In qualsiasi momento tra cinque minuti o cinque anni da oggi la pubblicità come la conosciamo noi morirà …

… questo è quanto scrive Andrew Essex nel suo libro “The End of Advertising” uscito nel 2017.

Ora su questo blog ho già ragionato varie volte sulle fine della pubblicità e finanche sulla fine del marketing, che non è la stessa cosa. Alcune delle riflessioni fatte qui nel corso degli anni le ho ritrovate nei concetti espressi dal Sig. Essex nell’intervista che gli ha fatta Marketing News sull’argomento (il che fa sempre piacere).

Credo però che possa essere utile ed interessante tornare sull’argomento per l’organicità con cui la tratta il Sig. Essex, che per gli spunti che fornisce.

Per cercare di rendere il post meno didattico / accademico e noioso, riporterò le parti dell’intervista che ho evidenziato “in ordine di apparizione” (in originale seguite dalla mia traduzione dall’inglese) e ci farò i miei relativi commenti.

 

… the advertising we know may perish, but its heir apparent has potential to be prodigious. After all, people will always need to buy, sell and know what’s new

“… la pubblicità che conosciamo noi magari morirà, ma i suoi eredi sembrano avere un potenziale prodigioso. Dopotutto la gente avrà sempre bisogno di comprare, vendere e sapere cosa c’è di nuovo”

Questo per ricordare una cosa ovvia, che quindi viene spesso dimenticata, quando importante: la pubblicità (ma sarebbe più corretto dire la comunicazione) è una delle fondamenta dell’economia di mercato.

Spesso la pubblicità gode di pessima fama di inutile persuasore occulto (che non è, ma questo è un altro discorso) mentre la comunicazione è uno strumento chiave della competizione che permette alle cose nuove, e spesso migliori, di soppiantare le cose vecchie.

 

Customers, en masse, are choosing to essentially never see ads again by downloading ad blocking software.

“I consumatori in massa stanno scegliendo essenzialmente di non vedere mai più pubblicità, installando software che blocca la pubblicità (su computer e, soprattutto, cellulari.”

Come ho già scritto in passato gli ad-blockers sono una manna per il marketing ben fatto perché dimostrano una cosa che era palese già prima, ma che spesso si faceva finta di non vedere: di base alle persone la pubblicità non interessa.

E questo era abbastanza ovvio. Il contributo principale degli ad-blockers al progresso del marketing è che hanno reso evidente un altro concetto già noto, ma ancora più spesso rimosso nelle strategie di comunicazione delle marche: l’attenzione selettiva per cui le persone non vedono la pubblicità anche se stanno guardando la TV, il video su Youtube, il loro facebook, ecc… Solo per completezza conviene ricordare che all’attenzione selettiva si collegano i concetti di distorsione selettiva e ricordo selettivo.

Quindi se prima potevamo avere l’illusione che le persone vedessero la nostra pubblicità solamente perché erano esposti al messaggio, adesso grazie agli ad-blockers siamo coscienti che non la vedranno. Anche per chi non installato programmi di ad-blocking continua comunque a valere il meccanismo dell’attenzione selettivo: provate a dire il nome della marca pubblicizzato nello spot posizionato prima dell’ultimo video che avete guardato su You Tube.

 

Bad advertising is careening toward extinction.”

“La cattiva pubblicità sta avanzando verso l’estinzione.”

La prima considerazione che mi viene in mente è che la cattiva pubblicità è sempre esistita, però solo nell’attuale società digitale pare spinga le aziende a non fare più pubblicità invece di farne di migliore. Come cattiva pubblicità si intende quelle che non è in grado di aggiungere valore alle persone, quindi di conseguenza la “buona pubblicità” è quella che aggiunge valore alle persone sotto forma di intrattenimento e/o informazioni e/o qualsiasi “utilità” in senso esteso.

Quello che voglio ricordare è che anche nella società analogica succedeva, spesso, che ci fossero lanci di nuovi prodotti che si rivelavano dei flop malgrado fossero sostenuti da grandi budget pubblicitari (e non solo per debolezze intrinseche del prodotto pubblicizzato), ma non per questo si pensava di non farne più.

L’altra considerazione è che il modello di comunicazione digitale, focalizzato sulle conversioni e quindi tendenzialmente tattico, spinga intrinsecamente alla realizzazione di pubblicità cattiva. Ci ritorno più avanti.

 

The last 50 or so years, the industry has subscribed to a model called command and control, which based on the premise that you have to pay to generate attention, that you have to buy awareness.

“Durante gli ultimi 50 anni o giù di lì, l’industria ha sottoscritto un modello chiamato comanda e controlla, basato sulla premessa che dovevi pagare per generare attenzione, che bisognava pagare la consapevolezza (della marca da parte delle persone).”

Sottolineo una volta di più che chi aggiungeva a questo modello della buona comunicazione otteneva risultati migliori.

 

Now I believe you cannot interrupt effectively and, in fact, the interruption is a very bad strategy.

“Adesso ritengo che le marche non possano più interrompere efficacemente e, infatti, l’interruzione è una pessima strategia.”

L’impossibilità di interrompere efficacemente secondo il sig. Essex deriva innanzitutto dalla frammentazione dei mezzi di comunicazione e dall’utilizzo degli ad-blockers.

Verissimo, ma secondo me ci potrebbe essere qualcosa di più nell’atteggiamento delle persone durrante la fruizione dei mezzi di comunicazione.

Partendo dal gurdare la TV generalista ed arrivando a chattare su Whatsapp, passando per ascoltare la radio, leggere un giornale e fare una ricerca su google c’è un continuum che va dalla massima passività al massimo coinvolgimento nei confronti del mezzo.

Ora, normalmente un mezzo a fruizione passiva è ritenuto meno interessante di uno a fruizione attiva per ottenere il suo coinvolgimento con la marca. D’altra parte però il “disturbo” dell’interruzione per le persone è molto più forte quando sono impegnate in un’attività che le coinvolge (praticamente tutte quelle che si svolgono sul web) rispetto ad una in cui sono più passive.

Mi spiego con un esempio. La catena di discount tedesca ALDI sta realizzando una campagna su facebook per l’apertura dei suoi punti vendita in Italia. La campagna su basa su spot in cui italiani che vivono all’estero, in paesi dove ALDI è già presente, raccontano quanto bello sia. Oppure sulla valutazione dei prodotti ALDI da parte delle famiglie italiane che si chiamano Aldi di cognome.

E’ una campagna secondo me ben pensata e ben realizzata ed io gli spot che sono apparsi nella mia newsfeed di facebook me li sono guardati perché ALDI lo conoscevo già, oltre che per curiosità professionale.

Ma mi domando quale attenzione possono aver ricevuto dalle persone a cui il marchio “ALDI” non dice niente. Vado oltre e mi chiedo se i canali web, lo so che qualcuno dirà che non si possono mettere insieme mezzi con caratteristiche molto diverse tra loro, siano adatti a creare l’awareness di base di una marca.

There are huge ways that brands can make the world a better place rather than adding pollution to the equation. It just requires imagination and good leadership.

“Ci sono moltissimi modi in cui le marche possono fare del mondo un posto migliore piuttosto che aggiungere inquinamento (pubblicitario). Serve solo immaginazione e una buona leadership.”

Vorrei ricordare che l’azienda che opera secondo il concetto di marketing punta a soddisfare i propri obiettivi soddisfacendo i bisogni e desideri delle persone meglio dei concorrenti.

Quindi se è vero che fare le persone più felici NON è il fine dell’azienda, si che dovrebbe/potrebbe essere il MEZZO.

When you commodify an audience, you forget that they live lives of great complexity in a context that’s rapidly shifting.

“Quando mercifichi un’audience, dimentichi che loro vivono vite di grande complessità in un contesto in rapido cambiamento.”

Più passa il tempo e più mi convinco che la crisi del marketing in generale e della comunicazione in particolare non deriva dall’obsolescenza dei concetti nella nuova società digitale, ma dal consolidarsi di anni (decenni?) di cattivo utilizzo.

You have to think what do you, as a consumer, want to see, and when do you want to see it?”

“Devi pensare a cosa tu, come consumatore, vuoi vedere e quando vuoi vederlo.”

In realtà non è difficile. E sempre la buona vecchia regola di mettersi nei panni dei propri consumatori, o meglio ancora pensare a come ci comportiamo noi, professionisti di marketing, comunicazione, pubblicità, nelle situazioni in cui siamo consumatori.

E’ per questo che mi stupisco di come la pianificazione pubblicità digitale sia ancora così tanto incentrata sui banner. Oltre 10 anni fa mi ricordo che lessi un articolo che diceva come sul web ci fossero il peggiore ed il migliore messaggio “pubblicitario” che una persona poteva ricevere: il primo era un banner ed il secondo era un consiglio su una marca da parte di un amico.

 

“You can no longer buy relevance …. You have to begin with product and purpose and then some perspective”

“Non puoi più comprare rilevanza… Devi partire con un prodotto ed un scopo e delle prospettive/scopi”

Aggiungo solo che la rilevanza non si è mai potuta comprare.

My simple assumption is make something people like, rather than something people don’t like and you’ll do better.

“La mia assunzione è semplicemente fai qualcosa che piaccia alla gente piuttosto che qualcosa che non gli piace e andrai meglio.”

So che può suonare semplicistico e, soprattutto di questi tempi, non misurabile.

Ma come scrivevo recentemente, le cose succedono indipendentemente che riusciamo a misurarle o meno. Soprattutto per quanto riguarda la percezione delle persone nei confronti delle marche. Inoltre, se come dice il Sig. Essex, il tasso di conversione dei banner pubblicitari è dello 0,001%, per avere dei risultati commerciali che abbiano un minimo di senso è necessario partire da un’audience di 1 miliardo di persone.

Inoltre la possibilità che forniscono i mezzi digitali di targhettizare la comunicazione sta creando un circolo vizioso di disturbo delle persone che parte da cercare di carpirgli i dati personali per poterli raggiungere (o raggiungerli attraverso le cerchie dei loro contatti partendo da uno di cui si hanno i dati) e poi “perseguitarli” con campagne nel peggiore stile push, subissandoli di proposte commerciali, spesso anche dopo che hanno comprato il prodotto o servizio proposto (il re-marketing è diabolico nella sua ignoranza).

 

I believe infrastructure is the ultimate white space, and that’s the future of marketing if we can get the right people in leadership roles.

“Io credo che l’infrastruttura sia lo spazio bianco finale e questo è il futuro del marketing se possiamo avere le persone giuste nei ruoli dove si prendono le decisioni.”

Io sono sempre stato un sostenitore della pubblicità con l’affissione e delle Pubbliche Relazioni. Essex spinge il concetto all’estremo e vede le infrastrutture come media. Negli USA c’è un grosso problema con l’obsolescenza delle infrastrutture, ponti, ferrovie, ecc …

Perché allora non sponsorizzare un ponte finanziando la sua riparazione/manuntenzione? Perché non sponsorizzare il wi-fi sui treni per pendolari?

Non è difficile farsi venire in mente qualcosa che sia coerente e collegato con la marca / prodotto mettendosi nel giusto atteggiamento mentale, ossia che lo scopo non deve essere quello di disturbare ed interrompere le persone in quello che stanno facendo / gli piace.

La tonnara del social media marketing.

La scorsa settimana esprimevo i miei dubbi sul fatto che la comunicazione sui social media creasse più coinvolgimento di quella classica, concludendo però con la certezza che i social media diano migliori risultati per portare le persone direttamente a comprare qualcosa on-line.

Questo sostanzialmente perché da un post su un social media si può passare direttamente ad un e-shop, cosa impossibile con la pubblicità sui media classici.

Tra il dire (il principio generale di cui sopra) ed il fare (concludere la vendita), c’è in mezzo un affascinante mare di attività che riportano il termine “marketing” all’essenza più cruda del verbo “to market” (ossia vendere) da cui deriva.

Cose che più o meno intravedevo o intuivo, ma che non avrei potuto conoscere con precisione vista la mia età se non grazie a Pier Luca Santoro (sempre lui) ed al post “The Strange Brands in Your Instagram Feed” che ha condiviso all’interno di un gruppo facebook di cui faccio parte (così adesso sapete che potete smettere di leggere biscomarketing e seguire invece Pier Luca nelle sue molteplici presenze ed attività on e off line).

Consiglio vivamente a tutti di leggere il post originale, ma per i più pigri e/o per chi non ha dimestichezza con l’inglese ne faccio una sintesi ragionata e commentata. 

Tutto comincia quando l’autore si imbatte su Instagram in una pubblicità per un cappotto proprio del colore che cercava lui e molto economico. Lo compra, il cappotto arriva dalla Cina e la sua qualità (colore a parte) è tanto bassa quanto era basso il prezzo.

Di lì fa un po’ di ricerche sul web e scopre che lo stesso cappotto è venduto da diversi negozi on line che usano tutti la piattaforma Shopify.

Le nuove frontiere della vendita al dettaglio sono spiegate in una serie di video su Youtube da Rory Ganon, in cui racconta la sua sfida di creare un negozio on line da 0 e portarlo a 1.000 $ di fatturato in una settimana. Rory Ganon è un imprenditore diciasettenne che vive in una cittadina alla periferia di Dublino.

La prima cosa da fare è definire un target e questa è stata la cosa per me più affascinante perché quando insegno marketing suggerisco sempre di individuare il proprio target in base ai vantaggi (benefit) che le persone ricercano nella fruizione dei servizi contenuti nel prodotto. Poi da li ricondurlo alle caratteristiche socio-demografiche necessarie per poterlo raggiungere con la comunicazione.

E’ quello che fa anche Rory, ma portandolo all’estremo: lui ha scelto come target i leoni. In un primo momento ho pensato che si trattasse del nome dato da un istituto di ricerca ad un profilo psicografico (chi tra i miei vecchi lettori si ricorda dei “Delfini” della mappa Sinottica di Eurisko negli anni ’90?).

Invece Rory intende proprio i leoni in quanto animali, ossia il suo target saranno quelli a cui piacciono i leoni. Benefit semplice, preciso e quindi efficace per definizione.

Ha fatto dei grandi ragionamenti per scegliere i leoni? Non sembra, invece è entrato in Audience Insight di facebook (per farlo dovete avere un account pubblicitario su facebook) ed ha visto che scrivendo “lions” ci sono da 5 a 6 milioni di persone attive al mese nel mondo. Se poi si aggiunge “wildlife” l’audience cresce a 10-15 milioni di persone attive al mese.

Come insegnano i manuali di marketing un’audience (o target se preferite) per essere rilevante deve essere “azionabile”, ossia poter essere raggiunta, avere la volontà e la capacità di spendere, ecc… Ma un’audience sul web è azionabile per definizione perché, come spiega Rory nei suoi video:

1: ci sono influencer in Instagram a cui posso collegarmi.

2: si possono sviluppare le vendite attraverso pubblicità su facebook.

Altre ragioni non servono.

Prima però Rory deve aprire il suo negozio, non è molto difficile (per un diciassettenne, per me sarebbe molto complicato) va su Shopify ed apre “Lions Jewels”.

Per l’assortimento invece va su AliExpress, un’azienda del sito cinese Alibaba, e tramite una app collegata direttamente a Shopify (anni fa qualcuno mi ha detto “c’è una app per tutto” e già gli ho creduto quella volta, figuriamoci oggi) cerca degli oggetti legati ai leoni tra i negozi presenti su AliExpress.

I negozi possono essere sia di produttori che vendono quello che producono o semplici rivenditori, magari che comprano anche loro su AliExpress dai primi, non ha importanza. L’importante è che forniscano anche il servizio di spedizione e consegna al cliente finale, così Rory non deve gestire né magazzino né logistica. Qui un link interessante che apre una finestra nel mondo del dropshipping

A questo punto Rory ha il suo negozio con il suo assortimento e può cominciare la sua strategia di comunicazione rivolta a quelli a cui piacciono i leoni.

Apre l’account Lions Jewels su Instagram pubblicando un po’ di foto ed inserendo un link al suo negozio on line.

Poi fa un minimo investimento pubblicitario su un account che pubblica foto di natura e così attraverso il suo account Instagram porta alcune centinaia di persone sul suo negozio on line. Chi arriva nel negozio trova l’offerta per un ricevere gratis un braccialetto placcato in oro con l’immagine di un leone (l’articolo che Rory prevede farà le maggiori vendite).

Il negozio on line è corredato di alcuni elementi che favoriscono la conversione da visita ad acquisto

-          un orologio che mostra un finto conto alla rovescia indicando che il tempo per approfittare dell’offerta del braccialetto gratis sta scadendo (questa app di Shopify si chiama Hurrify, e a me suona sia “fretta” che “orrore”).

-          Dei pop-up che dicono “Lorenzo da Trieste ha appena comprato …”. Anche questi non sono necessariamente veri, la app Sales Pop permette infatti al proprietario del negozio on line di creare le proprie notifiche scegliendo la città, i nomi e gli articoli a suo piacimento (quindi quelle più di tendenza).

In realtà però non è importante che le persone che arrivano sul sito approfittino o meno dell’offerta e persino che comprino durante questa prima visita. L’importante è che arrivino perché così Rory riesce a taggarle su facebook e quindi potrà re-targetizzarle.

Per i meno avvezzi di digital marketing forse conviene spiegare che il re-targeting è quella tecnica/strumento per se voi avete cercato su internet, ad esempio, uno schiaccianoci ogni volta che andrete su facebook, google, ecc… vi mostreranno pubblicità di schiaccianoci e siti che vendono schiaccianoci fino alla fine dei vostri giorni (beh non proprio, ma per un bel po’).

A questo punto quindi Rory si dedica a creare annunci per il suo braccialetto con il leone su facebook e testarne l’efficacia analizzando le statistiche fornite da facebook riguardo al pubblico raggiunto, le interazioni, le conversioni, ecc…

Suppongo che si possano panificare le campagne su facebook rivolgendole non solo a quelli che sono entrati nel negozio on line, ma anche al loro network di amicizie. Lo darei per certo nel caso in cui il negozio on-line richieda una registrazione e questa sia fatta dalle persone attraverso il loro profilo facebook (la richiesta di registrarsi ci può stare a fronte dell’offerta del braccialetto gratis).

Come insegnano i (nuovi) manuali di digital marketing, sul web si costruisce la reputazione delle marche attraverso la generazione di contenuti (content marketing), quindi Rory va sul sito Buzzsumo per trovare le cose più popolari relativamente ai leoni ed aprire il blog “cose curiose e divertenti sui leoni” collegato al suo negozio on line.

Anche in questo caso non è importante quello che c’è scritto nel blog, nel momento in cui arrivano al blog attraverso il loro profilo facebook, ossia “sto guardando la mia timeline – mi piacciono i leoni – vedo una notizia curiosa sui leoni – clicco sul link”, possono poi essere targettizzati dalla pubblicità di Rory.

Arriviamo alla fine del processo ossia all’acquisto on-line da parte di una persona. A questo punto il nome e l’indirizzo del compratore vanno inseriti in AliExpress in modo che il fornitore spedisca il braccialetto al compratore (pare che, stranamente, la cosa non sia automatizzabile).

Per non distrarsi dalla promozione del negozio Rory esternalizza il lavoro amministrativo contrattando “lavoratori digitali” qualunque cosa significhi, a 3-5 dollari l’ora sulla piattaforma UpWork.

La fine della storia è che Rory non ha raggiunto l’obiettivo di fatturare 1.000 dollari in una settimana, ma direi che poco importa. Volendo sarebbe più rilevante capire quant’è il guadagno per 1.000 dollari di fatturato. Ma anche questo è marginale rispetto all’ “ecosistema di business” che si sta sviluppando nella società digitale

Tanti anni fa ho scritto che per capire il futuro del marketing si sarebbe dovuto guardare a come lo facevano in Cina www.biscomarketing.it/marketing-allosso/. Qualche anno dopo sono andato in Cina e qualcuno mi ha detto che “i cinesi fanno affari come fosse un gioco d’azzardo e giocano d’azzardo come fossero affari”.

Che il mondo si stia cinesizzando è scoprire l’acqua calda.

Non mi permetto di dare giudizi di valore, dico solo che il marketing che faccio io è una cosa diversa e credo sia utile per un gran numero di marche in svariate categorie merceologiche. O almeno spero.

L’engagement dei post su facebook è superiore a quello della pubblicità classica? Non credo proprio.

Mercoledì scorso il sempre interessantissimo sito DataMediaHub ha analizzato i dati sull’utilizzo dei social in Italiapubblicati nel rapporto annuale di Hootsuite e We Are Social Quelli mi hanno colpito di più sono quelli relativi al coinvolgimento (engagement) generato dai post di facebook che vedete riportati nell’infografica qui sotto.

Tassi-di-Engagement-Facebook
Considerato che Facebook, insieme a Google, è diventato uno dei principali medium su cui le aziende investono in comunicazione grazie alla sua (presunta) efficacia, la domanda che mi sono fatto è: davvero la pubblicità classica (stampa, affissioni, radio e anche TV, che è probabilmente il medium più freddo) ha dei livelli coinvolgimento inferiori?
Visti i bassi numeri di facebook mi sento di credere che il coinvolgimento creato dai media classici sia almeno equivalente, se non superiore. Soprattutto considerando che nell’audience raggiunta da facebook c’è un certo di numero di persone che appartiene alla base dei fan della pagina, e quindi ha già una certa relazione con la marca, e che la targetizzazione dell’audience a cui rivolgersi su facebook può essere mirata con molta maggior precisione, rivolgendosi così a persone che potenzialmente hanno un maggior livello di affinate e di interesse nei confronti del messaggio.
Purtroppo non ho una risposta certa, perché sui media classici non ci sono strumenti per misurare il coinvolgimento delle audiences raggiunte dal messaggio con la stessa precisione che esiste per i social media.
Nella definizione della pianificazione pubblicitaria la possibilità o meno di misurarne l’attenzione e/o il coinvolgimento da parte delle persone esposte al messaggio non è secondaria, perché si andranno a preferire i medium di cui è possibile controllare meglio le performances.
Il problema esisteva già con i media classici, per cui le agenzie di pubblicità ed i centri media tendevano ad essere restii a pianificare l’affissione (cartelloni pubblicitari fissi, totem, cartelloni pubblicitari sugli autobus, ecc…) in quanto gli indicatori di perfomances della campagna erano meno precisi rispetto, ad esempio, a quelli della TV (non starò qui a fare un’analisi critica dell’auditel come strumento di misurazione delle perfomances della pubblicità).
Detto in altre parole se il contro media deve pianificare una campagna che raggiunga una determinata percentuale delle persone che appartengono all’audience obiettivo (reach) con una certa frequenza (frequency), quindi un determinato livello dei cosiddetti GRP (Gross Rating Point = Reach x Frequency; Kotler in realtà ci aggiunge anche l’Impatto, e non è un’aggiunti da poco, ma non è il caso di parlarne qui), preferirà utilizzare radio, stampa e TV perché di questi riesce a misurare i GRP con maggiore affidabilità.
Il punto però è che i fenomeni si verificano indipendentemente dalla nostra capacità di misurarli. Voglio dire che anche se non riesco a misurare con precisione i GRP dell’affissione, questa pubblicità avrà comunque un effetto sulla percezione della marca da parte delle persone che la vedono.
E se l’efficacia dell’affissione è maggiore, ad esempio, di quella della TV in realtà sto pianificando peggio la mia campagna.
Ma come faccio a saperlo?
E’ necessario fare una riflessione sulle metriche che si utilizzano per misurare l’efficacia delle campagne pubblicitarie.
Dall’avvento dei social networks spesso si distingue tra metriche di vanità (vanity metrics) e metriche di risultato (performances metrics), dove nelle prime si considerano il numero di followers, fan, ecc… e nelle seconde il numero di likes (che però qualcuno considera “vanità”) i commenti, le condivisioni, i click ai links, ecc…
Questa distinzione si faceva, pur con meno indicatori, anche per i media classici, ma in realtà la differenza tra metriche di vanità e di risultato non è qualitativa come invece considerano in molti.
Dal seguire una pagina a cliccare sul link di un post per entrare in un sito c’è un continuum lungo il quale il livello di coinvolgimento aumenta, e chi condivide un post di facebook deve essere prima un fan della pagina. Vero che i percorsi non sono sempre così lineari oppure i passaggi possono essere più accelerati, ma questo si verifica soprattutto per l’effetto della comunicazione che la marca fa sugli altri media (vedi il mio post “Quanto vale un fan di facebook?”).
Quello per cui facebook è sicuramente più efficace rispetto alla pubblicità classica è, ovviamente, nel generare direttamente delle vendite facendo arrivare le persone alle pagine di vendita dei negozi on-line (indifferente se di proprietà della marca o meno).
Ma questa è un’altra storia, di cui parlerò la prossima settimana.