Nel mondo c’è un surplus di felicità, per valorizzarla bisogna condividerla.

Lo so che il titolo di questo post suona molto natalizio (complice anche il periodo), ma è una considerazione che ho veramente trovato in un articolo pubblicato sul numero di agosto (quindi in tempi non sospetti) di Marketing News.

Il presupposto parte dalla lettura dell’indagine “Perils of Perception” (Pericoli della Percezione) condotta dalla Ipsos ogni anno a partire dal 2012.

L’ultima edizione pubblicata è quella del 2018, però purtroppo non tutti gli anni ripetono le stesse domande. Quindi l’ultima edizione con la domanda che riguardava la felicità è quella del 2016.

L’indagine è stata condotta in 40 paesi, intervistando un totale di 27.250 persone con campioni rappresentativi dei diversi paesi, tra il 22 settembre ed il 6 novembre 2016.

La domanda sulla felicità era: “Conducendo un’indagine sulla popolazione, secondo Lei che percentuale di persone direbbe di essere tutto considerato “molto felice” o “abbastanza felice”?”

Il risultato delle risposte a questa domanda è stato poi confrontato con la % di persone che effettivamente avevano risposto di essere “molto felice” o “abbastanza felice” in quel paese secondo l’indagine World Value Survey.

In questo modo è possibile avere una misura della differenza di percezione tra la % di persone che si crede si dichiarano felici e la % di persone che effettivamente si sente felice.

Si ottiene così il grafico qui sotto, che mostra come in tutti i paesi ci sia una percezione di felicità molto più bassa di quella effettiva. Ovvero c’è più felicità di quella che pensiamo.

Screenshot 2019-12-14 12.11.00

Non cercate l’Italia perché in questo grafico non c’è, pur se viene citata tra i paesi su cui è stata condotta l’indagine.

Tralascio tutte le considerazioni sull’affidabilità dei dati, di risposte basate sulla percezione ed autopercezione e sui livelli assoluti di felicità dichiarata nei diversi paesi (i valori più alti si concentrano tendenzialmente nei paesi relativamente più poveri).

Prendo l’analisi per buona e mi concentro invece, come ha fatto J.Walker Smith che ha scritto l’articolo di Marketing News, sul fatto che nel mondo c’è abbondanza di felicità.

Il marketing, in estremissima sintesi, si basa sull’obiettivo di rendere la vita delle persone più felice (o se preferite facile, comoda, piena, ecc…).

Normalmente questo si realizza dando più/migliore accesso a risorse scarse. Tra le caratteristiche che la teoria economica indica perché un bene sia potenzialmente oggetto di scambio c’è la sua scarsità rispetto alla domanda.

Ora è vero che si può sempre essere PIU’ felici, ma è altrettanto vero che questa indagine dimostra (dimostrerebbe) che la felicità è un “bene” piuttosto abbondante. E l’abbondanza, di qualsiasi cosa, porta normalmente ad essere più altruisti nel condividere quello che si ha.

Qui poi Walker Smith tira in ballo il filosofo australiano Peter Singer e la sua teorizzazione dell’utilitarismo che considera come azioni moralmente più accettabili quelle che puntano a massimizzare il livello netto di utilità/piacere/felicità di tutti (umani e non umani compresi). Nel corso della carriera Singer è passato dall’utilitarismo preferenziale all’utilitarismo edonistico. Questo se volete ve lo cercate da soli su wikipedia.

(Eccessi?) di filosofia a parte, è interessante notare le crescenti tendenze di comportamenti basati sull’abnegazione (self-sacrifice) piuttosto che sull’arricchimento (self-enrichment).

Il manifesto degli Amministratori Delegati delle grandi aziende per tener conto anche degli interessi della società in senso ampio e non solo degli azionisti, le campagne pubblicitarie centrate sul miglioramento della vita delle persone (charity e non) ed in generale l’attivismo sociale delle marche sono tutte strategie basate sulla creazione di valore attraverso la condivisione del surplus di felicità.

Crederci è il primo passo per agire.

Almeno a Natale.

Passate bene, ci risentiamo nel 2020.

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