MARKETING O MARCHETTING?

Da quando ho iniziato a lavorare non so più quante volte sono stato chiamato “marchettaro” con più o meno malcelata ironia. Non ne ho mai fatto un problema nella misura questo non mi impediva di esprimere il mio punto di vista sulle diverse questioni aziendali. Anche perché mi sono sempre ricordato del mio professore di Zoognostica all’Università che per preparare l’esame raccomandava, dopo aver studiato sui libri, di andare in stalla guardare davvero gli animali, senza preoccuparsi troppo se questo implicava trovarsi a camminare nel letame (consigliava però delle scarpe grosse).
Leggo sul web la polemica tra Ziliani e Gatti sulle segnalazioni/recensioni dei vini a pagamento, dal primo considerate marchette e dal secondo considerata (legittima) pubblicità ed ho la sensazione entrambi abbiano solo dei pezzi di ragione e di torto perché alla fine si rifanno comunque ad un mondo (in cui anche io sono crescito) che non esiste più.
Cerco di chiarire i termini della questione definendo innanzitutto cos’è pubblicità e cosa sono pubbliche relazioni (o publicity per utilizzare il più preciso termine anglosassone), prendendo le definizione del Kotler (perché accontentarsi di meno):
PUBBLICITA’: qualsiasi forma di presentazione o promozione non personale (inteso come “faccia a faccia”) del prodotto pagata da un committente chiaramente identificato.
PUBLICITY: qualsiasi forma di presentazione o promozione non personale (inteso come “faccia a faccia”) del prodotto ottenuta gratuitamente senza che sia identificato un committente.
E quindi evidente che la differenza tra le due modalità non viene determinata dal contenuto (una pagina pubblicitaria può benissimo riportare la recensione del vino pubblicizzato), ma dalla fonte che comunica. In altri termini dal rispetto del libero arbitrio di chi riceve la comunicazione. Se questo viene a mancare si passa dalla corretta comunicazione, pubblicità o publicity che sia, alla persuasione occulta. Questa tra l’altro è la ragione perché la pubblicità rivolta ai bambini è eticamente discutibile.
Fin qui tutto chiaro. Le complicazioni cominciano quando si rischia una commistione tra le due cose (come sostiene giustamente Manti). Il problema è che negli ultimi 10 (o 5 anni) il mondo dell’informazione (comunicazione) tradizionale è cambiato dal momento in cui il risultato economico non si è più basato nella vendita di informazioni, competenze, notizie ecc.. ai propri lettori, bensì sulla vendita di audience (ossia l’attenzione dei lettori) agli investitori.
Ecco quindi che il proprio pubblico (in termini di numerosità e profilo) diventa il principale asset di una testata, mentre il contenuto si trasforma in un mezzo di produzione di questo asset con le valutazioni in termini di costo-beneficio e produttività marginale che ne conseguono. Se riferito alla stampa può apparire un discorso astrusamente teorico, basta pensare alla TV generalista per rendersi conto di quanto sia lampante.
E qui le cose cominciano a diventare scivolose per i giornalisti/editori (iscritti all’albo o meno poco importa) perché se può apparire perfino ovvio che una volta definiti i termini della propria attività di comunicazione sia giusto valorizzare al massimo il valore del proprio pubblico (posizione di Gatti), questo rischia di portare una superficializzazione dei contenuti (basta vedere la lunghezza degli articoli, anche di commento o inchiesta dei principali quotidiani nazionali) ed mina la credibilità della testata, che si è sempre basata tradizionalmente sull’indipendenza, neutralità e competenza della fonte (posizione di Ziliani).
Proprio nello spazio creato da questa crisi di credibilità, che si tratti di giornali o giornalisti sponsorizzati da un’azienda oppure “embedded” all’esercito americano che invade l’Iraq poco importa, si sono affermati i blog come informazione genuina ed indipendente, seppur non neutrale.
E’ eticamente corretto fare dell’informazione avendo come principale riferimento economico (quello che tiene in piedi la propria attività) i propri sponsor invece del proprio pubblico? Nel mondo del giornalismo indipendente, neutrale e competente che di fatto decide cosa è giusto e cosa non è giusto dire sicuramente no. Però questo mondo non esiste più (se mai è esistito, visto che “Quarto Potere” non è esattamente una premiere dell’ultima stagione cinematografica)
Attenzione che la crisi dell’informazione tradizionale non sta nel mezzo, ma nel modo. Significa che man mano che l’informazione attraverso i blog acquista importanza e si va strutturando, rischia di essere vittima degli stessi problemi di credibilità e di essere superata da altre modalità di comunicazione (che queste poi utilizzino altri mezzi è solo un tecnicismo).
Il social networking in termini di raccolta di informazioni è un superamento del blog, che si basa però sempre sul concetto di credibilità e fiducia.
Le testate di informazione non sono più un riferimento fisso nel tempo e nello spazio, ma tendono a diventare una delle tante possibili fonti (pensiamo alla differenza tra la RAI degli anni ’60 a due canali in bianco e nero ed i bouquet di pay per view) di diversa credibilità per le diverse persone. Esistono già aziende con credibilità pari o maggiore a quella delle testate informative nei campi che le riguardano (primo esempio che mi viene in mente: Volvo nell’ambito della sicurezza stradale).
E’ meglio? E’ peggio? Già nelle tavolette cuneiformi ritrovate a Babilonia si trovano commenti sulla corruzione dei tempi nuovi ed il peggioramento della gioventù. Sicuramente è un mondo più complesso (come lo è avere 15 canali televisivi che trasmettono 24 ore al giorno invece di 2 che trasmettono dal 17 alle 24), soprattutto per chi, come me, è nato è cresciuto in un altro mondo che oramai non c’è più, ma a cui i digital native sono già pronti e che stanno già affrontando con naturalezza nei modi più (ancora) impensati.
“La pubblicità è l’anima del commercio”. Forse una volta ed in parte ancora oggi, ma in futuro credete a quello che ha detto un adolescente americano: nessun quindicenne comprerà un videogioco tanto perché ne vede la pubblicità quanto perché qualcuno (di cui si fida) gliene parla.
Si torna all’antico, dove la comunicazione diretta diventa di massa e la fiducia la conditio si ne qua non.
A chi e quanto credere resta compito affidato al libero arbitrio di ognuno.

2 thoughts on “MARKETING O MARCHETTING?

  1. Ho letto con grande attenzione il tuo post, e non posso che essere d’accordo con te. Anch’io ho seguito il dibattito Ziliani-Gatti. La faccenda, oltre che di sempre grande attualità, è anche molto complessa. Io sono giornalista iscritta all’Ordine nazionale, e come tale NON posso fare pubblicità a pagamento (redazionali) firmando col mio nome, come se fosse un articolo frutto della mia personale elaborazione. Entrerei in un conclamato conflitto d’interessi che viola la deontologia professionale, sarei passibile di richiamo e/o denuncia da parte del mio Ordine.
    Come dici tu, è una questione di credibilità: in Italia, non si conferisce nessuna credibilità/autorevolezza a chi parla bene di qualcosa o di qualcuno, ed è pagato per farlo. Ovvio, no? Il che vuol dire che, se fossi l’addetto stampa della tua azienda, non potrei mai scrivere un articolo su di essa, nè nel bene, nè nel male, ma solo impersonali comunicati stampa rigorosamente non firmati. Un comportamento simile è richiesto oggi anche ai comunicatori del vino, cioè a persone – spesso “editori” di se stessi – che pur non essendo giornalisti “ufficiali” (iscritti all’ODG) ne scrivono: se un’azienda ti paga per scrivere la recensione di un suo vino, non puoi spacciarla per informazione, perchè è solo pubblicità. E alla pubblicità, poco o tanto, ormai non crede più nessuno. L’affacciarsi del citizen journalism, come viene definito spesso il blogging, anzichè semplificare il quadro l’ha complicato: chi sono i blogger? Per la legge italiana, l’unica che riconosce alla nostra professione un Ordine, non sono giornalisti (se non sono iscritti allo stesso). Dunque, in teoria, possono fare e scrivere quello che vogliono, purchè nel rispetto – almeno – del codice civile. Ma se le cose stanno così, non possono essere trattati alla stregua di giornalisti, con tutto quel (poco) di privilegiato che ne consegue: ingressi gratuiti alle fiere di settore, inviti alle presentazioni delle aziende, edu-tour eccetera. E poi: se un blogger viene pagato per scrivere di un vino, fa pubblicità o informazione? c’è perfino chi rifiuta di ricevere bottiglie in omaggio, per evitare di essere sfiorato dal sospetto di “essere stato corrotto”. Insomma: la questione è ancora aperta, e irrisolta. E chi sa mai se riusciremo a risolverla. Essendo giornalista, potrei riferire di episodi molto poco edificanti sui vari sistemi per far pressione sia sulle aziende, sia sui giornalisti da parte di tante testate giornalistiche (più o meno illustri). Come giustamente osservi tu, il mondo è cambiato, anche e soprattutto quello del giornalismo. E’ cambiato il modo di fare informazione/comunicazione. Però, a mio avviso, non sono cambiati i principi di correttezza e trasparenza. Io non avrei nessun problema a farmi pagare da un’azienda (e a dichiararlo: non a caso sul mio blog c’è la sezione ‘Conflitti d’interesse’!) per recensire il suo vino: a patto però di vedermi assicurato il diritto di parlarne MALE, se lo merita. Ecco perchè, in fondo, nessuno crede alle recensioni a pagamento: perchè non sono sincere. Non possono esserlo. Un giornalista, un editore, non può parlar male del suo cliente, pena la perdita dello stesso (e del suo guadagno).
    Il mondo tratteggiato dalla pubblicità e’ un mondo dove va sempre tutto bene e i vini sono sempre meravigliosi. Anche quelli che fanno notoriamente schifo – e ne conosciamo entrambi tanti.
    E’ un mondo falso, che non esiste.
    Un mondo dove ancora gira Babbo Natale, laddove al medesimo non non crede più nessuno, nemmeno i bambini.
    Nemmeno a Natale.

    liz

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