di spazio del cliente, incorporando all’espositore della Coca Cola le strutture che servona al punto vendita (il dispenser dei saccheti di plastica nel reparto ortofrutto e il distributore dei numeri al reparto panificio).
Conferma così la mia considerazione che i principi del trade marketing sono i medesimi di quelli del consumer marketing, sintetizzabili nel fornire servizi (che si possono concretizzare sotto le diverse forme di prodotti, strutture o servizi propriamente detti) che offrano vantaggi significativi al cliente.

Allo stesso tempo mi smentisce perchè sono (quasi) sicuro che Coca Cola ha una funzione di trade marketing (forse anche di più: una per canale) che si occupa di queste cose.

Due note a margine:
- incorporando attrezzature che servono al punto vendita Coca Cola si è messa nella posizione di ottenere uno spazio espositivo extra scaffale permanente. sono curioso di vedere cosa succederà dopo l’estate.
- continuando a dare visibilità al claim “Buon appetito con Coca Cola” sta rafforzando il proprio posizionamento nel momento di consumo di bevande (pasti nelle loro diverse forme) che genera il maggior consumo quantitativo (mentre il vino continua il suo inesorabile (?) declino abbandonando i suoi valori di convivialità e genuinità.

Ancora una volta Coca Cola conferma di essere un’azienda ricca di idee, prima ancora che di soldi.

Le conseguenze della crisi economica: occupazione e disoccupazione in Italia – 2

Per varie ragioni riesco solo oggi a scrivere la seconda parte dell’ultimo post dedicato alle conseguenze della crisi economica ed all’occupazione/disoccupazione in Italia (la serie è cominciata lo scorso 3 marzo con il post sulla crisi economica e il ritorno del lusso).

In realtà non potevo essere più tempestivo visto che capito pochi giorni dopo il vertice UE dedicato principalmente ai problemi occupazionali. Un po’ fortuna (ci vuole anche quella) e un po’ scelta fatta in base alla convinzione che lo scorso 28 aprile, quando ho scritto la prima parte di queste considerazioni, la presa di consapevolezza del problema occupazionale da parte delle istituzioni fosse appena iniziata. Una interessante dimostrazione di come la rapidità che domina il pensiero e l’operatività delle aziende (italiane) sia un falso mito che rischia di portare ad affrontare le cose in maniera affrettata. Come diceva Galbraith l’azienda di successo è quella che non è nè troppo in anticipo, nè in ritardo: è giusta. Io condiviso sostanzialmente, ma credo che l’azienda di successo sia quella che è leggermente in anticipo ed è cosciente di esserlo, però questo è un’altro post.

Tornando all’argomento occupazione, dopo aver letto la prima parte, un amico e lettore del blog mi ha consigliato di ridurre/evitare derive su argomenti dove non ho la stessa autorevolezza di quando parlo di marketing perchè rischio di fare chiacchere da bar (questo non l’ha detto lui, ma lo sintetizzo io). Probabilmente c’è del vero e quindi questo post non sarà sostenuto da regionamenti raffinati e dati quantitativi come spesso succede in questo blog, quanto piuttosto si baserà su pensieri che nascono da anni di pratica osservazione della situazione economica in posizioni di responsabilità in aziende medie e grandi. Però questo post lo scrivo comunque, sia perchè non mi piace lasciare le cose a metà, sia perchè gli anni di pratica di cui sopra una qualche esperienza sull’argomento me l’hanno data.

Terminate le premesse comincio da dove ho finito la prima puntata.

La Fornero ha ragione quando dice che non si possono proteggere i posti di lavoro, però è necessario e doveroso difendere le persone che lavorano (non uso il termine “lavoratori” per lo stesso motivo che non uso il termine “consumatori”: sono parole che riducono le persone ad una singola funzione e quindi concettualmente limitanti, oltre che ideologicizzate). Mi spiego con un esempio: è inutile difendere il lavoro del postino quando nella società si diffonde la comunicazione digitale (parlate con i diciottenni, scoprirete che praticamente non usano le e-mail perchè per loro è un mezzo antiquato), è necessario e doveroso difendere i postini (sul come ci arrivo tra un po’).

Ha ragione Casaleggio a dire che la vita non è (dovrebbe essere) andare/lavorare in ufficio 40 ore alla settimana per 45 anni, però rischia di essere un po’ un discorso da benestanti che se lo possono permettere perchè non ne hanno bisogno (viene in mente il gesto dell’ombrello + pernacchia ai “Lavoratoooori?” di Alberto Sordi ne “I vitelloni” di Fellini). Soprattutto vale la pena di riflettere che vivere in una società di cacciatori-raccoglitori non è lo stesso nei climi temperati o ai climi tropicali e che, se ne hanno la possibilità, anche a chi vive nelle società basate sull’autoconsumo piace guardare la televisione.

Aggiungo un elemento personale: mia papà ha sempre lavorato nella pubblica amministrazione, da maestro a dirigente regionale, ed è sempre stato cosciente che il suo lavoro (servizi) era reso possibile dal valore aggiunto creato da chi produceva reale valore aggiunto. Questo non significa che i servizi siano inutili o, peggio ancora, non valgano niente.
Anche qui meglio chiarire il concetto di valore aggiunto con un esempio semplificato prima che si crei confusione.
Se io semino un campo di grano utilizzando 1.000 chicchi ed in un anno per avere l’energia per lavorare quel campo consumo 18.250 chicchi, avrò del valore aggiunto a partire da un raccolto di 18.250 + 1.000 = 19.250 chicchi. L’eventuale surplus è quello che potrò scambiare sulla base della soggettività del concetto di utilità per ottenere/sostenere i servizi. Voi potete aggiungerci tutti i meccanismi di scambio, dal baratto ai derivati, ma in nuce la sostanza è questa e le crisi economiche si verificano quando si verifica un (eccessivo) disallineamento tra il costo dei servizi ed valore aggiunto reale creato.
Non è il caso di approfondie oltre questo tema, però è importante tenere a mente il concetto di valore aggiunto e di servizio.

A questo punto ho una notizia per il premier Letta: c’è un calo strutturale dei consumi primari (agricoltura) e secondari (industria) dovuto sia agli andamenti demografici che alla riduzione delle risorse naturali (quanto questa riduzione nasca dall’eccessivo sfruttamento o quanto da una diversa consapevolezza delle persone nei confronti dell’ambiente poco importa). Questo significa che c’è un calo del valore aggiunto reale attraverso cui finaziare la domanda crescente di servizi. Detto in altri termini: il lavoro non si crea dal nulla come un’opera d’arte.

Ho anche un’altra notizia a Letta che dice che dice che le aziende non hanno più alibi con i nuovi incentivi che defiscalizzano le assunzioni OVVIAMENTE a tempo INDETERMINATO. Le aziende, complice il generale clima di incertezza a cui la politica non è estranea, non stanno pianificando a tempo indeterminato, bensì a breve o brevissimo. Le aziende stanno puntando a migliorare la propria flessibilità, in modo da poter adattarsi agli andamenti incerti ed oscillanti dei mercati. il personale assunto a tempo indeterminato aumenta i costi fissi strutturali (poco importa se per un periodo l’aumento è contenuto dagli incentivi)

Gli incentivi che riducono il costo delle assunzioni porteranno principalmente ad un risparmio su assunzioni che le aziende avrebbero comunque fatto. Quanto e come questo risparmio verrà re-investita nel rafforzamento delle aziende è un’altra storia.

Ricordo un mio ex Consigliere Delegato dire che se ci fosse stata una norma che permetteva ogni anno di licenziare (con i dovuti preavvisi ed indenizzi) l’1% della forza lavoro, avrebbe assunto di più. Questo perchè una norma di questo tipo avrebbe messo l’azienda al riparo dai problemi causati da dipendenti che per un dito rotto (fuori dal lavoro) con varie scuse stavano a casa 6 mesi (situazioni reali, vissute in prima persona). (Può sembrare) cinico se visto all’interno degli attuali sistemi e paradigmi, però alle aziende generalmente non interessa licenziare qualcuno che fa normalmente bene il proprio lavoro perchè comunque ha già fatto tutto quel percorso di adattamento/inserimento in azienda attraverso cui un nuovo assunto dovrebbe giocoforza passare.

Mi sento di dire che l’incentivo ad assumere per le aziende in crescita (ci sono anche quelle per fortuna) verrà più da una maggiore FLESSIBILITA’ del lavoro che dalla sua defiscalizzazione.

Come evitare però il rischio di abusi e l’equivalenza flessibilita’=precarietà?

Cambiando il paradigma. C’è stato un momento all’inizio dell’attuale crisi economica, in cui (sembrava) si è discusso seriamente sulla necessità di cambiare i paradigmi politico-economici delle società basate sulla libera economia di mercato. Adesso quel momento è passato, senza che sia cambiato molto (direi niente, a parte l’iniezione di denaro pubblico nel sistema bancario).

Allora io, nel mio piccolo, lancio un’idea provocatoria che il problema non sta tanto nel tasso di disoccupazione quanto nella distribuzione del valore aggiunto (reddito).

Io vedo come un fattore di progresso i caselli autostradali ad elevata automazione che hanno eliminato un lavoro noioso come quello del casellante, ma ovviamente non lo è se l’ex casellante diventa povero perchè tolto quel lavoro non gli rimane niente (e sono stati buono, non ho preso come esempio il lavoro in miniera).

Ecco quindi che rientra il concetto Fornero di protezione delle persone (che lavorano). Concetto che si può collegare al reddito di cittadinanza propugnato in campagna elettorale (e nel suo programma) dal Movimento 5 Stelle.

Utopia? Illusione? L’anno scorso in un articolo di non mi ricordo che giornale straniero pubblicato sull’Internazionale, l’autore prevedeva che tra un po’ di anni (5? 10? 20?) il reddito di cittadinanza sembrerà una cosa normale come lo sono oggi le 40 ore settimanali, che i pionieri della rivoluzione industriale vedevano come un’assurdità.

Affrontare il problema dal punto di vista della distribuzione del valore aggiunto permette anche di rispondere alla domanda di tipologie di lavoro di cui ha bisogno la società. E’ facile prevedere (l’ho anche letto da qualche parte, ma non ricordo dove) che le maggiori richieste di occupazione nei prossimi anni verranno dai settori dell’innovazione (soprattutto digitale) e dell’assistenza alla persona. Ossia in gran parte dai servizi, posti di lavoro che devono essere sostenuti (finanziati) redistribuendo in modo diverso da oggi il valore aggiunto reale.

Questo risponde al problema flessibilità=precarietà, e per gli abusi da parte delle imprese e delle persone?

Qui torno a rivolgermi a Letta (non che mi aspetti che mi ascolti) perchè ci vuole un’Amministrazione Pubblica efficace ed efficiente in grado di effettuare controllo reali, continui e costanti per applicare con equità sanzioni severe a chi si approfitta delle politiche di solidarietà. Confesso che questo mi sembra il punto più difficile.

Utopia? Illusione?

Vi lascio con 3 link: qui e qui trovate approfondimenti sulla questione dell’occupazione a livello europeo, mentre qui trovate 1:42 minuti di speranza (è in spagnolo, ma credo si capisca).

Alcune considerazioni in vista della presentazione del 2° rapporto di filiera “Vino: futuri Possibili”

Nuovamente ringrazio Franco Ziliani che ha avuto la cortesia di ospitare un mio post nel suo blog “Vino al Vino”. Buona lettura.

http://www.vinoalvino.org/blog/2013/06/quale-principe-azzurro-risvegliera-lenologia-italiana-e-arrivera-in-tempo.html

Ecco cosa ho visto al London International Wine Fair (e non solo).

Ho un certo ingorgo (mentale) di post che dovrei/vorrei scrivere ma non ne trovo il tempo. Allora, visto che sono in ritardo, tanto vale che faccia una salto nell’attualità con alcune impressioni riportare dall’ultimo LIWF (pensare che non ho ancora scritto il post sul Prowein+Vinitaly ed il futuro ridimensionamento del vino italiano).

L’India per il vino italiano sarà la nuova Cina ….. intanto gli indiani presentano i vini di loro produzione in quello che è il loro ovvio primo mercato di riferimento

Una delle categorie di bevande in maggior crescita sono quelle a base vino, uno dei più importanti produttori e l’azienda italiana Bosca che esporta milioni di bottiglie sui mercati esteri nell’indifferenza generale, perchè qui il vino si concepisce solo come storia, territorio, rispetto, autenticità, ecc… intanto i francesi allargano i loro assortimenti con marchi che utilizzano parole italiane (da notare: l’indicazione di un vitigno, l’evidenza del basso grado alcolico, l’indicazione delle calorie, la dicitura in etichetta frontale “Aromatizated wine – product cocktail)

“Vi sono più cose in cielo ed in terra Orazio di quante se ne sognano nella vostra filosofia”. La frase di Amleto vale anche per il vino …. sarà per questo che c’è bisogno di una mappa per orientarsi?

….. magari copiando da altri settori contigui come questa esposizione di whisky all’aeroporto di Zurigo

… oppure ricordandosi che gamification è una delle parole d’ordine del futuro, come facevano i francesi al Prodexpo di Mosca di quest’anno.

(l’anno scorso alla fiera Imbibe, sempre a Londra, Bibendum aveva un pannello con un percorso sensoriale, ma non trovo più la foto).

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Comunque se non siete stati al LIWF, non avete perso molto. Tanto che l’anno prossimo la spostano al (più piccolo e più centrale) Olympia Center.

L’evoluzione del (bisco)marketing: la P di Place diventa PRESENZA e quella di Promotion diventa PERCEZIONE.

In apertura di questo post voglio innanzitutto reiterate la mia assoluta e totale deferenza a Philip Kotler ed al suo testo fondante Marketing Management.

E’ una cosa che ho affertamo e spiegato più volte in questo blog, quindi non mi dilungo oltre, limitandomi a linkare l’ultimo della serie dei post fatti a suo tempo dopo aver partecipato al suo seminario a Milano nel 2007 (tempus fugit). Oppure cercate Kotler all’interno del blog e vedete quanti post vengono fuori.

Fatta questa doverosa premessa per evitare di essere arruolato nelle schiere di coloro che dicono che Kotler oramai è superato solo per darsi un po’ di visibilità, devo anche confessare che la definizione di 2 delle “4P” mi è sempre sembrata risolta in modo non eccezionale.

Mi riferisco alla P di “Place” per definire la distribuzione e, soprattutto, a quella di “Promotion” per definire il complesso delle strategie e tattiche di pubblicità, pubbliche relazioni, promozioni di vendita (sia di prezzo che concorsi ecc…) e vendita diretta.

Se nel caso di “Place” si tratta solo di un termine un po’/molto lato rispetto a quello che descrive, ma nel caso di “Promotion” il termine mi sembra veramente limitato per rappresentare tutto quello che dovrebbe concettualmente comprendere. Tra l’altro le promozioni alla vendita confinano con le strategie di prezzo (che d’altra è una delle caratteristiche con il più forte potere di comunicazione nel posizionamento complessivo di una marca) e le vendite dirette (Personal Selling nella terminologia kotleriana) sono più tattiche di push che strategie di pull. in altre parole, mi sembrano quasi estranee al marketing se non fosse che esistono (eccome se esistono) e quindi non si possono ignorare se si vuole descrivere ed applicare il concetto di marketing nella sua completezza.

Ad ogni modo peccati tutto sommato veniali rispetto alla globalità della teorizzazione del marketing management, sostanzialmente delle licenze poetiche al servizio della forza didattica ed analitica del concetto delle “4P”.

In italiano le cose cambiano perchè le”4P” si perdono. Io ho il vezzo di non utilizzare i termini inglesi se non è strettamente necessario (per dire, uso “mercato obiettivo” e non “target market”) e quindi per Promotion ho spesso usato nella didattica e nelle pubblicazioni il termine “strategie promo-pubblicitarie”. Soluzione didascalica talmente brutta e scomoda che sul lavoro credo di non averla usata mai.

Per la “Place” però non c’è trucco che tenga, si finisce sempre su “Distribuzione” e quindi le “4P” vengono inquinate e quindi indebolite.

Confesso che non essere riuscito a trovare un modo di replicare l’eleganza del concetto di Kotler in italiano è sempre stato un mio piccolo cruccio e così quando l’altro giorno mi sono messo a scrivere la presentazione sull’ABC del marketing del vino per la Vinix Unplagged Unconference (se volete potete votare le presentazioni che saranno discusse il 17 a Genova fino al 31 maggio, però solo se siete iscritti a Vinix. Iscriversi a Vinix solo per votare una presentazione è tecnicamente possibile, ma moralmente censurabile, un po’ come fare il consigliere regionale grazie alle proprie doti come ballerina di burlesque (parenti nella parentesi: ma se quelle erano le cene eleganti, quando la buttavano un po’ in vacca cosa facevano?)), l’altro giorno dicevo mi sono detto che dovevo trovare un modo almeno decente di mantenere intatte le “4P” anche in italiano.

L’ispirazione mi è venuta dall’evoluzione del contesto determinato dall’affermarsi del web nella nostra vita (alla VUU modererò la sessione sull’e-commerce).

Ecco allora che per rappresentare meglio l’attuale multicanalità della distribuzione dei prodotti (non solo e-commerce, ma anche negozi temporanei, ristoranti che vendono gli arredi ecc…) ho tradotto la P di “Place” con PRESENZA. Termine che aiuta a pensare le strategie distributive in termini, appunto, di PRESENZA del prodotto nei luoghi (analogici o digitali) dove si trovano i consumtori.

La P di “Promotion” invece l’ho tradotta con PERCEZIONE. Anche qui la logica è rappresentare la frammentazione dei diversi canali e delle modalità attraverso cui le persone si creano l’opinione sulle marche e quindi indirizzare il pensiero delle strategie comprese nel concetto kotleriano di “Promotion” in base al risultato che avranno sulla percezione della marca (secondo voi i gestori di telefonia si sono mai chiesti che influenza hanno sulla percezione della marca le loro invasive campagne di telemarketing?).

Magari non sarà una soluzione perfetta, ma mi sembrano licenze poetiche accettabili per avere davvero, finalmente, anche in italiano le “4P” del marketing.

Se volete vedere la presentazione la trovate qui. Ovviamente mancano tutti i commenti e gli approfondimenti che farò a voce perchè una buona presentazione devono contenere solamente gli spunti e le sottolineature necessarie all’oratore. Se viene votata tra le prime 10 li sentirete a Genova (se venite), altrimenti bisognerà trovare un’altra occasione.

La disoccupazione continua ad essere argomento di crescente dibattito, quindi il mio post conclusivo sull’argomento non è ancora fuori tempo massimo..

A proposito della Coca Cola…..

Non sono d’accordo con i due commenti che Daniele Zanette e Diego Illeterati hanno fatto al mio ultimo post (questo ovviamente NON significa che io abbia ragione).
Troppo comodo pensare che le attività della Coca Cola hanno successo sempre e comunque grazie all’ampiezza dei budget. Almeno per 4 motivi:
1. I budget di cui dispone la Coca Cola sono commisurati all’ampiezza dell’audience, alla portata degli obiettivi da raggiungere ed alla forza dei concorrenti.
2. Le strategie mal pensate e peggio realizzate portano ai flop clamorosi di cui è pieno il mercato; e più grandi i budget, maggiori le perdite. Lo dico perchè viceversa le grandi multinazionali non sbaglierebbero mai un lancio (restando alla Coca Cola, ricordo il disastroso lancio della New Coke nel 1985, indipendentemente dal fatto che siano poi riusciti a trasformarlo in un successo), lo dico perchè l’ho visto succedere, anche sotto il mio naso. E questo è tanto più vero oggi perchè la frammentazione dei media, il moltiplicarsi dei messaggi, il conseguente abbassarsi dell’attenzione e la fruizione attiva del mezzo web hanno alzato il livello di investimento in mezzi e risorse umane per coprire in modo effettivamente massiccio l’audience.
3. Anche nel caso di una pressione comunicativa che permette di far passare comunque il messaggio (esempi emblematici Ferrero e Mulino Bianco in TV), una strategia concettualmente forte e chiara, ben realizzata renderà l’investimento nei mezzi più efficace di una strategia debole, mal realizzata. Lo so che sembra (è) una tautologia, però proprio il fatto che un grande budget porta spesso comunque qualche risultato, rischia di mascherare innefficacia ed inefficienza nello definizione della strategia e nella sua realizzazione.
4. Soprattutto è troppo comodo ridurre l’efficacia delle strategie di Coca Cola al budget nel momento in cui il diffondersi della fruizione del web per le attività più diverse (informative, ludiche, sociali, ecc….) ha abbassato enormemente i costi di accesso alla propria audience.

La differenza la fanno sempre di più le idee e la capacità di realizzarle/trasferirle in modo coerente, trasparente ed efficace alla propria audience.

Oggi efficace significa anche che le strategie devono avere una componente tattica (essere un moltiplicatore dei risultati a breve) e le tattiche una componente strategica (supportare e rafforzare il posizionamento/l’identità della marca).

Però misurare le strategie di pubblicità e PR in base agli effetti sul breve è una miopia di breve periodo che porterà giocoforza a ridurre gli investimenti sulle fondamenta della marca e quindi ad indebolirla nel medio periodo. Credo che l’evoluzione del settore nel mobile del manzanese sia emblematico in questo senso. Chi ha avuto la capacità di sviluppare una visione del proprio business è sopravvissuto (e magari prospera), chi ha cercato di resistere nel breve con una concetto di produzione o, bene che andasse, con una concetto di vendita sofre (o purtroppo è sparito).

E’ per questo che è importante imparare da quelli bravi, indipendentemente dal fatto che siano grandi o meno. Spesso però i grandi hanno la necessità e la mentalità di misurare gli effetti di quello che fanno per le ragioni di cui sopra, quindi fanno più ricerche ed analisi.

Tornando alla Coca Cola, giovedì ero in giro, mi fermo in autogrill e vedo le bottiglie della Coca Cola con i nomi di persona, mentalmente mi tolgo il cappello davanti all’idea che hanno avuto che uno possa prendersi la Coca Cola con il suo nome, mi avvicino per prendere la MIA Coca Cola e quando leggo l’etichetta vedo che gli strateghi della Coca Cola sono andati oltre le mie aspettative (always try to exceed consumer expectations diceva il mio professore di Marketing Management in Canada).
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Non si tratta, egoisticamente, di comprare la MIA Coca Cola, ma di condividere una Coca Cola, un momento di felicità, con una persona ben precisa. Non vi piacerebbe che qualcuno comprasse per voi una Coca cola con il vostro nome? Oppure non vi sembra una buon sistema di rompere il ghiaccio con qualcuno appena conosciuto quello di dargli una Coca Cola con il suo nome? Oppure con un aggettivo che lo rappresenta (a me sono sembrati in sincerità un po’ artificiali, ma magari è perchè sono fuori target)?
Sottolineo l’uso della parola “condividere”, che 10 anni fa sarebbe stata obsoleta e troppo aulica, ma oggi è assolutamente familiare nel linguaggio del web. D’altra parte il claim globale è o non è “share the happiness“.
Qui non si tratta di budget, qui si tratta di sviluppare una strategia che fa evolvere la marca, declinando i valori universali su cui si basa la sua identità in modo da mantenerne la vicinanza ad un target sempre più ampio in una logica additiva e non sostitutiva. Più che spostarsi, la personalità della marca si allarga.
Strategia di comunicazione sul pack (già ai tempi della Keglevich ho sostenuto ed utilizzato il fatto che 1,5 milioni di bottiglie sugli scaffali sono un media, figuriamoci 350) che si integra egregiamente con la campagna di comunicazione sui media “classici” in cui il Presidente 17enne della Coca Cola (in un paese gerontofilo, messaggio forte) annuncia a tutti, in special modo alle mamme (ampiezza del target) la sua decisione di regalare 1 bicchiere di felicità (non sconti, tagli prezzo o 3×2).
Un percorso forte e coerente inziato nel 2009 con la campagna della semplicità in tavola, proseguito nel 2010 con quella della formula della felicità e nel 2012 con la campagna “Ceniamo insieme” con protagonista Simone Rugiati.

Quindi secondo me la strategia della Coca Cola ha successo innazitutto per la validità dei concetti, la coerenza della strategia e la bontà della realizzazione.

Dopodichè nessuno è perfetto: nello scirvere questo post sono andato sul sito www.cocacola.it e non è bello trovare la scritta “stappa la felicit” senza la “a”, nè la finestra di fb bianca.

Per concludere, e non lasciare Diego senza risposta, la ricerca di Facebook e Datalogix non dava un risultato della pubblicità su fb 3 volte superiore ai media tradizionali. Dava, nel 70% dei casi, un ritorno pari almeno a 3 volte l’investimento media.

Comunque se penso alla multicanalità nella fruizione dei media ed ai canali di acquisto (mi informo sul web anche per gli acquisti off line) non mi stupisce che la pubblicità su fb abbia dei meccanismi simili a quelli dei media tradizionali. D’altra parte anche youtube alla fine non altro che una TV. Solo che posso targettizzare l’esposizione allo spot molto peglio che con tutti i mezzi off line.

E’ tardissimo, buonanotte.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale) 2.

Quando il primo maggio ho scritto il primo post su questo argomento non prevededo una seconda puntata.

Poi però mi sono accorto che gli interessanti stimoli forniti dalle pubblicazioni dell’American Marketing Association, mi avevano fatto dimenticare lo spunto da cui originariamente avevo avuto l’idea di scrivere su questo argomento.

Lo spunto in questione è stata la notizia dello scorso 19 marzo secondo cui uno studio condotto dalla Coca Cola rilevava che il livello di buzz della marca aveva un effetto praticamente nullo sulle vendite a breve termine.

Ora al di là dei distinguo fatti dal management della Coca Cola già nel comunicare i dati della ricerca e dall’innegabile moda per cui molte aziende investono (investivano) in attività web, social, buzz etc.. senza darsi degli obiettivi precisi nè dotarsi di strumenti di misurazione dei risultati, la notizia mi è sembrata fin da subito una s…tupidaggine.

Per la serie le ricerche bisogna saperle scrivere ogni analisi deve essere realizzata con un obiettivo di ricerca relativo ad un’ipotesi sul fenomeno analizzato. E l’ipotesi che il buzz abbia un rilevante effetto sulle vendite a breve termine mi sembra, quanto meno, sorprendente.

Secon l’approccio, che a questo punto definirei classico, del Kotler il Promotion mix che compone la “P” di promotion delle “4 P” marketing è formato da pubbiclità (advertising), pubbliche relazioni (publicity), promozioni alla vendita (sales promotion) e vendita diretta (personal selling). I primi due strumenti hanno prevalentemente la funzione di fornire alle persone ragioni per l’acquisto mentre gli ultimi due svolgono la funzione di fornire incentivi all’acquisto.

E’ evidente che l’effetto di pubblicità e PR si realizza nel periodo medio-lungo mentre promozioni e vendita diretta agiscono nel breve.

Ora, mantenendo l’approccio per cui l’avvento del web ha influenzato prevalentemente le modalità operative del marketing e della comunicazioni, non i concetti, io assimilerei il buzz alle PR. Ecco quindi che scoprire che non c’è una forte correlazione tra buzz e vendite a breve termine non mi stupisce.

C’è poi l’altra questione della difficoltà di misurazione degli effetti delle diverse attività di marketing sulle vendite, soprattutto di quelle che hanno il compito di creare il posizionamento della marca, ossia una predisposizione favorevole da parte del mercato (a quanto ne so le tecniche quantitative più efficaci sono ancora le regressioni doppio log con le vendite come variabile dipendente e gli investimenti nelle varie attività di marketing come variabili indipendenti, analisi sui cui limiti non mi sembra il caso di entrare qui).

Restando a livello concettuale è chiaro che l’effetto di un taglio prezzo (promozione alle vendite) o di una attività di telemarketing (vendita diretta) è fortemente influenzato dalla conoscenza e dall’immagine della marca creata dalle attività di pubblicità e PR realizzate non solo nel momento in cui taglio prezzo e telemarketing vengono realizzati, ma anche nei periodi precedenti. La difficoltà però sta nel separare l’effetto di pubblicità e PR dal resto.

In Coca Cola ne sono ovviamente ben coscienti, come dimostra questo intervento di Wendy Clarck, Direttore di Comunicazione di Marketing integrata della Coca Cola.

Ma c’è un altro motivo per aspettare prima di cantare il de profundis della comunicazione (in senso ampio) sul web. In base alle ricerche condotte dalla Datalogix sulle campagne pubblicitarie realizzate su Facebook risulta che i banner pubblicati sulla colonna di destra del nsotro schermo hanno un ritorno che, nel 70% dei casi, è superiore di tre volte rispetto al costo dell’investimento. Secondo queste ricerche le modalità con cui agiscono questi banner sono assimilabili a quelle degli spot TV (si torna al modello teorico kotleriano classico).

Quelo che invece è sorprendente è che secondo questi dati non c’è alcuna correlazione tra l’efficacia della campagna banner ed il numero di clik sul banner stesso. E questo mette un forte dubbio sul Sacro Graal della misurazione dell’effecicia della comunicazione on line.

Consiglio vivamente di leggere il breve articolo sull’argomento pubblicato su l’Internazionale n. 993.

La prossima volta concludo le disquisizioni su occupazione e disoccupazione, promessa.

Teoria e tecnica della comunicazione (digitale).

Dopo l’ultimo post su occupazione e disoccupazione un amico mi ha detto che sto sfocalizzando troppo il blog, che rischio il delirio tuttologico e l’appannamento della credibilità dedicandomi ad argomenti in cui non sono esperto.

C’è del vero, quindi ribadisco il core business di questo blog con un post strettamente di marketing, ispirato anche dal fatto che durante il recente viaggio di lavoro a Chicago, sulla strada per l’aeroporto ho trovato una mezz’ora per passare per gli uffici dell’American Marketing Association, rinnovare la mia iscrizione e recuperare i vecchi numeri di Marketing Management che non avevo ricevuto (da qualche parte c’è un postino esperto di marketing).

Comincio dicendo una cosa che ho ripetuto spesso nei miei post; i principi del buon marketing non sono cambiati (molto) nel tempo e non cambiano tra i diversi settori, quello che cambia è il contesto e quindi le modalità di applicazione.

Dimostrazione
Questi sono i principi di una buona pubblicità presentati da un manager di una grande agenzia italiana/multinazionale al master SMEA nel1988 (per capirsi 5 anni prima che fosse creato il World Wide Web e quando il fax era una novità che avevano solo qualli più all’avanguardia): una buona pubblicità deve
- essere rivolta direttamente al consumatore;
- espressa nel linguaggio che il consumatore utilizza normalmente;
- concentrata su una sola idea;
- concentrata sull’idea chiave identificata dalla ricerca di mercato;
- avere un trattamento unico e competitivo;
- essere credibile, non ingannatoria;
- essere semplice, chiara e completa;
- avere un messaggio combinato strettamente con il prodotto (servizio) che promuove;
- sfruttare pienamente il mezzo utilizzato;
- spingere all’acquisto.

Cambiate pubblicità con comunicazione ed avrete delle ottime linee guida per le vostre strategie di comunicazione (anche digitali) nel 2013.

In realtà la differenziazione digitale/analogico è solamente tecnica, non concettuale perchè tutto avviene nella testa delle persone e la testa è una.

In un’intervista David Meerman Scott dice giustamente che se qualcuno cerca informazioni riguardo ad un prodotto sul web non gli interesse se le trova attraverso google o i propri contatti, se le trova su un blog, un articolo, un video su youtube oppure il sito di un’azienda. La migliore informazione (in termini di completezza e credibilità n.d.a.) sarà quella che vince.
Io aggiungo che mi sembra sbagliato limitarsi solamente al web, lo stesso ragionamento vale se l’informazione arriva da uno spot TV/radio, da un giornale stampato, dal commento di un amico/conoscente. Il mondo delle persone è uno solo e dentro c’è sia l’off che l’on line.

Lo stesso autore identifica 4 modalità che le organizzazioni hanno per generare attenzione nei loro confronti, le prime tre legate all’analogico e la quarta legata al Web.
1. BUY Le organizzazioni comprano attenzione (si chiama pubblicità).
2. BEG Le organizzazioni elemosinano attenzione (si chiamano pubbliche relazioni).
3. BUG Le organizzazioni scocciano le persone una alla volta per avere la loro attenzione (si chiama vendita diretta).
4. EARNLe organizzazioni ottengono attenzione on line creando contenuti interessanti e pubblicandoli gratuitamente sul web.

A parte che sarebbe stato più elegante trovare un termine che iniziasse con la “B” anche per l’ultima modalità (bring in non ha esattamente lo stesso significato, però è un buon sinonimo ed avrebbe permesso di parlare delle “4B”), non sono d’accordo con questa visione concettualmente web centrica.

La rilevanza del messaggio (sintesi di interesse del contenuto, credibilità dell’emittente e visibilità del mezzo) è comunque la precondizione per avere l’attenzione dell’audience (che altro non è se non un sinonimo di “segmento di mercato”).
Viceversa la pubblicità resta un mero acquisto di spazi media, le PR uno spreco di carta che finiscono nel cestino dei giornalisti/bloggers/lettori (a seconda del livello a cui bengono cestinate e scocciare le persone rimane esattamente scocciare le persone, quindi un boomerang comunicativo.

Le differenze tecniche nell’attuale ambiente socio-mediatico riguardano la facilità, basso costo e rapidità con cui è possibile diffondere i messaggi sul web, messaggi che possono poi riverberarsi sui media off-line se sufficientemente rilevanti.

L’implicazione, sottolineata da Scott è che si riduce il vantaggio competitivo della dimensione e del potere d’acquisto dei media da parte delle organizzazioni a favore della velocità e dell’agilità (io ci aggiungerei anche capacità ed accuratezza, elementi costitutivi della credibilità). In altre parole un concetto che ho imparato nel 1994 e mi è capitato di utilizzare spesso in azienda: non sempre il più grande batte il più piccolo, ma (quasi) sempre il più veloce batte il più lento.

Ma veloci in cosa? Già in passato in un vecchio post ho detto che nessuno compra prodotti, tutti comprano i servizi che ottengono dall’uso dei prodotti.
John Deighton in un’altro articolo da un’interessante definizione di quello che è il modello di business del nuovo secolo dicendo che siamo tutti nell’editoria nel senso che il modello di business in tutti i settori si basa(baserà) sulle capacità di creare contenuti, cercarli, selezionarli e disseminarli verso un audience, mappare il percorso dell’audience rispetto ai contenuti disseminati e, alla fine, monetizzare. Ogni azienda dovrà definire il proprio posto nello scenario competitivo attraverso i contenuti che è in creado di creare o aggregare. Cambiano le tecniche, ma il concetto di positioning come quello che rappresenta l’azienda/marca nella testa dei consumatori rimane sostanziale immutato.

Adesso che ho ribadito il mio diritto di cittadinanza nel territorio del marketing, posso dedicare il prossimo post alla seconda puntata degli effetti della crisi su occupazione e disoccupazione (lasciare il primo in sospeso non sarebbe serio e pure antizodiacale

Le conseguenza della crisi economica: occupazione e disoccupazione in Italia – 1.

Confesso che questo post continuavo a rimandarlo perchè l’argomento contiene in sè una dose di tragedia che rende difficile e cinico trattarlo con la necessaria astrattezza.

Però mi è sembrata la naturale conclusione della serie di considerazioni sulle conseguenze della crisi economica, visto che il calo dei consumi in un economia consumistica non può che portare ad un calo dell’occupazione. Quindi, per una (strana) forma di onestà intellettuale mi sembrava scorretto sottrarmi a questo post.

C’è poi un altro motivo che mi ha portato a riflettere sull’argomento: se c’è una questione per cui si arriverà a cercare e formulare il nuovo paradigma economico di cui si parla del 2008, questa è quella del lavoro.

Riguardo alla vergogna di dire delle stupidaggini su un tema cruciale per la vita di tante persone, ho quanto meno la tranquillità che non potrò far peggio dei docenti di Harvard teorici della regola che un debito oltre al 90% del PIL frena la crescita delle nazioni: uno studente di dottorato ha dimostrato che il loro studio si basa su dati lacunosi e sbagliati per gli errori nel definire l’intervallo delle celle in alcune somme del foglio excel utilizzato nei calcoli (chiedo scusa se i riferimenti sono in spagnolo, ma ovviamente la stampa italiana era troppo occupata a tessere le lodi dell’abilità negoziatoria che ha permesso di formare il governo più golpista della storia repubblicana per occuparsi di notizie così marginali).

Comincio allora dai freddi numeri, cercando di fare attenzione.

Secondo quando riportato dallo studio dell’Istat sulle serie storiche di occupati e disoccupati in Italia dal 1977 al 2012 durante questi 35 anni:
- il numero medio degli occupati annui è cresciuto di oltre 3 milioni (da 19.551.000 a 22.899.000).
- il tasso di occupazione era del 54,6% nel 1977, ha raggiunto il minimo del 52,5% nel 1995, il massimo con il 58,7% nel 2008 ed era del 56,8% nel 2012.
- il numero dei disoccupati è cresciuto nel periodo di circa 1,5 milioni di persone (non è in contrasto con l’aumento degli occupati, perchè dipende dal numero di persone in cerca di lavoro) da 1.340.000 nel 1977 a 2.744.000 nel 2012.
- il tasso di disoccupazione (misurato sul totale della forza lavoro e non della popolazione) era del 6,4% nel 1977, ha raggiunto il massimo nel 1998 con 11,3%, il minimo nel 2007 con il 6,1% ed era del 10,7% nel 2012.
- il numero della popolazione inattiva tra i 15 ed i 64 anni è diminuito di circa 600.000 persone, passando da 15.000.000 a 14.386.000. Questo è il risultato di due tendenze contrapposte: aumento degli uomini inattivi e calo delle donne inattive.
- la % di lavoratori dipendenti è cresciuta dal 68,8% al 75,2%, fenomeno interamente riconducibile al lavoro dipendente femminile aumentato dal 66,9% all’81,7%, mentre per gli uomini l’aumento è inferiore all’1%.
- in termini territoriali il tasso di disoccupazione è cresciuto dal 5,8% al 7,4% al Nord, dal 5,5% al 9,5% al Centro e dall’8% al 17,2% al Sud (dato prevedibile ma non per questo meno grave).
- la disoccupazione giovanile a livello nazionale è cresciuta dal 21,7% al 35,3% (tra l’83 e l’87 oscillava comunque intorno al 32%-34%). Anche qui grandi le differenze territoriali con il dato 2012 che vede il 26,6% al Nord, 34,7% al Centro ed il 46,9% al Sud.

Questi quindi i trend di lungo periodo, quali quelli a breve?

Il dato più aggiornato disponibile è quello relativo al IV trimestre 2012, confrontato con lo stesso periodo dell’anno precedente.

Riporto integralmente dal dosumento dell’Istat

Il mercato del lavoro nel IV trimestre 2012 (dati grezzi)
- Nel quarto trimestre 2012 il numero degli occupati (dati grezzi) diminuisce di 148.000 unità rispetto a un anno prima. Il risultato sintetizza il nuovo andamento negativo dell’occupazione maschile (-196.000 unità), a fronte del moderato incremento di quella femminile (+48.000 unità). Peraltro, al persistente calo degli occupati più giovani e dei 35-49enni si contrappone l’aumento di quelli con almeno 50 anni.
- La riduzione tendenziale dell’occupazione italiana (-246.000 unità) si accompagna alla crescita di quella straniera (98.000 unità). In confronto al quarto trimestre 2011, tuttavia, il tasso di occupazione degli italiani segnala una riduzione di 0,3 punti percentuali e quello degli stranieri di 0,9 punti percentuali.
- Nell’industria in senso stretto si accentua la flessione avviatasi nel primo trimestre 2012, con un calo tendenziale del 2,5% (-117.000 unità), concentrato nelle imprese di media dimensione. Continua la riduzione degli occupati nelle costruzioni (-4,6%, pari a -81.000 unità). Il terziario continua a mostrare una crescita dell’occupazione (+0,5%, pari a +76.000 unità), dovuta all’aumento delle posizioni lavorative sia dipendenti sia autonome.
- L’occupazione a tempo pieno continua a diminuire (-2,3%, pari a -441.000 unità), soprattutto tra i dipendenti a carattere permanente. Gli occupati a tempo parziale aumentano ancora in misura sostenuta (+7,9%, pari a 293.000 unità), ma si tratta nella quasi totalità dei casi di part-time involontario.
- Si arresta la crescita dei dipendenti a termine, cui si accompagna la diminuzione dei collaboratori (-4,8%, pari a -20.000 unità rispetto a un anno prima).
- Il numero dei disoccupati manifesta un ulteriore forte aumento su base tendenziale (+23,0%, pari a 559.000 unità). L’incremento, diffuso su tutto il territorio nazionale, interessa entrambe le componenti di genere e in oltre la metà dei casi persone con almeno 35 anni. La crescita è dovuta in un caso su due a quanti hanno perso la precedente occupazione.
- Il tasso di disoccupazione trimestrale (dati grezzi) è pari all’11,6%, in crescita di 2,0 punti percentuali rispetto a un anno prima; per gli uomini l’indicatore passa dall’8,7% del quarto trimestre 2011 all’attuale 10,7% e per le donne dal 10,8% al 12,8%. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni sale al 39,0% (6,4 punti percentuali in più nel raffronto tendenziale), con un picco del 56,1% per le giovani donne del Mezzogiorno.
- Si riduce la popolazione inattiva (-3,2%, pari a -465.000 unità), principalmente a motivo della discesa di quanti non cercano e non sono disponibili a lavorare. All’aumentata partecipazione delle donne e dei giovani si accompagna la riduzione degli inattivi tra 55 e 64 anni, presumibilmente rimasti nell’occupazione a seguito dei maggiori vincoli introdotti per l’accesso alla pensione.

Integro il “cibo per la mente” con alcune citazioni:
da “L’Internazionale” del 22 marzo 2013 l’estratto di un discorso di Enrico Berlinguer (il fatto che fosse per storia e cultura uomo di apparato e lo ritenga il legittimatore della partitocrazia, non significa che tutto quello che ha detto fosse sbagliato)
“L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è così per noi.

Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata. (…)

L’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo e di tutte le sue energie oggi mortificate, disperse, sprecate”.

Enrico Berlinguer, 15 gennaio 1977. Conclusioni al convegno degli intellettuali, teatro Eliseo di Roma.

Gianroberto Casaleggio: “La vita non è lavorare 40 ore alla settimana in un ufficio per 45 anni. Stavano meglio gli irochesi e i boscimani che dovevano lavorare un’ora al giorno per nutrirsi.”

Elsa Fornero, quando era Ministro del lavoro e delle politiche sociali: «Stiamo cercando di proteggere le persone, non i loro lavori. L’attitudine della gente deve cambiare. Il lavoro non è un diritto; dev’essere guadagnato, anche con il sacrificio»