Ha ragione Farinetti (?): ho visto il futuro (e non sono sicuro sia sostenibile).

Dunque riparto da dove ho finito la settimana scorsa.

L’opinione, qualificatissima, di Oscar Farinetti è che l’attuale ciclo economico durerà fino a all’affermazione di un nuovo modello socio-economico che sostituirà la società dei consumi. Nel frattempo la risposta più efficace sta nello sviluppo delle esportazioni e quindi suggerisce di puntare sui punti di forza del paese e quindi perseguire l’obiettivo di raddoppiare esportazioni e turisti per far uscire l’Italia dalla crisi (definendo le esportazioni come fornitura di beni e servizi a persone non residenti nel paese, il turismo diventa un’attività di esportazione all’interno dei confini nazionali).

Io questo futuro l’ho visto, anzi ci sono cresciuto dentro, e si chiama Venezia (ecco perchè dicevo che l’hanno visto anche molti di voi).

Non c’è dubbio che Venezia rappresenta uno dei maggiori giacimenti artistico-culturali italiani e mondiali (vorrei richiamare la derivazione della parola “giacimento” da “giacere” e quindi la sua intrinseca staticità).

Venezia quindi rappresenta un ottimo caso di studio degli effetti della concentrazione economica sull’esportazione (in questo caso il turismo). Malgrado sia evidente che rappresenta una punta estrema della visione farinettiana (e magari Farinetti, a buon diritto, non sarà da’accordo) è bene ricordare come lo sfruttamento “industriale” del giacimento artistico-culturale veneziano sia relativamente recente e presenti quindi ulteriori spazi di crescita.

Per una volta non cito dati oggettivi ma mi affido ai ricordi personali: trent’anni fa in Rio Terà San Leonardo (tragitto turistico dalla stazione a Rialto) c’erano le bancarelle come oggi, ma erano di frutta e verdura e non di souvenir, sulla Riva degli Schiavoni erano ormeggiati i rimorchiatori della Panfido (malgrado in bacino non passassero le grandi navi), in Punta della Dogana al posto del museo di Pineault c’erano le sedi delle società sportive ed io a Parigi mi stupivo dei bateaux-mouches pensando che a Venezia, con molte più vie d’acqua e molto più da vedere, non c’era niente di simile.

Non si tratta della solita nostalgia dei cinquantenni che appestano fb con i loro ricordi, sono esempi di come sia cambiata la struttura economica verso le attività dedicate al turismo (d’altra parte se trentanni fa arrivando al Colosseo avessimo visto delle persone vestite da antichi romani avremmo chiesto che film stavano girando).

La dimostrazione che lo sfruttamento intensivo del turismo è relativamente recente lo dimostrano gli spazi ancora inesplorati in questo senso, ad esempio il progetto Veniceland.

Il punto oggi non è chiedersi (lamentarsi) se Venezia avesse potuto seguire altri percorsi, troppo difficile ed oramai troppo inutile. La cosa interessante è guardare il caso veneziano e chiedersi se un’economia basata in larghissima misura sull’esportazione è economicamente e socialmente sostenibile.

La popolazione residente del centro storico veneziano, passata dai 95.222 abitanti del 1980 ai 58.991 del 2011 (-38%).
Questi trend demografici sembrano suggerire che lo sviluppo del turismo non è stato in grado di compensare il declino delle altre attività economiche per la società veneziana nel suo complesso.

Io personalmente dubito che riuscirà a farlo in futuro perchè il limite all’ulteriore crescita del turismo è dato dal senso senso di estraneità che crea. Quanto si può sfruttare un giacimento turistico prima che si esaurisca, se non viene rinnovato dalla società a cui appartiene (e qui società potete intenderlo sia in senso di commerciale di azienda che di società umana).

Oramai non sono solo i (pochi rimasti) veneziani a lamentarsi che Venezia è diventata talmente artificiale da sembrare (essere!) un parco di divertimenti: lo dicono anche i turisti. Continueranno a venire o ad un certo punto alla Dineyland di Venezia preferiranno la Venezia della Dineyland (sicuramente meglio organizzata, fruibile, divertente ed economica).

Se avessi i soldi per costruire Veniceland non lo farei a a Venezia (più scomodo, più costoso ed in diretta concorrenza con le pietre originale per un mercato che ha fretta), la costruirei da qualche parte sulla costa meridionale della Cina.

Solito gustafeste? Forse, però la questione Grandi Navi può essere un segnale. E’(ra) una delle ultime frontiere dell’intensificazione dello sfruttamento del giacimento veneziano, rappresenta una fonte importante di presenze ed ha rilanciato l’economia del porto. Ma ha creato il corto circuito per cui io crocerista che godo della vista di piazza San Marco dal ponte della nave che entra in porto, quando poi mi trovo in piazza San Marco sono infastidito dal passaggio della nave successiva.

Alternative? Più che in come produrre più valore aggiunto si entra nell’ambito della sua definizione, misurazione e distribuzione. Si torna al primo punto della sintesi che ho fatto la settimana scorsa del pensiero di Farinetti. Per riprendere la parole di Balasso nel suo discorso di Capodanno (minuto 2:20, se volete risparmiavi il turpiloquio) “… il problema non è l’assenza di lavoro, ma l’assenza di stipendio …”.

Sto leggendo “Perchè le Nazioni Falliscono”. I due autori riportano che l’unico caso in cui l’introduzione di una tecnologia migliore non ha portato ad un aumento della produttività delle persone è stata l’introduzione dell’ascia di acciaio nelle comunità degli aborigeni australiani (una delle civiltà più antiche del pianeta). L’effetto è stato invece un aumento delle ore di sonno grazie al tempo risparmiato con la nuova ascia per procurarsi la stessa quantità di legna necessaria.

Per il 2014 vi auguro di dormire, e quindi sognare, di più.

Ha ragione Farinetti (?)

Finalmente scrivo questo post che mi frulla in testa dallo scorso 6 ottobre, giorno dell’intervista di Oscar Farinetti alla trasmissione “Che Tempo Che Fa”, è che ho più volte annunciato in alcuni post scritti nel frattempo.
Le ragioni di questo ritardo, che confermano la caratteristica/tradizione di biscomarketing come blog “freddo”, sono diverse: la vastità del tema ed il rispetto dovuto ad una persona come Oscar Farinetti mi hanno consigliato di riflettere bene prima di esprimermi, ma, soprattutto, più riflettevo e più continuavo a cambiare idea sul fatto se lui abbia o meno ragione (e chissà che non mi capiti di cambiarla ancora mentre scrivo).
In sintesi alla fine credo che Farinetti abbia ragione sulla sua visione del futuro, d’altra parte possiede una storia personale che consiglia, nel dubbio, a credergli, e che la mia impressione che questo futuro non mi piaccia è dovuta più al fatto che tratteggia un mondo diverso da quello che conosco, piuttosto che da un peggioramento effettivo (la solita nostalgia canaglia per cui i tempi quando eravamo giovani e felici ce li ricordiamo comunque migliori).

Quindi se avete poca voglia o tempo potete anche smettere di leggere qui. Però ci sono una serie di ma (… se preferite “ma ci sono una serie di però”) che non riesco a scacciare. Se siete curiosi mettetivi comodi perchè la loro esposizione sarà piuttosto articolata, tanto che questa volta ho organizzato il post a capitoli per facilitare la lettura (volendo potete anche leggerlo anche a puntate).

Cosa ha detto Farinetti (in sintesi)
Il 6 ottobre 2013 Oscar Farinetti è stato intervistato da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che Tempo Che Fa” in occasione dell’uscita del suo libro “Storie di coraggio – 12 incontri con i grandi italiani del vino”.
Oltre a parlare di vino, ha dato la sua visione sul futuro dell’Italia. Questa è la sintesi che ne ho ricavato io (basata sull’intervista TV, il libro, chiedo venia, non l’ho comprato).
1) Il sud del mondo è destinato ad entrare in crisi (è entrato in crisi) perchè la società dei consumi che si basa sul lavoro e sul salario è diventata dicotomica rispetto all’idea di progresso che si basa sull’invenzione di macchine e robot che annullano posti di lavoro. Su questo sono d’accordo almeno dal 30-06-2013, ma magari torno sull’argomento un’altra volta.

2) Finchè non ci inventeremo un modello sociale nuovo, ce la faranno le nazioni che esporteranno molto. Noi italiani abbiamo 5 vocazioni straordinarie, enormi, che sfruttiamo molto poco, ma abbiamo tutto il mondo che ci cerca. Siamo lo 0,83% dei cittadini del mondo, fuori c’è un 99,17% che ci guarda ed in questo momento tutti vorrebbero mangiare come gli italiani, vestirsi come gli italiani, vedere le nostre opere d’arte, poter venire in Italia.

3) L’export agroalimentare italiano vale 31 miliardi di euro, di cui 4,7 di vino (voce principale) in forte crescita sui mercati esteri. La Francia ha esportazioni di vino pari a quelle italiane in quantità che in euro valgono 11 miliardi. I nostri numeri sono talmente bassi che ci aiutano a crescere.

4) La Francia riceve ogni anno 80 milioni di turisti, l’Italia 45,7.

5) I vantaggi competitivi dei francesi sono la storia, saper fare accoglienza, la migliore organizzazione della Pubblica Amministrazione. A livello di patrimonio artistico ed enogastronomico l’Italia non è inferiore, anzi. Con 3 anni di buon lavoro si può salvare il Paese raddoppiando le esportazioni agro-alimentari e raddoppiando il numero di turisti che visitano l’Italia. Questo implica un aumento di volume d’affari pari a 150 miliardi di euro, quindi 42 miliardi di tasse nette che entrano nelle casse delle istituzioni.

I miei “ma” competitivi, ovvero il mondo è uno e siccome vogliono starci tutti le dinamiche concorrenziali raramente sono a somma positiva
Inizio con i dubbi legati allo scenario competitivo e non con quelli operativi perchè ho abbastanza esperienza di azienda per aver visto con i miei occhi come la forza di volontà di un imprenditore competente (il “coraggio” secondo la definizione di Farinetti) riesca da sola a costruire proposte in precedenza apparentemente inesistenti o finanche impossibili (Le scoperte consistono nel vedere ciò che tutti hanno visto e pensare ciò che nessuno ha pensato. – Albert Szent Gyorgyi via Pier Luca Santoro), in grado di rispondere alle richieste/desideri del mercato meglio di quelle disponibili fino a quel momento. il successo delle nuove idee rende evidente come quelle precedenti siano (fossero) obsolete e destinate quindi a ridimensionarsi in minore o maggior misura (Video killed the radio stars cantavano i Buggles nel 1979).
Eataly è un perfetto esempio in questo senso.
Le logiche competitive che valgono a livello di singola azienda non funzionano allo stesso modo a livello di sistema dove si ha crescita solamente se è positiva la somma dei risultati di tutti gli operatori dello scenario.
In altre parole l’indubbio successo dell’apertura di Eatily a Torino diventa una crescita del sistema agro-alimentare solamente se il suo volume d’affari (per definizione incrementale) supera il calo degli altri negozi in cui facevano la spesa i clienti di Eataly.
Nell’agroalimentare la somma degli effetti competitivi è positiva più raramente che in altri settori perchè, per definizione, tutti mangiano da quando nascono. Una crescita complessiva del mercato è quindi possibile solamente se ci sono più bocche che mangiano oppure se le stesse bocche mangiano di più. Viceversa, ed i trend demografici del nord del mondo vanno in questo senso, lo sviluppo competitivo avviene per sostituzione (lo stesso numero di bocche, o meno, mangiano la stessa quantità, o meno, di cose diverse). Concedetemi, per semplictà di esposizione, di tralasciare per il momento l’effetto prezzo.
L’innovatività del concetto di Eataly è talmente fenomenle da innescare tendenze che superano i confini dei suoi punti vendita: la crescita delle gelaterie Grom, l’inserimento delle bibite Lurisia anche nel mio supermercato Coop, la diffusione della birra Menabrea sono i primi esempi che mi vengono in mente. Però io non è che mangio più gelato perchè vado da Grom invece che da Zampolli.
Però Farinetti parla di raddopiare le ESPORTAZIONI dell’agroalimentare italiano. Al di là del vago senso di colonialismo culturale, le domande sono due: 1) su che mercati? 2) Come reagiranno i Paesi/produttori a cui porteremo via vendite?
Attualmente le esportazioni agro-alimentari italiane sono concentrate nei mercati occidentali, in cui la penetrazione è stata favorita anche dalla presenza delle comunità italiane create dall’emigrazione. Malgrado siano mercati maturi dal punto di vista economico e, nel caso dell’Europa, anche dal punto di vista demografico, sono ancora quelli che mostrano la maggior crescita assulta. Difficile però pensare di raddoppiare i livelli attuali di esportazione. Quindi tutti guardano all’estremo oriente, Cina in primis, per i tassi di sviluppo sia economico che demografico. Rispetto ai paesi occidentali si tratta però di nazioni con culture alimentari molto più ricche e sofisticate, come dimostra il fatto che sono già diffuse in tutto il mondo (senza tener conto che i cinesi in assoluto non mangiano formaggi). In realtà si tratta di paesi in cui è molto più semplice introdurre il vino rispetto agli alimenti italiani.
Su quella che può essere la risposta dei nostri concorrenti ad un RADDOPPIO delle nostre esportazioni, ricordo gli accordi bilaterali che la Cina ha stipulato con Australia e (credo) Cile per una sostanziale riduzione dei dazi di importazione. Segnalo anche che tra le 100 things to watch in 2014 secondo JWT intelligence c’è il vino cinese (la Cina è già il quinto produttore mondiale di vino).
Visto che si parla di vino permettetemi una parentesi. Il vino italiano in maggior crescita in Italia ed all’estero è il prosecco spumante. Le ragioni del suo successo sono sostanzialmente l’immediatezza e la piacevolezza sensoriale (del gusto) e la relativa omogeneità qualitativa tra le diverse cantine. Gli stessi fattori che lo rendono poco interessante per gli esperti e quindi avulso alle classiche (trite) ritualità del mondo del vino. Sarà un caso che tra i grandi del vino intervistatida Farinetti non c’è nessun produttore di prosecco?
Bastano come dubbi? In realtà no, perchè la possibilità di “salvare” il Paese puntando sulle esportazioni è tale solamente se la loro crescita superi il calo di consumi nazionale (nuovamente, il sistema azienda è diverso e più semplice del sistema Paese).
Nel caso del vino questo non si è verificato. Negli ultimi anni si è ridotto il numero di aziende viticole, la superfice dei vigneti e la produzione complessiva di vino (per approfondimenti qui trovate un mio post ospitato sul blog “Vino al Vino” di Franco Ziliani ed altri li potete trovare su biscomarketing) a causa del calo dei consumi interni. In altre parole, negli ultimi anni il settore del vino italiano nel suo complesso si è ridotto. Malgrado la crescita delle esportazioni oppure (anche) a causa dello strabismo del settore nei confronti dei mercati esteri? Io la mia l’ho già detta e la trovate qui.

Le stesse considerazioni valgono in linea di massima anche per quanto riguarda il turismo. 40 milioni di turisti in più in Italia, o sono 40 milioni di persone che prima non facevano turismo, oppure smettono di andare dove andavano prima. Considerando la dimensione dei numeri, e quindi del business, in entrambi i casi i nostri concorrenti nel mercato turistico si impegneranno a fondo per attirare, o mantenere, queste persone. Immaginate cosa significherebbe per l’economia francese perdere non 40, ma anche solo 4 milioni di turisti.

I miei “ma” operativi, ovvero tra il dire e il fare va risolta la questione strutturale
Qui la questione è molto più semplice.
Per raddoppiare le esportazioni bisogna avere la capacità produttiva per farlo.
Rimango nel caso del vino: le esportazioni coprono circa il 50% della produzione vinicola italiana quindi raddoppiare le esportazioni significa aumentare la produzione del 50% (assumendo costante la quantità destinata al mercato interno, altrimenti la crescita complessiva è inferiore e non si raggiunge l’obiettivo). Anche ipotizzando un aumento del prezzo medio unitario del 15% (un’enormità in termini di rapporti competitivi) è necessario una crescita dei volumi prodotti pari al 35%.
Una crescita di questa entità è semplicemente tecnicamente impossibile.
Lo stesso vale per tutti i prodotti a Denominazione d’Origine o Indicazione Geografica (per capirsi Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosciutto di Parma e San Daniele, ecc..).
Ma anche per gli altri prodotti alimentari appare estremamente difficile, tanto più considerando la continua riduzione di suolo agricolo causata dallo scempio dell’inutile consumo di suolo.
Per il turismo la situazione è meno drastica, ma credo sia comunque necessario chiedersi dove mettiamo e come muoviamo 40 milioni di turisti in più.

Questi i “ma” (i “ma” istituzionali, l’esempio citato da Farinetti che in Francia il vino è controllato da 2 enti mentre in Italia da 10, che forse diventeranno 11, non li considero, perchè la visione/proposta di Farinetti implica il superamento di questi limiti), però, come ho detto all’inizio, alla fin fine Farinetti ha ragione nella sua visione del futuro.

Io ci sono stato (anche molti voi, fidatevi) e la settimana prossima ve lo racconto.

Franciacorta: non è uno spumante, non sono bollicine, è un vino!

Poco fa ho sentito per radio lo spot della Franciacorta (inteso come DOCG, non è così chiaro all’inizio), dove viene definito come “un vino”.

Purtroppo non riesco ad essere più preciso perchè lo spot in rete non lo trovo, nemmeno tra le news del sito del Consorzio (lo so che gli speacker radiofonici sono rognosi con la cessione dei diritti, ma almeno la news che partiva la campagna!).

Ora chiedo al Consorzio (ciao Maurizio), non è che la definizione “un vino” sia un po’ scialba, al di là della genericità già evidente nella semantica?

Oggi come oggi dire “Un vino” non mi pare un concetto particolarmente positivo ed attraente per il consumatore, bene che vada è ininfluente, con il forte rischio che sia deleterio rispetto al percepito di “spumante/bollicine” in generale.

Sicuramente mi sento di dire che è sminuente per la percezione che ha raggiunto il Franciacorta sul mercato in termini di qualità, reputazione ed appeal. In sintesi per il posizionamento che ha nella testa del consumatore e dei portatori di interesse sul mercato(stakeholders come dicono quelli seri). Non mi dilungo su cosa significa “posionamento”, se volete approfondire potete leggere qui.

Detto in altre parole, e volendo parlare per slogan, per me “il Franciacorta è più di un vino” (dopo avere regalato il claim “Conegliano e Valdobbiadene: dove il Prosecco è Superiore” continuo nella tradizione. Si vede che gli spumanti mi ispirano in modo particolare).

Da parte mia per le prossime festività vi auguro di bere vino spumante all’aperitivo, a tutti pasto e con il dessert, perchè le bollicine mettono sempre allegria e vi faranno sentire più felici (l’altro post di oggi sulla felicità lo trovate qui).

I soldi fanno la felicità solo fino ad un certo punto. Adesso sappiamo quale!

Trafiletto a pagina 101 del numero 1.029 del 6/12/13 dell’Internazionale: secondo una ricerca pubblicata su Plos One, la soddisfazione delle persone aumenta con l’aumentare del loro reddito fino a 15.000 dollari (annui presumo), rimane costante fino ai 36.000 e dopo questo importo diminuisce leggermente.

Ecco trovato il rapporto tra PIL (prodotto interno lordo) e FIL (felicità interna lorda).

A me sembra un’informazione rilevantissima, sia a livello personale che a livello collettivo nella (ri)definizione del sistema e delle politiche economiche e del lavoro.

Un bel punto di partenza per ragionare sul “peso insostenibile del lavoro che ti permette di guadagnare, ma non di vivere” come scrive Lee Marshall a pagina 84 dello stesso numero dell’Internazionale recendenso il fil TIR di Alberto Fasulo.

Biscomarketing chiude per le festività natalizie (ma oggi doppio post, l’altro lo trovate qui).

A tutti il mio augurio di esser felici.

Eterodossia ed innovazione.

Negli ultimi tre mesi mi sono trovato a riflettere sul concetto di “eterodossia” (i motivi che mi hanno spinto a farlo non sono importanti).

Questa riflessione mi ha portato al convincimento che il senso delle situazioni si può comprendere in larga misura partendo dal significato preciso delle parole che le descrivono. I ragionamenti sul concetto di eterodossia sono infatti proseguiti per quelle che potrei definire “tautologie successive”.

A ben guardare anche il titolo è una tautologia come si nota analizzando il significato della parola eterodossia:
Wikipedia: Con la parola eterodossia, dal greco heteros («diverso», «differente») e [[Doxa (filosofia)|doxa}} («opinione», «dottrina]]») ci si riferisce ad una serie di opinioni, ideologie, scelte di vita o credenze non in linea con quelle dominanti o maggiormente diffuse. È spesso usata, in modo contrastivo con ortodossia, per sottolineare e rivendicare la propria posizione non allineata a quella tradizionale.

Devoto-Oli: Atteggiamento di totale o parziale distacco dalle idee imposte o subite dalla maggioranza in determinati campi..

L’eterodossia è importante dal punto di vista della strategia (aziendale) perchè è la base dell’innovazione (o volendo si può anche dire che l’innovazione è sempre eterodossa), ergo del progresso (delle persone, delle organizzazioni, ecc…Scegliete voi la dimensione a cui volete riferirvi).

Risulta interessante come l’eterodossia si definisca in base all’ortodossia (non viceversa) perchè in realtà l’innovazione di successo nasce (quasi sempre) dal SUPERAMENTO dell’ortodossia. Citando Picasso “A quattro anni dipingevo come Raffaello
mi ci è voluta una vita intera per imparare a disegnare come un bambino”
.

Non si tratta di fare qualcosa di diverso dal solito per il semplice gusto di farlo o per spirito di contraddizione. Si tratta di trovare un modo nuovo e proprio per risolvere le situazioni meglio di quanto non si possa fare con i modi ortodossi. L’eterodossia efficente parte dai limiti dell’ortodossia, che possono essere risonosciuti solamente se si ha il dominio della materia.

Conoscere la genesi dell’eterodossia che si ha di fronte serve per valutarne la credibilità e quindi ridurre la (forte) resistenza al cambiamento delle organizzazioni che puntano a garantire e massimizzare efficacia ed efficienza.

Per definizione (tautologia) l’eterodossia è destabilizzante e, sempre per definizione, la destabilizzazione spaventa.

Per questa ragione spesso si cerca di favorire l’adozione dell’innovazione nascondendone l’effettivo livello di cambiamento. E’ una soluzione che funziona solamente se l’adozione dell’innovazione è semplice in termini di processo e porta rapidamente a risultati che permettono di fugare qualsiasi dubbio.

Se invece l’adozione dell’innovazione richiede un intervento sui processi (quindi sull’organizzazione delle persone) ampio nel tempo e nello spazio prima di ottenere i risultati, sarà più efficace esplicitarne l’origine dall’ortodossia.

Lo so che, soprattutto a quest’ora tarda, il post puzza di fuffa, eppure è STRATEGIA (e i due termini NON sono sinonimi).

Moet & Chandon Golden Ritual Service.

Ho in testa due post: uno sulla visione di Farinetti per il futuro del paese ed uno su etorodossia ed innovazione.
Due begli argomenti generici, o come dice Federico, chiacchere di poco interesse su cui non ho una competenza riconosciuta che indeboliscono il blog.
Il drastico calo di visite rilevato dagli analytics gli dà ragione, però trovare sull’Internazionale del 22 novembre un articolo uscito sul New Yorker relativo al fatto che il valore generato per le persone dall’economia digitale dai prodotti e servizi gratuiti non viene misurato dai classici indici utilizzati per valutare l’andamento dell’economia (pil in primis), mi fanno venire la tentazione di proseguire nell’affrontare temi generali, visto che la questione l’avevo sollevata en passant in un post del 2008.

Però resisto alla tentazione e parlo invece di un grandissimo esempio di marketing strategico/tattico.

Nell’ottobre 2012 ero in viaggio a Pechino con altri produttori di vino del Veneto Orientale e visitando alcuni locali notturni (musica dal vivo, karaoke, ecc…) mi ha colpito il fatto che c’erano tutti i marchi mondiali di superalcolici, presenti con gli stessi stumenti di promozione e visibilità che usano in tutto il resto del mondo (a pensarci bene niente di sorprendente trattandosi di marchi globali).

Tenuto conto dell’aumento anche nelle metropoli cinesi della clientela femminile ho/mi sono detto “Qui c’è un bel potenziale per fare diventare il Prosecco la bollicina/spumante di moda nel mondo della notte, però bisogna trovare un rituale”. La reazione degli altri produttori è andta dall’indignazione, perchè il vino è (solo) una cosa seria, alla perplessità, per la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un mercato che funziona secondo logiche che non conoscono.

In realtà non avevo detto niente di particolarmente soprendente, semplicemente vedevo (vedo) l’opportunità di utilizzare anche per il vino le medesime logiche che utilizzavo negli spirits quando ci si rivolge agli stessi consumatori, all’interno degli stessi locali. Esperienza che ho già fatto direttamente ai tempi della Stock con successo con il Cava Freixenet.

Evidentemente ed ovviamente non ero l’unico che lo stava pensando visto che l’altra sera in un locale a Montreal ho trovato il Moet & chandon Golden Ritual Service. Ecco le foto:

Moet & Chandon Golden Ritual Service Innanzitutto il “menu’” perche un rituale per essere condiviso deve essere codificato (i prezzi sono in dollari canadesi: 1 euro=1,2 $ canadesi)
Poi l’allestimento, ossia i “simboli” che rendono il rituale visibile e ne sostanziano la diversità e l’importanza.
La mega bottiglia nella vasca da bagno con sfondo “brandizzato” (quante foto condivise in facebook in una sera?) Moet bathtub
La gabbia dorata che sottolinea la preziosità del prodotto (dalla foto non si vede, ma sopra alla gabbia c’è una corona con le luci che girano e brillano)
Moet golden cage
La magnum dorata diversa dal prodotto “standard”, perchè il rito è qualcosa di speciale,ed il bicchiere “d’oro” perchè è la coerenza che rende le tattiche strategiche (o dalle strategie nascono le tattiche coerenti). Moet golden glass.

Ogni rituale però ha bisogno di officianti quindi aggiungeteci il servizio al tavolo veniva fatto da cameriere vestite di lamè (i camerieri in nero, come sempre l’abbigliamento da sera degli uomini è noioso) che attraversavano il locale tenendo in alto i bicchieri, le bottiglie e le spumantiere (ovviamente dorate) con in mano “stelle di Natale” accese ed avrete il quadro completo della festa che si creava quando qualcuno ordinava un “rituale”. Ossia della festa continua che animava il locale, rito a cui si sentivano di appartnere anche quelli che “semplicemente” si bevevano un bicchiere dorato di champagne versato da una magnum (piccola annotazione tecnica: grazie al rituale lo champagne veniva servito nei bei bicchieri capienti invece che nelle magrissime flute di ordinanza utilizzate in tutto il Nord America, permettendo quindi al vino di sprigionare meglio tutti i suoi aromi e quindi oggettivamente migliorando anche l’esperienza sensoriale)

Siccome non ho voluto esagerare non ho fatto la foto del logo Moet proiettato sulla parete di fondo del locale e sugli schermi sopra il bar. Invece come corollario aggiungo due foto di come si presentavano le bottiglie normali nello stesso locale:
Dom Perignon
Moet standard.

Anche questa volta ero con altri produttori di vino ed anche questa volta qualcuno, incurante delle magnum di champagne che andavano via come aranciata (o forse scandalizzati proprio da questo) ha detto “Qui può funzionare perchè la gente non ha cultura del vino e quindi gli serve tutto questo marketing, ma da noi una cosa così (pacchiana) non avrebbe successo”.

E già, Campari ha portato in tutta Italia l’abitudine dello spritz parlando dei tioli, mica creando (appropriandosi) del rito.

Ecco che forse l’argomento eterodossia ed innovazione non sembra più così tanto generico.

P.S. Io ho bevuto un gin tonic, sarà che sto diventando iconoclasta.

Cos’è (e a cosa serve) il posizionamento.

Oggi torno all’essenza più pura del bisco-marketing, ossia del marketing secondo me (boom!) e lo faccio trattando un argomento apparentemente teorico, ma in realtà molto pratico, che spesso non viene approfondito come merita nella disciplina di marketing (premetto che ahimè ho lasciato in ufficio il Libro, intendo Marketing Management del Kotler, e quindi non sono riuscito a verificarne la trattazione che ne fa la bibbia del marketing.)

Se divento dottrinale fermatemi.

La migliore definizione di posizionamento rimane quella che ho sentito Thomas Funk, mio prof. di marketing in Canada, in una gelida mattina di dicembre (inizio lezione ore 8:00 a.m.): “il vostro posizionamento è quello che rappresentate nella testa del consumatore” (definizione che credo comunque essere Kotleriana).

Con l’esperienza di questi anni di lavoro io modificherei leggermente questa definizione e direi che “il posizionamento definisce quello una marca/organizzazione vuole rappresentare per il mercato”, dove “mercato” va inteso nell’accezione più ampia dei portatori di interessi (stakeholders). Poi ogni marca deciderà con quanta forza e con quali aspetti della propria personalità vuole rappresentare qualcosa per i diversi segmenti di portatori di interessi (lo so: ho già inserito altri concetti senza spiegarli, continuate a leggere …).

In realtà sono vere entrambe le definizioni, come spiega con estrema chiarezza questo post del Dr. Narayana Rao che raccoglie il pensiero di Kotler.

La seconda definizione si riferisce alla definizione dell’identità della marca, mentre la prima all’immagine che ne viene percepita dai consumatori.

E’ evidente che quanto la definizione dell’identità è chiara, forte e coerente con l’effettiva personalità della marca e tanto più ci sarà corrispondenza tra questa e l’immagine proiettata, quindi percepita, all’esterno.

Il “vuole” nella mia definizione infatti non significa che la definizione del posizionamento che rappresenta la personalità aziendale deve essere un auspicio. Significa che la definizoine del posizionamento deve esprimere una tensione verso quelli che SONO i valori dell’azienda e,soprattutto, verso la loro realizzazione con tutte le attività aziendali. “Vuole” sottolinea il fatto che la definizoine del posizionamento rappresenta una scelta che va confermata continuamente con il proprio comportamento.

Ne consegue che la definizione del posizionamento non può essere la somma delle diverse percezioni di sè e del proprio ruolo (come marca/organizzazione) che hanno le diverse persone/funzioni, ma deve esserne la SINTESI.

Solo in questo modo riuscirà ad essere allo stesso tempo precisa nel rappresentare la marca/organizzazione in modo chiaro ed unico, ma sufficientemente ampia da rappresentare un punto di convergenza per tutte le persone coinvolte con la marca/organizzazione.

Solo in questo modo diventerà la “mano invisibile” (termine utilizzato da kotler riferendosi alla mission aziendale) che allinea “automaticamente” tutte le attività legate alla marca/organizzazione (sia che vengano realizzate da soggeti interni che esterni all’organizzazione) verso un unico sistema di valori coerente perchè condiviso.

Questo si traduce in maggiore efficenza ed efficacia nell’attività dell’organizzazione perchè il posizionamento scelto definisce quali ambiti gli appartengono e quali no e come i primi vanno presidiati. In parole povere cosa e come l’organizzazione può e deve fare (prima che mi diventiate troppo talebani vi linko un mio vecchio post dal titolo: “Il posizionamento della vostra marca è davvero così stretto?”).

Viceversa se la definizione del posizionamento risulta generica, espressione di auspipci più che di aspirazioni legittimate dalla realtà aziendale, o, peggio ancora, avulsa dall’affettiva personalità dell’organizzazione si trasforma in un formalismo inutile o, più spesso, dannoso.

Crea infatti delle inefficienze per l’incoerenza tra quello che si dichiara di voler fare e quello che si può e vuole effettivamente fare.

Mi rendo conto che forse sarebbe opportuno spipegare un po’ più diffusamente qualche concetto, però e già tardi quindi vi auguro buonanotte e resto disponibile a tutti gli spunti che vorrete darmi con i commenti.

Autosegreteria.

Nel 1999 l’azianda in cui lavoravo assunse un consulente che mi chiese di fare un’analisi dell’allocazione del mio tempo lavorativo. “Autosegreteria” è il termine che ho coniato per definire il tempo che dedicavo all’archiviazione di corrispondenza in entrata ed uscita, riviste e documenti vari.

Il termine mi è tornato in mente perchè la scorsa settimana mi è successo per ben due volte che dei clienti mi contattassero per questioni operative urgenti, convinti che parlare con il Direttore fosse il modo migliore per garantirsi che la questione sarebbe stata affrontata con la giusta (massima) rilevanza ed urgenza.

Un giorno ero fuori ufficio ed ho visto la mail delle 9:00 di mattina alle 4:00 del pomeriggio solo perchè sono tornato prima del previsto (altrimenti l’avrei vista il giorno dopo), un’altro ero con dei clienti ed ho vista la chiamata dopo 3 ore.

Viceversa le persone incaricate di seguire le due questioni erano in azienda perfettamente disponibili

A parte dimostrare che sono un antico che non riceve le mail sullo smartphone e spegne il cellulare se è in un incontro importante, l’aneddoto mi ha fatto riflettere sulla tendenza a risolvere per via verticistica la disorganizzazione aziendale. Attenzione la cosa non riguarda la mia azienda, riguarda un numero sempre maggiore di aziende (in primis quelle di chi mi ha cercato) perchè all’autonomia operativa (io non ho mai dettato una lettera all’assistente, ci metto meno a scriverla) e la possibilità di condividere le informazioni generate dalla rivoluzione digitale (l’uso dei computer, per parlar chiaro) non ha corrisposto una riorganizzazione del lavoro.

Mi spiego meglio: quando ho iniziato a lavorare, nel 1994, l’azienda aveva da poco eliminato la posizione del responsabile dell’archivio. Scelta perfettamente logica, che però è stata accompagnata (o no, non ricordo) dalla definizione delle regole di archiviazione, perchè altrimenti dopo un mese non si trova più niente e, soprattutto, ogni volta che si deve archiviare un documento bisogna andare a chiedere come fare al responsabile dell’ufficio (almeno).

Viceversa le persone hanno gli strumenti tecnici per fare (di più), ma mancano delle informazioni per fare bene. Il risultato è che sempre più questioni per andare avanti devono essere risolte ad un livello superiore, dove ci sono le informazioni e/o le responsabilità.

Già in Stock, credo fosse il 2005, dicevo che il top management faceva il middle management, il middle management faceva l’impiegato e l’impiegato …. aspettava che gli dicessero cosa doveva fare.

L’intensificarsi della turbocompetizione, con la richiesta di fare sempre di più in sempre meno tempo, unita allo sviluppo degli strumenti di comunicazione sta peggiorando la cosa: un cliente risponde alla mia mail con un sms, io poi lo chiamo su skype per chiarirci a quattrocchi, poi il giorno dopo lui mi conferma gli accordi su whatsapp. Quando dopo due mesi su quella questione viene fuori un problema io come accipicchia ricostruisco la “pratica”.

Non ho dubbi che l’unica risposta valida sia più, non meno, organizzazione e l’empowerment (google traduttore in italiano lo traduce come … empowerment) delle persone attraverso lo sviluppo delle diverse componenti della conoscenza: competenze, esperinze, informazioni.

La voglia non costa niente, ma rende molto.

I libri non si devono valutare dal numero di pagine, i quadri non si devono valutare dalla dimensione ed i post non si devono valutare dalla lunghezza.

Settimana scorsa mi si esaurisce la batteria del cellulare (vecchio Samsung Galaxi del 2011, ma ancora in vendita). Ladurata era diventata di circa mezz’ora e se parlavo mi si spegneva anche collegato al caricabatterie della macchina.

Vado in due negozi di telefonia cellulare a Trieste (uno Vodafone come l’abbonamento ed uno no) ed ottengo la stessa risposta: questa non l’abbiamo. Vado in un Media World sicuro di trovare la batteria, anche se non originale, quanto meno per la superfice del negozio, e la commessa mi fa “Non teniamo batterie, le batterie si comprano su internet”(????!!!!).

Provo in un negozio di telefonia a Oderzo: “in casa non ce l’ho, se vuole la ordino ed arriva in una settimana”.

Provo, tanto perchè ci sono passato davanti, nell’unico negozio di telefonia di Salgareda dove c’erano due clienti prima di me, mostro il telefono. Negoziante: “Credo di averla, mi lasci controllare”, tira fuori svariati modelli di batteria (almeno ne aveva) “No, mi spiace, se vuole la ordino e arriva domani”, “No, grazie lo stesso” faccio io ….. “Aspetti un momento” fa lui, apre la vetrina con i telefoni in esposizione e prova ad aprire i vari Samsung fino a che non trova quello che ha la batteria uguale alla mia.

Non credo che i 25 euro che ha incassato gli abbiano cambiato la giornata. E’la consapevolezza del proprio lavoro che fa venire la voglia di farlo bene e questo fa la differenza.

Domanda per tutti quelli che hanno la responsabilità della gestione di persone: date la consapevolezza del loro lavoro e del loro ruolo ai vostri collaboratori? Sono pronti a fare un passo in più per risolvere le situazioni?

Sempre di più fa e farà la differenza tra il successo e l’insuccesso delle organizzazioni.

Il marketing virale di successo si può pianificare (!)(?)

Oggi avevo in mente di scrivere un post, alquanto pessimistico, sulla visione di Oscar Farinetti su come affrontare la crisi che attraversa il paese. Poi però ho pensato di curare un po’ il mio karma (evitando le negatività) e magari anche le statistiche di biscomarketing che vedono le visite in picchiata.

Allora ho deciso di concentrarmi sul punto di forza del blog, ossia il marketing strategico, evitando di lanciarmi ancora una volta in ragionamenti sui massimi sistemi, argomento su cui la mia credibilità langue.

Prendo quindi spunto da un articolo dell’ultimo numero di Marketing News, che ha intervistato il prof. Jonah Berger, autore del libro “Contagious: why things catch up” che raccoglie i risultati delle sue ricerche sul marketing virale (il link al sito del prof. Berger potrebbe valere da solo questo post).

Ovviamente nell’intervista Berger non spiega tutto, altrimenti perchè comprare il libro, ma quello che spiega è già sufficente per migliorare una strategia di marketing virale.

Condivido con il prof. Berger lo stupore per il mistero di cosa diventa di tendenza e cosa no, lui però ha studiato e dice che, passata la prima sorpresa, ci sono elementi comuni che caratterizzano la diffusione di idee e contenuti, anche molto diversi tra loro.

L’argomento mi sembra di estremo interesse perchè è da oltre dieci anni che periodicamente qualche agenzia di pubblicità/pr mi propone una strategia basata su iniziare un’attività/un racconto/ecc… per poi vederla crescere grazie alla rete/comunità. Le centinaia (migliaia?) di profili facebook aziendali che languono sono la dimostrazione che le cose non sono così semplici ed automatiche.

Da buon americano ha creato un acronimo (potenza della semiotica): STEPPS = Social currency (rilevanza sociale), Triggers (attivatori), Emozioni, Public (pubblico), Practical value (valore pratico), Storie.

I casi di marketing virale di successo hanno alla base un mix di questi fattori.

La base della ricerca nasce dall’analisi nel 2011 dei contenuti dei 7.000 articoli più condivisi del New York Time. Innazitutto si è riscontrato che le persone sono meno propense a condividere le storie tristi (vedi il karma di cui sopra?), mentre quelle condivise sono quelle che suscitatano emozioni forti come rabbia, stupore, ansia o meraviglia.

L’implicazione pratica è che la creazione di contenuti genericamente positivi che contraddistingue la gran parte (totalità?) dei contenuti creati dalle aziende hanno poca probabilità di essere condivisi. Detto in altri termini: per avere emozioni forti (condivisione dei contenuti) devo offrire emozioni forti.

Oppure trovare degli attivatori. La campagna Kit Kat “Give me a break” con il trigger pausa caffè (coffee break) ha portato un aumento di vendite del +8%.

L’analisi suggerisce anche come l’importanza che spesso viene data agli “influenzatori”, a far arrivare il messaggio alle persone “giuste”, appaia eccessiva. Non ci sono evidenze come il fatto che provenga da una fonte “popolare” stimoli la condivisione di un messaggio tanto quanto le caratteristiche dei contenuti. Il punto quindi è concentrarsi nel creare messaggi che si diffondano da persona a persona, indifferentemente se le persone hanno 10 o 1.000 amici. L’aumento delle interconnesioni tra le persone fa sì che la differenza sia soprattutto nella velocità del risultato.

Dalla relativa rilevanza degli influenzatori deriva la cruciale implicazione del potenziale rappresentato dagli attuali consumatori di una marca in ragione di una considerazione talmente semplice da essere banale: gli attuali consumatori sono persone a cui la marca piace già.

Sono le persone che più facilmente parleranno della marca, se gli si aiuta a farlo. Ed aiutarli ha più a che vedere con le storie ed i contenuti che gli si dà piuttosto che con gli strumenti, i quali diventano ogni giorno più diffusi, accessibili e banali.

Come dice Berger: smettete di focalizzarvi sulla tecnologia e concentratevi sulla psicologia. Anche perchè, come ho già detto lo scorso 18 agosto, quando il mezzo diventa mainstream non fa più il messaggio.

A rafforzare l’importanza della psicologia Berger aggiunge un dato sorprendente, che vi giro così com’è: l’85% del passaparola avviene faccia a faccia e solo il 7% avviene on line (dell’altro 8% non so).

Novembre mese dei seminari sul marketing agro-alimentare: Università Roma Tor Vergata e Winejob.

Questa settimana segnalo due seminari relativi al marketing enogastronomico dove credo valga la pena di partecipare (a Roma so già che non potrò andare per motivi sia logistici che di impegni di lavoro,a San Michele all’Adige forse riesco a farci una scappata).

II EDIZIONE SEMINARIO “FOOD, WINE AND CO. Comunicazione e Marketing degli eventi eno-gastronomici”
Due giorni per approfondire insieme l’efficacia del gusto e il sapore della comunicazione.
Università degli Studi di Roma Tor Vergata

4° Seminario Internazionale di Marketing del Vino – 8 novembre 2013
Fondazione Edmund Mach -Via E. Mach, 1 – 38010 S. Michele all’Adige (TN)
WineJob – Via G. Bovio, 19 – 50136 Firenze

Due momenti dove si potrà magari anche capire/discutere se e come ha ragione Farinetti con il suo obiettivo di raddoppiare l’export italiano di prodotti agroalimentari.

Nutella diventa adulta, quale sarà il suo futuro?

“Stabilità demografica: i vecchi non invecchiavano, i giovani non maturavano, i bambini non crescevano.” Vignetta di “El Roto” su El Pais di venerdì 18 ottobre.

La settimana scorsa ero partito dalla copiatura, consapevole o casuale che sia, della campagna Coca Cola con i nomi da parte di Nutella, ma ero finito a parlare più dello sdoppiamento di personalità di Coca Cola con la promozione Vodafone.

Oggi invece mi concentro su Nutella, perchè la nuova campagna rappresenta un sostanziale cambio di posizionamento.
Guardando questa breve storia degli spot Nutella appare evidente come:
- nel tempo ci sia stato uno spostamento dai bambini agli adolescenti;
- dal 1988 al 2003 si sia abbandonato il coinvolgimento della famiglia ed il legame tra generazioni per focalizzarsi sul circolo degli amici e le situazioni di consumo si allargano, andando oltre (abbandonando?) la colazione e la merenda;
- dopo il 2003 il convolgimento famigliare ed il legame tra generazioni vengono ripresi, allargando lo “scopo” della marca alla società nel suo complesso (ma escludendo gli anziani), sia in termini di immagini/situazioni che con il claim “Nutella fa più buona la vita”;
- con l’attuale spot Nutella fa un giro di 360° ed abbandona la dimensione sociale del consumo per concentrarsi su quella individuale, la situazione di consumo ritorna nell’ambito della della famiglia tradizionale, però la comunicazione è rivolta in modo quasi esclusivo ai consumatori over 40. Torna a rafforzarsi nelle immagini e nel testo il collocamento nella situazione di consumo a colazione, mentre rimane assente la merenda.

Vale la pena anche di ricordare l’evoluzione degli slogan:”Nutella Ferrero”; “Mamma tu lo sai”; “Energia per fare e per pensare”; “Che mondo sarebbe senza Nutella”; “Che colazione sarebbe senza Nutella”; “Nutella fa più buona la vita”; “Il buongiorno ha un nuovo nome, il tuo”.

Nel concludere questa breve analisi segnalo come dal 1971 al 1988 la comunicazione sottolineasse gli ingredienti e la genuinità del prodotto, concetti abbandonati/tralasciati poi fino al 2011, ripresi brevemente con lo spot “Che colazione sarebbe senza Nutella” e poi tralasciati nuovamente. Quindi meno razionalità e più emozione.

Partendo dal presupposto, dimostrato in tanti anni di campagne, che alla Ferrero sono dei signori professionisti, viene da pensare che questa evoluzione dei posizionamenti abbia l’obiettivo di seguire l’evoluzione del proprio target, nonchè l’evoluzione demografica del Paese. Il pensiero pare confermato dal fatto che gli spot spagnoli, dove la campagna “personalizza la tua Nutella” è partita già in primavera sono targettizzati sui bambini/famiglie

A questo punto mi pongo una prima domanda: l’accettabilità sociale della Nutella è tale da permettere di pubblicizzare interamente sugli adulti un prodotto per bambini? Probabilmente la risposta è affermativa visto che la scena di Moretti con il mega bicchiere di Nutella nel film “Bianca” risale al 1984. Nella storia del marketing è successo spesso che quote importanti di consumo di un prodotto provenissero da target socio-demografici diversi da quelli previsti, ma che per diversi motivi si riconoscevano nelle caratteristiche/valori della marca. E’ successo altrettanto spesso che quando le marche si sono accorte di questo ed hanno rivolto il proprio posizionamento direttamente a questi consumatori, li abbiamo persi perchè quello che gli piaceva erano proprio i valori estranei al loro profilo (come è successo nel caso della Ford Mustang).

La seconda domanda è: e i bambini? L’altro giorno ho sentito per l’ennesima volta l’ovvia tautologia che “dobbiamo occuparci dei bambini perchè sono il nostro futuro” (la cui conseguenza, poco ricordata, è che in una società la “presenza” del futuro e direttamente proporzionale alla “presenza” dei bambini).

I bambini sono il futuro comunque, anche se non ce ne occupiamo. A Nutella basterà occuparsi dei genitori per essere nel futuro dei loro (attuali) bambini?

Detto in sintesi la preoccupazione è che Nutella (e Ferrero, vedi anche la campagna Kinder cereali) stiano adottando una visione molto forte nel breve periodo ma con delle incognite nel medio-lungo.

Qui pensavo di aver finito, ma devo a Maria Grazia un commento sulla campagna istantanea “Siamo in vendita solo per i nostri consumatori”, apparsa in questi giorni sui principali quotidiani a seguito delle voci di una possibile vendita alla Nestlè.

Non è che mi abbia fatto impazzire perchè:
- suona un po’ ad excusatio non petita.. perchè la notizia della possibile vendita non mi sembra avesse fatto così tanto rumore, e comunque è stata data riportando la smentita di Ferrero;
- il concetto “Siamo in vendita…” suona comunque male.
- visto che in primo piano c’è la Nutella, almeno avrebbero potuto collegarsi alla campagna in corso con una cosa tipo “Siamo in vendita solo per Stefano, Federica, Marco, Giovanni, Roberta, Anna, Giulio ….” (adesso mi metto a fare anche il copy).

Concludo con un’ultima presa di posizione: la presenza di bambini nella pubblicità dovrebbe essere vietata!

Nutella copia Coca Cola e Coca Cola si sdoppia.

In questo post volevo scrivere di due promozioni che mi hanno lasciato perplesso, però facendo le solite ricerche/verifiche che accompagnano ogni post ho scoperto qualcosa di molto più interessante: la Coca Cola schizofrenica.

Andiamo con ordine. La prima promozione a lasciarmi perplesso è quella della Nutella con il proprio nome.

Non so se sia stata copiata da quella di “Condividi una Coca Cola” oppure è semplicemente una corrispondenza temporale (anni fa ho letto di un fisico teorico che aveva teorizzato la spiegazione del perchè alcuni concetti maturino contemporaneamente in posti e luoghi diversi in una specie di pensiero cosmico).

Poco importa, come non è sbagliato in assoluto copiare da quelli bravi. Dipende però da chi copia e come. Se sei un leader del peso della Nutella direi che non puoi copiare (quasi) da nessuno, sicuramente non da un’altro grande marchio dell’alimentare. Poi diranno che la promozione ha avuto un grande successo di partecipazione, ma secondo me resta una perdita netta di immagine.

Riguardo al “come” si copia, secondo me il concetto di “condividi questa Coca Cola con tizio” è molto più forte di “questa è la mia Nutella” e sono rimasto stupito di come invece tutti i commenti ed articoli che ho trovato in rete assimilino invece le due promozioni (paranoie da maniaco di marketing?)

L’altra promozione che mi ha lasciato perplesso è quella di Coca Cola e Vodafone che vedete qui sotto.

2013-10-13 20.52.24

I motivi della perplessità sono diversi:
- non ha alcun legame con la precedente nè con un concetto di posizionamento. E’ semplicemente un premio Vodafone per tutti. E’ quindi una promozione che potrebbe fare qualsiasi marca/prodotto.
- oltre che dall’etichetta, la bottiglia promozionata viene identificata da un tappo giallo che rischia di far percepire una variante di gusto (tipo la Coca Cola al limone realizzat anni fa, inseguendo il successo della Pepsi lime).
- è una promozione escludente per una marca universale come Coca Cola, perchè se io consumatore non ho vodafone sono in qualche modo penalizzato.

in una parola non sebrava neanche una promozione Coca Cola …. ed infatti, leggendo bene l’etichetta, non lo è.

Il regolamento del concorso infatti si trova su www.coca-colahellenic.it, ossia Coca Cola HBC Italia, ossia il principale (attenzione non l’unico) imbottigliatore italiano di prodotti The Coca Cola Company.

A questo punto la domanda (retorica?) è: questa operazione nasce da Coca Cola Italia, il cui sito è comunque riportato sull’etichetta della bottiglia promozionata, è almeno stata concordata oppure è stata fatta in totale autonomia?

In realtà qualunque sia la risposta, la domanda vera è: come si fa a gestire unm marchio con (almeno) due identità pubbliche?

Per quanto in Coca Cola siano bravi, la vedo una situazione rischiosa. Peggio che copiare le promozioni dalla Nutella.

L’evoluzione dell’e-commerce va contro gli interessi dei produttori?

Negli ultimi mesi mi sono occupato un po’ di e-commerce e mi sono reso conto che in molti settori, non solo nel vino, sta evolvendo verso il modello groupon: club aperti offrono continuamente a rotazione prodotti fortemente scontati per un periodo e/o quantità limitati.

I vantaggi per l’e-tailer sono:
- la possibilità di offrire una scontistica molto forte rispetto ai prezzi di mercato dà una forte capacità di attirare clientela.
- l’approvigionamento fatto dopo la chiusura dell’offerta permette di ridurre/azzerare il magazzino ed evitare il problema delle rimanenze di prodotto invenduto.
- la formula del club con iscrizione (facilitata utilizzando i prorpi profili social) permette di profilare gli iscritti e quindi realizzare attività di database marketing (con i siti di e-commerce tradizionali, che prevedono l’iserimento dei dati solo all’atto dell’acquisto questa possibilità è molto più limitata).

Il vantaggi per il consumatore è quello di essere costantemente informato di promozioni che gli permettono di acquistare prodotti fortemente scontati.

I vantaggi per il produttore sono: ???? Io non ne vedo.

Normalmente gli e-tailers che lavorano con questa modalità sottolineano che la presenza del prodotto nei loro siti va vista come un’attività promozionale che permette di far provare il prodotto ai loro iscritti. Sta poi alla forza/qualità del prodotto suscitare un interesse tale da fidelizzare chi l’ha provato.

Io però dubito che funzioni così, proprio per ragioni strutturali a questa modalità di vendita.

Prendiamo l’esempio del vino. E’ un prodotto di consumo, tecnicamente un “bene esperienza” che il consumatore tende ad acquistare sulla base di un numero limitato di informazioni. Non c’è bisogno di farsi un’opinione precisa ex-ante perchè il costo del giudizio a posteriori (quando si è fatta l’”esperienza” di consumo) è generalmente basso. Questo costo, della decisione sbagliata, si riduce ulteriormente nelle offerte di e-commerce sia per la convenienza del prezzo, sia per la quantità di informazioni che si possono fornire al potenziale acquirente.

In questo scenario quindi i comportamenti di acquisto tenderanno strutturalmente a cambiare ogni volta il prodotto offerto, provando ed approfittando di volta in volta delle diverse offerte. Tra l’altro anche se il consumatore volesse riacquistare un prodotto che gli era piaciuto, non ha come farlo perchè la politica di questi e-tailer è quella di non mantenere un assortimento fisso. E difficilmente sarà diffuso nei canali di distribuzione tradizionali, perchè altrimenti non si presterebbe ad essere venduto in promozione on-line.

Se invece l’e-tailer club riguarda beni durevoli, la situazione per il produttore rischia di essere ancora peggio. La capacità dell’offerta di stimolare l’acquisto di un bene durevole è infatti limitata, quasi sempre inferiore alla possibilità del consumatore di attendere l’occasione. Ecco quindi che il consumatore aspetterà fino a quando nelle varie newsletter delle offerte non troverà il prodotto che gli serve o gli interessa. di conseguenza il produttore venderà solamente in promozione.

La modalità di vendita rende strutturalmente possibile ad ampie fasce di consumatori di comportarsi come “cherry pickers”, ossia cogliere solo le offerte migliori e lasciar perdere tutto il resto.

Un paio di dati a corollario, ricavati dalla ricerca svolta dall’osservatorio Cetelem sui consumi in Europa:
- il 26% dei consumatori si rivolge ai social network per consultarsi sui propri acquisti.
- il 33% degli intervistati pensa che in futuro utilizzerà smartphone e tablet per fare i propri acquisti.
- il 78% dei consumatori utilizza siti comparatori di prezzi per informarsi al momento di fare acquisti e la percentuale di chi dichiara che li utilizzerà in futuro sale all’88%.

La cosa interessante, o preoccupante dipende dai punti di vista, è che questa modalità di vendita di vendita si sta spostando dall’on-line all’off-line, a conferma che la separazione tra mondo “reale” e “virtuale” è artificiosa) se la catena di negozi che ha vinto il Channel Innovation Award negli USA è Whole Sale Liquidators, catena che vende rimanenze di magazzino e lotti di prodotti provenienti da liquidazioni e fallimenti a prezzi superscontati. che nella loro attività off ed on-line siano integrati sia come canali di vendita che di comunicazione è persino banale.

Cosa resta da fare ai produttori? Dimenticarsi che nell’era dell’informazione sia possibile mantenere dei margini basati sull’opacità dei mercati e sull’arbitraggio in termini di tempo e spazio, concentrarsi sulle massimizzazione dell’efficienza delle proprie capacità specifiche per massimizzare l’effettivo valore offerto sul mercato (che può essere costitutito anche da elementi intangibili, purchè intrinseci alla proposta) e lavorare con una politica di prezzi costanti.

Concludo con il link ad un vecchio post che trattava del couponing, può essere interessante sia per completare il quadro che per vedere come sono cambiate le cose.

La S.W.O.T. secondo biscomarketing diventa T.O.W.S.

Qualche tempo fa Pier Luca Santoro sul suo progilo FB ha chiesto opinioni su un’analisi swot che stava facendo e così mi sono imbattuto in questo strano modello di swot, per scoprire che è quello pubblicato da wikipedia (e quindi quello destinato a diventare prevalente).

Per dare i miei suggerimenti al buon Pier Luca pensavo di linkare un post di biscomarketing e così mi sono accorto che in tutti questi anni non ho mai affrontato questo strumento di analisi di marketing tanto fondamentale quanto spesso fraintesa.

Per capire come massimizzare l’efficacia della swot va premesso che gli strumenti di marketing sono analitici e non deterministici. Questo significa che la funzione degli strumenti marketing è quella di fornire un quadro completo, preciso e rilevante della situazione analizzata, senza che questa analisi scaturiscano automaticamente le azioni da intraprendere. Poichè ogni combinazione azienda/marca/obiettivo con lo scenario competitivo è specifica, trarre conclusioni deterministica precostituite dall’analisi rischia di essere inefficace o, al massimo, tautologico, come nel caso delle varie strategie S-O, W-O, ecc.. del modello proposto da wikipedia.

Gli strumenti però sono in grado di garantire la completezza e precisione dell’analisi solamente se utilizzati correttamente in termini di forma logica e di flusso. Viceversa gli strumenti non aiuteranno all’analisi ragionata delle situazioni ma si ridurranno a schemi formali riempiti, per seguire consuetudini aziendali o mode, di considerazione sviluppate in modo disorganico.

Nel caso dell’analisi swot il flusso comincia definendo il proprio target di consumo. E’ evidente che il trend di invecchiamento della popolazione sarà valutato in modo completamente diverso se il mio target sono i neonati oppure gli over 65.

Il passo successivo è quello di individuare i fattori esteri all’organizzazione, ossia le minacce e le opportunità. Ecco perchè l’inversione delle lettere della sigla nel titolo.
In realtà questo percorso non me lo sono inventato io, ma è quello che riporta Kotler su Marketing Management.
Perchè è importante cominciare dall’identificazione dei fattori esterni all’organizzazione? Perchè è sulla base delle opportunità e minacce esterne che si andranno a definire le caratteristiche dell’organizzazione come punti di forza o di debolezza. Se il mio target sono gli over 65, l’invecchiamento della popolazione è un’opportunità, ma un’immagine di marca “giovane” sarà una debolezza.

Fin qu tutto semplice, ma posso assicurarvi per esperienza che se non si ha chiara la logica sottostante la swot e la distinzione tra ambiente esterno e caratteristiche dell’organizzazione, è molto facile mescolare opportunità con punti di forza e minacce con punti di debolezza. Questa fa perdere di efficacia all’analisi e di conseguenza darà origine a strategie più confuse.

Anche quando viene fatta correttamente, la swot presenta un rischio intrinseco di interpretazione legato alla numerosità dei diversi fattori T-O-S-W elencati. Sia perchè il numero diventa inconsciamente una misura del peso di quel componente, sia per la naturale tendenza a fermarsi dopo aver elencato un certo numero di fattori all’interno di un componente T-O-S-W e per la swot nella sua totalità.
Per ovviare a quest’ultimo rischio io cerco di fare sempre la swot in gruppo e cerco di avere nel gruppo persone che lavorano in tutte le funzioni aziendali per essere più sicuro di non perdere aspetti legato al prodotto, all’amministrazione, alla logistica, alle vendite, ecc… L’ideale probabilmente sarebbe che tutti i componenti del gruppo sviluppassero la loro swot individualmente per poi confrontarsi in gruppo.

Per ovviare invece a ritenere prevalenti i punti di forza rispetto a quelli di debolezza solo perchè sono di più, da anni ho adottato la tecnica di assegnare ad ogni fattore un punteggio che va da +2 a -2, in modo da ponderarli.
E’ una scala che presenta diversi vantaggi:
- è sufficientemente ampia da differenziare il peso dei fattori;
- è sufficientemente corta da costringere a dare valutazioni chiare, senza lasciare spazio a compromessi inconcludenti;
- contenendo lo 0 (grazie agli indiani ed agli arabi) permetto di indicare quei fattori che si ritiene importante evidenziare, ma che non si riesce a definire con certezza se punti di forza o debolezza, La soluzione di indicare la stessa voce sia come forza che come debolezza, che ho visto adottare talvolta, mi sembra molto più confusa.

Volendo questo sistema di ponderazione si può applicare anche alle Minacce ed alle Opportunità, ma per esperienza ho notato che l’aumento di formalismo rischia di ridurre l’estensione dell’analisi. Sembra che le persone dovendosi concentrare sul meccanismo, siano meno attente ad individuare tutti i fattori che influenzano la situazione. Vedete voi, io comunque consiglio di trovare un punto di equilibrio tra rigore metodologico e spontaneità/libertà di pensiero.

Un’ultima considerazione che deriva da questi anni di esperienza pratica e conferma quello che diceva Tom Funk, il mio professore di Marketing Management all’universita di Guelph: a parte casi eccezionali, l’implicazione della swot non è “oh mamma mia quante minacce/punti di debolezza, tiriamo una pietra sopra al progetto ed andiamo a casa” nè l’opposto “tranquilli, con tutte queste opportunità/punti di forza non possiamo sbagliare”.

La swot serve per identificare gli elementi dello scenario in un’ottica strategica, all’analisi si risponde usando la propria creatività e competenza (risultato di scienza, coscienza ed esperienza) per sviluppare strategie che sfruttino al massimo i punti di forza e riducano al minimo i punti di debolezza.

In altre parole, le risposte strategiche dovete trovarle voi.